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Quante altre persone avremmo potuto salvare?

TOPSHOT - Members of the Spanish NGO Proactiva Open Arms rescue a woman in the Mediterranean open sea about 85 miles off the Libyan coast on July 17, 2018. (Photo by PAU BARRENA / AFP) (Photo credit should read PAU BARRENA/AFP/Getty Images)

Cominciamo il racconto di questo viaggio dalla fine, dal 4 luglio scorso, giorno in cui abbiamo attraccato nel porto di Barcellona con le due imbarcazioni della Ong Open arms (Astral e Open arms) con a bordo 59 persone soccorse nel Mediterraneo. Lo sbarco avviene tra gli applausi. Un tappeto rosso è disteso al termine della passerella della Open arms. La sindaca di Barcellona, Ada Colau, arriva al porto, senza telecamere, e si assicura dello stato di salute dei passeggeri. Dopo i controlli sanitari, abbiamo preso parte ad una conferenza stampa e una festa cittadina organizzate dal Comune di Barcellona come forma di accoglienza delle persone salvate e gratitudine nei confronti dell’equipaggio di Open arms. Prima considerazione: a Barcellona avviene una cosa “stranissima”, se osservata dal punto di vista della sinistra italiana. La giunta di Barcellona, le sue politiche radicali dal punto di vista sociale, ma anche da quello della solidarietà e dell’accoglienza, ha ricevuto i suoi consensi prevalentemente nelle zone popolari di Barcellona. Proprio come dovrebbe essere, ma come non è più da anni, per la sinistra che in Italia ormai concentra i suoi consensi nei “quartieri bene” delle aree metropolitane. Seconda considerazione: le ipotesi avanzate da cosiddette forme di “patriottismo costituzionale” che aleggiano nella sinistra italiana ed europea, secondo cui per tornare ad avere consenso nelle classi popolari si dovrebbe sì accogliere, ma soprattutto preoccuparsi della regolazione dei flussi per non spaventare “i proletari di casa nostra” è del tutto smentita dal caso di Barcellona (oltre che politicamente inaccettabile, dal mio punto di vista). Un vero radicamento sociale di un soggetto dell’alternativa non può che costruirsi in una prospettiva solidaristica. D’altro canto, se proprio vi spaventa il rischio di essere accusati di buonismo, basterebbe ricordare l’adagio del barbuto di Treviri («proletari di tutto il mondo unitevi»); o considerare che quello della forza lavoro migrante – sia quella che attraversa il Mediterraneo, sia quella che attraversa l’Europa da Sud a Nord – è oggi il movimento reale che può trasformare lo stato di cose presenti nella “fortezza Europa”.

Ma riavvolgiamo il nastro. Giovedì 28 giugno, mentre la Lifeline riusciva finalmente a sbarcare a Malta, sono salpata dal porto di La Valletta con altri tre eurodeputati spagnoli (Miguel Urban, Ana Miranda e Javi Lopez) e l’equipaggio capitanato da Riccardo Gatti, sulla nave Astral di Proactiva Open Arms. Dopo una notte di navigazione, abbiamo raggiunto in zona Sar (Search and Rescue, ricerca e salvataggio) l’imbarcazione Open arms, con cui abbiamo proseguito insieme la navigazione (noi eurodeputati abbiamo fatto la spola tra una imbarcazione e l’altra) fino a Barcellona. Con questa missione ci eravamo prefissi diverse finalità. In primo luogo, osservare e testimoniare quanto avviene in zona Sar. Inoltre, mostrare solidarietà alle Ong che subiscono un infame processo di criminalizzazione che non inizia con questo governo. Come dimenticare il protocollo sulle Ong di Minniti? Come dimenticare il sequestro della Open arms in Sicilia? In quella occasione avevamo organizzato alcuni incontri in supporto di Open arms, con Oscar Camps, suo fondatore, prima a Strasburgo, presso il Parlamento europeo, poi a Napoli alla presenza di Luigi De Magistris e della sindaca di Badalona. Ma di fronte alla minaccia drammaticamente concretizzatasi di chiusura dei porti da parte del governo italiano occorreva anche da parte nostra una forma di supporto ancora più concreto. Infine volevamo ricordare con la nostra posizione geografica – la zona Sar – anche un posizionamento politico, proprio nei giorni in cui si svolgeva il Consiglio che avrebbe discusso di frontiere e migrazioni: contro l’Europa fortezza e a sostegno della proposta approvata dal Parlamento europeo che pur non ribaltando la prospettiva in tema di accoglienza, faceva due passi importanti nella direzione del superamento del regolamento di Dublino III: il superamento della logica del Paese di primo approdo e la istituzione di un meccanismo di relocation obbligatoria per tutti gli Stati membri.

Venerdì mattina 29 giugno arriva la prima comunicazione alla Open arms circa una imbarcazione a rischio di naufragio. Viene contattata la guardia costiera italiana, che risponde a Open arms di non intervenire, che l’intervento è di competenza della guardia costiera libica. Poche ore dopo, arriva la notizia del naufragio di una imbarcazione con cento persone. Non vi è la certezza assoluta che si trattasse della stessa imbarcazione segnalata. Ma è assai difficile ipotizzare che si trattasse di altra imbarcazione. Per l’equipaggio, per noi, è un colpo durissimo. Una notizia difficile da accettare. Cento persone con ogni probabilità avrebbero potuto essere salvate se fosse stato consentito all’Open arms di intervenire. Più volte si è ripetuto nel corso della nostra settimana di viaggio questo meccanismo: Open arms riceveva una segnalazione, contattava la guardia costiera italiana, che rispondeva a Open arms di non intervenire e delegava la competenza alla guardia costiera libica. Che con ogni evidenza non è in grado di gestire efficacemente una zona Sar. Come è possibile che il governo italiano e l’Ue chiudano gli occhi di fronte alla impossibilità che la Libia gestisca una zona Sar efficacemente? Sabato mattina 30 giugno la Open arms riesce, invece, a effettuare una operazione di salvataggio di 59 persone a bordo di un gommone in panne. Sentiamo chiaramente alcuni di loro scandire le parole: «No Libia, no Libia, no Libia». Vediamo il terrore trasformarsi in gioia quando capiscono che sarebbero arrivati in Europa. Ascoltiamo le loro storie sulla Open arms, dopo che vengono medicati e rifocillati dall’equipaggio: 59 persone. Tra questi, 5 donne, 5 minori di cui 3 non accompagnati, 14 nazionalità diverse. C’è chi ci mostra i segni delle torture subite in Libia, chi racconta come è uscito da Gaza attraverso l’Egitto, i bambini che ti chiedono quanto ci vuole per arrivare a Barcellona.

Sì a Barcellona, perché nel frattempo sono arrivati i tweet di Salvini (scordatevi i porti italiani), di Toninelli (la Astral, anzi no rettifico, la Open arms, non possono attraccare nei porti italiani perché disturbano l’ordine pubblico). Malta fa sapere che il porto più vicino è Lampedusa. Anche lì porti chiusi. Fino al capolavoro del ministro degli Interni: avete disturbato i lavori della guardia costiera libica. Forse è vero: la presenza di quattro europarlamentari ha impedito che la guardia costiera libica, sopraggiunta di lì a poco, provasse a “riprendersi” quelle persone. Fosse così, sarebbe una delle cose più importanti e più politiche che dei parlamentari europei possano fare: contribuire a salvare vite. Già perché anche questo il governo italiano fa finta di non sapere: tornare in Libia significa probabilmente rivivere la detenzione, le torture, gli stupri. Il mio invito rivolto al governo italiano resta quello di provare a vivere questa esperienza sulla Open arms: almeno, dopo aver guardato queste persone negli occhi, avrebbero difficoltà a parlare di “pacchia”, ”crociera” e ”#portichiusi”. A costringere dei naufraghi a quattro giorni di navigazione in più per raggiungere a Barcellona. E, chissà, forse capiterebbe anche a loro di chiedersi, come è successo a noi, “quanti altri se ne sarebbero potuti salvare”. È la domanda che si pone il protagonista di Schindler’s list. È la domanda che Ue e governo italiano dovrebbero porsi. Quanti altri ne avremmo potuti salvare se non avessimo boicottato le Ong? Se avessimo aperto vie legali e sicure d’accesso all’Europa, dei corridoi umanitari? Prima che gli italiani e gli europei vengano ricordati per crimini contro l’umanità, restiamo umani.

Eleonora Forenza è deputata al Parlamento europeo dal 2014 nel gruppo Gue/Ngl

Il reportage di Eleonora Forenza a bordo della Open Arms è tratto da Left in edicola


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Gli occhi di Josefa, il “porto sicuro”

Io non so se avete avuto l’occasione di guardare gli occhi di Josefa, l’unica persona viva sulle macerie del barcone ritrovato dalla Ong Open Arms in mezzo al mare, con a fianco una donna e un bambino lessati e uccisi dal sale. Josefa ha quarant’anni, i capelli bianchi (ce lo racconta splendidamente Annalisa Camilli che in questa radura di diritti è un vedetta resistente) e due occhi che sono l’unico disperato disegno possibile del buio.

Il buio ha gli occhi di Josefa, sbarrati perché pronti a tutto dopo avere visto l’abisso dell’uomo che diventa lupo. Non ha bisogno di battere le ciglia per uno schizzo o per un eccesso di luce chi ha visitato l’inferno. Tutto il resto è niente: è niente il bullismo barzotto di qualche miserabile ministro che si vanta di avere lasciato a bagnomaria qualche cadavere; è niente la rinnovata postura istituzionale di quella criminale Guardia Costiera libica che ha trovato un Salvini dopo un Minniti per aspirare a un po’ di legittimazione; è niente il chiasso che facciamo noi, qui, mentre proviamo a tenere in bilico un’umanità che si è già versata, tutta sbrodolata, e ci occupiamo delle briciole.

Però gli occhi di Josefa andrebbero fatti vedere un po’ dappertutto perché superano la barriera delle opinioni e del giornalismo entrando negli intestini: «Pas Libye, pas Libye» dice Josefa, come scrive Annalisa Camilli. Una donna picchiata (come racconta lei stessa) dal marito perché sterile, poi picchiata dalla Guardia Costiera libica perché si rifiutava di salire sulla loro imbarcazione, poi lasciata in acqua per giorni aggrappandosi alle macerie della sua imbarcazione (fatta a pezzi dalla Guardia Costiera libica) e infine salvata per un pelo ha un solo pensiero: non tornare in Libia. La propaganda si sbriciola. Per dirla facile facile: le chiacchiere stanno a zero.

Facciamo così: è porto “sicuro” quello in cui mandereste i vostri figli. Che dite?

Buon mercoledì.

Processo Cucchi, il racconto straziante dei genitori e della sorella: «Il volto di Stefano irriconoscibile»

Ilaria Cucchi mostra la foto del fratello Stefano dopo la sentenza della corte d'appello sul processo Stefano Cucchi, Roma, 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

L’ultimo abbraccio al padre, con le manette già ai polsi e quella frase ripetuta prima e dopo l’udienza preliminare: «Lo vuoi capire, papà, che mi hanno incastrato?!». «Aveva il viso gonfio come una zampogna e quei segni neri sotto agli occhi». Le ultime ore alla luce del sole di Stefano Cucchi, prima della via crucis tra prigioni e ospedali che sarebbe finita solo con la sua morte, sono riecheggiate nell’aula di Piazzale Clodio dove s’è tenuta l’ultima udienza prima della pausa estiva. Oggi, 17 luglio, è stato il giorno delle voci rotte, delle frasi spezzate dalla commozione, da quel dolore che inchioda da nove anni una famiglia a questa interminabile battaglia per verità e giustizia.

È stato il giorno dei genitori e della sorella di un giovane geometra di periferia, arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di sostanze stupefacenti una sera di ottobre e morto sei giorni dopo, nascosto agli sguardi di tutti, in un letto d’ospedale, il letto di un reparto penintenziario al Pertini di Roma. Lo chiamano il repartino. «È finita papà», disse al termine della pasticciata udienza preliminare che lo spediva in carcere anziché ai domiciliari oppure in comunità come avrebbe voluto suo padre. Giovanni Cucchi è stato l’ultimo a ricordare e a rispondere alle domande del pm e degli avvocati restituendo l’orrore di un calvario – da Regina Coeli al Pertini dal tribunale di sorveglianza e di nuovo al “repartino” – parallela a quella di suo figlio, alla ricerca di notizie, di carte e timbri, scontrandosi col muro di gomma di una burocrazia carceraria finché arrivò l’ultimo timbro ma quel cancello blindato si aprì e qualcuno disse «S’è spento».

«Come s’è spento? Come?». È la risposta che tutti si aspettano da questo processo. «Stefano prima dell’arresto stava bene, i testimoni sono credibili e la tesi del decesso per inanizione (morte per fame, ndr) è una fake news», sintetizza a Left Fabio Anselmo, legale di questo e altri processi di malapolizia. Nelle varie testimonianze riaffiora il nome di Emanuele Mancini, l’amico arrestato con Stefano; alcuni giorni dopo incontrò Giovanni Cucchi e si confidò: «Mi sento un peso perché sono stato costretto a firmare la deposizione», così hanno ricordato in aula i familiari di Stefano.
Nemmeno all’obitorio glielo volevano far vedere. Solo dopo molte insistenze consentirono di mostrare il corpo ma da lontano, e solo il volto fuori dal lenzuolo che copriva lo scempio di quel pestaggio dopo l’arresto – così recita l’accusa di omicidio preterintenzionale per tre dei cinque carabinieri sotto processo da quando l’Arma è uscita dal cono d’ombra che l’aveva coperta per anni dopo i fatti.

«Com’è possibile che un ragazzo nelle mani dello Stato sia stato ridotto nel modo in cui l’ho visto all’obitorio? Una cosa spaventosa; non lo auguro a nessuno. Ha presente un marine morto col napalm in Vietnam… Ancora non ci credo, inconcepibile che sia stato negato il diritto alla salute a una persona in custodia, anche se aveva commesso un reato. E nemmeno quel minimo di umanità nella comunicazione con noi…», ripete Giovanni Cucchi con l’indignazione da persona per bene e tutta la forza che ci vuole per ricacciare indietro le lacrime, la voglia di gridare, probabilmente. Così per bene che, una ventina di giorni dopo, non appena trovata la forza di andare a riordinare la casa di Stefano, nel quartiere Morena, al confine con Ciampino, non avrebbe esitato a denunciare il ritrovamento di alcune dosi di cocaina e di hashish in un armadio di quella casa. «Io sono stato duro con Stefano sia in vita sia in morte, denunciando proprio questo fatto».

Il padre di Cucchi ha rivangato i problemi di tossicodipendenza del figlio, del periodo passato in due comunità, delle ricadute da eroina e di quanto fatto in famiglia per fargli superare i problemi. «Sono stati dieci anni d’inferno – ha detto – noi abbiamo fatto tutto il possibile. Stefano tutti gli sbagli che ha fatto li ha sempre pagati».
Prima di Giovanni hanno parlato, rispettivamente, Ilaria Cucchi e la madre di Stefano, Rita. «La morte di un figlio è terribile, non ti potrai mai rassegnare». Rita Cucchi è stata precisa, «scientifica», commenta l’attivista di Acad che segue il processo, ma crolla quando il suo racconto la riporta all’obitorio. «Non l’ho riconosciuto. Quello che vedevo non era più Stefano – ha detto – era uno scheletro, tutto nero, un occhio di fuori, la mascella fratturata». E la sera prima dell’arresto, forse un presagio. «Mio figlio mi disse “abbracciami, dormi tranquilla, vedi che adesso sto bene”. Fu l’ultimo abbraccio con mio figlio. Verso l’una di notte sentii suonare il citofono: erano i carabinieri che venivano per la perquisizione». E il giorno dopo «mio marito andò in tribunale; al ritorno disse che Stefano era stato trattenuto. Era disperato. La prima cosa che mi disse fu che mio figlio l’aveva trovato gonfio in viso e pesto sotto gli occhi; e che forse qualche pugno glielo avevano dato».

L’ultimo giorno, la terribile notizia. «Due carabinieri mi consegnarono un foglio e poi uno mi disse “devo darle una brutta notizia: suo figlio è deceduto. E questo foglio è per nominare un consulente per l’autopsia”. Come pazzi, con mio marito corremmo al Pertini. L’unica cosa che ci dissero fu: «Suo figlio si è spento».
«Non posso dimenticare le urla disperate dei miei genitori all’obitorio quando ebbero la possibilità di vedere il cadavere del figlio. Piangevano, li sentii gridare “Dio mio, che ti hanno fatto”. Io non avrei voluto vederlo, preferivo ricordarlo con il suo sorriso. Ma poi ho ceduto e ho visto una scena pietosa: un corpo irriconoscibile, non sembrava neppure Stefano. Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall’orbita, la mascella rotta, l’espressione del volto segnato dalla sofferenza e solitudine nella quale era morto», ha riferito la sorella Ilaria. «La nostra era una famiglia fantastica e meravigliosa, sempre unita, nonostante le tante batoste dovute ai problemi di tossicodipendenza di Stefano – ha detto ancora – non c’era Natale o compleanno che non festeggiassimo sempre assieme. Stefano era come me, non tollerava le ingiustizie. Spesso litigavamo anche pesantemente, ma da parte sua non ricordo mai un gesto di violenza fisica. Aveva un bel caratterino. La sera prima dell’arresto era andato in palestra. Stava bene, era magro come me, ma non aveva alcun problema di salute. Fino all’ultimo istante della sua vita ha combattuto e lottato per essere aiutato».

Il racconto straziante lascia tutti in silenzio. Ilaria durante la deposizione su cosa pensa sia avvenuto al fratello conclude guardando negli occhi il maresciallo Mandolini: «la cosa assurda è che questa tragedia è avvenuta grazie a una persona che è in questa aula». Mandolini è un veterano di parecchie missioni di “pace” e poi è stato comandante di stazione dei cinque carabinieri indagati per il pestaggio di Cucchi, a sua volta imputato per aver preso parte alla «minuziosa strategia» che, per sei anni, secondo l’accusa, ha impedito di capire cosa fosse successo prima dell’udienza preliminare. Stando alle carte, avrebbe scritto di suo pugno, in calce ad uno degli ordini di servizio contraffatto quella notte, un commento che ora suona agghiacciante: “Bravi!” (pagina 47 della richiesta di incidente probatorio). “I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (…). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento”, tagliò corto il maresciallo commentando in rete un articolo che ricostruiva i fatti. Il suo legale, in aula, sembra preoccupato solo di sapere perché Giovanni Cucchi non si fosse preoccupato lui di avvisare l’avvocato di famiglia. Ma quel legale era stato nominato da Stefano Cucchi ed era dovere preciso della stazione dei carabinieri notificare la nomina. Ma il trentunenne arrestato, la mattina successiva, trovò ad attenderlo un avvocato d’ufficio. Un’altra delle domande a cui deve rispondere questo lungo processo. Che è stato rinviato al 27 settembre.

In Italia si costruisce l’equivalente di una piazza Navona ogni due ore

Il consumo di suolo a oltranza, nonostante la crisi economica, in Italia continua ad aumentare anche nel 2017. Tra nuove infrastrutture e cantieri (che da soli coprono più di tremila ettari), si invadono aree protette e a pericolosità idrogeologica sconfinando anche all’interno di aree vincolate per la tutela del paesaggio – coste, fiumi, laghi, vulcani e montagne – soprattutto lungo la fascia costiera e i corpi idrici, dove il cemento ricopre ormai più di 350 mila ettari, circa l’8% della loro estensione totale (dato superiore a quello nazionale di 7,65%).

La superficie naturale si assottiglia di altri 52 km quadrati negli ultimi 365 giorni. In altre parole, costruiamo ogni due ore un’intera piazza Navona. Anche se la velocità si stabilizza ad una media di 2 metri quadrati al secondo, quella registrata è solo una calma apparente: i valori, oltre a non tener contro di alcune tipologie di consumo considerate nel passato, sono già in aumento nelle regioni in ripresa economica come accade nel Nord-Est del Paese. Tutto questo ha un prezzo, la cifra stimata supera i 2 miliardi di euro all’anno.

Sono questi alcuni dei dati più significativi del Rapporto Ispra-Snpa sul “Consumo di Suolo in Italia 2018” presentati questa mattina alla Camera dei deputati. In questa edizione, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale aggiorna i dati e approfondisce gli studi analizzando anche il territorio compromesso dai cantieri all’interno delle aree vincolate.

Entriamo nel dettaglio. Quasi un quarto (il 24,61%) del nuovo consumo di suolo netto tra il 2016 e il 2017, avviene all’interno di aree soggette a vincoli paesaggistici. Di questo, il 64% si deve alla presenza di cantieri e ad altre aree in terra battuta destinate, in gran parte, alla realizzazione di nuove infrastrutture, fabbricati – non necessariamente abusivi – o altre coperture permanenti nel corso dei prossimi anni. I nuovi edifici,già evidenti nel 2017, soprattutto nel Nord Italia, rappresentano il 13,2% del territorio vincolato perso nell’ultimo anno.

Spostandosi sul fronte del dissesto idrogeologico, il 6% delle trasformazioni del 2017 si trova in aree a pericolosità da frana – dove si concentra il 12% del totale del suolo artificiale nazionale – ed oltre il 15% in quelle a pericolosità idraulica media. Il consumo di suolo non tralascia neanche le aree protette: quasi 75 mila ettari sono ormai totalmente impermeabili, anche se la crescita in queste zone è ovviamente inferiore a quella nazionale (0,11% contro lo 0,23%). La maglia nera delle trasformazioni del suolo 2017 va al Parco nazionale dei Monti Sibillini, con oltre 24 ettari di territorio consumato, seguito da quello del Gran Sasso e Monti della Laga, con altri 24 ettari di territorio impermeabilizzati, in gran parte dovuti a costruzioni ed opere successive ai recenti fenomeni sismici del Centro Italia. I Parchi nazionali del Vesuvio, dell’Arcipelago di La Maddalena e del Circeo sono invece le aree tutelate con le maggiori percentuali di suolo divorato.

In linea generale, nell’ultimo anno la gran parte dei mutamenti del suolo (81,7%) è avvenuta in zone al di sotto dei 300 metri (il 46,3% del territorio nazionale). La densità maggiore rispetto alla media nazionale si trova nelle aree costiere, dove l’intensità del fenomeno è più alta rispetto al resto del territorio (2,33 contro 1,73 m2/ha), nelle aree a pericolosità idraulica e nelle aree a vincolo paesaggistico (coste, laghi e fiumi). A livello provinciale, al centro e nel Nord Italia si concentrano le province con l’incremento più alto nel 2017. Sissa Trecasali (Parma), con una crescita che supera i 74 ettari, è il comune italiano che ha costruito di più nell’ultimo anno, principalmente a causa della realizzazione della nuova Tirreno-Brennero.

Tutto questo ha un prezzo e ammonta a circa 1 miliardo di euro se si prendono in considerazione solo i danni provocati, nell’immediato, dalla perdita della capacità di stoccaggio del carbonio e di produzione agricola e legnose degli ultimi 5 anni. La cifra aumenta, se si considerano i costi di circa 2 miliardi all’anno, provocati dalla carenza dei flussi annuali dei servizi ecosistemi che il suolo naturale non potrà più garantire in futuro (tra i quali regolazione del ciclo idrologico, dei nutrienti, del microclima, miglioramento della qualità dell’aria, riduzione dell’erosione). Tre infine gli scenari al 2050 (data stabilita per l’azzeramento del consumo di suolo) ipotizzati dall’Ispra: il primo, in caso di approvazione della legge rimasta ferma in Senato nella scorsa legislatura, vede associarsi ad una progressiva riduzione della velocità di trasformazione una perdita di terreno pari a poco più di 800 km quadrati tra il 2017 e il 2050. Il secondo, stima un ulteriore consumo di suolo superiore ai 1600 km quadrati nel caso in cui si mantenesse la velocità registrata nell’ultimo anno. Nel terzo scenario si arriverebbe a superare gli 8mila km quadrati ( superficie pari a quella dei 500 comuni più grandi in Italia partendo da Roma in giù fino a Policoro) nel caso in cui la ripresa economica portasse di nuovo la velocità a valori medi o massimi registrati negli ultimi decenni. Sarebbe come costruire 15 nuove città ogni anno fino al 2050.

Il libro di Pasquale Iorio: ritratto di un Sud che fa della cultura un valore da difendere

20070308 - NAPOLI - SPE - 8 MARZO: INAUGURATA A NAPOLI LA MOSTRA 'MADRI DI CAPUA'. Una delle sculture " Madri di Capua " esposte oggi presso il Museo Madre a Napoli in occasione della festa della donna. ANSA - CIRO FUSCO - DRN

Pasquale Iorio è stato un testimone dell’enorme cambiamento sociale ed economico che ha interessato il Mezzogiorno a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo e questo libro (Una vita per i diritti. La cultura e lo sviluppo locale, Rubbettino) è, in primo luogo, un tentativo di raccontarne le ragioni e la genesi.

Nato e cresciuto alla periferia di una città come Capua – antichissimo porto romano sul Volturno, perno militare, riferimento antifascista nei tempi bui della dittatura, centro operaio e culturale di enorme valore – Iorio osservava gli effetti dell’industrializzazione indotta dall’intervento straordinario con gli occhi della speranza e del riscatto. Anzi, nell’impatto con quei processi elaborava la propria coscienza critica, partecipava alla stagione dei movimenti sessantottini, incontrava il partito comunista e faceva la propria scelta di vita per il sindacato e la politica.
Ma il vero valore di questo libro non sta tanto nel, comunque, piacevole racconto autobiografico di un importante dirigente del movimento operaio campano e di Terra di lavoro. Quello che davvero colpisce è il ribaltamento che Iorio giunge a compiere a partire dalle premesse originarie. Se la sua vita pubblica è stata tanto profondamente segnata dall’abbandono della civiltà contadina, dall’omologazione alla società di massa e dei consumi da parte di una provincia come quella casertana, improvvisamente trasformatasi in una sorta di Brianza del Sud (come pur si disse), la fine di quella lunga e importante fase generava un ripensamento e un approccio completamente diverso.  Tutto l’impegno dell’estrema maturità – gli ultimi incarichi di lavoro, poi la scelta di dedicare la propria quiescenza all’Associazione per lo sviluppo locale e alla rete delle Piazze del sapere – è infatti dominato dal recupero delle vocazioni territoriali. Dall’idea, cioè, che non sia possibile vivere senza fare i conti con il valore e con tutti i limiti di una modernizzazione industriale segnata dal volano della grande industriale energivora, cattedrali nel deserto affamate di risorse ambientali che avrebbero dovuto generare un diffuso e autopropulsivo tessuto di piccole e medie imprese. Di fronte alla chiusura di quel ciclo, non basta rivendicare un nuovo impegno meridionalista, ma ricalibrarlo mettendo al centro la difesa dei prodotti tipici, dei beni culturali, dell’irripetibile ricchezza che si rileva nella prossimità delle filiere, delle occasioni spesso trascurate e nascoste, dei saperi più tradizionali ed estranei all’omologante civiltà industriale.
Da questo punto di vista, il libro non rappresenta affatto un bilancio del proprio passato, quanto un programma per il futuro. Elemento costante tra questa ricognizione tra ciò che è stato e l’attrezzarsi per il domani, è senza dubbio la costante battaglia per la legalità, in una terra certo martoriata dai poteri criminali e tuttavia, come ci ricorda Iorio con esemplare schiettezza, attraversata da straordinarie esperienze di resistenza in nome dei diritti, dell’accoglienza e della dignità umana. In fondo, è proprio in provincia di Caserta, con il campo di solidarietà di Villa Literno nell’agosto 1990 che iniziava il moderno movimento antirazzista. Era qui che esplodevano le contraddizioni, ma era anche qui che la società civile e la politica reagivano, dimostrando tutta la pochezza di certe analisi antropologiche sul Mezzogiorno.
È proprio questo il messaggio essenziale del libro: esiste un Sud che resiste, che lo fa da sempre, che non ha mai dimenticato le proprie virtù culturali e civili. Banfield e Putnam permettendo.

L’aggravante dello stupro? La vittima (ancora)

Scarpe rosse esposte in piazza SS. Annunziata in occasione dell'iniziativa 'Scarpe rosse, trecce e solidarietà' per dire no alla violenza sulle donne, Firenze, 8 marzo 2014. ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI

La Terza sezione penale della Cassazione ieri ha scritto nero su bianco che in caso di stupro di gruppo se la vittima è ubriaca ai colpevoli non può essere contestata l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». Sapete perché? L’uso delle sostanze alcoliche, spiega la Cassazione, deve essere «necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcool per la violenza, somministrandolo alla vittima». Se lo stupratore offre una birra è condannabile con aggravante, se invece si impegna a trovarne una già ubriaca di suo allora ha fatto bingo e può permettersi di puntare a sostanziali sconti di pena.

Se ci pensate, banalizzando, la Cassazione dice che una donna in evidente stato di fragilità (in questo caso per alcool) è in parte colpevole di ciò che le viene violentemente inflitto da altri. È sempre la stessa schifosissima storia: l’analisi della vittima è un piatto troppo ghiotto per non buttarcisi. E così l’inesorabile erosione dei diritti conquistati dalle (e per le) donne continua. E i loro diritti continuano a scivolare, insieme alla legge 194 che in molti vorrebbero ritoccare, insieme al femminicidio che viene buttato in caciara e insieme ai putridi casi, come quello dei carabinieri e delle studentesse americane a Firenze, che mentre il processo sta valutando la colpevolezza dei due uomini in divisa, sembra essere sparito dal dibattito pubblico (del resto con che faccia potrebbero parlarne ora i Salvini o le Meloni di sorta?).

Sembra di tornare alla sentenza del 2006 in cui una ragazzina quattordicenne pagò lo scotto di non essere più vergine e quindi fondamentalmente colpevole; oppure ai famosi jeans del 1999 che fecero intendere ai giudici che non potessero essere sfilati senza una «fattiva collaborazione»; la sentenza 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione ha deciso che durante una violenza di gruppo, uno sconto di pena deve essere concesso a chi «non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto»; oppure la sentenza del 2014 in cui la Cassazione ci insegnò che gli imputati per violenza sessuale possono ottenere uno sconto di pena per aver commesso un fatto «di minore gravità» anche nel caso di violenze carnali “complete” ai danni delle donne.

Anche Cappuccetto rosso, in fondo, decidendo di attraversare il bosco se l’è andata a cercare.

Buon martedì.

Le sfide della sindaca Breed a San Francisco: lotta alla tossicodipendenza, diritto alla casa e alla salute mentale

SAN FRANCISCO, CA - JULY 12: San Francisco mayor London Breed speaks to reporters after meeting with first responders during an emergency preparedness meeting on July 12, 2018 in San Francisco, California. A day after she was sworn in as the first black woman to be elected mayor of San Francisco, London Breed met with first responders to discuss emergency preparedness in San Francisco. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Il 12 luglio si è insediata la nuova sindaca di San Francisco. Il suo nome è London Nicole Breed, ha 43 anni ed è la prima donna afroamericana a guidare la città californiana. Breed appartiene al Partito democratico, ma nonostante la sua precedente carica fosse quella di presidente del Board of Supervisors, una sorta di consiglio comunale, non è decisamente un membro dell’establishment. Cresciuta da sua nonna in condizioni di indigenza nei sobborghi di San Francisco, nel quartiere popolare di Western Addition, ha perso sua sorella nel 2006 a causa di un’overdose, mentre suo fratello si trova attualmente in carcere, anche lui dipendente dalla droga. La sua storia difficile, però, non è stata affatto un deterrente, ma anzi l’ha avvicinata ai suoi elettori, alcuni dei quali condividono esperienze simili. Nemmeno i suoi (ormai ex) avversari possono essere considerati il ritratto della società americana come la vorrebbe Donald Trump: Mark Leno è un ex-senatore democratico omosessuale, mentre Jane Kim, anche lei democratica, è un’avvocata per i diritti civili di origini coreane. London Breed si trova ora a capo di San Francisco fino al 2020, dovendo terminare il mandato rimasto incompiuto a causa della morte del suo predecessore, Edwin Lee, primo sindaco di origini asiatiche ad aver conquistato la città.

Breed ha compiuto tutti i suoi studi con eccellenza. Si è laureata in Scienze politiche alla University of California, Davis, con una specializzazione in studi afroamericani, per poi conseguire un master in pubblica amministrazione all’Università di San Francisco. Il suo impegno è andato subito verso il quartiere d’origine, scegliendo di lavorare come direttore esecutivo del Complesso di arte e cultura afroamericana di Western Addition per oltre dieci anni. Con la sua dedizione, ha riqualificato il centro, rendendolo un punto di riferimento per giovani e anziani della zona, grazie a una serie di attività artistiche e ricreative rivolte a tutte le età. Una donna molto umana, che non ha scordato le difficoltà dopo aver raggiunto il successo in politica, ma che anzi ha deciso di farne un mezzo per garantire un futuro migliore ai suoi concittadini.

Il suo programma per queste elezioni è esposto chiaramente nel sito internet londonformayor.com: il primo punto riguarda la creazione di abitazioni economicamente accessibili e l’ampliamento dei centri di accoglienza per i senzatetto. Seguono le politiche a favore dell’ambiente e l’aumento della sicurezza pubblica, oltre al miglioramento delle infrastrutture e al sostegno alle piccole imprese locali. Tra queste, London Breed propone di varare delle norme sulla vendita della cannabis, volte a garantire un accesso sicuro in particolare ai soggetti che sono stati maggiormente colpiti dalle “fallite politiche della war on drugs”. Nella sua lettera di ringraziamento agli elettori, la neosindaca scrive che è onorata di poter guidare San Francisco, una bellissima città che però deve ancora combattere per superare alcuni problemi seri che la affliggono, come il diritto a una casa, alla salute mentale e alla possibilità di uscire dalla dipendenza dalla droga. Il suo proponimento finale rispecchia la tradizione americana, secondo cui solo il sudore della fronte e lo spirito d’iniziativa spianano la via per il successo. Conclude infatti dicendo che solo grazie all’impegno comune San Francisco potrà prosperare: lei si sta già rimboccando le maniche.

Nelle bombe su Douma non c’era gas nervino

epa06681787 Children play at the recently-recaptured Douma city, in Eastern Ghouta, the countryside of Damascus, Syria, 20 April 2018. According to media reports, the Syrian army had seized control on the city after driving Jaysh al-Islam fighters out of it to Jarablus city in the countryside of Aleppo. The reports said that Organization for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW) fact-finding mission has entered the city to investigate claims about the alleged use of chemical weapons in the city. EPA/YOUSSEF BADAWI

A Douma non fu usato gas nervino. Lo ha accertato una commissione d’inchiesta dell’Organizzazione per la messa al bando delle armi chimiche (Opac), analizzando i residui delle bombe che il 7 aprile scorso hanno provocato almeno 100 morti tra la popolazione civile della cittadina siriana, all’epoca roccaforte dei ribelli che si oppongono al presidente Assad. «Non sono stati rinvenuti agenti dell’organofosforo nervino, o prodotti della loro degradazione, sia nei campioni ambientali, sia in quelli di plasma delle riferite vittime dell’episodio» si legge nella relazione pubblicata sul sito dell’Opac. I risultati delle analisi dei campioni prioritari sono stati ricevuti dalla Ffm (Fact finding mission) il 22 maggio, e resi noti il 2 luglio. Stando al rapporto, nelle bombe non c’era nervino ma «sono stati trovati vari agenti chimici clorinati in campioni con residui di esplosivo». Come si ricorderà, proprio le voci su un possibile utilizzo delle armi chimiche da parte di Assad provocarono una rappresaglia rappresaglia aerea congiunta di Usa, Gb e Francia. In particolare Parigi affermò di avere le prove.

Nei compiti dell’Opac – organizzazione internazionale insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2013, che opera in collaborazione con le Nazioni Unite – non rientra quello di individuare la responsabilità dell’uso di armi chimiche. Questo compito spettava all’organismo congiunto di indagine Opac-Onu, creato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e soppresso nel novembre del 2017, soprattutto per iniziativa della Russia (che più volte aveva messo il veto sulle sue missioni). Proprio nella settimana precedente la pubblicazione del rapporto, il 27 giugno, i paesi membri dell’Opac hanno votato a L’Aja, a larga maggioranza, a favore di un ampliamento dei poteri dell’organismo.

Mentre si attende di poter valutare il peso di questa nuova situazione, bisogna ricordare che l’indagine in corso sulle bombe di Douma è stata invece espressamente voluta da Russia e Siria. Come si legge nel rapporto, è stata possibile solo perché erano le forze armate siriane e la polizia militare russa a garantire l’accesso in sicurezza ai siti in esame.

In particolare, sempre da quanto risulta dal rapporto, l’esercito di Assad ha richiamato l’attenzione degli investigatori su un edificio, in una località particolare – i siti di attenzione sono indicati solo da numeri, nel rapporto -, sospettato di essere una fabbrica e un deposito di armi chimiche dei ribelli, più altri due edifici, in due località distinte, indicate come 2 e 4, in cui sono stati rinvenuti dei cilindri industriali per il contenimento di agenti chimici.

In particolare nella località 2, un palazzo semi-distrutto da un’esplosione in cui è stato ritrovato uno dei cilindri, i militari siriani non hanno garantito l’accesso ad alcuni appartamenti dichiarando di non avere l’autorità per entrare.

Bombe made in Italy sullo Yemen, il gioco delle parti tra Movimento 5 stelle e Pd

«Bombe italiane vengono usate in Yemen. Da anni denunciamo l’esportazione illegale di armi alla coalizione saudita impegnata nella guerra civile in Yemen». Da qui l’appello: «Fermiamo il massacro saudita» perché «i bambini continuano a morire, uno ogni dieci minuti». Era il 16 giugno 2017 quando l’europarlamentare M5s Fabio Massimo Castaldo denunciava, ancora una volta, la vendita di bombe dall’Italia all’Arabia, le stesse bombe che, come accertato dai commissari Onu, sono utilizzate in Yemen, in una guerra che ha prodotto una crisi umanitaria senza precedenti e migliaia di morti civili. Il Movimento 5 stelle, anche nel Parlamento italiano, nella passata legislatura non ha mai avuto dubbi da che parte stare: l’ex senatore Roberto Cotti (non ricandidato nel 2018) è stato uno dei più attivi nel denunciare con atti parlamentari ogni carico di armamenti che, dalla Rwm Italia con sede a Domusnovas in Sardegna, partiva alla volta di Ryad. Un altro sempre in prima linea è stato Manlio Di Stefano. «Europa e Italia fingono di non capire che le armi vendute all’Arabia Saudita vadano a finire nelle mani dei terroristi (e parliamo di uno tra i primi acquirenti al mondo nonché primo acquirente di armi italiane)», scriveva il 29 luglio 2016. «Italia ed Europa dovrebbero contenere in tutti i modi quei Paesi che forniscono soldi e armi ai terroristi e responsabili dello scempio in Yemen».

Oggi la linea all’interno del Movimento sembra diversa. La deputata Pd Lia Quartapelle ha presentato un’interrogazione in commissione esteri nella quale chiede «se il Governo […] non ritenga opportuno, assumere iniziative per rivedere […] i termini delle forniture di materiali di armamento ai Paesi» impegnati nella guerra in Yemen. La replica di Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, non è stata incisiva e diretta quanto le sue osservazioni del 2016. Dopo un lungo ex-cursus sul ruolo del Cipe-Comitato interministeriale per la programmazione economica e su quello del ministero degli Esteri, il sottosegretario ha assicurato che «il Governo presterà particolare attenzione affinché tutte le richieste autorizzative di esportazione di materiale d’armamento continuino ad essere valutate con estrema attenzione e particolare rigore». In pratica il governo M5s-Lega continuerà a valutare le richieste esattamente come è accaduto fino a prima del suo insediamento (quando era guidato dal partito della Quartapelle). Il rischio che il commercio di bombe verso l’Arabia non venga fermato è concreto. Insomma, ancora una volta l’Italia pare non voglia prendere decisioni forti. «Le valutazioni avvengono in un quadro di concertazione fra Paesi Alleati ed UE, tenendo anche conto dei rapporti bilaterali e della cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo», si legge ancora nella risposta di Di Stefano. Una risposta che, appunto, ricalca esattamente la linea del Governo Gentiloni, a suo tempo tanto osteggiata dal Movimento 5 stelle.

Sul punto è molto chiaro Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia: «La posizione espressa dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ripropone sostanzialmente quelle manifestate dai precedenti governi Renzi e Gentiloni», dice. «Si tratta di posizioni che nella precedente legislatura il M5S aveva duramente criticato dai banchi di Montecitorio chiedendo che venisse bloccata “l’esportazione di armi e articoli correlati prodotti in Italia o che transitino per l’Italia, destinati all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen”, ed invitando il governo ad “assumere questa posizione anche in assenza di una formale dichiarazione di embargo sulle armi da parte delle organizzazioni internazionali». Insomma, un gioco delle parti, come lo definisce Maurizio Simoncelli, dell’Archivio per il Disarmo: «La risposta è talmente generica che lascia stupiti, considerando le battaglie che a suo tempo il Movimento ha sposato. Come del resto lascia stupiti che l’interrogazione sia stata presentata dalla Quartapelle che fino a poco tempo fa era in maggioranza».

Di «minuetto politico» parla anche il coordinatore della Rete italiana per il Disarmo, Francesco Vignarca, perché «se Di Stefano è passato da una posizione decisa sulla vendita di armi all’Arabia a una più morbida, è anche vero che quando noi nella scorsa legislatura chiedevamo lo stop al commercio armato, la Quartapelle e il Pd non ci hanno dato retta, hanno neutralizzato le nostre mozioni, spostandole sulla posizione che oggi Di Stefano ha riconfermato e cioè: “ragioniamo con l’Europa”. Il tanto agognato “cambiamento”, insomma, su questo fronte pare non esserci. O, meglio, c’è solo nello scambio di ruoli tra Pd e 5 stelle, come riflette ancora Beretta. «Nel novembre del 2016 – ricorda l’analista dell’Opal – i parlamentari del M5S membri delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno depositato un esposto in Procura a Roma per chiedere alla magistratura di indagare sulle esportazioni di bombe dell’Italia all’Arabia Saudita, ipotizzando reati ministeriali da parte dei ministri Pinotti e Gentiloni. La recente risposta del sottosegretario è perciò quanto mai rilevante perché manifesta una radicale differenza rispetto alle posizioni sostenute dal M5S quando era all’opposizione: differenza di cui non posso non prendere atto, ma che il M5S dovrebbe spiegare ai suoi elettori e a tutti coloro che sono in attesa di vedere le novità del Governo del Cambiamento».

Non è detto, però, che una soluzione non possa arrivare, come spiega Vignarca. «Noi vorremmo lo stop immediato, ma la posizione di Di Stefano ricalca quella espressa in una mozione approvata dal Pd nell’ottobre 2017, ovvero impegnarsi a livello internazionale per risolvere la questione. Bene, ora fatelo». Il Pd a suo tempo non è mai andato al di là delle parole. Adesso, però, il governo giallo-verde potrebbe avere un’importante sponda a livello europeo considerando, sottolinea ancora Vignarca, che «nel contratto della Große Koalition, si parla chiaramente di stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita». Insomma, tutto dipenderà dalla volontà politica di chi governa. Ieri come oggi. Intanto continuano a piovere bombe sui cittadini yemeniti. E la guerra va avanti.

La laurea finta, il volo di Stato. Solo non si vedono i due liocorni

Il senatore della Lega Armando Siri tiene in mano una copia del contratto di governo mentre parla al cellulare a margine del convegno organizzato dall'associazione Lettera22 su "La  dittatura del politicamente Corretto, Roma, 17 maggio 2018. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Le ultime notizie dalla libera Repubblica italiana di Bengodi sono imperdibili perché ci riportano indietro nel tempo, quando elementi del governo erano ridicolizzati (anche a ragione, intendiamoci) con sdegno, energia, tutti in coro: vi ricordate la ministra con il diploma di laurea che divenne diploma? Vi ricordate il presidente del Consiglio in viaggio a New York per la storica finale tutta italiana dell’Us open di tennis tra Roberta Vinci e Flavia Pennetta? Vi ricordate la bile? Vi ricordate l’ingrossamento di fegato?

Bene. Se ve lo siete perso forse dovreste sapere che il sottosegretario alle infrastrutture Armando Siri (definito da più parti l’ideologo della Flat Tax, strettissimo collaboratore di Salvini) risultava laureato nella sua pagina su Wikipedia (prontamente corretta) e nei siti a lui vicini e invece proprio ieri ha confermato di non avere nessuna laurea in Scienze politiche. Armando Siri (che per inciso, è lo stesso che non sapeva che Toninelli fosse il suo ministro, con quei magici 38 secondi da ospite della trasmissione L’aria che tira) viene comunque chiamato dottore nel decreto della Regione Calabria del 2004 (qui). E ieri ci ha detto di non essere laureato. Insomma: un laureato forse sì o forse no che a sua insaputa scopre di essere stato scambiato per dottore. Che epopea quella tra leghisti e lauree, eh?

Per quanto riguarda i voli di Stato invece conviene partire da un tweet (e cos’altro, secondo voi?) di Salvini che risale al 12 settembre del 2015. Scriveva Salvini: «#Renzi annulla tutti gli appuntamenti di lavoro e vola a New York (chi paga???) per vedersi una partita di calcio. Che schifo. RUSPA.».

Bene. Dov’era ieri Salvini? Era a Mosca a godersi la finale dei mondiali (dopo avere cancellato i suoi impegni, sostanzialmente interviste) in rappresentanza non si sa bene di cosa e con un volo pagato non si sa esattamente da chi. Incredibile vero? Con una sostanziale differenza: nella finale dei campionati del mondo non giocava nessuna squadra italiana (e infatti il ministro dell’Interno ci ha tenuto a farci sapere che è andato a gufare la Francia, sempre per quel vecchio discorso della miseria di chi esiste solo contro qualcuno) e non si capisce perché un ministro debba rappresentare un Paese che ha un presidente del Consiglio in carica (sì, lo so, la battuta qui viene facile facile).

Sono cambiati gli interpreti ma la musica è la stessa. E dov’è il cambiamento? Nelle reazioni. Fateci caso. È un nuovo opportunismo al contrario: quelli amano quando serve, questi odiano solo chi serve.

Buon lunedì.