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Perché assenza è sinonimo di violenza

Lo strano silenzio che avvolge da qualche tempo il tema della violenza contro le donne si trasforma nel rumore forte di un turbine di pensieri dopo la visione di L’affido – Una storia di violenza, primo bellissimo lungometraggio di Xavier Legrand.
Nel nostro Paese (ma nel resto del mondo le cose non vanno meglio) quasi ogni giorno una donna muore uccisa dal suo compagno “bravo italiano”, come ha giustamente sottolineato Furio Colombo nel corso di un recente talk televisivo. Le statistiche purtroppo non registrano alcuna incoraggiante diminuzione dei femminicidi, ma da quando il nuovo governo si è insediato, misteriosamente di questa emergenza non si dà più notizia. Le centinaia di migranti, anche bambini, uccisi in poco tempo per proteggere l’Italia da un’inesistente invasione, non si possono tacere, per fortuna.
Ma, forse, nell’Italia in cui si cancellano con disinvoltura quote rosa e pari opportunità (“stampelle”, è vero, che tuttavia servono a chi è stato azzoppato per riprendere a camminare, in attesa che le ossa si rinsaldino) è lecito, se non addirittura doveroso, sospettare che si voglia stendere un impietoso velo sul dramma della violenza. Violenza che non si esaurisce in quella sessuale della quale – è pur vero – il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha fatto menzione nel suo discorso per la fiducia al Senato: ma come scacciare il pensiero che di quella si parli con il sottinteso, ingiurioso e falso, che sia portata dall’immigrazione?
Quella che racconta il film L’affido, al contrario, è una violenza che non si lascia confinare all’interno di una nazione, nemmeno si riduce alla violenza di genere, perché coinvolge…

L’articolo della psicoterapeuta Barbara Pelletti prosegue su Left in edicola


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Venti di cambiamento in Malesia

Semporna, Sabah, Malaysia - April 19, 2015: Crowds of Sea Gypsies paddles a boats near their village in Bodgaya Island, Semporna, Sabah, Malaysia. They inhabit villages built on stilts in the middle of ocean. Boat is the main transportation in the area.

Bisognerà attendere il prossimo anno per conoscere il destino di Najib Razak. Solo tra otto mesi inizierà il processo in cui l’ex-primo ministro della Malesia deve rispondere ai giudici di abuso di ufficio e altri tre capi d’imputazione per corruzione nella gestione del fondo di Stato 1Malaysia development berhad (1Mdb). È la prima volta nella storia della Malesia che un ex-capo di governo finisce sotto inchiesta e per ogni accusa rischia fino a 20 anni di carcere. Per il momento, gli inquirenti di Kuala Lumpur indagano sul trasferimento su un conto personale di Najib di oltre 10 milioni di dollari dalla Src International, un’unità del fondo 1Mdb che doveva attrarre investimenti esteri nel settore dell’energia. Si tratterebbe però solo della punta dell’iceberg. Ammonta ad alcuni miliardi di dollari il buco nel bilancio di questo fondo d’investimento creato dallo stesso Najib nel 2009 con l’obiettivo di trasformare la capitale malese in un hub finanziario e per promuovere l’economia del Paese del Sud-est asiatico. Bisogna far luce anche sui quasi 700 milioni di dollari finiti sul conto personale di Najib e che l’ex-primo ministro malese ha giustificato come una donazione fatta dalla famiglia reale saudita. Versione giudicata attendibile lo scorso gennaio dal procuratore generale dell’epoca, nominato dallo stesso capo del governo. Dopo anni di resistenze e tentativi d’insabbiamento delle indagini fatte dalle autorità di Kuala Lumpur, ora gli inquirenti di diversi Paesi stanno cercando di capire dove sia finita questa enorme somma di denaro e se il fondo sia stato usato per operazioni di riciclaggio o di appropriazione indebita. «Rubati, riciclati attraverso istituzioni finanziarie americane e usati per arricchire alcuni funzionari e personaggi a questi vicini», aveva detto nell’estate del 2016 il procuratore generale degli Stati Uniti Loretta Lynch. Il dipartimento di Giustizia Usa è convinto che – attraverso un’opaca rete di transazioni e di shell company – almeno 4,5 miliardi di dollari siano passati da 1Mdb per poi finire sui…

L’articolo di Francesco Radicioni prosegue su Left in edicola


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Sotto quel velo la ribellione è giovane

«Entro i prossimi 5 anni in Iran ci sarà una rivoluzione. Una rivoluzione nata dentro le case di tutti noi, tra la gente comune» dice con veemenza Rahim.

Il sole è calato sui tetti di Teheran e le macchine sfrecciano fra le strade della megalopoli iraniana, mentre Rahim si racconta. Ventinove anni, di professione grafico, è nato in una piccola cittadina nel sud del Paese. Ha studiato a Londra e ha lavorato per molti anni a Berlino, per poi tornare dalla sua famiglia in Iran. «Dopo tanto tempo all’estero non è stato facile riadattarsi: qui tutto è vietato – continua Rahim -. Fatico a riconoscere nell’Iran di oggi il mio Paese».

«Quaranta anni fa – spiega Rahim – l’Iran era ricco economicamente e culturalmente. Molte persone erano convinte che la repubblica islamica, instaurata da Khomeini, avrebbe aiutato il Paese a crescere ancora. Ma non avevano capito che ci avrebbe tolto ciò che è più importante: la libertà». Dal 1979 infatti il volto dell’Iran è cambiato radicalmente: le minoranze religiose ed etniche sono state represse, la libertà di stampa e di espressione è stata duramente limitata, l’emancipazione femminile è diventata un tabù. «In Iran anche le cose più semplici sono vietate. Io e mia sorella siamo appassionati d’immersioni, ma dobbiamo farlo illegalmente perché lei non può indossare la muta o il costume da bagno.

Ogni mese il governo rende illegale qualcosa di nuovo», racconta Rahim. Mentre parla indica un uomo che, nelle chiassose vie di Teheran, cerca di vendere di soppiatto delle carte da gioco. «Qui sono bandite. È possibile vivere in un Paese dove perfino le carte da gioco sono vietate?», si domanda Rahim. La maggior parte dei siti internet e social media sono oscurati, da Facebook a Whatsapp, anche se molti riescono ad accedervi illegalmente. Alle donne

Il reportage di Elena Basso prosegue su Left in edicola


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Quanti altri migranti avremmo potuto salvare?

Migrants aboard the Open Arms aid boat, of Proactiva Open Arms Spanish NGO, gesture towards a boat of the Astral Aid vessel, as the ship approaches the port of Barcelona, Spain, Wednesday, July 4, 2018. The aid boat sailed to Spain with 60 migrants rescued on Saturday in waters near Libya, after it was rejected by both Italy and Malta. (AP Photo/Olmo Calvo)

Cominciamo il racconto di questo viaggio dalla fine, dal 4 luglio scorso, giorno in cui abbiamo attraccato nel porto di Barcellona con le due imbarcazioni della Ong Open arms (Astral e Open arms) con a bordo 59 persone soccorse nel Mediterraneo. Lo sbarco avviene tra gli applausi. Un tappeto rosso è disteso al termine della passarella della Open arms. La sindaca di Barcellona, Ada Colau, arriva al porto, senza telecamere, e si assicura dello stato di salute dei passeggeri. Dopo i controlli sanitari, abbiamo preso parte ad una conferenza stampa e una festa cittadina organizzate dal Comune di Barcellona come forma di accoglienza delle persone salvate e gratitudine nei confronti dell’equipaggio di Open arms.

Prima considerazione: a Barcellona avviene una cosa “stranissima”, se osservata dal punto di vista della sinistra italiana. La giunta di Barcellona, le sue politiche radicali dal punto di vista sociale, ma anche da quello della solidarietà e dell’accoglienza, ha ricevuto i suoi consensi prevalentemente nelle zone popolari di Barcellona. Proprio come dovrebbe essere, ma come non è più da anni, per la sinistra che in Italia ormai concentra i suoi consensi nei “quartieri bene” delle aree metropolitane.

Seconda considerazione: le ipotesi avanzate da cosiddette forme di “patriottismo costituzionale” che aleggiano nella sinistra italiana ed europea, secondo cui per tornare ad avere consenso nelle classi popolari si dovrebbe sì accogliere, ma soprattutto preoccuparsi della regolazione dei flussi per non spaventare “i proletari di casa nostra” è del tutto smentita dal caso di Barcellona (oltre che politicamente inaccettabile, dal mio punto di vista). Un vero radicamento sociale di un soggetto dell’alternativa non può che costruirsi in una prospettiva solidaristica.

D’altro canto, se proprio vi spaventa il rischio di essere accusati di buonismo, basterebbe …

Il reportage di Eleonora Forenza prosegue su Left in edicola


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Sinistra oltre la sconfitta. La versione di D’Alema

Massimo D’Alema cammina nella piazza de’ Priori di Volterra, si guarda intorno con il suo fare, più ironico che sprezzante. Ripensa – lo sappiamo – ai suoi anni giovanili, quando il partito, il Pci, gli impose un matrimonio, celebrato proprio lì, nel palazzo comunale, dal sindaco di allora, Mario Giustarini. Sarà lo stesso D’Alema a ricordarlo, all’inizio della presentazione di Frazioni e Sezioni. Racconti di scuola e di politica, scritto da Angelo Frosini.

Aveva ventun anni D’Alema, era capogruppo in consiglio comunale a Pisa, davanti al suo omologo democristiano, Alessandro Faedo, che era rettore. Uno studentello contro la massima carica universitaria, e fin qui tutto bene. Solo che il partito gli impose di sposarsi: Pisa era una cittadina di provincia, molto ben pensante, non avrebbe tollerato la sua convivenza con una ragazza che, tra l’altro, era molto più giovane di lui. Insomma storie di altri tempi, ma che testimoniano la differenza con l’oggi, con quello che D’Alema, (candidato di Leu alle politiche e non eletto, ndr) chiama vuoto, assenza, soprattutto nei partiti della sinistra.

Non è la prima volta che la sinistra ha un arresto o, come nelle recenti elezioni, una sconfitta cocente. Le sembra che adesso ci sia una novità?

Abbiamo avuto momenti analoghi, ad esempio nel 1994 quando – e nessuno se lo aspettava – fummo travolti dallo tsunami Berlusconi, ma nel giro di tre mesi avevamo cambiato tutto, a cominciare dal nostro gruppo dirigente. Subito dopo aprimmo un dialogo con la Lega, che allora era Umberto Bossi, e, di lì a due anni, Berlusconi fu sconfitto, anche perché la Lega si presentò da sola.

Qual era la differenza? È che allora c’era un partito, un gruppo dirigente, c’era un’azione politica organizzata, che si assunse le sue responsabilità, che fece la sua analisi e decise una strategia: questa è Politica. Animata appunto da passioni, ma concreta, fatta di accordi e a volte di compromessi, ma anche di rispetto reciproco.

Nel libro di Frosini le pagine più belle

L’intervista di Andrea Mancini a Massimo D’Alema prosegue su Left in edicola


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Nelson Mandela e la rivoluzione a metà

Nelson Mandela è un’icona del ventesimo secolo, e non c’è aspetto della sua vita che non sia stato esplorato pubblicamente. Poco, però, è stato scritto su ciò che i giovani nati e cresciuti nel turbolento post-apartheid dicono (o non dicono) di lui. Il paradosso socio-economico del Sudafrica, che vede disoccupazione e povertà peggiorate dal 1994 ad oggi, riflette in larga parte le concessioni fatte agli inizi degli anni 90 da Mandela e dagli altri leader dell’Anc, i quali abbandonarono l’idea di perseguire una reale trasformazione socio-economica del Paese, per favorire la costruzione di quella che è stata definita una “democrazia a bassa intensità”.

Nei circuiti “underground” di poesia di strada – nei quali si esibiscono i poeti più giovani e sui quali ho concentrato la mia ricerca scientifica – circola una storia che ben illustra la rivoluzione mancata della quale, per alcuni, Mandela rappresenta il simbolo: durante uno dei primi colloqui con i rappresentanti dei “poteri forti”, nei quali si decidevano le linee guida istituzionali del Nuovo Sudafrica, Mandela richiese che la Banca centrale venisse nazionalizzata e messa sotto tutela del ministero del Tesoro. Si racconta che, dopo alcuni attimi di silenzio incredulo, i presenti si guardarono e scoppiarono in una fragorosa risata (ironia della sorte, il volto di Mandela è oggi raffigurato sulle banconote sudafricane e la moneta, il Rand, è stato ironicamente ribattezzato “Randela”). La storia, tragicomica, è quasi sicuramente una bufala. È però quantomeno veritiera, dal momento che la Banca centrale è rimasta un’istituzione privata in mano a banche straniere e che il Sudafrica dispone di tutti gli strumenti dei regimi democratici (libere elezioni, Parlamento, un’ottima Costituzione, ecc.), ma di fatto rimane il Paese con le più gravi diseguaglianze economiche e sociali al mondo. Un documento interessante, che scava dentro questi equilibri di potere e che svela, in parte, un Mandela sconosciuto al grande pubblico, è il documentario del 1998 Apartheid did not die, dell’astuto giornalista investigativo John Pilger. In una breve ma serrata intervista, Pilger incalza Mandela…

L’articolo di Raphael d’Abdon prosegue su Left in edicola


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Quanta polvere di stelle sul lavoro

ROME, ITALY - JULY 03: The Prime Minister Giuseppe Conte and the Minister of Labour Luigi Di Maio attend the presentation to the press of the Dignity Decree approved by the government on July 03, 2018 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Il fuoco di fila di Confindustria e del Partito democratico contro la proposta di intervento in materia di lavoro presentata dal governo, su iniziativa del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, potrebbe alterare la percezione dell’effettiva portata del decreto dignità. Indubbiamente, il significato simbolico della misura stride con la narrazione dominante degli ultimi decenni, secondo cui la flessibilità del mercato del lavoro è l’unica medicina per guarire il gap occupazionale e di produttività che condanna l’economia italiana. Il decreto ha il merito di intervenire sull’ordine del discorso, aprendo delle increspature nell’ideologia neo-liberale che ha ispirato il lungo ciclo di riforme dei governi di centro-sinistra e di centro-destra. Un merito che è necessario riconoscere se si vuole coglierne i limiti e rilanciare un’iniziativa politico-culturale di segno opposto. L’intervento più significativo del provvedimento è la modifica dell’istituto del lavoro a tempo determinato, con il superamento parziale del decreto Poletti che aveva liberalizzato i contratti a termine mediante l’abolizione della causale. La possibilità per le imprese di assumere lavoratori con contratti a tempo determinato senza l’obbligo di esplicitare le ragioni tecniche e organizzative a giustificazione della temporaneità del rapporto di lavoro aveva sollecitato il ricorso massiccio a questa fattispecie contrattuale, che negli ultimi due anni è diventata la forma standard di accesso nel mercato del lavoro. La reintroduzione della causale nei rapporti a temine, successiva ai 12 mesi di durata del rapporto di lavoro, pone un freno alla possibilità delle imprese di abusare del contratto a tempo determinato come leva di precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tuttavia, l’impatto della norma sulla condizione di ricattabilità dei lavoratori e delle lavoratrici è più simbolica che effettiva.
Ci sono due ragioni principali che consentono di sostenere questa tesi. La prima riguarda…

L’articolo di Simone Fana prosegue su Left in edicola


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Non sono le soglie di sbarramento la risposta al populismo in Europa

epa06708090 Belgian Prime Minister Charles Michel (L) and President of the European Parliament, Antonio Tajani during a speech at a plenary session of the European parliament, in Brussels, Belgium, 03 May 2018. EPA/OLIVIER HOSLET

Lo scorso 4 luglio il Parlamento europeo ha approvato una proposta del Consiglio del 14 giugno, tesa a modificare le disposizioni comuni per l’elezione dell’Europarlamento stesso: un testo che mantiene all’articolo 3 comma 1 la possibilità per ogni Stato membro di introdurre o mantenere soglie d’accesso facoltative, fino al 5% nazionale. Non solo. Al comma 2 viene introdotta una soglia circoscrizionale minima del 2% e massima del 5% nei Paesi che prevedono circoscrizioni che eleggano più di 35 deputati a scrutinio di lista, anche nei casi in cui lo Stato costituisce una circoscrizione unica.

Nelle premesse dell’atto si dice che bisogna adottare delle misure per aumentare la partecipazione dei cittadini, considerandola essenziale per la legittimazione dell’Ue. Si suggeriscono dunque una serie di misure come l’introduzione del voto anticipato, per corrispondenza o per internet ed anche di permettere il voto di cittadini residenti in Paesi terzi. Il processo di revisione della decisione 76/787/Ceca, Cee, Euratom del Consiglio del 20 settembre 1976, ossia della prima norma che prevedeva l’elezione diretta del Parlamento europeo, è iniziato nel 2015. Ma, come al solito, ha avuto un’improvvisa accelerazione, che viola la principale raccomandazione del “Codice di buona condotta elettorale” della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, ossia che non si introducano modifiche sostanziali o importanti nelle legge elettorali se non almeno un anno prima delle elezioni. Una raccomandazione che non potrà essere osservata. 

Con il voto favorevole del Parlamento europeo la procedura non è terminata, perché dovrà tornare in Consiglio per la presa d’atto della deliberazione del Parlamento europeo per poi essere sottoposta all’approvazione unanime degli Stati membri secondo le loro rispettive regole costituzionali. Con il Trattato di Lisbona, i Parlamenti nazionali possono intervenire nella fase ascendente delle normative europee. Sulla proposta del Consiglio si sono espressi negativamente Francia, Lussemburgo, Olanda, Svezia e Regno Unito.

Non risulta che il Parlamento italiano se ne sia occupato a livello assembleare. Per essere sintetici al limite della brutalità: queste modifiche sono in contrasto con il Trattato di Lisbona e quindi non potrebbero essere approvate dal nostro Parlamento, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione che prevede il rispetto degli obblighi internazionali. Il Parlamento europeo, infatti, rappresenta ora direttamente i cittadini della Ue (come prevede l’articolo 10 del Trattato sull’Unione europea, in seguito alla riforma operata dal Trattato di Lisbona del 2007) e non più i popoli degli Stati: quindi non sono legittime soglie d’accesso facoltative, nazionali e variabili. Un cittadino deve poter votare e candidarsi in ogni Paese europeo in base al principio che uno vale uno.

Il punto è che l’Unione è in una grave crisi politica e pensa di uscirne impedendo la nascita di nuovi soggetti politici. Da un lato si impreca contro populismi e sovranismi e dall’altro si pensa ancora che il lavoro sporco lo debbano fare gli Stati nazionali. In Italia, la soglia d’accesso del 4% fu introdotta nel 2009, con la motivazione testuale dei relatori che si doveva impedire che entrassero nel Pe le forze escluse da quello nazionale nel 2008 e funzionò a meraviglia: furono esclusi dalla rappresentanza più di 3 milioni di voti validi. Se viene approvata la riforma europea, la Corte costituzionale il 27 ottobre non potrà decidere sulla soglia del 4% ritenuta incostituzionale dal Consiglio di Stato.

«Quell’assessore ha avuto un processo per stalking». Le donne di Pisa pronte a occupare il Comune, imbarazzo nella Lega

«Un uomo ritenuto colpevole di atti persecutori nei confronti di una donna non può ricoprire un incarico pubblico. Non è un problema personale, bensì politico». La coordinatrice del centro antiviolenza della Casa della donna di Pisa, Giovanna Zitiello, non usa mezzi termini. Andrea Buscemi, neo assessore alla Cultura del Comune di Pisa, roccaforte di sinistra espugnata dal Carroccio alle ultime amministrative di giugno, è nell’occhio del ciclone. La questione, da locale, è diventata nazionale dopo una raccolta firme promossa dalla Casa della donna per chiedere le dimissioni dell’assessore leghista per le vicende giudiziarie che lo hanno riguardato. Andrea Buscemi, attore e regista teatrale, è stato denunciato nel 2012 per stalking dalla sua ex compagna, Patrizia Pagliarone. Al termine del processo è stato prosciolto per avvenuta prescrizione del reato. È stato tuttavia condannato al pagamento delle spese processuali e al risarcimento della vittima in sede civile dalla Corte di appello di Firenze.

Pochi giorni dopo dall’inizio della petizione online, si sfiora la cifra di 25 mila sottoscrizioni. E le promotrici promettono di «occupare pacificamente» il Comune in occasione del primo consiglio comunale previsto per il prossimo 17 luglio, se non sarà ritirata la nomina dell’assessore da parte del sindaco Michele Conti.
«La grande adesione alla petizione è stata una sorpresa anche per noi. Questo dimostra che molte cittadine e cittadini ritengono che non si debba essere tiepidi di fronte alla violenza nei confronti delle donne soprattutto se il responsabile ricopre oggi cariche pubbliche», precisa Zitiello.
Patrizia Pagliarone, nel corso del lungo iter processuale, si è affidata al sostegno della Casa della donna di Pisa. «Siamo state al fianco di Patrizia in tutti questi anni, e abbiamo seguito con lei la vicenda giudiziaria che, è bene ribadirlo, non si è conclusa con un’assoluzione ma con la prescrizione del reato. La raccolta firme è stata promossa per ribadire a voce alta che la violenza sulle donne, di cui tutti conoscono la dimensione drammatica nei numeri e nelle modalità, è un problema di rispetto dei diritti fondamentali. Un rappresentante politico colpevole di stalking, al di là della sua appartenenza partitica, è semplicemente inammissibile» aggiunge ancora Zitiello, ricordando inoltre che «Buscemi è stato protagonista di episodi persecutori anche nei confronti di altre donne». I giudici infatti hanno accertato che Buscemi ha messo in atto «condotte di minaccia ai danni di due testi per indurle a non testimoniare, a seguito delle quali il giudice per le indagini preliminari ha emesso un divieto di avvicinamento alle stesse».
Ma l’assessore sembra non avere alcuna intenzione di dimettersi, anche se sale l’imbarazzo in casa Lega. Il sindaco Michele Conti, che ha fortemente voluto Buscemi alla cultura, risulta essere fuori città per qualche giorno di riposo dopo le fatiche elettorali e non si è ancora espresso, a parte un laconico «Valuteremo». In sua difesa è invece intervenuta la sindaca leghista di Cascina, Susanna Ceccardi, dove Buscemi è stato direttore artistico del teatro Politeama: «Ma la sinistra è garantista solo quando le torna bene? Buscemi è incensurato, sarà valutato a Pisa per il lavoro che svolgerà e non certo per una vicenda giudiziaria chiusa».
Identica risposta utilizzata dallo stesso Buscemi per rimandare al mittente la richiesta di dimissioni. Come riporta un quotidiano locale, Il Tirreno, alla prima riunione di giunta l’assessore ha sventolato davanti al sindaco e ai suoi colleghi la fedina penale pulita, come a ribadire l’insensatezza della richiesta. E ai numerosi giornalisti che lo hanno contattato in questi giorni, ha sempre ripetuto: «Sono tutte accuse strumentali, io vado avanti». Lo ha ribadito anche nell’ultimo post pubblicato sul suo profilo social: «Io vado avanti. Alla faccia di chi mi vuole male, e soprattutto vuole male a Pisa».
Ma ad andare avanti sono anche le attiviste della Casa della donna..
«La nomina di Andrea Buscemi ad assessore del Comune di Pisa ha aperto una ferita profonda nella città e nel cuore delle sue istituzioni – ha dichiarato Carla Pochini, presidente della Casa della donna in occasione dell’assemblea pubblica del 10 luglio -. Se entro il 17 luglio, giorno di insediamento del Consiglio comunale, quella nomina non sarà ritirata scenderemo in piazza con sit-in e manifestazioni e arriveremo anche ad occupare il Comune. Non ci fermeremo».
Nel frattempo è stata promossa anche un’iniziativa di social bombing sul profilo facebook del sindaco Michele Conti, con commenti che, in calce al post della presentazione della giunta, chiedono le dimissioni di Buscemi.
Dal fronte delle opposizioni invece regna un silenzio assordante. Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia non si sono pronunciati, forse in attesa di capire come andrà a finire la querelle in casa Lega. Solo la coalizione Diritti in Comune, che unisce la lista civica Città in Comune, Rifondazione comunista e Possibile, si è dichiarata pronta a presentare una mozione di sfiducia: «Come gruppo consiliare depositeremo la mozione di sfiducia, e chiederemo anche alle altre forze di opposizione di sottoscriverla – precisa Ciccio Auletta, consigliere comunale ed ex candidato sindaco per Diritti in Comune – Ma la responsabilità politica della vicenda è tutta in capo al sindaco Conti. Ci auguriamo che ritiri la nomina di Buscemi prima del 17 luglio».

Avete bisogno di odiare per camuffare la vostra miseria

Alzi la mano chi si ricorda una una sola proposta di Salvini che non passi attraverso il violento schiacciamento della dignità di qualcuno. Intende la cura del proprio Paese solo immaginando il diritto di fottersene di tutti gli altri; immagina la sicurezza spendendo parole sulla durezza delle pene per i colpevoli senza sapere immaginare una riforma che sia una nuova legge, una modifica delle esistenti, una cosa qualsiasi; parla di diritto al lavoro solo raccontando a chi lo toglierebbe; è incapace di discutere di giustizia senza attaccarsi alle braghe di qualche magistrato che non gli piace o invocando minori diritti per i presunti colpevoli che lui giudica ritenendosi Cassazione; è incapace di parlare di famiglia senza usare come sponda qualche malcelata offesa ai gay; non sa parlare di laicità se non brucando il muschio di qualche presepe.

Provate a rileggere con attenzione il messaggio di ieri di Giorgia Meloni, che negli ultimi mesi è impegnata in una personalissima interpretazione della maschera di Salvini con posa goldoniana ma effetti da villaggio turistico: «abbiamo presentato – scrive la leader di Fratelli d’Italia –  due proposte di legge […] per abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro. Siamo sempre dalla parte delle forze dell’ordine!». Le parole (poi ricancellate e riscritte) sono chiarissime: senza violenza non c’è Polizia, secondo Giorgia Meloni e le vittime collaterali (i Cucchi, gli Aldrovrandi e tutti gli altri) sono evidentemente dei radical chic. Se ne facciano ragione i poliziotti onesti: sono insopportabili buonisti.

Date un’occhiata a certi commenti della campagna #byebyevitalizi (anche qui con comunicazione al contrario, senza avere la forza di puntare piuttosto sull’eventuale nuova equità) in cui come cani selvatici alcuni non riescono a trattenere l’eccitazione di avere impoverito gli altri come unica soddisfazione.

Il linguaggio non è solo nero. È incapace di posare il vocabolario dell’odio. E nonostante qualcuno insista nel minimizzare la gravità dell’involuzione (che, badate bene, non è solo di questo periodo ma parte da lontano e attraversa anche un certo bullismo a sinistra) dimostra un analfabetismo sentimentale oltre che funzionale. Incapaci di sentire la propria vita ci si ingegna per scovare lo schifo degli altri e tuffarcisi dentro per non fare i conti con la propria miseria. È una lunga, incessante, propaganda tutta fuori tema in cui l’unica proposta è di demolire gli altri e masturbarsi sdoganando la barbarie. Ci si affida all’uomo forte perché organizzi l’odio e lo renda lecito.

Parlano degli altri perché non sanno cosa dire di loro, di noi, di voi. È normale che poi rispettare la legge e i diritti diventi un atto sovversivo: in mezzo ai nani neri la normalità è scambiata per un gigante.

Buon venerdì.