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Via Scorticabove, le proposte del Comune di Roma sono inaccettabili e i 120 rifugiati dormono ancora per strada

Un'immagine di migranti in via Scorticabove dove alloggiano un gruppo di rifugiati, 10 luglio 2018 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Via Scorticabove come Piazza Indipendenza e via Curtatone. Uno sfratto per morosità a carico della vecchia cooperativa che gestiva il centro d’accoglienza – poi coinvolta nello scandalo Mafia Capitale – e centoventi rifugiati, dal 5 luglio scorso, sono per strada. Tanti con il permesso di soggiorno e alcuni in possesso della cittadinanza italiana. Ma tant’è. I loro diritti sociali, primo fra tutti, quello all’abitare, sono stati calpestati. «Siamo rifugiati, siamo scappati dalla guerra, siamo in Italia da anni. Non possiamo essere trattati come criminali, non possiamo rimanere per strada», dicono, durante la conferenza stampa seguita allo sfratto.

«Dove è la nostra protezione internazionale?», chiedono, scrivendolo su uno striscione che campeggia sotto la sede dell’Unhcr – Agenzia Onu per i rifugiati, che in un post su Twitter, prontamente, risponde: «Saremo felici di accogliere la delegazione di rifugiati sgomberati ieri da via Scorticabove, a momenti chiuderemo la conferenza stampa alla Stampa Estera sulla Libia, per recarci da loro».

Precisando, successivamente, in una nota «l’urgente necessità di attuare misure specifiche per favorire l’integrazione dei rifugiati in Italia (…) e che vengano individuate con urgenza delle soluzioni per tutti coloro che ancora non hanno una sistemazione. È necessario, inoltre, mettere in campo una strategia complessiva per migliaia di rifugiati che, nella città di Roma, dormono in palazzi occupati o in insediamenti informali».

Ma anche in occasione del tavolo di confronto, convocato il 12 luglio, la risposta delle istituzioni capitoline si è rivelata inadeguata: a parte quei quaranta posti nei centri di accoglienza – peraltro, già proposti nell’intervento della Sala operativa sociale, il giorno dello sgombero -, si sono dette sprovviste di qualsiasi strumento di autorecupero per fronteggiare questa emergenza abitativa a meno di pensare a lungo termine, percorrendo la strada (lunga, impervia e dubbia) del Regolamento sui beni confiscati alla mafia. Soluzioni inaccettabili per la comunità sudanese, coesa e portatrice di un’esperienza esemplare di autogestione, per la quale il ritorno nei centri di accoglienza è una regressione di quindici anni almeno.

«Tutto ciò è molto contraddittorio: da una parte, il governo sbraita contro le spese per sostenere l’accoglienza, dall’altra, è l’unica cosa in grado di proporre, giustificandola con l’assenza di strumenti legislativi alternativi», spiega a Left, Margherita Grazioli di Movimento per l’abitare, presente all’incontro con l’assessore alle Politiche sociali, Laura Baldassarre.

«Ci chiediamo, ancora una volta, dove sono le soluzioni alternative allo sgombero, dove andranno questi rifugiati e perché l’assessore alle Politiche sociali, Laura Baldassarre, continui a nascondersi e a evitare responsabilità evidenti», tuona il presidente di Baobab Experience, Roberto Viviani. Che continua: «A Roma, ogni questione sociale viene trasformata in un problema di ordine pubblico e demandato alla questura e alla prefettura. È frustrante vedere tutto ciò in una città, invece, ricca di forze sociali che praticano solidarietà tutti i giorni. Siamo in tanti a resistere concretamente, con atti reali, alla spirale d’odio fomentata dal governo e dalle amministrazioni locali. Siamo in tanti a sapere che, se la nostra società diventa ogni giorno più iniqua, ingiusta e inumana, non è certo per colpa di homeless, migranti o rom: i responsabili sono altri e la situazione non migliorerà togliendo diritti ai più poveri».

Il prossimo incontro per provare a trovare una soluzione alla crisi è stato fissato per ìl 23 luglio.

La lezione viva di Nelson Mandela

Il 18 luglio del 1918 nasceva Nelson Mandela. Abbiamo voluto utilizzare lo spunto del centenario per tornare a rileggere la sua lezione umana e politica, per capire che cosa ne resta nel Sudafrica di oggi lacerato da molte contraddizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di tornare a riflettere sulla sua storia di coraggioso riformatore e «resistente» (come lo chiamava Todorov), per capire come sia riuscito a sopravvivere a 27 anni di carcere duro, impedendo ai suprematisti bianchi che l’avrebbero voluto far sparire nel nulla, di ingabbiare il suo pensiero. Colpisce che in quei lunghissimi anni di detenzione e isolamento Mandela non perse mai la fiducia nell’umano continuando così a lottare per il cambiamento. «Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe a cui appartengono», diceva. Si nasce uguali diremmo oggi, perché uguale per tutti gli esseri umani è la dinamica della nascita. E universali sono la capacità di immaginare, gli affetti e i valori umani, qualunque siano le caratteristiche somatiche o la provenienza geografica e culturale dei singoli individui. Mandela rifiutò il veleno del risentimento non per un astratto credo religioso o morale, ma perché sapeva che demonizzare l’avversario non aiuta a vincerlo ma distrugge la propria identità. Per questo, prima di tutto, lottò per non cadere nella trappola dell’odio nonostante l’oppressione, le umiliazioni, l’ingiustizia. Ma fin da giovanissimo, da avvocato, combatté con tutte le sue forze le istituzioni che imponevano la segregazione razziale.

Come è stato notato, Madiba non era un pacifista ma un uomo di pace. Per questo adottò la strategia della non violenza, ma non in maniera esclusiva (diversamente da Gandhi non era un asceta). Quando in cambio della sua liberazione gli fu chiesto di obbligare l’African national congress ad abbandonare la violenza lui rispose di no. Non era possibile fin quando non fosse stato riconosciuto il suffragio universale. Da partigiano sapeva che in quella situazione in cui una minoranza bianca vessava e sfruttava la maggioranza nera fin dal lontano 1652 bisognava reagire e difendersi, fino a quando non fossero state abolite le odiosi leggi razziali che imponevano l’apartheid in Sudafrica. Mandela aveva chiaro che l’obiettivo più grande era la liberazione. Aveva una limpida visione (quella che manca alla maggior parte dei politici di oggi), sognava che persone di diversa provenienza ed estrazione sociale potessero vivere insieme in una società libera, democratica, progressista. Sapeva anche che la strada per realizzare il suo «raimbowism» era in salita. E che non bastava aver conquistato la libertà perché essa fosse pienamente realizzata. «La verità è che non siamo ancora liberi, abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo di una lunga strada che sarà ancora più lunga e difficile, perché la libertà non è solo spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri», scriveva nel Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 1994). «Assieme alla libertà vengono le responsabilità». E di questo ha scritto nella seconda parte della sua autobiografia La sfida della libertà (Feltrinelli, ediz. italiana 2018). Ma è un filo rosso che percorre anche le lettere che ora escono in una edizione internazionale, pubblicata da Il Saggiatore in Italia.

La trasformazione della società di cui parlava Marx, per Madiba nasceva prima di tutto da una trasformazione interiore, personale. Nonostante errori e fallimenti, ciò che contraddistingue Mandela è la coerenza fra vita e prassi. La lotta contro le disuguaglianze sociali andava di pari passo con l’affermazione del valore primario della cultura e del diritto all’istruzione. Tutto questo ha fatto di lui uno statista e un politico la cui lezione è tutta da riscoprire oggi. L’agiografia non è il nostro forte e non vogliamo certo farne un santo o un granitico eroe. In questo sfoglio oltre a ripercorrere i punti alti del suo pensiero e della sua prassi politica, cerchiamo di analizzarne anche alcuni limiti. A cominciare da quella fedeltà alle vecchie amicizie che lo portarono ad assegnare posti chiave a persone non competenti né grate, fino all’aver rinunciato una volta diventato presidente a nazionalizzare le imprese perché il Sudafrica era ancora dipendente dagli investimenti stranieri. Per quanto il grande processo di riconciliazione nazionale da lui avviato non abbia sortito tutti gli effetti sperati, è innegabile che Madiba sia riuscito ad evitare che scoppiasse una guerra civile in un Paese massacrato dal razzismo e dalla xenofobia. Mandela è l’uomo che nonostante la violenza subita ha saputo fermare la spirale di violenza. Anche per questo ha ancora molto da insegnarci oggi.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Xi Jinping riapre la caccia ai migliori scienziati stranieri

epa06057200 Chinese President Xi Jinping (C) inspects the troops of the People's Liberation Army Hong Kong Garrison at Shek Kong Barracks in Hong Kong, China, 30 June 2017. Xi will inaugurate a new Hong Kong Chief Executive and to mark the 20th anniversary of the city's handover from British to Chinese rule on 01 July. EPA/STR

Luke Gibson è un ecologo americano. Ha 35 anni e ha lavorato fino a poco tempo fa all’università di Hong Kong, la città cinese che gode di speciali privilegi. Poi è arrivata da Shenzhen, città nel cuore della Repubblica popolare cinese, e per la precisione dalla Southern University of Science and Technology (Sustech) la proposta della vita: ti nominiamo professore associato e per svolgere le tue ricerche sull’Himalaya, sul Plateau del Qinghai, o nel delta del fiume delle Perle -, ti mettiamo a disposizione 10 milioni di yuan (1,5 milioni di euro). Come si fa a rinunciare a una cifra che è 40 volte maggiore del budget che hai a disposizione a Hong Kong, con la quale puoi arruolare almeno quattro giovani post-doc?

Luke Gibson ha accettato e ora è a Shenzhen, alla fine di un percorso uguale e opposto a quello che molti “cervelli” cinesi hanno intrapreso in passato: dal Paese del Dragone agli Stati Uniti d’America. Non è il solo, Luke Gibson. In un suo recente articolo la rivista americana Science cita il caso di un altro giovane americano, Marko Krčo, un PhD alla Cornell university, reclutato dall’Osservatorio astronomico nazionale dell’Accademia cinese delle scienze a Pechino con la stessa tecnica: molti soldi e splendide opportunità di carriera.

Ma noi, a nostra volta, potremmo citare una lettera inviata da un fisico cinese, il professor Wei Wang, a molti colleghi occidentali, tra cui l’italiana Lucia Votano, che è stata alla direzione del Laboratorio nazionale del Gran Sasso, e che ora collabora a un grande progetto di ricerca sui neutrini in Cina, che diceva più o meno: «Carissimi, nei prossimi 3-5 anni la Scuola di fisica dell’università di Guangzhou offre 70 posizioni nella nostra materia. E altrettanto farà la Scuola di fisica a Zhuhai. Sono tante, 140 posizioni. Noi vogliamo solo il meglio e con i nostri studenti non riusciamo a coprire questa offerta. Dite ai vostri ragazzi ma anche ai vostri senior di fare domande. Abbiamo una quantità di soldi a disposizione che stupisce anche noi. In alcuni casi possiamo pagare anche il viaggio a chi vuole venire qui per sostenere il colloquio. In altri termini, scienziati di tutto il mondo: venite in Cina. Troverete condizioni uniche.

Cosa sta succedendo? Già in passato Left ha raccontato di questo flusso inedito di “cervelli” verso la Cina. Un esodo fisiologico, visto che da un quarto di secolo Pechino aumenta gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&s) a un ritmo doppio dell’incremento del prodotto interno lordo. E sì che quest’ultimo, da 25 anni, è il maggiore del pianeta. Nel 2018 la Cina spenderà l’equivalente di 405 miliardi di euro in R&s. Una cifra non molto distante da quella degli Stati Uniti (472 miliardi di euro), superiore a quella dell’intera Unione europea e 16 volte maggiore degli investimenti italiani (25 miliardi di euro).

Sono molti anni, dunque, che i soldi per la ricerca in Cina ci sono e ce ne sono più che altrove. Ma è solo dallo scorso 22 maggio che il ministro della Scienza e della Tecnologia ha reso pubbliche le linee guida che incoraggiano centri governativi, università e laboratori a prendere contatto con esperti per attrarre scienziati stranieri e offrire loro posizioni a tempo indeterminato in Cina. È la prima volta che in maniera esplicita Pechino mette a disposizione risorse pubbliche per ricercatori stranieri che possono così diventare “strutturati” (ovvero assumere una posizione ufficiale, al pari dei colleghi cinesi) nel sistema di ricerca e universitario del grande Paese asiatico. Un’apertura al mondo senza precedenti da parte della Cina. Semplicemente inconcepibile anche solo qualche anno fa. Perché questa svolta?

In realtà, dovremmo dire, perché questa nuova accelerazione? Perché sono quasi trent’anni che la Cina persegue con coerenza e sistematicità un grande progetto: trasformarsi da paese del Terzo mondo con un sistema produttivo arretrato e con capacità di innovazione prossima a zero in Paese leader del pianeta dell’economia della conoscenza. E per raggiungere questo obiettivo non c’è altra strada che diventare leader al mondo in scienza e tecnologia. In questi ultimi tre decenni la Cina ha mantenuto dritta la barra e, come abbiamo detto, con notevole sistematicità ha accresciuto gli investimenti in R&s a un ritmo doppio rispetto alla crescita della sua ricchezza.

In altri termini, la Cina crede nella scienza e da tre decenni lo dimostra. Si prevede, infatti, che nei prossimi cinque o sei anni supererà, per quantità di risorse investite, anche gli Stati Uniti e diventerà la maggiore potenza scientifica e tecnologica mondiale. In realtà già oggi è il Paese che vanta il maggior numero di scienziati al meno: all’incirca 1,5 milioni. Già, perché anche le università e la formazione scientifica dei giovani cinesi si sono enormemente sviluppate in questo periodo.

Ma se vuoi diventare leader al mondo in scienza e tecnologia non basta avere molti soldi e molti ricercatori. Devi avere anche i migliori ricercatori e i migliori progetti in tutta la gamma della ricerca: di base, applicata e nello sviluppo tecnologico. Realizzare progetti d’avanguardia è relativamente semplice. Basta chiamare i migliori al mondo, chiedere loro di redigere programmi di frontiera e finanziarli. Da qualche anno, proseguendo con coerenza verso il suo obiettivo, la Cina lo sta facendo. Lucia Votano è un esempio di questa politica. Si sta mettendo a punto in Cina il più grande centro di studio dei neutrini al mondo e lei, che ha lavorato in questo settore al Gran Sasso e non solo, è stata cooptata insieme ad altri fisici occidentali come consulente.

Ma non bastano le consulenze e le collaborazioni. Per avere i migliori ricercatori al mondo deve battere due strade convergenti. Formare i tuoi scienziati alle migliori scuole del mondo e convincerli poi a lavorare per te. Ma serve anche – e forse soprattutto – fare in modo che ricercatori stranieri, i più in gamba, vengano da te a lavorare, col duplice compito di insegnare ed effettuare ricerca di punta. E c’è un unico modo per attrarre scienziati da ogni parte del mondo: dare loro molti fondi per la ricerca in cui credono e reali opportunità di carriera, oltre che un ottimo stipendio. Finora i Paesi in grado di fare questa operazione erano pochi. Gli Stati Uniti. Il Regno Unito in certi settori. La Germania e la Francia, con minori capacità. Ora entra in scena la Cina. Che dapprima ha lavorato, bene, per il ritorno dei propri “cervelli” emigranti negli Usa o, molto meno, in Europa. E ora ha deciso lo strappo finale: consentire agli scienziati stranieri di entrare a pieno titolo e non più solo come consulenti nel proprio sistema di ricerca e di alta formazione.

Ecco perché la Cina sta stendendo loro tappeti d’oro. Non è un’operazione semplice. Neppure da immaginare. Il Giappone, per esempio, non l’ha mai davvero tentata. Men che meno l’Italia, che, anzi, è uno dei pochi Paesi al mondo che, di fatto se non di diritto, respinge alla frontiera i “cervelli” stranieri. Ma non è un’impresa semplice soprattutto da realizzare. Potrebbero non bastare le carote dei fondi, delle infrastrutture, dei progetti avveniristici. Per attrarre ricercatori stranieri, un Paese si deve dimostrare complessivamente ospitale. Uno scienziato per lavorare, soprattutto nella ricerca di base, deve sentirsi a proprio agio. E non tutte le condizioni al contorno in Cina sono in grado di mettere in condizione di agio un occidentale. Per esempio, la mancanza di libertà. La Cina oscura molti siti internet. E questo non piace a chi è abituato a navigare dove e come gli pare.
Ecco, dunque, l’ultima grande sfida per la Cina. Riuscire a coniugare le asprezze del regime con le richieste degli stranieri che vuole arruolare. Per farlo, probabilmente, non bastano i soldi, neppure se sono tanti, e non bastano i laboratori, neppure se sono i meglio attrezzati del mondo.

Madiba, oltre il mito

JOHANNESBURG, SOUTH AFRICA - JUNE 15: Children in the Alexandra Township stand next to a mural of Nelson Mandela on June 15,2013 in Johannesburg, South Africa. The former South African President and leader of the anti-apartheid movement is spending a seventh night in hospital and is reported to be responding better to treatment for a recurring lung infection. (Photo by Jeff J Mitchell/Getty Images)

Alla morte di Nelson Mandela, nel dicembre 2013, ci fu una nota scomoda nelle commemorazioni. I critici di destra avevano spesso tacciato Mandela di filo-comunismo: una delle accuse per le quali venne condannato nel 1964 era proprio «la promozione degli obiettivi del Partito comunista» (il South african communist party, Sacp). Il giorno dopo la sua morte, il Sacp ha ammesso che Mandela era stato membro del suo comitato centrale al momento del suo arresto. Una prima bozza del suo Lungo cammino verso la libertà, in seguito, ha fornito ulteriori prove. Per la destra non disposta ad accettare il nuovo Sudafrica, le evidenze dei suoi (brevi) legami comunisti dimostrerebbero le sue intenzioni “maligne”. Il crollo del blocco orientale, poi, ha causato ulteriori difficoltà a chiunque cercasse di dipingere Mandela come un “nonno benevolo”, in grado di superare le divisioni politiche. Mandela, infatti, era stato costretto a schierarsi. Egli era un prodotto, e uno tra gli ultimi esponenti, delle cause anti-coloniali degli anni 60. E se Mandela non era realmente un “comunista”, il Sacp aveva sicuramente rappresentato uno tra i pochi suoi alleati.

Come ha notato il regista australiano John Pilger, pochi anni dopo la liberazione di Mandela era diventato «impossibile trovare un bianco che avesse sostenuto l’apartheid». La sconfitta del violento Awb (i separatisti bianchi del Movimento di resistenza afrikaner, ndr) distrusse l’ultima resistenza e la minoranza privilegiata fu imbarazzata nell’ammettere la sua acquiescenza rispetto alla tirannia. Eppure, c’era stata molta differenza tra l’atteggiamento degli alleati bianchi attivi nella lotta contro l’apartheid – inclusi quelli del Sacp – e coloro che semplicemente avevano accettato la sua fine, nel momento in cui si era fatta inevitabile.

Lo stesso fenomeno si è consumato anche a livello internazionale. Oltre alle campagne di boicottaggio del regime portate avanti in Occidente, il più importante sostegno alla battaglia di Mandela arrivava dagli altri movimenti anti-coloniali. Nel 1990, durante la sua prima apparizione in Tv negli Stati Uniti dopo il suo rilascio, Mandela fu interrogato dal diplomatico Ken Adelman proprio su questi legami. Secondo l’attivista neocon…

L’articolo di David Broden prosegue di Left in edicola


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Perché non te li prendi a casa tua?

Chiariamoci. L’immigrazione (che è una falsa notizia, visto che si tratta di meno di 18.000 persone arrivate quest’anno, un catino, uno stadio da serie b di una partita bruttina, un concerto di un cantante neomelodico, per dire) sta su tutti i giornali e su tutti i telegiornali perché Salvini (e non Di Maio, e non il Movimento 5 Stelle preferirebbero parlare del Decreto Dignità) ha deciso di buttare in caciara la politica. Inevitabile: la melma è il suo ecosistema. Nell’amministrazione, le riforme e la politica invece ha poco da dire. Qualcuno dice che non bisognerebbe agevolare i salvinismi fingendo che non esistano. Grazie per il consiglio, grazie, ma fingersi morti per non farsi sbranare non è nella mia natura. No.

In questi giorni di zuffa si può provare a rispondere con i dati: non è vero che siano acclarati (come ha scritto Travaglio e come ripetono molti in coro) i rapporti tra ONG e criminalità organizzata. Anzi, proprio non esistono. Zuccaro si è fatto molta pubblicità ma la sua inchiesta è stata archiviata, come tutte le altre inchieste. Le ipotesi investigative non sono fatti, anche se qualcuno ci costruisce una linea editoriale. E la nave Iuventa (di cui Travaglio parla) è stata sequestrata per tutt’altro: questioni di legittimità territoriale. Se poi è acclarato ciò che pensa la maggioranza parlamentare allora qualcuno citofoni a Travaglio e gli dica che Ruby era la nipote di Mubarak.

La guerra c’è anche dove vige l’ignoranza di Salvini. Il ministro si è affrettato a twittare che le persone a bordo della nave Diciotti della Guardia Costiera provengano da Paesi non in guerra. Ritenere Paesi in pace il Pakistan, il Ciad, l’Egitto, la Libia, la Palestina (!), il Sudan e lo Yemen (dove si muore sotto le bombe fabbricate in Italia, tra l’altro) significa avere imparato la geografia e la storia con un tutorial su Youtube. Bocciato.

Poi c’è la frase finale, che si ripete ogni volta: perché non te li prendi a casa tua?, chiedono. Rispondo: non li prendo a casa mia per lo stesso motivo per cui non mi occupo del manto stradale della mia via, delle siepi del mio quartiere, per lo stesso motivo per cui domattina non faccio il turno né da chirurgo né da infermiere, non dirigo il traffico, non rimborso gli infortunati in guerra o sul lavoro, non pago di tasca mia le ferie e le pensioni o per lo stesso motivo per cui non poso binarie e guido treni. Pago le tasse nel mio Paese per ottenere servizi e dignità. Servizi e dignità. E su entrambi siamo messi maluccio.

A proposito: non sono forse gli stessi motivi per cui non ospitate i terremotati a casa vostra nonostante li usiate per giustificarvi? Credo proprio di sì.

Del resto, come scriveva lo scrittore francese André Gide, «meno è intelligente il bianco, più gli sembra stupido il nero».

Buon giovedì.

 

Processo Cucchi, fotosegnalamento del ragazzo cancellato con il bianchetto

+++ RPT CON DIDASCALIA CORRETTA +++ L'avvocato della famiglia Cucchi, +++RPT+++ Fabio Anselmo +++RPT+++, mostra delle foto durante il dibattimento del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi, a Roma 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

Per leggere il nome di Stefano Cucchi nel registro dei fotosegnalamenti della Compagnia Casilina dei carabinieri bisogna rimuovere una striscia di bianchetto. Una pratica non regolare emersa dalle testimonianze dell’udienza di oggi, 11 luglio, del processo per l’omicidio preterintenzionale del geometra romano. Uno dei temi del processo Cucchi è proprio quello della cancellazione delle tracce del passaggio del giovane arrestato poco prima in un parco del Tuscolano, nella caserma dei carabinieri dove, secondo l’accusa sarebbe stato pestato e un fotosegnalamento avrebbe immortalato l’opera di chi lo aveva ridotto così.

Prima del Cucchi-bis l’operato dei carabinieri era come avvolto in un cono d’ombra finché un fascicolo di 50 pagine scritto dalla polizia giudiziaria non ricostruì le prime tappe del calvario di un arrestato per spaccio che, secondo l’accusa, morirà sei giorni dopo, nascosto nel letto di un “repartino” penitenziario del Pertini, per le conseguenze di quell’impresa compiuta da uomini in divisa.
Nel documento della Procura, alla base di questo processo, si sottolinea che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, né fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Infatti, il primo processo si concentrò su alcune guardie carcerarie e sul personale dell’ospedale Pertini.

Dopo la conferma, nelle recenti udienze, che i registri della Caserma di Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte in guardina, furono manipolati per minimizzare le condizioni, il particolare della cancellazione del bianchetto è stato ribadito da alcuni militari dell’Arma in servizio il 15 ottobre 2009, data dell’arresto di Cucchi, ascoltati oggi alla Prima Corte d’Assise di Roma nell’udienza del processo che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale, mentre altri due appartenenti all’Arma sono accusati di calunnia e falso.
Sul registro dei fotosegnalamenti, un rigo è cancellato con il bianchetto: sotto alla casella con il nome di Misic Zoran si intravede, eliminato successivamente, quello di Stefano Cucchi. «Non è una pratica normale, può capitare che il fotosegnalamento non avvenga per problemi ai sistemi informatici, ma in genere si cancella il nome con una riga orizzontale, con la penna rossa, non con il bianchetto», ha spiegato uno dei carabinieri ascoltati. Una tesi confermata anche da un altro suo collega ascoltato in udienza. Nel registro ci sarebbero comunque altri nomi cancellati parzialmente con bianchetto ma il pm Giovanni Musarò ha fatto notare che quello di Cucchi è interamente cancellato. I due testi hanno detto di non essersi accorti della manovra del bianchetto e di non aver fatto caso alle condizioni dell’arrestato. Se il fotosegnalamento non viene effettuato è necessario darne atto al superiore gerarchico e avvertire il piantone. Se non avviene il fotosegnalamento ci si mette in contatto con un’ altra compagnia per effettuarlo. E non c’è il bianchetto nell’ufficio perchè non è in dotazione, in quanto non utilizzabile.

Così i due testi a conferma della ricostruzione che ha consentito, a otto anni dai fatti, questo processo: il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina», si legge nel documento. Secondo la ricostruzione una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».

Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, è stato al centro della seconda parte dell’udienza. Nel 2013 fu spostato di mansione e destinato ad un incarico in ufficio dopo una segnalazione della ex moglie, preoccupata perché potesse compiere con la pistola gesti estremi verso sé stesso o la famiglia. La ex moglie dell’imputato riferì a un superiore di D’Alessandro un episodio durante la loro fase di separazione in cui l’uomo avrebbe minacciato il suicidio con la pistola. Il maresciallo Coscina, ascoltato anche lui, provò a suggerire al D’Alessandro di essere meno duro con la moglie e si sentì rispondere, più o meno, «tu non puoi capire perché non sei sposato, con le mogli serve carota e bastone». Spesso dalla casa di D’Alessandro si sentivano le sue urla contro la moglie e Coscina addirittura si rivolse al comandante di compagnia per trasferirlo dopo che la donna gli confessò di aver paura del marito soprattutto perché aveva un’arma. E la poggiava sul tavolo mentre cenavano.

La prossima udienza vedrà al banco dei testimoni le parti lese: i genitori e la sorella di Stefano Cucchi: Giovanni, Rita, Ilaria che da quel giorno di ottobre del 2009 hanno visto la loro vita deformata dalla lunghissima battaglia per verità e giustizia. Nel primo processo erano imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti della penitenziaria; per accuse terribili, contestate a vario titolo e secondo le rispettive posizioni, ovvero abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso d’autorità. Nella prima indagine, l’ipotesi accusatoria fu che Cucchi era stato pestato nelle celle del tribunale e in ospedale era stato abbandonato e lasciato morire di fame e sete. Nel processo di primo grado, però, i giudici arrivarono a un’ipotesi diversa: nessun pestaggio, ma morte per malnutrizione. Unici colpevoli furono dichiarati i medici – per omicidio colposo – con assolti invece infermieri e agenti penitenziari.

Davanti ai giudici d’appello, tutto fu ribaltato: tutti gli imputati furono assolti, senza distinzione di posizioni. E la Cassazione arrivò alla parziale cancellazione di questa sentenza e l’ordine di un appello-bis per omicidio colposo per i medici. La conclusione fu una nuova assoluzione (nel frattempo diventò definitiva l’assoluzione di agenti e infermieri), e un nuovo annullamento in Cassazione (ci sarà un terzo processo d’appello ancora in corso). L’ostinazione di Ilaria Cucchi e della sua famiglia portarono poi all’inchiesta-bis. Accanto a loro, da anni, pezzi di società civile e di associazionismo, come gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che seguono e documentano questo e altri processi.

Scuola pubblica, laica e gratuita. Una firma per la Lip e per l’istruzione secondo la Costituzione

Il corteo degli studenti, partito dalla Piramide Cestia, arriva al Ministero della Pubblica Istruzione, Roma, 13 ottobre 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Pubblica, laica, pluralista, democratica. Aggettivi semplici, a cui non dobbiamo cessare di assegnare l’alto valore di principi irrinunciabili, ciascuno con la propria portata di profonda civiltà, e che vanno associati ad un altro, altrettanto fondamentale: gratuita. È il ritratto di una scuola che è stata costruita intenzionalmente come strumento dell’interesse generale perché, solo grazie a quelle peculiarità, essa risponde al mandato che la Costituzione le assegna: formare cittadini consapevoli, in grado cioè di compiere delle scelte motivate dalla conoscenza e dalla capacità di selezionare informazioni e di metterle utilmente in relazione; configurare, sulla scorta del comma 2 dell’art. 3 della Carta, lo strumento privilegiato che la Repubblica ha in mano per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Leggere e riflettere su queste peculiarità altissime e significative rappresenta quotidianamente uno stimolo per non cessare di mobilitarsi sul tema dell’istruzione, pur – o, forse, soprattutto – nella consapevolezza di quanto la normativa degli ultimi 20 anni abbia intenzionalmente decostituzionalizzato la scuola, prona come è stata alla logica (che investe tutto lo Stato sociale) del pensiero unico dettato dall’Europa: giustapporre criteri economici e di profitto ai diritti fondamentali delle persone. Se il 4 dicembre 2016 abbiamo difeso la Costituzione, lo abbiamo fatto anche perché i principi in essa contenuti abbiano un’attuazione concreta. Perdere su questo fronte, assecondare l’oblio del senso profondo di quegli aggettivi, ridurli a orpello retorico e non a esigenza irrinunciabile significherebbe non solo tradire le premesse della nostra storia nazionale, ma arrenderci ad una società che immobilizza i destini degli individui per diritto di sangue. Non solo. Significherebbe anche arrenderci a un abbandono della riflessione, del tempo disteso della conoscenza, del pensiero critico-analitico e delle istanze che da questi presupposti possano consentire di interpretare un mondo sempre più complesso; alla rottura del principio dell’unitarietà del sistema scolastico, amplificando divari tra scuola e scuola; alla perdita della libertà di insegnamento, principio di tutela universale, alla acquiescenza rispetto alle scorribande dei privati nella scuola “aperta a tutti” e alla precedente costruzione, nel luogo dell’equiordinazione tra organi collegiali, di un sistema gerarchico. E ancora, significherebbe arrenderci alla ghettizzazione dei “diversi”, prerequisito oggi nelle scuole che hanno smarrito il senso del proprio mandato, per garantire l’apprendimento dei “normali” (il famoso caso del Rav del Visconti a Roma, con il violento carico di rassicurazioni sul fatto che in quella scuola non ci siano migranti o disabili); ad una valutazione incapace di guardare all’individuo come al contesto (si tratti di studenti o di scuole), con l’unico scopo di stimolare la competizione. Significherebbe soggiacere ad un’idea di innovazione che sconfina nella barbarie; assecondare il pensiero unico – sia esso dei poteri forti, che dell’oltranzismo confessionale – che vuole consumatori acritici e/o dogmatici. Sudditi, non cittadini.

L’8 settembre 2017 la legge di iniziativa popolare Per la Scuola della Costituzione è stata depositata in Cassazione e da 2 mesi è iniziata la raccolta delle firme per proporne la discussione parlamentare. Si tratta di 37 articoli che abrogano gran parte della normativa degli ultimi 15 anni, dalla riforma Moratti, alla Gelmini, alla Buona scuola, tentando di riportare la scuola al modello dettato dagli articoli 3, 9, 33 e 34 della Carta. Non solo abrogare, dunque, ma anche ri-costruire e ri-portare la scuola all’altissimo rango di organo costituzionale, quale fu pensata – non a caso – nell’Italia che risorgeva sui principi dell’antifascismo.
La Lip non si propone di intervenire su tutti gli aspetti della normativa scolastica, ma di disegnare un’idea di scuola. Vi si parla di gratuità, di inclusione, di laicità (sono vietate le cerimonie di culto negli edifici scolastici; l’insegnamento della religione cattolica è in orario extracurricolare; viene abolito l’inserimento delle scuole paritarie private nel sistema nazionale di istruzione); si prevede un rapporto alunni-docente che scongiuri per sempre le classi pollaio; l’unico insegnamento obbligatorio esplicitamente previsto (la legge non si occupa di programmi e discipline) è quello di Costituzione e cittadinanza.

E ancora la Lip prevede: diritto allo studio e all’apprendimento, sapere disinteressato ed emancipante. Si rende poi obbligatorio il terzo anno di scuola dell’infanzia, in previsione della generalizzazione; si abrogano i test Invalsi e il voto numerico alla primaria e alle medie, si ripristinano tempo pieno e prolungato; si riconducono alla loro centralità gli organi collegiali, riaffidandogli prerogative che sono espressione della democrazia scolastica. Nella Lip il biennio è unitario, posticipando così la scelta della scuola superiore – troppo spesso compiuta su base socio-economica – di due anni e garantendo i saperi imprescindibili per tutti più a lungo; viene esteso l’obbligo al termine della scuola superiore, in modo che la scuola riprenda ad essere ascensore sociale e garanzia di pari opportunità per tutti, nessuno escluso. E ancora: un presidente del collegio, eletto dai docenti, affiancherà il dirigente scolastico, che continuerà ad avere funzioni solo amministrative; l’autonomia scolastica viene riportata nel suo alveo costituzionale, quello del principio della libertà dell’insegnamento, strumento dell’interesse generale. Si prevedono poi “percorsi di cultura del lavoro”, obbligatori per tutti gli indirizzi di scuola superiore, gestiti dalle singole istituzioni scolastiche: si tratta della creazione di anticorpi negli istituti che oggi stanno subendo l’alternanza scuola lavoro, che mercifica il lavoro e ne sdogana la possibilità di essere gratuito, non normato, svincolato dai diritti, sulla scia del modello Jobs act; che sottrae gli studenti allo studio e alla cultura emancipante, per proiettarli in una dimensione di svilente generico apprendistato, slegato dall’indirizzo di studio che hanno intrapreso. Di tutto questo la scuola della Costituzione deve farsi carico per ribadire il tema della dignità del lavoro. Grande attenzione, nel testo, al linguaggio di genere e alla purificazione da anglicismi e tecnicismi di matrice anglofona ed economicista.

La Lip prevede che all’istruzione vada il 6 per cento del Pil nazionale, come da media dei Paesi europei: anche per questo la raccolta di firme si affianca a quelle – promosse dal Coordinamento democrazia costituzionale – per ripristinare il testo originario dell’art. 81 della Costituzione, eliminando l’equilibrio di bilancio e per una revisione del Rosatellum in senso proporzionale. L’obiettivo è risanare tre ferite che gli ultimi parlamenti hanno inflitto alla democrazia nel Paese.

Perché, dunque, questa campagna di raccolta firme è così importante? Un motivo su tutti: il nuovo regolamento del Senato prevede l’obbligo di discutere entro 3 mesi i testi depositati. Non più, dunque, leggi di iniziativa popolare dimenticate in un cassetto e mai prese in considerazione (la Lipscuola, la cui prima redazione risale al 2006, quell’anno raccolse 100mila firme – il doppio delle necessarie – ma non fu mai discussa) ma strumenti che (tenendo conto anche di quanto il presidente della Camera, Fico, ha assicurato) avranno ascolto e considerazione, una volta presentate. Si tratta in questo momento di provare con convinzione a riaccendere i riflettori su temi fondamentali: la democrazia, i tagli allo stato sociale, la scuola della Costituzione, sui quali si potrebbero, qualora le firme venissero raggiunte, riaprire mobilitazione, dibattito, iniziativa. È per questo che è necessaria l’attenzione, ma – soprattutto – un piccolo impegno da parte di ciascuno di noi: diamo gambe ed energia a queste grandi idee e alla speranza di avere speranza. Firmiamo e facciamo firmare. Ribaltare il paradigma corrente, privatistico e classista, disinfestare lo spazio culturale dal dominio del mercato, ricostruire l’equilibrio di diritti e poteri, restituire il sistema scolastico alla funzione di promozione del pensiero critico e della cittadinanza consapevole: questo e altro nel testo della legge Per la Scuola della Costituzione.

da Left n.15 del 13 aprile 2018

È in corso la campagna di raccolta firme per la Lip. L’obiettivo  è raggiungere quota 50mila – e oltre, per sicurezza, sostengono i promotori – entro la fine di luglio 2018. Il 6 agosto è prevista la consegna delle firme. Esistono comitati che si stanno mobilitando, per questa Lip e per le altre due sull’art.81 e la legge elettorale. Il testo della Lip scuola e il materiale informativo, oltre che gli indirizzi e i nomi dei reponsabili dei comitati promotori qui

Ex Jugoslavia. A Višegrad, dove il genocidio ebbe inizio

VISEGRAD, BOSNIA AND HERZEGOVINA: Moslem refugees evacuate this eastern Bosnian town on the border with Serbia 16 April 1992 after heavy fighting between Serb and Moslem forces broke out. Bosnia-Herzegovina has plunged into civil war after U.N. envoy Cyrus Vance failed in a bid to halt the fighting. (Photo credit should read AFP/Getty Images)

Srebrenica. Tutti ne avete sentito parlare. Persino negare. Ma negare cosa? Srebrenica: 11-21 luglio 1995. Il genocidio. L’urbicidio. Le fosse comuni e gli stupri di massa, figli deformi di una malattia chiamata pulizia etnica. Srebrenica. L’angoscia. Il dolore. La disperazione. L’abbandono. Il tanfo dell’impunità. L’incredulità. L’impotenza per la mancata giustizia. La paura. Srebrenica. La fine. Il compimento di un processo. Il cui inizio è stato in una terra però vicina, in una città edificata mezzo millennio or sono nella medesima valle. Quella, fertile e struggente, del fiume Drina. Ecco, allora, quel nome che per molti è giusto un’eco lontana, un ricordo svanito. Un nome difficile. Ma non abbastanza per poter essere rimosso. Višegrad. Maggio del 1992. A Srebrenica piovevano le prime cannonate, la città cadeva, veniva ripresa e assisteva ai primi atti di un lungo assedio conclusosi in ecatombe. In genocidio. A Višegrad, la nera signora raccoglieva in grande copia il primo tributo di sangue sull’altare oscuro del nazionalismo serbo-bosniaco e serbo. Del fascismo riaffacciatosi in Europa con la falce e il martello tramutati in svastica e in simboli četnici bagnati di sangue. Chi non crede s’informi. Chi non crede, parta e vada a toccare con mano. A Višegrad accade tutto all’alba del conflitto del 1992-1995, quello dell’aggressione armata serbo-bosniaca al neo-nato Stato della Bosnia Erzegovina. Nella municipalità risiedevano 21.199 cittadini. Il 62,8% della popolazione apparteneva al gruppo nazionale musulmano-bosniaco, il 32,8% a quello serbo-bosniaco; poi c’erano quelli classificati come “altri” dall’ultimo censimento jugoslavo, quello del 1991. Un’enclave a maggioranza musulmana in un territorio, quello della Repubblica serba di Bosnia (Rs), a larga maggioranza serbo-bosniaca. Come a Srebrenica.

Alla fine di aprile del 1992 Višegrad è saldamente nelle mani dei militari ex-jugoslavi del Corpo di Ušice, mandati dalla Serbia per prendere la città e predisporre tutto affinché si compia il primo spietato esperimento di pulizia etnica. Nei giorni della caduta (databili tra il 6 e il 13 aprile 1992), circa 13mila musulmani-bosniaci riescono a lasciare Višegrad e a rifugiarsi dove possono. Una volta assicuratosi il controllo della città, i media controllati dalla propaganda di Pale diffondono la notizia che chi vuole può tornare. Nessuno dei musulmani risponde all’appello. Allora scatta la minaccia: chi non torna perderà il lavoro, i campi, le bestie, la casa, tutto. In migliaia si lasciano convincere. Il 19 maggio 1992 il Corpo di Ušice si ritira e lascia la città nelle mani delle Aquile bianche, sanguinari paramilitari comandati da due cugini, Milan e Sredoje Lukić. La polizia e i comuni cittadini trasformatisi in persecutori lanciano una campagna di pulizia etnica senza quartiere ai danni dei non-serbi. Alla fine, almeno tremila persone saranno ammazzate. Non passa giorno in cui villaggi non siano attaccati; in cui a Višegrad e nei dintorni uomini, donne e bambini non siano vittime delle peggiori violenze, fino alla morte. Torture, stupri di donne e bambine, violenze sessuali di gruppo, come nel famigerato hotel termale Vilina Vlas (Capelli di fata), saccheggio, minacce, sparizioni forzate, esecuzioni sommarie, omicidi di massa, roghi di esseri umani rappresentano la quotidianità fino a tutta l’estate e la “normalità” fino almeno all’inizio di ottobre del 1994. Višegrad diventa l’inferno in terra. Višegrad si trasforma nella prima attuazione sul campo della pulizia etnica. È nel giugno del 1992 che i cugini Lukić giocano le loro carte più sporche.

Il 14 giugno 1992, Vivovdan, festa cara ai serbi che ricorda il martirio di San Vito nel 303 dopo Cristo, a Višegrad circa 70 persone – rastrellate soprattutto nel villaggio di Koritnik, principalmente donne, bambini e anziani – vengono picchiate, violentate e derubate, quindi rinchiuse nella cantina di una casa di Pioniriska ulica, una via non centrale. L’abitazione, oggi restaurata, è di proprietà di un musulmano, Adem Omeragić. Milan e Sredoje Lukić, Mitar Vasiljević e i loro paramilitari tirano una granata in casa attraverso una finestra. Poi Milan Lukić appicca il fuoco gettando dentro la casa un ordigno incendiario. Le fiamme salgono alte e non si affievoliscono prima di ore, alimentate con la benzina attraverso un buco precedentemente aperto nel solaio del piano superiore. Quel foro è ancora lì. Nel rogo muoiono almeno 55 civili (secondo alcune fonti, fino a 60), oggi ricordati da una targa apposta su una parete esterna della casa, contro la volontà dell’amministrazione comunale ultranazionalista in carica. La vittima più anziana ha 75 anni, la più giovane è una bimba di soli due giorni di vita. Tra le fiamme ardono i corpi di un’intera famiglia di 46, forse 48 persone. La famiglia Kurspahić. Tra i morti ci sarebbero 17 bambini con meno di 14 anni d’età. Alcune vittime riescono a fuggire approfittando del fumo, non viste dagli aguzzini. Altre, invece, vengono ammazzate a colpi d’arma da fuoco. A sparare è soprattutto Milan Lukić, nome in codice Lucifero al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi).

Nella stessa giornata, una cinquantina di uomini viene fatta salire a bordo di mezzi civili con destinazione Tuzla. Lungo la strada i mezzi vengono intercettati dai militari dell’esercito della Rs. I prigionieri sono costretti a salire su un autobus e vengono portati a Rogatica, vicino Višegrad, dove passano la notte. Da qui la mattina del 15 giugno vengono fatti proseguire fino a una piccola località chiamata Paklenik, in prossimità della gola di Propast. Tutti vengono uccisi, tranne Ferid Spahić, che diventerà un testimone chiave. I resti dei morti vengono recuperati solo nel Duemila. Il 18 giugno 1992 a Višegrad i paramilitari uccidono 22 persone. Alcuni corpi vengono dilaniati con i coltelli, altri legati alle automobili e trascinati per le vie; bambini vengono gettati dal ponte vecchio, il Mehemed Paše Sokolovića most, e uccisi a colpi d’arma da fuoco prima che tocchino l’acqua, come in un tiro al bersaglio dell’orrore. Un ispettore della polizia di Višegrad riceve una comunicazione dal direttore della diga sulla Drina di Bajina Bašta, in Serbia: «Chiedo a tutti i responsabili di rallentare il flusso dei corpi che galleggiano lungo il fiume perché inceppano le turbine della diga…», dice l’uomo. Gli occhi azzurri della Drina per mesi si sono trasformati in un lago rosso sangue, la più grande fossa comune liquida di quella guerra. Il 25 giugno 1992 vengono rastrellati centinaia di cittadini musulmani-bosniaci di Višegrad; sono costretti a firmare una dichiarazione nella quale attestano d’essere stati trattati bene dai paramilitari serbo-bosniaci. Vengono fatti salire su autobus con destinazione Macedonia e deportati in massa. Alcuni sono fatti scendere dopo pochi chilometri e uccisi davanti a tutti, per divertimento o a titolo dimostrativo. I superstiti, arrivati alla frontiera macedone, vengono abbandonati – umiliati e maltrattati – in una terra di nessuno senza né cibo né acqua.

Il 27 giugno 1992 a Bikavac, un quartiere periferico di Višegrad, i cugini Lukić rinchiudono in una casa altri 70 musulmani, tra cui dei neonati. Poi appiccano le fiamme col sistema di Pioniriska ulica. Secondo alcune fonti, tutti sarebbero arsi vivi; secondo altre fonti, le vittime sarebbero state almeno 60. Nello stesso giorno si ha notizia di almeno cinque donne trasferite nell’hotel termale Vilina Vlas, trasformato in bordello, dove le prigioniere sono violentate per giorni dai paramilitari e dai loro fiancheggiatori. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al Vilina Vlas sono state detenute e maltrattate circa duecento donne. Alcune si sono suicidate. La maggior parte sono state uccise o sono scomparse. Ma il Vilina Vlas non è rimasto chiuso neppure per un giorno al pubblico. Tutto questo mentre da quest’altra parte dell’Adriatico, esattamente 26 anni fa, ci si preparava per andare in ferie.

L’articolo di Luca Leone è tratto da Left in edicola


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Aborto, le leggi che mancano o che sono sotto attacco nel mondo. Come in Italia e negli Usa

epa06862690 Dozens rally to support the legalization of abortion at the Congress Square, in Buenos Aires, Argentina, 03 July 2018. Three Argentinian Senate commissions started to analyze the bill to legalize abortion after it was passed at the Lower Chamber. EPA/David Fernandez

The World’s Abortion Laws è un progetto sviluppato e messo in rete dal Center for reproductive rights sin dal 1998. Consiste in una mappa interattiva dove i Paesi del mondo sono contrassegnati con un colore, che varia dal rosso, all’arancione, al giallo o al verde, in base a quanto sono restrittive le leggi in merito all’interruzione volontaria di gravidanza. Nella pagina in cui viene spiegato il progetto, il Centro scrive che «Un aborto sicuro e legale è un diritto umano della donna». Una precisazione più che mai necessaria, visto che molti Stati del mondo adottano ancora una legislazione estremamente restrittiva, fino ad alcuni Paesi in cui l’Ivg non viene ammessa nemmeno in caso di pericolo di vita della donna. Che la legge manchi del tutto o sia stata abrogata, le lotte per veder riconosciuto un proprio diritto fondamentale sono ancora in piedi. Dalle statistiche risulta infatti che il 25% della popolazione mondiale viva in Paesi che sono colorati di rosso sulla mappa.


La mappa del Center for riproduttive rights: in rosso i Paesi in cui l’aborto è vietato

A questo proposito, sono giorni importanti quelli che stanno attraversando i democraticissimi Stati Uniti d’America: dopo lo scandalo dei minori migranti separati dalle proprie famiglie appena passato il confine, un altro pericolo potrebbe concretizzarsi. Lunedì 9 luglio, il presidente Trump ha scelto come nuovo giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh in sostituzione del dimissionario Anthony Kennedy. Kavanaugh è apertamente conservatore, con posizioni ambigue sul diritto alla Ivg e sulla legittimità della Roe v. Wade, il pronunciamento del 1973 che ha spostato la giurisdizione in merito dal livello statale a quello federale, dando come supporto una interpretazione estensiva del XIV emendamento della Costituzione, quello che riguarda (in parte) la definizione dei diritti civili. Se la sua nomina venisse ratificata dal Congresso, ciò comporterebbe non soltanto la cementificazione della maggioranza conservatrice tra i giudici della Corte suprema, ma anche uno spiraglio di possibilità per gli antiabortisti di vedere abolita la legge che impedisce ai singoli Stati di emanare ed utilizzare leggi più severe in merito alla Ivg. Una possibilità, questa, non così irreale: risale allo scorso maggio il tentativo dello Iowa di anticipare il limite di tempo che sancisce la legalità della procedura intorno alle 6 settimane di gestazione, un periodo in cui spesso la donna in questione non sa neppure di essere incinta. Il movimento prolife dell’Iowa spera che questa legge, che dovrà essere discussa e approvata dalla Corte suprema, rappresenti la scusa necessaria per abolire definitivamente la Roe v. Wade.

Un caso ancora più eclatante è quello riguardante il Nicaragua, segnato in rosso sulla mappa del Center for reproductive rights con la segnalazione di “legge abrogata”. Nel 2007, infatti, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) ha votato per l’eliminazione della legge precedente, sotto espressa richiesta del neo-rieletto presidente Daniel Ortega. La stampa ha portato in evidenza un diretto coinvolgimento del cardinal Miguel Obando y Bravo, il quale avrebbe barattato una fetta consistente di voti a favore di Ortega in cambio dell’abrogazione della legge sull’aborto terapeutico non appena fosse entrato in carica. Una mossa che ha suscitato indignazione anche nelle fila degli intellettuali nicaraguensi, come ad esempio Gioconda Belli, famosa scrittrice e nota militante sandinista, la quale pur non rinnegando le proprie convinzioni ha deciso di prendere le distanze da un Fsln che viene considerato sotto il controllo di Ortega e sua moglie, l’ennesima coppia-holding della storia della politica.

Sarebbe semplice, tuttavia, relegare il problema ad aree del mondo lontane e che spesso vengono considerate arretrare. La vicinissima Irlanda è stata teatro, lo scorso 25 maggio, di un referendum in cui veniva chiesto alla popolazione se era favorevole o contraria all’abrogazione dell’ottavo articolo della Costituzione, il quale determina che l’Ivg è legale soltanto in casi di pericolo di vita per la madre. Il 66.4% ha votato per l’abrogazione di “The 8th”, con 3.3 milioni di votanti in 6500 seggi.

Il problema, tuttavia, non è soltanto l’esistenza o meno di una legge che permetta allo Stato di essere colorato di verde sulla mappa del Center for reproductive rights, ma l’effettiva possibilità di accedere alla pratica. Molto spesso, infatti, una lunga e contorta burocrazia, moduli estremamente complessi o procedure che richiedono consensi di terzi allungano l’attesa, rendendo difficile esercitare il proprio diritto nei tempi e nei modi previsti dalla legge. The World’s Abortion Laws cita il caso della Polonia, che è stata più volte richiamata perché non stava rispettando i criteri minimi di accessibilità all’Ivg, oppure del Nepal, che imponeva costi elevatissimi per sottoporsi all’aborto terapeutico, rendendolo quindi un privilegio per pochissime. Anche nella più che vicina Italia, accedere all’Ivg, regolamentata dalla legge 194, è diventato sempre più difficile a causa del moltiplicarsi dei ginecologi obiettori di coscienza negli ospedali pubblici. Una situazione non regolamentata, che spesso fa sì che in alcune strutture non sia presente neanche un medico non obiettore, comportando a volte la necessità di dover cambiare regione o addirittura Paese per procedere alla Ivg.

 

Giuseppe Conte, un’ombra sul vetro

Il presidente del consiglio incaricato Giuseppe Conte affacciato ad una finestra durante un incontro con i vertici del M5s dopo aver rimesso il mandato da premier al Quirinale, Roma, 27 maggio 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Di lui si ricorda la pizza, ovviamente nella pizzeria abituale per non turbare i dettami della sobrietà prêt-à-porter, consumata con i suoi amici abituali, all’ora abituale e con l’abituale sorriso d’ordinanza, nei giorni in cui è diventato presidente del Consiglio. Poi c’è stato il claim, indovinatissimo, in cui ci comunicava di essere l’avvocato di tutti gli italiani. E tutti a dire che bello, evviva, come se fosse mai esistito un presidente che prometteva di impoverirci o di farci soffrire per un quinquennio.

Poi c’è stato l’incontro con gli altri Paesi europei: un tale successo che alla fine lo stesso Salvini ha dubitato dell’efficacia (ovviamente esprimendo i propri timori su tutte le televisioni del globo, per quella vecchia storia dell’alleato che si rafforza sulle macerie degli altri).

Ma ciò che stupisce già di tutto del premier Conte è la trasparenza, intesa non come vorrebbe il feticcio degli ultimi anni (il famoso tutto in streaming che si è involuto in monologhi via social in cui l’unica interazione consiste nel mettere un mi piace o un cuoricino): è una trasparenza che rasenta l’invisibilità. Giuseppe Conte non esiste. Non c’è sulle prime pagine dei quotidiani nazionali (un caso di mimetismo che andrebbe studiato nelle più evolute scuole militari), non rientra nei discorsi della gente (se non per i complimenti al suo aspetto fisico o la fiducia che ispira a pelle che è una delle analisi più profonde sul suo conto), non viene citato dai ministri (se non nelle frasi preconfezionate tipo “ne ho parlato con Conte”o “anche Conte è d’accordo” che ormai valgono quanto un “non ci sono più le mezze stagioni”), non rilascia interviste che non siano lo scendiletto dei suoi due vicepremier, non inciampa, non starnutisce, non sbaglia nemmeno un congiuntivo.

Al presidente del Consiglio, in quanto capo dell’esecutivo, la Carta costituzionale conferisce un’autonoma rilevanza, facendone il centro nevralgico dell’intera attività del governo: egli, infatti, ne dirige la politica generale e ne è il responsabile, mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuove e coordina l’attività dei ministri.

Giuseppe Conte invece è un’ombra. Ma nemmeno una di quelle ombre che condizionano, vigilano e appaiono sullo sfondo: è il riflesso su un vetro. Gentiloni in confronto sembra Beyoncé. E forse sarebbe il caso di chiedergli di dire qualcosa, di indicarci quale sia la posizione del governo nelle dispute di Tria contro Di Maio, Di Maio contro Salvini, Salvini contro Moavero Milanesi, Salvini contro  Trenta. Dovrebbe indicarci tempi e modi di attuazione del contratto (e se qualcosa è cambiato). Dovrebbe fare il presidente del Consiglio, insomma. Perché così, più che l’avvocato degli italiani, sembra un corazziere senza uniforme. Batta un colpo, presidente.

Buon mercoledì.