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Riders, il modello spagnolo ottiene un’altra vittoria contro Deliveroo. E in Italia?

No, i riders non sono lavoratori autonomi. Almeno a Barcellona. Il cerchio degli ispettori del lavoro nello Stato spagnolo continua a stringersi attorno a Deliveroo e al suo modello di lavoro. Dopo i casi di Valencia e Madrid in cui un giudice ha stabilito che la qualifica dei rider di Deliveroo «nasconde in realtà un rapporto di lavoro dipendente», ora è a Barcellona che sono state raccolte un numero record di denunce da parte dei riders che la nota piattaforma insiste a considerare fornitori di servizi ma che per gli ispettori non sono altro che falsi lavoratori autonomi che dovrebbero essere assunti e trattati come dipendenti. Pertanto, la Jefatura de la Inspección de Trabajo y Seguridad Social de Barcelona ne ha disposto l’assunzione e il ricalcolo dei contributi previdenziali con una sovrattassa del 20% che, per centinaia di lavoratori, porta a un conto da 1.317.675,71 euro presentato al locale concessionario di Deliveroo, Roofood LDT, per il lavoro svolto da diversi gruppi di riders tra l’agosto 2015 e dicembre 2017. La società ha 15 giorni per presentare reclami.

Vista da qui, il dato più interessante di questa vicenda è «la motivazione per la quale il fatto che i fattorini non siano liberi di gestire il proprio tempo costituisce un indicatore di subordinazione», spiega a Left, Marco Marrone, sociologo del lavoro all’Università di Venezia e anche attivista di Riders Union Bologna, uno dei quattro collettivi auto organizzati che si battono per il riconoscimento dei diritti dei fattorini delle piattaforme della gig economy.

Deliveroo, fondata a Londra nel 2013, da Will Shu, ex fattorino americano di 34 anni, è in cima alla classifica del Financial Times sulle società europee che sono cresciute di più, oltre il 600%, nell’ultimo anno. Secondo il rapporto degli ispettori del lavoro, rivelato dal quotidiano spagnolo El Pais, dopo aver analizzato dettagliatamente come funziona la società a Barcellona, cosa richiede dai suoi addetti alle consegne e come organizza turni di lavoro o stipendi, Deliveroo mantiene con i lavoratori «normali rapporti di lavoro e non autonomi, il cui inquadramento e contributo deve corrispondere al sistema generale di sicurezza sociale e non al regime speciale dei lavoratori autonomi».

«Tutto ciò è potuto accadere per una leggera differenza tra l’ordinamento di quello Stato e quello italiano – spiega ancora Marrone – in Spagna, infatti, una partita Iva che lavori oltre il 75% del proprio fatturato per un solo committente non è un lavoratore autonomo. E la libertà di rifiutare il servizio, in sostanza, non esiste perché chi lo fa viene penalizzato nelle valutazioni. In Italia, Deliveroo raccomanda ai suoi riders di darsi da fare anche con altre piattaforme».

Adrián Todolí, giuslavorista all’Universitat de València, spiega nel suo blog che la novità della decisione contro Deliveroo – a differenza dei precedenti di Valencia e Madrid, oltre al numero di casi molto elevato di Barcellona – è che boccia anche i contratti più recenti stipulati dalla piattaforma dopo le prime condanne. La dichiarazione rilasciata dalla società indica che il modello di lavoro di Deliveroo offre «la libertà di accettare ordini, la libertà degli orari, il contributo dei mezzi di produzione e l’assunzione del rischio economico della loro attività». Secondo questi punti, ciò determinerebbe che i fattorini sono autonomi. Tuttavia, tale formula non soddisfa l’ispettorato del lavoro, che insiste sul fatto che essi sono lavoratori nel regime ordinario.

I riders possono rifiutare gli ordini che arrivano attraverso l’App. Deliveroo, ma il loro comportamento viene preso in considerazione nelle valutazioni da parte della società, «il rifiuto di eseguire i servizi ha conseguenze negative per il corriere», si legge nella sentenza. Tutte le operazioni di distribuzione sono seguite dal sistema di geolocalizzazione da parte dei servizi operativi della società che prende il controllo dei tempi in ciascuna operazione, dati che fanno parte della metrica di ciascuno dei riders. Ogni due settimane, l’azienda prepara le fatture di tutti i fattorini e le invia individualmente a ciascuno via e-mail. Gli elementi della retribuzione, l’Iva e, ove applicabile, gli sconti applicati sono suddivisi in tali voci. E i prezzi sono standardizzati e fissati unilateralmente dalla società senza avere un rapporto diretto con il prezzo del servizio di consegna addebitato da Deliveroo ai suoi clienti. Il rapporto dell’Ispettorato conclude – dopo aver analizzato il sistema di lavoro di Deliveroo, la sua documentazione, i contratti e le interviste con i lavoratori e i rappresentanti della società – che i distributori non soddisfano i requisiti per essere considerati come lavoratori autonomi.

È l’azienda, viene scritto, «che organizza esclusivamente e nella sua interezza la fornitura del servizio di consegna cibo, contrattando con fornitori e consumatori, controllando l’accesso alla sua piattaforma da parte di consumatori, distributori e ristoranti o distributori alimentari, aggiudicando la prestazione dei servizi di distribuzione e controllando l’effettiva prestazione del servizio che forniscono e che costituisce la sua attività commerciale».

«Il contrario di quanto accaduto a Torino – continua Marrone che, lo scorso 2 luglio, era al tavolo chiamato dal ministro Di Maio con sindacati e datori di lavoro – dove il giudice ha emesso una sentenza sfavorevole ai riders in base a un’interpretazione strettissima, escludendo anche l’articolo 2 del jobs act sulla “collaborazione etero-organizzata” previsto per i lavoratori che non sono inquadrabili in un CCNL. Quello che a Barcellona è una limitazione alla libertà di rifiuto, a Torino è solo un'”esigenza di coordinamento” per compiti che non sono organizzati “nei tempi e nei luoghi”. Vedremo se l’orientamento verrà confermato in appello».

«L’Italia è il Paese che ha inventato il concetto di lavoro subordinato – ricorda il sociologo – il primo saggio risale al 1901, in Francia se ne parlerà solo due anni dopo. E oggi è il Paese che più fatica a riconoscere i diritti di quei lavoratori; la Spagna che l’Ocse considera ancora meno rigida dell’Italia riesce a difendere quel principio».

Qui da noi, intanto, i lavoratori sono in attesa della prossima riunione del tavolo convocato dal governo. Il primo incontro, otto giorni fa, è servito per il posizionamento delle parti: l’estremismo padronale delle piattaforme e di Confindustria che puntano a normalizzare l’esistente, la disponibilità di Cisl e Uil ad accordi al ribasso e la tendenza del governo a cercare di costruire un contratto nazionale, soluzione con un livello di rischio per i riders anche perché le piattaforme non hanno associazione datoriale (come Fca di Marchionne che è uscita da Federmeccanica). Nemmeno 48 ore dopo il tavolo, a Bologna un rider di Glovo è stato disconnesso, ovvero licenziato, per essere stato fotografato durante un volantinaggio. Con buona pace della bozza del Decreto Dignità che aveva addirittura l’ambizione di eliminare ogni ambiguità del concetto di parasubordinazione modificando la definizione stessa del lavoro subordinato in «qualsiasi lavoro a beneficio di qualcun altro».

«L’obiettivo che ci siamo prefissati è chiaro – ricorda il collettivo auto organizzato bolognese – raggiungere un accordo che realizzi miglioramenti concreti per tutti i riders d’Italia. Per questo siamo partiti dalla richiesta di estensione della subordinazione ai riders come riconoscimento di piene tutele. Siamo consapevoli che sarà una trattativa complicata, in cui le piattaforme, pur costrette a sedersi ad un tavolo di confronto con i lavoratori, appaiono determinate a mantenere intatto business as usual. Siamo anche consapevoli che nelle nostre vite nulla cambierà finché saremo costretti a vivere nel ricatto dei continui lavoretti e che, pur se oggi torniamo a casa con in tasca un’opportunità di allentare la morsa del ricatto, si tratta solo di una goccia nel mare di ingiustizia prodotto in questi anni da chi sfrutta il lavoro e da governi di ogni colore. A tutto ciò risponderemo con l’unica modalità in grado di dare dignità ai lavoratori: moltiplicare le esperienze di autorganizzazione e generalizzare la lotta. Ci aspettano giornate intense e trattative difficili, convinti che è solo l’inizio, perché i diritti o sono per tutti o sono per nessuno».

Un monte ore garantito – recita la loro piattaforma – un salario minimo, copertura assicurativa piena per infortunio e malattia, contributi previdenziali, divieto del cottimo (in tutte le forme), abolizione di meccanismi di ranking e diritti sindacali. Ufficialmente quella bozza del decreto è in stand by ma nelle ultime ore non se ne parla più, si fa strada l’ipotesi di un intervento per legge nel quale la Lega e i partiti filo padronali potranno snaturare il tentativo di Di Maio di contendere la scena a Salvini.

Di decreto dignità si potrà leggere anche nel prossimo numero di Left, in edicola da venerdì 13 luglio, con interviste a Eliana Como, portavoce della minoranza Cgil, e ad alcuni delegati metalmeccanici.

La scienza e l’Europa nel Novecento segnato da Einstein. Un viaggio che spiega il presente

La scienza e l’Europa. Il primo Novecento è il nuovo libro di Pietro Greco – di cui pubblichiamo la premessa – appena uscito per L’Asino d’oro edizioni. È il quarto volume di una serie dedicata alla storia della scienza e della ricerca, sin dalle origini, intrecciata con quella dell’Europa. Un viaggio affascinante nel passato che è anche una efficace chiave di comprensione del presente. 

 

Il 10 dicembre 1932 Albert Einstein si imbarca sul piroscafo Oakland dal porto tedesco di Bremerhaven, sul Mare del Nord, per raggiungere gli Stati Uniti d’America. Lo scienziato più famoso del mondo e forse di ogni
tempo – il ‘papa’ della fisica – lascia l’Europa. Non vi metterà più piede. Meno di due mesi dopo, il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler assume il potere a Berlino. In dodici anni porterà a compimento, fino alle più tragiche conseguenze, la grande crisi del Vecchio continente, che si consuma anche con la – e a causa della – sostanziale rottura del rapporto secolare e ormai quasi monopolistico tra la scienza e l’Europa.
Sì, il Novecento è il secolo della grande crisi europea. Tutto cambia, nel continente. Radicalmente. Tragicamente.
La crisi si consuma soprattutto all’inizio del secolo. Con una serie di rivoluzioni culturali che hanno rari precedenti nella storia per creatività e radicalità. L’arte, la letteratura, la filosofia, la scienza conoscono tutte un
processo di cambiamento che è giusto definire, appunto, rivoluzionario. Tutte propongono un modo nuovo di guardare al mondo e a noi stessi. Picasso, Joyce, Russell, Einstein diventano le icone di questa inedita transizione.
Nei primi decenni del XX secolo la cultura europea raggiunge un apice. Forse il più alto della sua storia.
Ma la crisi di inizio Novecento non è solo culturale. Non libera solo la creatività spesso gioiosa degli uomini di cultura europei. È anche una crisi sociale e politica. L’Europa percorre fino in fondo il sentiero di una lunga
guerra civile – che comincia prima del 28 giugno 1914 (attentato di Sarajevo e inizio della prima guerra mondiale) e termina dopo l’8 maggio 1945 con la resa incondizionata della Germania agli Alleati – che la porta a perdere non solo la sua leadership nel mondo, ma anche la sua identità e persino la sua umanità.
Dopo la grande crisi della prima metà del Novecento, a guidare il mondo saranno paesi di altri continenti.
La tesi che proponiamo in questo quarto libro della serie La scienza e l’Europa è che il piccolo continente che ha assunto la guida del mondo non riesce a gestire i frutti dello straordinario sviluppo scientifico che ha
realizzato tra il Seicento e l’Ottocento. E passa la mano. La crisi dell’Europa è anche e soprattutto la crisi del suo rapporto con la scienza. La partenza definitiva di Einstein cinquanta giorni prima dell’ascesa al potere di Hitler è la metafora e insieme uno dei punti di svolta reali della rottura inevitabile tra la scienza e l’Europa. Una rottura che, per paradosso, si consuma proprio mentre la ricerca scientifica raggiunge nelle università e nei centri di ricerca del continente un picco (forse il suo massimo picco) di creatività. Einstein che si trasferisce a Princeton è il segnale più forte che la grande crisi sociale e politica del Vecchio continente sta facendo spostare l’asse
scientifico del mondo dall’Europa agli Stati Uniti d’America. La grande crisi che genera la lunga guerra civile europea della prima parte del XX secolo non è un fulmine a ciel sereno. Affonda le sue radici nell’Ottocento. Nelle trasformazioni culturali, tecnologiche ed economiche che hanno cambiato, letteralmente, il volto dell’Europa. Trasformazioni che hanno avuto la loro più rapida e radicale espressione in Germania.
La grande crisi europea del Novecento è, nel bene (la nuova rivoluzione scientifica e più in generale culturale) e nel male (il nazismo), anche e soprattutto la grande crisi della Germania. È infatti proprio la Germania – che da una costellazione di Stati tutto sommato arretrati si è trasformata in una nazione unita e all’avanguardia – l’epicentro della crisi che frantuma l’Europa in molte dimensioni. In quella degli Stati nazionali, portando a due guerre in cui la Germania si contrappone alla quasi totalità del resto d’Europa.
Ma la frammentazione è anche all’interno dei singoli Stati. Tra classi sociali. La crisi tedesca, in particolare, è una crisi che, mentre l’economia cresce e il volto del paese cambia, non riesce a comporre un equilibrio tra le varie componenti della società e determina una lunga ‘guerra interna’. Il conflitto di classe e il conflitto tra le nazioni in Europa si saldano in qualche modo con la nascita dell’Unione Sovietica. Mentre la guerra interna tra le varie componenti della società – in Germania, ma non solo in Germania – assume le vesti della discriminazione razziale e si consuma tragicamente nell’olocausto, con lo sterminio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali, dei disabili da parte dei nazisti tedeschi ma anche di molti regimi fascisti di altri paesi europei.
In sintesi, la scienza ha consentito all’Europa uno sviluppo senza precedenti. Nell’Ottocento le differenze tecnologiche ed economiche indotte dalla ricerca scientifica tra il piccolo continente e il resto del mondo sono
diventate enormi, per certi versi clamorose. Ma lo sviluppo ha generato anche una dinamica sociale che ha stentato a trovare un equilibrio. E anzi è divenuta tensione perenne che nel 1914 e poi ancora nel 1939 si è trasformata in conflitto armato.
L’Europa non ha saputo governare i frutti del suo rapporto privilegiato con la scienza. E così, nella prima parte del XX secolo, quel rapporto si rompe. Prima ancora che Hitler salga al potere, Einstein si trasferisce in America.
L’asse scientifico – e quindi economico e tecnologico del mondo – si è definitivamente spostato.

Pregiudizi e razzismo si vincono tra i banchi di scuola

Il naufragio dei migranti, con 11 vittime, bimbi e donne morte, decine forse centinaia di dispersi è il tema centrale oggi nelle scuole di Lampedusa dove 186 bimbi frequentano le classi dell'infanzia, 340 le elementari, 210 le medie e 260 il liceo scientifico, oltre ai 52 scolari e studenti della piccola Linosa. Gli alunni delle elementari hanno raccontato con scritti e disegni la tragedia. Nelle scene realizzate da bambini di 6 o 10 anni c'è la barca carica di somali ed eritrei con le fiamme sul ponte, le bare con le vittime disposte nell'hangar blu, il mare da cui spuntano le braccia di chi chiede aiuto. Oscar, 11 anni, che frequenta la quinta elementare ha disegnato nuvole che ''piangono lacrime di sangue'' e il sole ha la faccia gialla triste perché - dice il bambino - ''qui da noi a Lampedusa il sole normalmente è sempre contento'', 5 ottobre 2013. ANSA

Nella bellissima canzone “Non insegnate ai bambini”, uscita postuma nel 2003, Giorgio Gaber ammoniva profetico: «Non insegnate la vostra morale è così stanca e malata potrebbe far male/ forse una grave imprudenza è lasciarli in balia di una falsa coscienza».
La lezione del Signor G purtroppo sembra oramai solo un flebile brusio nelle orecchie distratte della maggioranza degli adulti. Prima a Riccione poi a Rimini dei bimbi di colore, secondo quanto riportano le cronache dei giornali, sono stati allontanati e insultati da altri bambini per il colore della pelle. Gli stereotipi e i pregiudizi hanno sporcato di una violenza più grande di loro i piccoli protagonisti di questi brutti episodi. Eppure, anche in questo mare magnum di disumanità, ci sono dei segnali di confortante speranza.
«Gli stereotipi non sono innati. Sono trasmessi dalla famiglia, dall’ambiente culturale e sociale con vari mezzi. Abbondano nel linguaggio comune e traspaiono anche nelle informazioni che riceviamo dal mondo dei mass media. E dato che gli stereotipi sono aspettative che possono influenzare i nostri comportamenti, costituiscono la base sopra cui si costruiscono pregiudizi, discriminazione e razzismo». Renata Toninato è un’insegnante di scuola media primaria del Veneto, e dal 1988 collabora con Amnesty International Italia dedicandosi all’educazione e ai diritti dei minori. Ha curato un “percorso didattico contro la discriminazione” nel quale indica gli strumenti più idonei da utilizzare nelle scuole per smontare le false conoscenze e sviluppare al contrario la coscienza critica nei ragazzi.
«Gli stereotipi sono delle immagini semplificate, delle scorciatoie che usiamo per comprendere l’infinita complessità del mondo esterno e sono condivise dal gruppo che le ha prodotte.
In questo modo assolvono diverse funzioni: di coesione e difesa del gruppo (ad esempio gli stereotipi nazionali o etnici), di “conoscenza preconfezionata” e spiegazione della società. In realtà, proprio per la loro semplificazione e per mancanza di verifica, questi diventano una “non conoscenza” ed un ostacolo alla reale conoscenza di ciò che ci circonda». Per Toninato è quindi fondamentale che gli insegnanti lavorino per sviluppare il senso critico degli alunni perché «i ragazzi non possiedono i filtri necessari per verificare la veridicità o meno di quello che sentono, vedono o leggono, soprattutto sui social. Gli alunni di oggi hanno infatti strumenti di relazione che noi non avevamo, e questo può mettere in difficoltà gli adulti. In realtà è sufficiente utilizzare strategie mirate, come le metodologie partecipative e i giochi di ruolo, e anche noi adulti possiamo beneficiare di una crescita umana e professionale insieme a loro».
Nel corso della sua lunga esperienza di insegnante, Toninato ha potuto notare come il lavoro paziente e coinvolgente con gli alunni sia stato sempre ripagato: «È giusto non generalizzare sulla generazione attuale degli adolescenti. Accanto a situazioni di sospetto e di rifiuto dell’altro, sempre veicolate dall’esterno, abbiamo raccolto riflessioni molto profonde da parte dei ragazzi. Per questo ritengo non siano da ingrandire gli episodi di Rimini e Riccione. Sono sicuramente dei segnali sui quali dobbiamo interrogarci e ai quali prestare attenzione. È necessario però ragionare su cosa dobbiamo fare noi adulti per i nostri ragazzi. Noi come insegnanti, e i genitori come genitori».
Intanto a Firenze, fatta salva la centralità della scuola nel processo di formazione dei ragazzi, si tenta anche un esperimento educativo “dal basso”: il 4 luglio è nata ufficialmente l’associazione Global friends, che promuove corrispondenze epistolari tra bambini che vivono a latitudini diverse. Un progetto per favorire la conoscenza reciproca tra i bambini del Nord e del Sud del mondo.
«L’intento è quello di una “auto-educazione alla diversità dal basso”, un’educazione alla multiculturalità non filtrata dagli adulti, dove sono gli stessi bambini ad essere parte attiva dell’insegnamento e dell’educazione attraverso la reciproca scoperta, la conoscenza dell’altro e lo scambio di parole. Nell’epoca dei pregiudizi – precisa Jacopo Storni, giornalista e scrittore, e presidente dell’associazione – vogliamo seminare conoscenza, nell’epoca dei muri vogliamo seminare ponti culturali mettendo in relazione coloro che sono i migliori maestri di vita, i bambini, gli adulti del mondo di domani».
Global Friends ha alle spalle già due anni di attività pilota, nel corso dei quali sono state messe in contatto, sempre attraverso corrispondenze individuali, quattro classi di scuola elementare di Firenze con altrettante classi in quattro luoghi diversi: Mozambico, Brasile, Sahara Occidentale, Senegal.
«L’obiettivo dell’associazione è adesso quello di ampliare la propria attività e coinvolgere altri alunni, altre classi e altre scuole in Italia e nel Sud del mondo. Attraverso queste corrispondenze epistolari – conclude Storni- i bambini imparano a conoscere i loro coetanei che vivono in altri luoghi della terra, a guardare il pianeta e vederlo intero». Un’educazione che, leggendo la cronaca quotidiana, sarebbe d’aiuto anche a molti adulti.

E intanto i Casamonica casamonicano

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini fa un bagno nella piscina durante una visita nell'azienda agricola confiscata nel 2007 alla mafia, a Suvignano (Siena), 3 luglio 2018. ANSA/FABIO DI PIETRO

Come racconta la brava Floriana Bulfon su Repubblica il ritorno a casa del capo clan dei Casamonica Giuseppe (che ha scontato una condanna per traffico di cocaina mica in carcere ma in una più accogliente comunità di recupero in controtendenza con i piccoli spacciatori che invece il carcere se lo fanno per davvero) ha segnato nel giro di poche ore la piena ripresa in possesso della sua zone, Romanina, istituendo una zona franca in cui è impossibile accedere.

Scrive Bulfon: «Davanti alla villa di Giuseppe Casamonica tre giovani con i muscoli in bella vista controllano ogni movimento. Se si prova a domandare, una donna interviene e blocca tutti con lo sguardo. È Liliana, la sorella più grande di Giuseppe. “Non te lo posso dire se è qui, capisci?”, si fa incontro quasi gentile. Lei – arrestata per aver segregato l’ex cognata minacciando di sfregiarla con l’acido e di portarle via i piccoli – gira le spalle ed entra nella casa del dirimpettaio. Sul muro c’è un cartello attaccato con lo scotch: “Ottavio Spada suonare qui”».

Si potrebbe dire che hanno chiuso i porti nel bel mezzo della capitale d’Italia dal loro vicolo Porta Furba fino al Roxy Bar, quello diventato tristemente famoso (ovviamente non più di qualche ora) per il pestaggio che Antonino Casamonica ha inflitto al proprietario come esibizione del proprio potere.

Uno degli aspetti più svilenti del potere (continuerò a scriverlo, imperterrito) è lo sfoggio di forza contro i deboli a cui non corrisponde mai la stessa intensità con i forti. Forse, piuttosto che lanciarsi in bagni in piscina dentro ville già sequestrate da altri o lanciarsi nella promessa di prendere a bastonate i mafiosi sarebbe il caso di usare il pugno di ferro evitando di regalare pezzi di territorio (e di economia) ai clan che spadroneggiano con la sicumera di uno scafista. E lo fanno qui, senza bisogno di coste, in mezzo alla gente.

Eppure la Storia ci insegna che accade sempre così: chi sfoggia i muscoli per racimolare consenso balbetta di fronte alle prepotenze a cui non bastano gli annunci per essere debellate. La guerra alla mafia si fa con l’amministrazione, la politica, la costruzione di reti sociali, la riappropriazione della fiducia dei territori, un’efficace protezione dei denuncianti, la rivitalizzazione del tessuto urbano e della coscienza pubblica e con un’opera culturale di etica condivisa. Troppo, davvero troppo, per stare semplicemente dentro un tuffo o dentro un tweet.

Buon martedì.

Migranti, Rom, bambini, donne e anziani: così l’Europa viola i loro diritti

Diritti umani: fondamentali, universali, indivisibili, indisponibili, interdipendenti e inviolabili eppure (troppo) spesso oltraggiati, calpestati, non rispettati. Ancora nel 2018. Ancora diciassette anni dopo l’adozione della direttiva europea sull’uguaglianza e contro le discriminazioni razziali – la 2000/43/CE – e nove anni dopo l’adozione della decisione quadro sul razzismo e la xenofobia – 2008/913/GAI -, i diritti umani dei migranti e delle minoranze etniche, per esempio, continuano a essere violati da diffusi fenomeni di discriminazione e molestie. Che rimangono a livelli assai preoccupanti se si considera che, stando alla Relazione sui diritti fondamentali 2018. Pareri dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA), pubblicata l’8 giugno, membri di gruppi di minoranze etniche e i migranti cominciano, anche, a essere oggetto di «profanazione discriminatoria» da parte delle forze dell’ordine.
E, malgrado il numero crescente di accuse di maltrattamenti, raramente vengono intrapresi procedimenti penali – sia per la riluttanza delle vittime (terrorizzate) a sporgere denuncia sia per l’insufficienza di prove – e, dunque, difficilmente si emettono condanne. Funzionari di polizia e guardie di frontiera, nell’ottica (distorta e accecata) di un rafforzamento della sicurezza, profondono sforzi che non fanno altro che aggravare i «preesistenti rischi di violazione dei diritti fondamentali», si legge nella Relazione. Tra i quali, quello alla libertà, tutelato dall’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, sulla cui applicazione interferisce il trattamento illegittimo e arbitrario dei migranti.
Dopo dieci anni dalla (proposta) direttiva sulla parità di trattamento – alla fine dello scorso anno, non ancora adottata – la discriminazione fondata su diversi motivi rimane, tuttora, una realtà nell’intera Unione europea: restrizioni in ambito lavorativo e nei luoghi pubblici, su base etnica, religiosa e culturale continuano a esistere e a interessare, soprattutto, le donne.
Viola il diritto alla non discriminazione, sancito dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, anche l’antiziganismo, presupposto per l’esclusione dei Rom dall’accesso all’istruzione, all’occupazione, all’alloggio e all’assistenza sanitaria. Di fatto, il quadro dell’Unione europea per le Strategie nazionali di integrazione dei Rom non ha ancora sortito «progressi significativi e tangibili»: non basta l’aumento della partecipazione all’istruzione se permane il problema dell’abbandono scolastico e non bastano i miglioramenti nei campi dell’occupazione, dell’alloggio e della salute se violenza e crimini generati dall’odio ne ostacolano il pieno esercizio dei diritti.
E i diritti sociali dei bambini e degli adolescenti alla protezione dalla povertà e all’uguaglianza costituiscono ancora una sfida aperta e concreta nella loro applicazione e nel riconoscimento ai minori migranti: i progressi in questa direzione sono molto limitati e i dati raccolti nella Relazione mostrano una carenza di orientamenti nel senso dell’interesse superiore del bambino. Per esempio, avendo messo a punto poche e insufficienti alternative al trattenimento per ragioni collegate allo stato di migrante.
D’altronde, «un approccio in termini di diritti umani non è in contraddizione con la realtà dei bisogni specifici dell’età; al contrario, consente di rispondere meglio a tali esigenze, inquadrandole, al contempo, in un discorso fondato sui diritti umani», dice la Relazione. Cioè a dire che i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali si applicano a tutti. A prescindere dall’età, e agli anziani compresi. I quali hanno il diritto «di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale». Verso un approccio globale all’invecchiamento (attivo) basato sui diritti fondamentali, il cui godimento è determinato, oltre che dalle condizioni socio-economiche e geografiche, anche dall’appartenenza o meno a una minoranza etnica, dallo stato di migrante, dal genere e dalla disabilità. Condizione, quest’ultima, segnata da lacune attuative in ambiti chiave quali l’accessibilità e la vita indipendente: sebbene, infatti, l’Unione europea e gli Stati membri abbiano compiuto degli sforzi tesi a tradurre nella pratica i diritti denunciati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, la prassi soffre di mancanza di obiettivi chiari, bilanci adeguati e orientamenti operativi. Chissà che quella direttiva sulla parità di trattamento, proposta nel 2008 e che, sulla carta, offrirebbe una protezione completa contro la discriminazione indipendentemente dal sesso, dall’etnia, dalla religione, dall’età, dall’orientamento sessuale e dalla disabilità, trovi piena applicazione negli anni a venire. Il prima possibile.

L’asse Roma-Vienna-Berlino gioca a Risiko sulla pelle dei migranti

Altri 15 migranti sono stati intercettati dal Gruppo Aeronavale della Guardia di Finanza di Cagliari, nell'ambito della missione internazionale Themis 2018 (Frontex), 22 giugno 2018. L'imbarcazione sulla quale si trovavano è stata affiancata da un pattugliatore delle fiamme gialle a largo delle coste del Sud Sardegna. I finanzieri hanno trasferito i migranti a bordo del mezzo navale e li hanno trasportati a Cagliari. ANSA/UFFICIO STAMPA GUARDIA DI FINANZA GRUPPO AERONAVALE CAGLIARI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Non passa lo straniero”. È lo slogan che caratterizzerà il vertice tra i ministri dell’Interno austriaco, italiano e tedesco, in programma a Innsbruck il 12 luglio, per discutere il coordinamento delle misure volte a chiudere il più possibile le frontiere ai migranti. «Non vogliamo che le decisioni prese dalla Germania, in tema di immigrazione, si ripercuotano negativamente sull’Austria» ha detto nei giorni scorsi il tedesco Horst Seehofer, «Il problema dei flussi migratori in transito – ha aggiunto – riguarda anche l’Italia, e si discuterà in un vertice tra i ministri dell’Interno dei tre paesi quali saranno le misure da prendere nel futuro, per arrivare ad una completa chiusura della rotta del Mediterraneo».

Matteo Salvini da parte sua porterà in dote la Circolare emanata il 4 luglio, in cui, in sostanza, “suggerisce” alle Commissioni territoriali di attuare un giro di vite sulla valutazione delle richieste di asilo politico e protezione umanitaria. Un intervento che l’Asgi (Associazione studi giuridici per l’immigrazione) ha definito «inopportuno ed errato». Inopportuno perché «il ministro dell’Interno è un organo politico che vuole dare indicazioni politiche a un organismo amministrativo – le Commissioni territoriali -, sia in relazione ai tempi amministrativi di definizione delle domande di protezione internazionale, sia per contenere il riconoscimento della protezione umanitaria in base a motivazioni esplicitamente economiche». Ed errato perché la circolare esorta, di fatto, le Commissioni territoriali «a contenere il riconoscimento della protezione umanitaria, istituto che, secondo il Ministro, sopravvive in Italia “Nonostante l’avvenuto recepimento nel nostro Ordinamento della protezione sussidiaria”. Ignora il ministro – osserva l’Asgi – che si tratta di due istituti completamente diversi e che la cd. protezione umanitaria, esiste da ben prima della normativa sulla protezione internazionale. Ma soprattutto Salvini ignora che il fondamento della protezione umanitaria «si trova proprio nella nostra Costituzione, di cui attua vari precetti, tant’è che riguarda tutte le situazioni nelle quali una persona straniera (dunque non solo il richiedente asilo) non possa conseguire un permesso di soggiorno secondo le regole ordinarie, ma lo debba avere in ottemperanza a “serie ragioni umanitarie” o derivanti da obblighi costituzionali o da obblighi internazionali».

In seguito alle reazioni provocate dal suo intervento «inopportuno ed errato», il ministro dell’Interno ha voluto precisare che donne incinte e bambini resteranno comunque in Italia. Fatto sta che, proprio nel giorno della Circolare, è stato lui ad annunciare che il Viminale ha spostato 42 milioni dall’accoglienza dei migranti ai rimpatri volontari, in coerenza con la politica di riduzione degli ingressi fino alla chiusura totale delle frontiere, messa in pratica da quando si è insediato.

Su questa strada Salvini può trovare ora l’incoraggiamento dei colleghi europei di Germania ed Austria, i più interessati dai flussi che arrivano nel nostro paese. In Germania si sta discutendo della possibilità di creare dei centri di transito, in una fascia di confine con l’Austria ampia 30 km, dove i migranti, la cui pratica sia stata esaminata in un altro paese di primo transito, vengano respinti, senza possibilità di ulteriori richieste di soccorso. In pratica i tedeschi farebbero, in maniera più “civile”, quello che i francesi fanno a Ventimiglia – “civile” bisogna vedere poi quanto: Seehofer ha già detto che si tratterà di luoghi di permanenza dove “restare in Germania non dovrà sembrare desiderabile quanto tornare in Austria”-. I migranti verrebbero rimandati, se non al paese di partenza, l’Italia, almeno al paese di precedente transito, appunto l’Austria.

Da notare che la Germania ha aperto, contemporaneamente, due tavoli identici. Oltre a quello con Austria e Italia, ce ne è uno che vede l’Ungheria di Viktor Orban nel ruolo dell’Austria, e la Grecia di Tsipras nel nostro stesso ruolo di Paese di arrivo. Italia e Grecia vengono visti come paesi guardiani di una rotta di mare che si preferirebbe sigillata ermeticamente.

Per quanto riguarda l’Austria, Seehofer non vuole che misure severe, adottate dalla Germania, possano pregiudicare i rapporti tra i due Paesi, per questo si demanda tutto al vertice. Il premier austriaco Kurz, invece, è già molto meno interessato alle “sorti” dell’Italia, ed ha minacciato la chiusura del Brennero, da cui, peraltro, pare non passino molti migranti.

In ogni caso, su queste basi, gli eventuali accordi che usciranno dal vertice potranno solo riguardare maggiori aiuti all’Italia per elargire fondi alla Libia, con l’obiettivo di tener chiusa la rotta del Mediterraneo centrale, perché passino meno migranti possibile: meno persone da soccorrere, meno immigrazione, meno domande da esaminare, meno persone da dover rimandare al mittente. Insomma, per non dover più assistere al solito rimpallo di responsabilità, sulla ridistribuzione o sul ricollocamento dei migranti, assisteremo a una ulteriore abdicazione ai dovere di elementare umanità. E a pagare il prezzo di questo gioco criminale saranno sempre i soliti: donne, bambini e uomini abbandonati a loro stessi, in mare o nel deserto, mentre tentano di fuggire da guerre, carestie e persecuzioni, con la speranza di realizzare altrove quello che gli è negato nel proprio Paese.

A te che lo voti “perché è uno come me mica un radical chic”

Un momento del raduno della Lega a Pontida (Bergamo), 1 luglio 2018. ANSA/ PAOLO MAGNI

A te, che sei sempre alla ricerca di un leader che venga dal popolo ma che in realtà, anche se non hai il coraggio di ammetterlo, speri di trovare molto banalmente qualcuno che ti assomigli: sceglieresti un idraulico perché come te è intollerante al glutine? Ti faresti progettare la casa da un architetto scelto solo perché tifa per la tua stessa squadra? Faresti operare tuo figlio in gravi condizioni da un medico scelto perché come te odia gli zingari, anche se non ha studiato medicina? E, se il giochetto è quello della vicinanza e della famigliarità, perché non vi fate aggiustare l’auto guasta direttamente dalla nonna o perché non fate leggere i risultati dei vostri esami del sangue dallo zio che amate tantissimo perché è un ragioniere come voi?

Il feticcio dell’uomo che è uno di noi è una cretinata pazzesca. È il naturale risultato del continuo abbassamento del dibattito (e anche delle speranze e delle aspettative, purtroppo) per cui ci si sente rassicurati solo da qualcuno che non intacchi la nostra invidia: se ha più soldi di noi (indipendentemente dal fatto che i successi siano stati ottenuti con merito) o se ha più talento di noi o se semplicemente è più bravo di noi a fare qualcosa allora diventa un nemico da abbattere, un raccomandato, un disonesto, un antipatico.

Così, a forza di cercare rassicurazioni alle incertezze, finiamo ogni volta per avere una classe dirigente solitamente composta da qualche leader empatico (come quelli che si fanno un curare da un medico che fa tanto ridere, appunto) e la sua corte di vassalli. E invece noi siamo un Paese (a proposito di nazionalismi che vanno così tanto di moda) che ha delle eccellenze meravigliose, persone smisuratamente più capaci, preparati e geniali nei loro campi. Io vorrei essere governato da quelli, per dire. Io non vorrei mai avere me come ministro dell’Economia, che di economia non ci capisco un’acca, e pur volendo bene a mia mamma non credo che sarebbe una buona idea nominarla presidente del consiglio.

Ma come siamo arrivati qui? Perché è questo, il punto: rovinati da decenni di élite che hanno governato la politica siamo caduti nel tranello di volere uno di noi perché male che vada non può fare peggio degli altri? Davvero? Se troviamo un piastrellista che ci fa un pessimo lavoro chiameremmo un veterinario per la prossima posa tanto non può fare di peggio? A me, non so voi, questa cosa fa esplodere il cervello.

Combattere la povertà accettando incapaci purché siano poveri, fronteggiare la disperazione facendosi guidare da chi ci indica i disperati messi peggio di noi, ascoltare nullafacenti cronici strapagati dalla politica che discettano degli orologi o degli attici degli altri che hanno invece un mestiere, puntare all’uguaglianza intesa come la medesima insoddisfazione per tutti è la via più breve verso il baratro. A tutta forza.

Buon lunedì.

Oltre la guerra a colpi di vernice

Fuck war. Così Murad Subay ha intitolato uno dei suoi ultimi murales, dipinto sulla facciata di un palazzo ormai distrutto, nella 60esima strada di Sana’a, la capitale yemenita. Avvezzo al sorriso e alla gentilezza, l’artista quasi si scusa per la crudezza del linguaggio usato: «Purtroppo non ci sono più altre parole per descrivere il punto di vista della popolazione su questo conflitto», racconta. Un grido collettivo, dunque, rappresentato nel murales dalla figura di un uomo con una chitarra in mano, a cui manca un arto, il viso emaciato e gli occhi come due orbite vuote e nere, «a causa degli orrori a cui ha dovuto assistere».

Fa parte della serie, con soggetti simili, che Subay ha dipinto nell’ambito della sua ultima campagna, intitolata “Le facce della guerra”: iniziata a novembre e terminata a metà maggio, racconta l’inferno che la popolazione yemenita sta vivendo sulla propria pelle ormai da anni, tra scontri e bombardamenti indiscriminati, epidemie di colera, mancanza di cibo e dei servizi più basilari. «Non a caso i primi tre murales li ho dipinti nella città portuale di Hodeida – spiega l’artista -, zona particolarmente disastrata in cui vivono migliaia di sfollati organizzati in campi di fortuna, e da cui sono partiti i focolai delle epidemie che stanno devastando il Paese».

Quasi a rappresentare il caos della guerra che non ha forme, per la prima volta Subay abbandona gli stencil per optare su un disegno a mano libera e su uno stile più personale: «In passato utilizzavo gli stencil per il loro linguaggio semplice e universale, volevo che fosse compreso da più persone possibili». Per questo, così come per i messaggi politici e di protesta, in Occidente la figura di Murad Subay è stata spesso accostata a quella di Banksy, lo street artist anonimo conosciuto in tutto il mondo. Con la differenza che Subay non ha mai nascosto la propria identità, anzi: a volto scoperto, in pieno giorno, lui non dipinge quasi mai da solo – anche per questioni di sicurezza – cercando di proposito il coinvolgimento della cittadinanza. Uomini, donne, vecchi e bambini, che spesso si avvicinano per commentare, criticare, incoraggiare, persino unirsi al lavoro.

«Ho iniziato la mia attività di artista di strada nel 2012 quando, con la fine della rivoluzione e l’inizio degli scontri nella mia città, ho capito che le persone stavano ormai perdendo la speranza», racconta. «Volevo coinvolgerli nella mia arte e ho lanciato la campagna intitolata “Colora i muri della tua strada”, in cui artisti e membri della comunità sono usciti per le strade, pennelli e colori in mano, per dipingere ed esprimere istanze e lamentele comuni».

Un evento nato per costruire un ponte tra le persone, sia dentro che fuori dal Paese, tanto che quest’anno…

L’articolo di Anna Toro prosegue su Left in edicola


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Bhaskar Sunkara: Negli Usa cresce la voglia di socialismo

La notizia ha fatto in fretta il giro del globo. A sfidare i repubblicani nelle elezioni per il Congresso di mid-term a novembre nel collegio dove è nato Donald Trump sarà Alexandria Ocasio-Cortez. Latina, socialista, fresca di laurea in Economia e relazioni internazionali. Alexandria, 28 anni, ha sconfitto nelle primarie un boss del Partito democratico newyorkese come Joseph Crowley, che era stato eletto per la prima volta deputato proprio nel collegio di Queen-Bronx, quando lei andava ancora alle scuole elementari.

«Non si tratta solo dell’onda lunga della campagna per le primarie di Bernie Sanders», afferma Bhaskar Sunkara, vice presidente dei Democratic socialist of America (l’organizzazione di cui Ocasio-Cortez fa parte) e direttore di Jacobin, il sito internet di sinistra più popolare al mondo, con oltre 1 milione e 200mila visite al mese. «Si tratta prima di tutto di una candidata credibile: è donna, lavoratrice, latina e non si fa finanziare dalle lobby», sottolinea Sunkara. E propone un programma per cui stanno già lottando in migliaia in ogni angolo degli Stati Uniti: paga oraria minima a 15 dollari orari, istruzione e ospedali gratuiti, pari diritti tra donne, uomini e Lgbt.

Secondo Sunkara «il successo di Alexandria dimostra che le idee socialiste possono attecchire negli Stati Uniti e che esiste una domanda di alternativa. I candidati di sinistra vincenti su una piattaforma socialdemocratica saranno sempre di più in questo Paese, negli anni a venire. Si tratta di un avvenimento estremamente importante». Resta aperta la questione di…

L’intervista di Yurii Colombo a Bhaskar Sunkara prosegue su Left in edicola


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A Cuba, quale rivoluzione dopo Castro

CUBA - CIRCA 1900: Beach in Varadero, Cuba - Province of Matanzas, another attraction of Varadero, the beach and street vending of crafts. (Photo by Gerard SIOEN/Gamma-Rapho via Getty Images)

Avana. Cadillac d’epoca scarrozzano turisti su viali dissestati. Frammenti di vita s’intravedono da porte spalancate. Lo sguardo si fa largo in appartamenti, che sono case e allo stesso tempo negozi, embrioni di attività commerciali che rivelano una domestica rivoluzione capitalistica. Fra un divano e un televisore, rigorosamente sintonizzato su TeleRebelde, donne preparano i famigerati sandwich cubani da vendere a pochi centesimi, anziane friggono churros in olio bruno, uomini aggiustano ventilatori e tagliano capelli. Intorno ci sono cani e bambini. I cani hanno targhette in cartoncino con il nome e l’istituzione che se ne occupa (merito di un progetto comunale che mira ad annullare il randagismo).

I bambini, divisa celeste con camicia a mezze maniche e pantaloncini corti, vanno verso la vicina Escuela primaria “Camilo Cienfuegos”. Tengono la mano dentro quella dei genitori. Se non fosse per statue, santini e foto, potremmo essere in un qualsiasi Paese dell’America latina. Ma le immagini ritraggono ora Fidel Castro, ora suo fratello Raul, ora il comandante Cienfuegos. Paradossalmente meno osannato rispetto agli altri, el Che. Ci sono anche frasi, massime e discorsi. Una donna vestita di bianco, un fazzoletto in testa, ci invita a entrare. Ci accompagna in un tour improvvisato per le classi. Sempre lo stesso copione: «Còmo estàs?», chiedono in coro i bambini. Poi si alzano, si allineano e intonano «la canzone di benvenuto». Dunque parte il coro. Con tanto di ritornello che inneggia agli eroi della rivoluzione e al lider maximo Fidel, che viene salutato con il pugno chiuso. Ridono gli alunni e le insegnanti, ride la donna con il fazzoletto in testa, che esclama: «Questa è l’educazione cubana!».

In questa terra di partigiani e di combattenti pare che il tempo si sia cristallizzato 59 anni fa. Quando…

Il reportage di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni prosegue su Left in edicola


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