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I sogni e le aspirazioni di Chelsea, Giulio e gli altri

Lei si chiama Chelsea, ma i suoi compagni di classe la chiamano «la nostra Jane Austen». Ha origini filippine e frequenta la prima superiore di un istituto della periferia romana. Che disastro le scuole di periferia, che disastro i ragazzi che frequentano le scuole di periferia, eppure stare in mezzo a quei ragazzi è tutta un’altra cosa. Bisogna trovare però il modo di stare in mezzo a loro. Bisogna liberarsi di pregiudizi e preconcetti e ascoltare quello che hanno da dire. Così come hanno fatto i compagni di classe di Chelsea, che si rapportano a lei senza pregiudizi. O forse loro i pregiudizi non li hanno mai avuti. Loro che stanno a due passi dal quartiere Tor Pignattara, un quartiere multietnico di Roma, parlano di bellezza del diverso.

«Voglio imparare dagli altri e apprezzare di più quello che non conosco – racconta Vincenzo, uno degli amici di Chelsea -, quando non conosco qualcosa mi viene spontaneo fare domande per capire meglio». Anche noi di Left ci siamo tuffati in questa scuola di periferia per capire meglio questi adolescenti, mettendo da parte i pregiudizi: che hanno pochi interessi, poca voglia di fare e che in classe fanno un gran casino. Una cosa è vera, in classe fanno un gran casino e a volte l’interesse di frequentare la scuola lo perdono. I dati ci dicono che il 14 per cento degli studenti, soprattutto nel sud d’Italia e soprattutto i ragazzi abbandonano precocemente gli studi. L’obiettivo fissato dall’Europa è quello di scendere sotto il 10 per cento entro il 2020. Perché si perde questo interesse?

«Tra le cause che possono portare un ragazzo o una ragazza ad abbandonare la scuola c’è da considerare il disagio psichico. Bisogna tener conto del fatto che il periodo della scuola coincide per un lungo tratto con il periodo dell’adolescenza, che è un momento delicatissimo, dove la crisi è inevitabile: il corpo si trasforma, così come si rivoluzionano le relazioni personali. Cambia il rapporto con i genitori; cambia il rapporto con gli amici; cambia il rapporto con i professori. E spesso…

L’articolo di Amarilda Dhrami prosegue su Left in edicola


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Per un’opposizione capace di conquistare consenso popolare

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte (C), con il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini (D) ed il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e vicepremier Luigi Di Maio (S), durante il dibattito alla Camera sul voto di fiducia al nuovo governo, Roma, 06 giugno 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Come ci si oppone a un governo reazionario? Come si fa opposizione a un pessimo governo che ha il sostegno delle fasce popolari dopo anni di pessimi governi che le hanno massacrate? Non è, e non sarà semplice, ma è necessario. Serve organizzarsi e serve un piano di battaglia. Chi ritiene che M5s e Lega si logoreranno rapidamente alla prova del governo si sbaglia.

Dopo anni di macelleria sociale una qualunque misura capace alleviare le sofferenze, presa singolarmente, verrà salutata con favore, anche se carica di contraddizioni, anche se la flat tax vedesse un contemporaneo aumento dell’Iva con i più poveri che regalano miliardi ai più ricchi, davanti a misure necessarie come la cosiddetta quota cento il consenso verrebbe salvaguardato. Lo streaming era il simbolo della trasparenza, le riunioni dovevano essere visibili a tutti.

Ora lo streaming è il canale mediante cui viene messo costantemente in scena lo spettacolo del governo. Di Maio annuncia provvedimenti in diretta Facebook, Salvini seguirà gli sgomberi delle case occupate o i rimpatri dei migranti dirigendo la repressione in diretta, con i poveracci che fanno da scenografia. Sarà il governo dello spettacolo e noi rischiamo di confondere l’opposizione attiva con il commento da spettatori inseguendo la sparata del giorno, incapaci di dettare un’agenda. Per evitare di rincorrere quella degli altri serve averne una.

La sinistra, come dimostrano i deboli programmi delle scorse elezioni, non ne ha una chiara ed efficace. Prima ancora di discutere di soggetti e nuovi partiti servirebbe un programma radicale e di rottura intorno a cui organizzare la mobilitazione. Si può decidere di puntare a consolidare e consolare il poco elettorato di centrosinistra (spesso confinato nel centro delle città e con redditi medio alti) oppure scegliere di contendere il consenso popolare direttamente alla coalizione di governo.

Perseguire il secondo obiettivo è necessario per evitare un ulteriore scivolamento a destra del Paese a favore di Salvini, che ha il vento in poppa nello scontro interno con M5s. Se si vuole cambiare il quadro politico non basta giocare sulle contraddizioni politiciste tra i due partiti e i loro leader, occorre spaccare il blocco sociale che li sostiene, serve dividere il giovane disoccupato che spera nel reddito di cittadinanza dall’imprenditore che vuole meno diritti per i lavoratori e meno tasse per sé. M5s e Lega sono “partiti” interclassisti e di conseguenza, come chiunque tenga insieme gli interessi degli sfruttati e sfruttatori, dei ricchi e dei poveri, questi soggetti finiscono per fare gli interessi della classe dominante.

La linea di frattura è il conflitto distributivo. Per il contratto di governo “la flat tax è la parola chiave”? Per noi deve essere la redistribuzione della ricchezza e del tempo di lavoro, schierandosi nettamente dalla parte dei molti e non dei pochi. Per farlo in modo credibile non ci si può confondere con i difensori delle élite. Lo spazio dell’opposizione rischia di essere monopolizzato dalle forze che hanno governato in questi anni mettendo in campo politiche economiche e sociali contro i più deboli e oggi sono impegnate a deridere l’avversario e difendere l’esistente, la stabilità, l’equilibrio dei conti e la necessità di sacrifici.

Siamo dentro una democrazia fortemente agonistica. Non si potrà fare opposizione alle politiche sul lavoro stando a fianco a chi difende il Jobs act, non si può dare battaglia contro le politiche razziste e sicuritarie insieme a Minniti & co., non si potrà fare opposizione alle politiche economiche del governo sostenendo il rigore dei conti pubblici e i trattati europei, non si può sbarrare la strada alle forze di governo stando con chi ha spalancato quella strada.

Se si prende atto di ciò, non ci si può che impegnare per cambiare il senso comune e per un profondo rinnovamento dell’alternativa, per costruire una proposta politica ed elettorale credibile, un fronte popolare in grado di presentarsi alle elezioni europee con una lista e un simbolo che possa iniziare un cammino con continuità, in modo da conquistare quel consenso necessario a trasformare davvero la società italiana, oltre lo spettacolo cui stiamo assistendo da troppo tempo afoni.

 

Il commento di Claudio Riccio è tratto da Left n. 23 dell’8 giugno 2018


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Dalle metropoli viste dal finestrino, al dramma dello sfruttamento minorile. Torna a Roma Fotoleggendo

Haraket © Valerio Muscella

Torna a Roma Fotoleggendo, l’appuntamento con la fotografia ideato e prodotto da Officine fotografiche. Più di un mese di mostre, letture portfolio, installazioni, proiezioni, dibattiti e conferenze che coinvolgono il mondo della fotografia del panorama nazionale e internazionale. Tre le giornate di apertura: 8-9-10 giugno 2018, nelle quali si concentreranno anche le attività gratuite aperte al pubblico.

Nelle intenzioni del direttore artistico, Emilio d’Itri, più che un “festival” si tratta di una “festa della fotografia”. La kermesse, ormai appuntamento fisso, si rinnova ogni anno negli spazi e nei linguaggi. L’edizione 2018 tornerà ad essere ospitata nella sede di Officine fotografiche nella Capitale, e nelle vie e nei locali nell’area intorno a Via Libetta.

Parallelamente e nei giorni successivi, una serie di mostre saranno inaugurate presso alcuni spazi e gallerie private: 001, Isfci, Roam, Wsp photography, Leporello, Aamod – Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Cowall – coworking creatività cultura, l’Iiss Cine-tv Roberto Rossellini (succursale) e una grande mostra retrospettiva chiuderà le inaugurazioni il 22 giugno presso il Museo di Roma in Trastevere.

Di seguito, alcune delle opere in esposizione:

Babel © Michela Battaglia e Stefano De Luigi

Babel di Michela Battaglia e Stefano De Luigi, ispirato all’attentato al Bataclan di Parigi, è raccontato ed allestito in maniera volutamente straniante.

Past Perfect Continuous © Igor Posner

Past Perfect Continuous il lavoro su San Pietroburgo di Igor Posner. «Una città in parte vista e in parte raccolta, una versione sovrapposta imperfettamente all’altra, in una mappatura dove passato e presente si intersecano».

Monsanto-The book © Mathieu Asselin

L’installazione Monsanto-The book di Mathieu Asselin.

The Restoration Will © Mayumi Suzuki

Il toccante lavoro di Mayumi Suzuki The Restoration Will sul recupero della sua memoria familiare dopo il terremoto del Giappone del 2011. Allestito nello spazio Loft di Officine fotografiche

Traces © Weronika Gęsicka

Nello spazio Loft è anche allestita la mostra Traces dell’affermata artista polacca Weronika Gęsicka che indaga la manipolazione delle immagini, a partire da foto stock americane degli anni 50, da lei recuperate e rielaborate

La Crepa © Carlos Spottorno e Guillermo Abril

La Crepa di Carlos Spottorno e Guillermo Abril, l’attesissimo lavoro presentato per la prima volta in Italia, in esposizione nel cortile di Officine fotografiche. Il progetto, nato da un’inchiesta de El País Semanal, ha prodotto un libro che è divenuto un caso nel mondo dell’editoria: 4 edizioni in quattro lingue e 25mila copie vendute. Alcune tavole sono uscite in anteprima sulle pagine del nostro settimanale. Ne ha scritto per Left Simona Maggiorelli

The Buzz Project © Alessandro Cosmelli e Gaia Light

Alessandro Cosmelli e Gaia Light presentano in anteprima la video istallazione The Buzz Project, un ritratto simbolico di metropoli contemporanee arrivato alla sua ottava tappa: suggestive immagini scattate rigorosamente dai finestrini dei bus di Milano, Brooklyn, San Paolo, L’Avana, Mumbai, Istanbul, Città del Messico e Parigi (quest’ultime due serie inedite verranno presentate in esclusiva per Fotoleggendo nelle sole giornate inaugurali presso il Circolo degli Illuminati).

Dead Sea © Carlo Lombardi

Dead Sea è la mostra vincitrice del Premio Fotoleggendo 2017, del fotografo Carlo Lombardi

France 98 © Cédric Calandraud

Per il Premio Boutographies il lavoro di Cédric Calandrau dal titolo France 98, un lavoro di recupero e rielaborazione di alcuni scatti realizzati quando era poco più che un bambino

Displaced © Giovanni Pulice

Presso l’Iiss Cine-tv Roberto Rossellini il giovane fotografo di Zona Giovanni Pulice, che lavora da anni sul tema dell’immigrazione, grande emergenza sociale contemporanea, presenta Displaced, sulla vita dei giovani richiedenti asilo e rifugiati in Italia

Case Parcheggio © Andrea Petrosino

Nello spazio Cowall – coworking creatività cultura, la mostra di Andrea Petrosino con il lavoro sulle Case Parcheggio di Taranto

Haraket © Valerio Muscella

Il lavoro minorile è una grave piaga planetaria legata al divario ricchi/poveri e ce la racconta Valerio Muscella con “Haraket un’indagine sull’industria del tessile in Turchia. La mostra è ospitata all’interno della Fondazione Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Centrale di Montemartini)

Immigrazione e lavoro, i braccianti della Piana di Gioia Tauro chiedono a Salvini e Di Maio rispetto e diritti

Un momento della manifestazione dopo l'uccisione del giovane lavoratore, regolarmente soggiornante in Italia, Sacko Soumaila, avvenuta il 3 giugno scorso in provincia di Vibo Valentia, Genova, 06 giugno 2018. ANSA/LUCA ZENNARO

«Il giorno dopo l’uccisione di Soumayla Sacko sono tornato alla tendopoli. Si è avvicinato un bracciante, in silenzio. Ha tirato fuori dalla tasca un foglio di carta. L’ha aperto, sempre in silenzio. C’era stampata la foto di Soumayla. Me l’ha messa davanti alla faccia, ad un centimetro. Poi, sempre in silenzio, mi ha dato una pacca sulla spalla ed è tornato dentro la sua tenda». Giuseppe Tiano è un sindacalista Usb della provincia di Cosenza, da anni si occupa dei braccianti della zona di Rosarno e San Ferdinando dove il 2 giugno è stato ucciso, con un colpo alla testa, il giovane sindacalista del Mali mentre stava recuperando del materiale di scarto da una fabbrica abbandonata, nel cui sottosuolo si trovano rifiuti tossici. Insieme a lui, Madiheri Drame e Madoufoune Fofana, rimasti feriti.

Tiano parla con voce calma e ferma, ma in certi passaggi si fa dura come la terra dove abita.

«Vogliamo verità e giustizia per Soumayla, è un nostro fratello». Dopo tre giorni di assoluto silenzio da parte del Governo, il neo presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricordato velocemente la morte del giovane sindacalista nel discorso di insediamento al Senato. A distanza di qualche giorno, il presidente della Camera Roberto Fico ha convocato il referente nazionale Usb per i braccianti, Aboubakar Soumahoro, diventato noto per aver rispedito al mittente – al ministro dell’Interno, Matteo Salvini – le parole sulla “pacchia ormai finita” per i migranti in Italia. Nell’incontro con Soumahoro e altri delegati Usb, il presidente Fico ha dichiarato che lunedì 11 giugno visiterà la tendopoli di San Ferdinando dove incontrerà le autorità locali.

«Abbiamo consegnato al presidente della Camera le copie di due lettere, la prima indirizzata al presidente del Consiglio nella quale si chiede che lo Stato si faccia carico delle spese di trasporto in Mali del lavoratore ucciso; la seconda per chiedere al ministro del Lavoro, Di Maio, un incontro per discutere le condizioni di lavoro nelle campagne. Infine – precisa Soumahoro – abbiamo illustrato le motivazioni della grande manifestazione del 16 giugno a Roma contro le discriminazioni e per i diritti». Lavoro e diritti, questi sconosciuti. Soprattutto da queste parti.

La Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio e i nodi irrisolti della questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti. Sono almeno 3500 i braccianti stranieri, distribuiti tra la vecchia tendopoli e altre strutture abbandonate della Piana di Gioia Tauro, ad aver fornito anche quest’anno manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi.

Circa un quarto della produzione nazionale di agrumi avviene in Calabria, in particolare nella Piana dove si trovano Rosarno e San Ferdinando, dove gli ettari dedicati alla coltivazione della frutta sono circa venticinquemila.

In Uomini e caporali Alessandro Leogrande aveva fotografato con lucida precisione il fenomeno di quella che è stata definita la ghetto economy: «C’è un grumo nero che ancora insozza e paralizza le relazioni tra proprietari terrieri, caporali e braccianti, e che sembra essere sopravvissuto al Novecento, alle guerre mondiali e ai cambi di governo, alla mutazione antropologica dell’Italia e del suo Mezzogiorno, alla caduta del muro di Berlino, al terrorismo politico e a quello mafioso, all’emancipazione femminile, all’integrazione della classe operaia nel ceto medio. Secondo le stesse identiche leggi che presiedono da tempo immemorabile al mercato delle braccia e dei corpi. Pochi euro al giorno per dodici, tredici ore di fatica ininterrotta sotto il sole, alla mercé dei caporali, che regolano, controllano, conducono, ammansiscono il lavoro dei nuovi schiavi». I nuovi schiavi descritti da Leogrande sono quelli della Puglia, in particolare della zona della Capitanata dove si produce l’oro rosso, il pomodoro, per le tavole di tutto il mondo. Ma le dinamiche sono le stesse per tutte le terre ad alta produzione agricola, dalla Calabria alla Puglia, fino alla Basilicata. Sfruttamento, emarginazione, condizioni di vita prossime alla schiavitù in contesti di assoluto degrado abitativo per mancanza di acqua potabile, luce ed elettricità.

Nel rapporto I dannati della terra realizzato da Medici per i diritti umani (Medu), che da cinque anni cercano di garantire le cure essenziali ai braccianti della zona di Rosarno e da un anno sono presenti anche in Puglia, si legge di uomini e donne disperati che lottano per la sopravvivenza quotidiana.

«Dal punto di vista sanitario, le problematiche sono molto comuni sia in Calabria sia in Puglia, e dovute principalmente alle gravi condizioni abitative e al pesante stress lavorativo. Non sono rispettate le normative sul lavoro, e gli stessi lavoratori, pagati a cottimo, si sottopongono ad un sovraccarico orario per riuscire a portare a casa una paga decente. I braccianti sono l’ultimo anello della filiera produttiva, in territori in cui l’illegalità e la criminalità organizzata sono assai diffuse» spiega Jennifer Locatelli, coordinatrice Medu del progetto Terragiusta. Locatelli ricorda a questo proposito un aspetto non da poco: in Basilicata i braccianti con contratti di lavoro regolari sono ormai l’80% mentre in Calabria raggiungono a malapena il 30.

Ma su un punto, in particolare, tutte le associazioni e i sindacati sono d’accordo: oltre a sconfiggere il caporalato, e la criminalità organizzata che lo gestisce, è fondamentale assicurare un luogo decente dove vivere. Non certo una tendopoli, anche se nuova come quella inaugurata pochi mesi fa a Rosarno, formata dalle classiche tende utilizzate per il terremoto, freddissime d’inverno e caldissime d’estate. «La nuova tendopoli ripete il paradigma dell’emarginazione. Rispetto alla vecchia, ci sono dei piccoli miglioramenti ma manca l’acqua potabile e la carica elettrica spesso, d’inverno, non è sufficiente a supportare le stufe elettriche accese dentro le tende», precisa Locatelli. Antonello Mangano, giornalista siciliano che si occupa di migrazione e lotta alla mafia, nel libro Ghetto economy. Cibo sporco di sangue (Editore Terrelibere) in una battuta riassume bene la situazione: «Tutti parlano di emergenza. Come fosse un terremoto e non la raccolta dei mandarini».

L’approccio emergenziale prosegue almeno dal 2012, con l’emanazione della cosiddetta Legge Rosarno, a due anni dall’omonima rivolta, che avrebbe dovuto attenuare le principali criticità ma in realtà si è rivelata un fallimento, come confermato da un rapporto dettagliato di Amnesty International Italia. Tuttavia negli ultimi anni non sono mancati nuovi interventi normativi diretti ad un miglioramento delle condizioni dei braccianti, ultimo dei quali la nomina del Commissario straordinario per l’area di San Ferdinando, Andrea Polichetti.

«Nelle parole abbiamo assistito a degli sviluppi positivi, ma pochissimo è stato fatto sul piano concreto. Continuiamo da così tanto tempo a procrastinare la soluzione che sarà sempre più difficile attuarla», conclude la coordinatrice Medu che ricorda come a Drosi, frazione del comune di Rizziconi, sia iniziata otto anni fa un’esperienza di inserimento diffuso che ha portato 150 lavoratori migranti a vivere stabilmente in quelli che erano locali sfitti da tempo, con il doppio vantaggio di essere a costo zero per lo Stato e di portare dei benefici economici alla popolazione locale con la riattivazione e rivitalizzazione del tessuto sociale del piccolo centro. La soluzione, insomma, sarebbe già in parte tracciata. «L’inserimento abitativo diffuso è una soluzione praticabile e già praticata. È necessaria la volontà politica» conferma Aboubakar Soumahoro, il sindacalista Usb. La pacatezza dei modi e la lucida capacità di analisi di Soumahoro, e di tutti gli altri operatori in questa terra difficile, sono la riposta migliore alle parole del senatore eletto in Calabria, nonché ministro degli Interni, Matteo Salvini.

Non più divisi dal 38esimo parallelo, migliaia di coreani potranno rivedere dopo decenni i loro familiari

A combo file picture shows North Korean leader Kim Jong-Un (L) and US President Donald J. Trump (R) (reissued 24 May 2018). ANSA/KOREA SUMMIT PRESS POOL/MICHAEL REYNOLDS

Se dovessero finalmente rivedersi, forse non si riconoscerebbero. Dall’ultima volta che si sono incontrati, è passato più di mezzo secolo. Per almeno 300mila persone, l’incontro del 12 giugno a Singapore tra il leader nordcoreano Kim Jong-un e il presidente Usa, Donald Trump, non è un evento geopolitico, ma una questione privata. Per loro c’è qualcosa di più importante della de-nuclearizzazione della Corea, delle sanzioni e delle dichiarazioni sulle misure da adottare per migliorare le relazioni tra Seul e Pyongyang: si tratta delle loro famiglie. Per migliaia di coreani questo primo summit è l’ultima speranza di rivedere sorelle e fratelli da tempo perduti.

Se Kim e Donald si stringeranno la mano, loro, forse, dopo decenni la stringeranno ai loro cari, mai più rivisti dalla fine del conflitto tra Seul e Pyongyang nel 1953. Un Paese diviso vuol dire prima di tutto famiglie separate per sempre. Secondo il Dfusa, National coalition for the divided families, ci sono quattro tipi di “famiglie coreane divise”: le prime sono state separate dopo la Seconda guerra mondiale, altre hanno perso i contatti durante la Guerra di Corea, altre ancora hanno familiari tra i Pow, prisoners of war. Il quarto gruppo invece ha famiglia tra chi è stato deportato con la forza in Nord Corea durante il conflitto.

Sono almeno 300mila i cittadini americani di discendenza coreana, che hanno familiari residenti ancora a nord del 38esimo parallelo. Contatti diplomatici lenti e goffi, burocrazia ingolfata, escalation della tensione militare: almeno 20 programmi di riunione sono falliti finora. I confini sono anche temporali e generazionali, non solo geografici. Molti sopravvissuti di quegli anni di guerra sono ormai morti. Ma altri, quelli ancora vivi, sono anziani che non possono più aspettare e sperano: l’incontro tra i leader per loro è una risposta immediata che riguarda le loro origini più che i poligoni del 38esimo parallelo. Per Paul Kyumin Lee, dell’Asia program del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, “il summit di Singapore è la migliore e ultima possibilità per rendere le “reunions”, le riunioni familiari, realtà.

Il “cambiamento” del ministro Fontana

Il vicesegretario della Lega, Lorenzo Fontana, nella sala stampa di via Bellerio a Milano, 5 marzo 2018.ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Il 14 febbraio scorso, a Verona, l’allora europarlamentare Lorenzo Fontana (che ora è ministro per la famiglia, tra le altre cose) ha presentato il suo bestseller La culla vuota della civiltà. All’origine della crisi scritto a quattro mani con Ettore Gotti Tedeschi (sì, proprio lui, l’ex vicepresidente dello Ior). In collegamento video ha partecipato anche Salvini.

Ha detto in quell’occasione Fontana: «La crisi demografica in Italia sta producendo numeri da guerra. E’ come se ogni anno scomparisse dalla cartina geografica una città come Padova. Noi non ci arrendiamo all’estinzione e difenderemo la nostra identità contro il pensiero unico della globalizzazione, che oggi ci vuole tutti omologati e schiavi. La politica deve produrre un cambiamento culturale, con azioni che guardino ai prossimi 20-30 anni: ne va della sopravvivenza della nostra civiltà»

Gotti Tedeschi: «La crisi demografica è la vera origine della crisi economica perché ha prodotto calo del Pil, consumismo, corsa al ribasso dei costi di produzione, delocalizzazioni e, parallelamente, invecchiamento della popolazione, aumento dei costi fissi e quindi delle tasse, indebitamento».

Salvini: «Se le culle sono vuote, se le ragazze e i ragazzi, oggi in Italia, non hanno certezze, non hanno diritti, non hanno lavoro, non scommettono sul futuro e non mettono al mondo dei figli è chiaro che poi, a sinistra, c’è qualche ‘genio’ che dice: ‘Te li mando sui barconi i tuoi futuri figli’. Noi diciamo no e vogliamo investire sulla famiglia, come prevede la Costituzione, aiutare le mamme a essere mamme e i papà a essere papà e, aggiungo, i nonni a tornare ad essere nonni, consentendo loro di andare in pensione dopo anni di lavoro. Il primo parametro economico e sociale su cui verrò misurato al governo sarà il fatto che torneranno a nascere i bimbi che non stanno più nascendo perché gli italiani torneranno a scommettere sul loro futuro».

Si legge nel libro: “Dal 1978 a oggi l’aborto (legale) ha impedito la nascita di sei milioni di bambini italiani, anche – lo sottolineiamo – a causa di una certa cultura politica, cara alla sinistra, che demonizza l’obiezione di coscienza e preferisce eradicare la vita piuttosto che agire sul sistema dei consultori e, più in generale sulla prevenzione dell’aborto. L’Institute of Family Policies americano ha calcolato che il numero degli aborti nei Paesi dell’Europa (cosidetta) “unita”, 1.207464, equivale al deficit nel tasso di natalità europeo”. 

E poi: E non penso sia più un mistero che vi sia un interesse internazionale dietro l’indebolimento progressivo di un Paese come l’Italia, una regia dietro la crisi attuale, favorevole soprattutto a sdoganare la vendita del nostro patrimonio. Leggendo queste pagine si capisce quale strategia il ‘Ghota’ mondiale abbia in mente, quale idea di società vogliano venderci, svendendo la nostra identità, e soprattutto quale strada intraprendere”.

Tanto per chiarire che no, non si è trattato di una frase sfortunata. Fontana è proprio così, oscurantista e complottista di natura. Ed è un ministro del governo del cambiamento.

Buon venerdì.

 

 

Un ateo socialista per la cattolicissima Spagna

Da alcuni mesi abbiamo iniziato un viaggio nella sinistra europea. Lungo questo percorso a tappe qualche settimana fa abbiamo dedicato la storia di copertina al Portogallo addentrandoci nel laboratorio lusitano per cercare di mettere a fuoco i punti alti di avanzamento progressista e gli scogli che incontra il governo guidato da una alleanza di sinistra di cui fanno parte socialisti, comunisti, verdi e il Bloco de esquerda. Il governo progressista portoghese è un unicum in Europa anche perché, in barba all’avanzata delle destre in Europa, va avanti dal 2015. Ora, mentre in Italia il governo legastellato accelera a destra, in cerca di respiro e per organizzare l’opposizione, siamo tornati a guardare oltre confine.

Il viaggio di Left nella sinistra europea arriva così in Spagna per conoscere più da vicino l’esperimento di governo socialista guidato dall’economista Pedro Sànchez che dal 1993 milita nel Psoe (Partito socialista operaio spagnolo) di cui, fra alterne vicende, è segretario generale. Un esperimento di governo laico e progressista nato da una svolta repentina. Con un colpo di reni, per molti inaspettato: lanciando una mozione di censura, Sànchez è riuscito a far cacciare il conservatore Rajoy insediandosi al suo posto. Per la prima volta in quarant’anni di democrazia spagnola un capo di governo ha dovuto lasciare dopo una mozione di sfiducia (tre tentativi del genere si erano già conclusi con un fallimento). Come ci è riuscito Pedro Sànchez? Molto hanno contato gli esiti del processo sul caso “Gürtel” uno dei tanti scandali di corruzione che ha coinvolto il Pp (Partito popolare spagnolo) negli ultimi anni, che è arrivato a sentenza con 351 anni di carcere in totale per 29 dei 37 imputati, condannati per aver partecipato a una «struttura di corruzione istituzionale».

Per Sànchez è stata la rivincità dell’onestà e della coerenza (in questo caso non parole al vento). In tanti lo avevano dato politicamente per morto dopo che, in dissenso con i suoi, nel 2016 si era dimesso da parlamentare, rifiutandosi di dare il via libera al secondo governo Rajoy (in carica dal 31 ottobre 2016 al 2 giugno 2018). Senza uscire dal partito e lavorando in stretto contatto con la base, guardando a sinistra e alla tradizione antifascista, Sànchez è riuscito, non solo a riprendersi il Psoe, ma anche ad andare al governo, affermando fin dal primo momento la propria identità laica e progressista. «Sono ateo e credo che la religione non debba stare nelle aule, ma nelle Chiese. Nelle aule si devono formare cittadini, non credenti. Questo appartiene alla sfera privata», ha detto il neo premier che ha giurato sulla Costituzione e non sulla Bibbia. Decisione storica quella di liberare il palazzo di governo dai crocefissi e carica di significati nella cattolicissima Spagna, dove la società oggi appare largamente secolarizzata.

Assumendo l’incarico e presentando la squadra dei ministri Sànchez ha anche riaffermato con fermezza la centralità delle battaglie dalla parte delle donne. Undici ministri su 17 sono donne. Per prima cosa ha ripristinato il ministero dell’Igualdad (istituito da Zapatero e poi accorpato da Rajoy) affidandolo al vice presidente dell’esecutivo Carmen Calvo. Ma ha anche incluso nella rosa dei ministri María Jesús Montero che, alla guida del dicastero della Salute nella regione autonoma dell’Andalusia, ha saputo farne un avamposto all’avanguardia nella fecondazione assistita, nella ricerca sulle staminali embrionali e più in generale un baluardo della libertà di ricerca scientifica. La Spagna non può dirsi uno Stato democratico se non coglie l’importanza delle donne, se non ne afferma i diritti, dice Sànchez. Così come non può dirsi un Paese civile se non libera i bambini dalla povertà. In Spagna è una grave emergenza da risolvere. I primi provvedimenti del governo, ha promesso il nuovo primo ministro, andranno in questa direzione. È un importante inizio ma certo non basta. Il governo Sànchez è fragile. Incalzato dall’opposizione dei liberali nazionalisti di Ciudadanos (Cittadini) guidati da Albert Rivera, alter ego di Macron (ad entrambi guarda Renzi). inoltre Sànchez deve molto a Iglesias, leader di Podemos che ha appoggiato la sua mozione di sfiducia a Rajoy (insieme agli indipendentisti) e ora giustamente reclama un ruolo per il proprio partito. Per Sànchez le grane non mancheranno anche sul versante catalano, ma il dado è tratto, la strada per il cambiamento è finalmente aperta. Speriamo sia anche contagiosa. Intanto salutiamo con gioia la decisione di Sànchez di accogliere nel porto di Valencia i migranti della nave Aquarius che il governo italiano giallonero, con il ministro dell’Interno Salvino, avrebbe lasciato andare alla deriva.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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La riscossa di Sánchez

Spanish Socialist Party (PSOE) leader and candidate in the December 20 general elections ,Pedro Sanchez applauds supporters during a campaign meeting at the Fuente San Luis satdium in Valencia on December 13, 2015 . Public discontent over corruption across the political spectrum, as well as companies, unions, banks, celebrities, and even royalty could cost Spain's traditional parties dearly in upcoming elections as sky-high unemployment and austerity has seen the emergence of two new parties -- the anti-austerity Podemos and centrist Ciudadanos -- both threatening to the two-party monopoly at the polls says sociologist Jose Pablo Ferrandiz of polling institute Metroscopia. AFP PHOTO / JOSE JORDAN No se autoriza el uso del contenido. Todos los derechos reservados. . . AFP PHOTO/ JOSE JORDAN / AFP / JOSE JORDAN (Photo credit should read JOSE JORDAN/AFP/Getty Images)

Mentre in Italia si insediava un governo populista/destrorso, la Spagna sanciva la cacciata di Rajoy per intraprendere una svolta progressista. Due risposte, di segno opposto, alla crisi di questa Europa. Dopo quasi sette anni di discusso esecutivo, il leader del Pp – l’uomo dell’austerity, l’uomo della corruzione, l’uomo che non ha voluto che la Spagna facesse i conti con il franchismo e l’uomo della repressione in Catalogna – è stato disarcionato. Per la legge spagnola un premier decade soltanto se si propone un nome alternativo, e quel nome alternativo è stato trovato nel socialista Pedro Sánchez che avrà, ora, una risicata maggioranza in Parlamento grazie al sostegno (esterno) di Podemos e dei nazionalisti baschi e catalani. Un clamoroso ribaltone politico. L’istantanea di Sánchez e Iglesias che si stringono la mano, compiaciuti, dice più di mille editoriali. Nasce una nuova fase. Dopo il Portogallo, c’è vita a sinistra con la penisola iberica che si conferma il laboratorio – progressista – più interessante in Europa. E, in fin dei conti, l’unico pezzo di Vecchio continente governato, insieme alla Grecia, da partiti di sinistra.

È la rivincita di Pedro Sánchez. E pensare che il leader del Psoe – 46 anni, originario della provincia di Madrid, ex giocatore di basket, laureato in Economia – il 29 ottobre 2016 aveva annunciato la sua rinuncia al seggio da deputato. Un mese prima, nel mezzo della lunghissima impasse politica e dopo la ripetizione elettorale, era stato estromesso dalla guida del Partito socialista a causa delle sue posizioni su un possibile nuovo governo guidato proprio da Rajoy. Non voleva a nessun costo dare appoggio – anche indiretto – alla nascita di un altro governo di destra in Spagna, mentre buona parte dei dirigenti socialisti ritenevano che fosse la cosa migliore. Da quel momento Sánchez, che nel 2014 dal nulla era diventato segretario del Psoe e che rappresentava l’ala moderata del partito, si è trasformato, difendendo istanze diverse da quelle della terza via blairiana e, in qualche modo, riavvicinandosi alle ragioni socialdemocratiche del passato. Insomma, lontano dai Macron o dai Renzi.

La conversione di Sánchez è stata frutto della defenestrazione dell’ottobre del 2016: abbandonato da tutti, tranne alcuni stretti collaboratori, e con l’avversione dei vecchi leader del Psoe – da Felipe González a Zapatero e Rubalcaba -, Sánchez è riuscito contro vento e marea a vincere le primarie della primavera del 2017 con un discorso che guardava a sinistra, difendeva un accordo con Podemos e parlava di plurinazionalità per una Spagna segnata dalla crisi territoriale catalana. «Il mio sarà un governo socialista, paritario, europeista, garante della stabilità economica, che sia rispettoso dei propri doveri europei», sono state le prime parole di Sánchez, dopo l’incoronazione, volendo rassicurare subito i mercati e l’Unione europea: i vincoli saranno rispettati.

Abbandonando i facili entusiasmi, rimangono vari nodi…

Il reportage di Steven Forti e Giacomo Russo Spena prosegue su Left in edicola


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Yemen, la guerra che uccide due volte

In cento: 83 uomini, 17 donne. Si erano messi in viaggio con una speranza: trovare lavoro nel Golfo Arabo. Durante il viaggio dalla Somalia allo Yemen, nel golfo di Aden, la barca è affondata e 46 etiopi a bordo sono morti.

Erano partiti il 5 giugno dal porto somalo di Bossasso e il naufragio si è verificato il giorno dopo. Ancora oggi mancano all’appello 16 persone, dice l’Oim, Agenzia internazionale sulle migrazioni, quindi il bilancio potrebbe aggravarsi.

La guerra in Yemen, in corso dal 2015, uccide sia i cittadini residenti sia gli stranieri in fuga dalle guerre, dalla fame, dalla povertà che attraversano l’ex regno della regina di Saba per raggiungere i ricchi Paesi del Golfo. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo finiscono intrappolati in un conflitto che non gli appartiene, vengono «costretti a lavoro forzato, sono sottoposti quotidianamente ad abusi sessuali o fisici, torture, detenzione arbitraria per lunghi periodi di tempo, o anche alla morte», riferisce l’agenzia. Secondo il direttore delle operazioni ed emergenze Oim, Mohamed Abdiker, nelle acque del golfo di Aden «più di 7mila migranti rischiano la vita ogni mese. Nel 2017 hanno affrontato il rischio della traversata in oltre 100mila. Vivono in condizioni tremende, sono trattati in maniera orribile. Tutto questo deve finire».

Il sindaco Accorinti contro i poteri forti di Messina

20100212 - MESSINA - PONTE - - nella foto Renato Accorinti comitato No Ponte mentre protesta in auditorium. ANSA/FRANCESCO SAYA /

«Qui, prima, tutto veniva fatto “con gli amici degli amici”. Noi siamo passati dal clientelismo al diritto, e sfido chiunque a dire il contrario». Renato Accorinti va fiero della “rivoluzione culturale” portata a Messina cinque anni fa, quando venne eletto sindaco superando al ballottaggio il centrosinistra che per una cinquantina di voti non era passato al primo turno. L’elezione di Accorinti nella città dello stretto fu una ventata nuova per la Sicilia. Tante speranze all’inizio e poi cinque anni di lavoro impegnativo per un’amministrazione che in consiglio comunale ha incontrato continui ostacoli.

Il 10 giugno, il vulcanico ex insegnante, pacifista e attivista ambientalista ci riprova. Con il suo linguaggio diretto spiega l’entità della sfida. «La prima volta che abbiamo vinto, ho detto che eravamo riusciti ad allineare i pianeti. Se vinciamo la seconda volta, sbarelliamo l’asse terrestre», dice a Left sorridendo. Sostenuto da tre liste civiche – Cambiamo Messina dal basso, Renato Accorinti Sindaco e Percorso comune – Accorinti se la dovrà vedere con altri sei candidati tra cui Dino Bramanti per il centrodestra e Antonio Saitta per il centrosinistra e un altro, Cateno De Luca, ex assessore regionale eletto per l’Udc, con vicende giudiziarie alle spalle (sempre assolto). Alle politiche del 4 marzo il M5s ha stravinto al Sud mentre la Lega è riuscita a far eleggere Salvini a Reggio Calabria: questo scenario per Accorinti si riflette anche a Messina «dove i due candidati sindaco dei Cinque stelle e di Salvini si fanno forti perché possono avere un’interlocuzione con il governo».

Quanto all’alleanza gialloverde, il giudizio è netto: «I Cinque stelle hanno deluso tutti quei cittadini che pensavano di trovare una forza progressista e invece hanno trovato persone che si sono messe con Salvini che vuole togliere 5 miliardi all’accoglienza migranti e che fa affermazioni contro i diritti umani di stampo neonazista». Ma la realtà di Messina, continua il sindaco, è ancora quella che…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola


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