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La fabbrica della disperazione. Colpevoli di non voler essere brutalizzati, la Cassazione conferma i licenziamenti di Pomigliano

La protesta dei cassaintegrati di Fiat Pomigliano per la morte per infarto di un operaio sulla catena di montaggio, Pomigliano d'Arco (Napoli), 28 marzo 2015. ANSA/CESARE ABBATE

Non metteranno più piede in fabbrica i cinque licenziati dalla Fca di Pomigliano. Agli “ermellini”, di questi tempi, non devono andare a genio le tute blu “irriguardose” nei confronti dei padroni, nemmeno se il contegno di questi ultimi è causa di suicidi e del disagio profondissimo dei lavoratori, emarginati nei reparti confino, mortificati dalla cassa integrazione, brutalizzati dalla metrica della catena di montaggio. La «macabra rappresentazione scenica», secondo i giudici della suprema corte, ha travalicato i limiti della dialettica sindacale. A tanto arriva l'”obbligo di fedeltà”. Per questo la Cassazione ha annullato il reintegro di Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore, operai dello stabilimento Fca Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli), accogliendo il ricorso dell’azienda contro la decisione della Corte d’Appello di Napoli che a settembre del 2016 aveva invece disposto il rientro in fabbrica e il pagamento di 12 mensilità arretrate (la legge Fornero è anche questo: il licenziamento è dichiarato illegittimo ma a fronte di più di due anni di salario la Fiat dovrà risarcire solo un anno). I cinque operai erano stati licenziati dalla Fiat nel 2014. Sono tutti aderenti al SiCobas e, in quanto tali deportati dal management Fiat nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom, tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative e quelli con un contenzioso aperto con l’azienda.

«Il fantoccio-Marchionne rappresentava il quarto operaio suicidatosi dopo che tre operai si erano tolti la vita (per davvero) per le assurde condizioni di vita vissute a Nola. L’ultima tra questi Maria B. , 47 anni, morta nel suo appartamento ad Acerra accoltellandosi all’addome a morte. Aveva scritto un articolo dal titolo “Suicidi in Fiat” dove accusava Fiat e l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, di “fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione”, aggiungendo che “‘Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti”», ricorda Francesca Fornario che ha seguito il loro braccio di ferro asimmetrico con l’azienda che ha portato la cassaforte a Londra e paga le tasse in Olanda. Ma sfrutta senza limiti il bisogno di lavorare a differenti latitudini. Azienda italo-statunitense di diritto olandese, si legge sul web a proposito della risultante della fusione Fiat-Chrisler, è il settimo gruppo automobilistico mondiale.

Con un nodo alla gola, quel giorno di settembre di due anni fa, Antonio Montella, 57 anni metà passati in Fiat, dedicava la notizia a chi non c’è più, ai colleghi che si sono tolti la vita. Disse al cronista di Left che si sentiva, con i suoi compagni, come Davide quando ha battuto Golia. «Immagina un capannone – raccontò Montella – come una piazza ma coperta. Vuota, mille metri quadrati per 150 operai ad ogni turno. E che non hanno nulla da fare. Come centocinquanta detenuti in un’ora d’aria moltiplicata per otto, qua e là a chiacchierare in piccoli gruppi. Ecco cos’è un reparto confino. Ogni tanto arrivavano le “cassette”, pezzi fuori misura per passare sulla linea di montaggio, che noi dovevamo sistemare in una sorta di scaffale a rotelle da affiancare alla catena per eliminare i tempi morti, sveltire il lavoro». Doveva essere un grandissimo polo, così aveva giurato la Fiat, ma è durato pochi mesi. Poi per Antonio e altri 315 deportati da Pomigliano è stata solo la fabbrica della disperazione, tutti in cassa integrazione dal 2008, mai o quasi mai richiamati al lavoro. L’hangar sta a Nola, si chiama World class logistic (Wcl). Il tribunale di Nola non ci ha trovato nulla di discriminatorio ma, solo nel 2014, nel giro di pochi mesi, si sono suicidati tre lavoratori e altrettanti hanno tentato di farlo. «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti», scriveva nel 2011, dopo i primi suicidi, Maria Baratto, operaia che tre anni dopo si è tolta la vita nella sua casa di Acerra. Era la fine di maggio. Quaranta giorni prima s’era ucciso Peppe De Crescenzo, suo compagno di lotte, da 7 anni licenziato arbitrariamente ed ancora in attesa della causa rimandata alle calende greche dai giudici del lavoro di Nola.

Ieri, invece, la sentenza ha rischiato di avere un epilogo drammatico quando uno dei cinque lavoratori, Mimmo Mignano, si è incatenato davanti alla casa della famiglia del vicepremier Luigi Di Maio a Pomigliano d’Arco, e in una forma di protesta eclatante ed estrema si è cosparso il capo di benzina. In serata Di Maio lo è andato trovare: «Mimmo – spiega – è un mio concittadino che ha perso il lavoro e che oggi ha fatto un gesto disperato. Gli dico che lo Stato c’è». Bloccato dalla forze dell’ordine che lo hanno soccorso, l’uomo è stato portato in ospedale con forte bruciore agli occhi. Chiede l’intervento del neo ministro del Lavoro, che tra l’altro oggi sarà nella sua città per un appuntamento già programmato e potrebbe incontrare gli operai licenziati.

Il nome dei cinque è stato noto a milioni di italiani sono quando sono stati scritti sul bavero dei componenti de Lo Stato Sociale al Festival di Sanremo. Prima e dopo il reintegro, per due anni, la loro lotta è vissuta nella solitudine alla quale è condannata ogni vertenza in questi anni di frammentazione della classe. Gli operai sono stati tenuti fuori dall’azienda, benché a salario pieno: «una vita in vacanza» forzata, come ha cantato la band bolognese sul palco del Teatro Ariston. A giugno del 2014 Maria si era suicidata e dopo una quindicina di giorni un altro operaio suicida aveva lasciato una lettera in cui riconduceva le ragioni della sua scelta alla precarietà lavorativa. I cinque, ritenendolo responsabile, avevano inscenato con un manichino il suicidio di Marchionne pentito davanti al polo logistico di Nola con tute macchiate di sangue, distribuendo un finto testamento dell’ad. Una protesta simile si era ripetuta il 10 giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano con il funerale di Marchionne-fantoccio. Le principali sigle sindacali si erano dissociate. Una decina di giorni dopo l’azienda aveva disposto il licenziamento, confermato un anno più tardi dal Tribunale di Nola. La Corte d’appello di Napoli, invece, nel 2016 aveva disposto il reintegro, ritenendo legittimo, per quanto aspro, «l’esercizio del diritto di critica» tramite «una rappresentazione sarcastica priva di violenza». Secondo la Cassazione, però, neppure la satira «può esorbitare la continenza» con l’attribuzione di qualità «disonorevoli», «riferimenti volgari» e «infamanti». «Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori – scrive la sezione lavoro della Suprema Corte – hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile», con «un comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro». Ricorda che la libertà dell’attività sindacale non può travalicare i limiti del cosiddetto «minimo etico». E ravvisando un errore di diritto nella decisione d’appello, ha deciso nel merito la causa confermando i licenziamenti.

Un appello di solidarietà ai 5 è stato firmato, due anni fa, da migliaia di persone grazie tra cui Alessandro Arienzo, Daniela Padoan, Guido Viale, Moni Ovadia, Erri De Luca, Ascanio Celestini, Francesca Fornario, Valeria Parrella, Annamaria Rivera. Stupisce l’assenza delle firme di Landini che pure su Pomigliano ha costruito gran parte della sua immagine di lottatore. Proprio ieri la Fiom ha incontrato, a Roma, la direzione aziendale di Fca. Nella delegazione, Michele De Palma, segretario nazionale Fiom, Rosario Rappa, segretario generale Fiom Napoli, Francesco Percuoco Fiom Napoli e i delegati, per affrontare i problemi derivanti dalla scadenza degli ammortizzatori sociali. La nota congiunta Fiom Cgil nazionale e Fiom Napoli spiega che l’eventuale intesa sulla cigs per riorganizzazione dovrebbe essere finalizzata alla piena occupazione e che è stato chiesto che «fossero specificati gli investimenti sullo stabilimento e i tempi di realizzazione per la messa in produzione dei nuovi modelli che insieme al mantenimento della produzione della Panda possono assicurare e realizzare la definitiva rioccupazione di tutti i lavoratori di Pomigliano d’Arco e Nola». La Fiom ha chiesto che nella modifica della bozza fossero inseriti i criteri che garantiscono una gestione della Cigs con le stesse modalità applicate con il Contratto di solidarietà in modo da assicurare una corretta ed equa rotazione tra i lavoratori. Ci sarà una assemblea retribuita nella giornata di venerdì 8 giugno per informare e coinvolgere i lavoratori di Pomigliano d’Arco e Nola, sul proseguo del confronto con il Ministero del Lavoro. Non risultano prese di posizione sulla clamorosa sentenza.

«Non ricordo più perché sono venuto in Europa»

Un momento della protesta dei migranti lavoratori agricoli dopo l'omicidio di Soumaila Sacko, migrante maliano di 29 anni, a San Ferdinando (Reggio Calabria), 4 giugno 2018. ANSA/ MARCO COSTANTINO

Sopra l’accampamento, le nuvole nere del temporale si addensano. La testa di Abu fa capolino da dietro i risvolti della tenda e l’aria puzza di benzina e spazzatura bruciata. Il cielo grigio è il segno che il bracciante ha perso ancora una volta la sua battaglia contro la natura. «La pioggia rovinerà il raccolto e non ci sarà più lavoro», dice Abu a fil di voce. Non mangia da due giorni e i soldi che gli rimangono in tasca non bastano neanche per un biglietto dell’autobus. «È vita questa?» si domanda. Ma le nuvole rimangono silenziose.

Uno dopo l’altro, i lavoratori di San Ferdinando escono dalle loro tende, sperando di avere male interpretato i segni del cielo. Ma la stagione delle piogge sta arrivando e il ghetto che hanno raggiunto per scappare alla povertà darà loro solo miseria e carestia. Più di tremila braccianti vivono in capanne del colore del terreno nella tendopoli di San Ferdinando, un bacino fangoso tra una zona industriale abbandonata e il porto di Gioia Tauro.

Abu, un lavoratore maliano, è arrivato qui mesi fa con pochi vestiti raccolti in sacchetto della spesa, avendo usato tutto quello che possedeva per riuscire ad arrivare nel ghetto. Ha trovato rifugio insieme ad altri connazionali in una piccola baracca costruita con pezzi di metallo e cartone, ormai diventato poltiglia per le frequenti piogge. Dentro, e sotto i rami secchi che fungono da tetto, non ci sono letti e le mosche ronzano attorno ad un tappeto incrostato che Abu usa come coperta. «Abbiamo provato a portare dei materassi, ma i topi ci scavano dentro le loro tane», sostiene il ragazzo mentre piega le sue uniche due magliette, come a poter dare un senso di dignità e decenza in questa sporcizia.

Con la raccolta degli agrumi già finita, Abu è rimasto senza soldi in questo imbuto geografico e cammina senza sosta attorno alla tendopoli con gli occhi vuoti di chi sa di essere senza lavoro e senza casa. Qui non c’è acqua né elettricità e i lavoratori lavano i panni nelle pozzanghere senza sapone. «Alcuni braccianti chiamano questo posto “casa”. Io non ci riesco perché mi ricordo cosa vuol dire avere una casa», dice Abu. «Non siamo i benvenuti qua, l’abbiamo capito. E ogni giorno minacciano di buttare giù tutto, di deportarci in massa, ma che dobbiamo fare? Dov’è che dobbiamo andare? Come potete pensare che dobbiamo raccogliere i vostri mandarini e poi sparire nel nulla?».

La natura dell’agricoltura calabrese richiede l’esistenza di questi migranti, ma i braccianti che sfamano le bocche dell’Italia sono condannati, senza risorse e documenti, ad una sorta di sub-umanità. Mentre Abu scava una buca davanti alla propria tenda per evitare che l’imminente temporale l’allaghi, dalla baracca a fianco ne esce una ragazza bellissima e zoppicante. Si chiama…

Il reportage di Massimo Paradiso prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

L’antimafia tra cori e coso, quello, come si chiama, il congiunto

Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, durante la discussione e la votazione di fiducia al Governo Conte alla Camera dei Deputati, Roma, 6 giugno 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Cori da stadio, «fuori la mafia dallo Stato» scandivano ieri i senatori del Movimento 5 stelle a palazzo Madama mentre Giuseppe Conte declamava il suo discorso prima della fiducia. Che in Parlamento il partito che governa gridi gli stessi slogan di quelli che manifestano contro il potere è già roba da Grande fratello: conta solo come ti vedono da casa.

Qualcuno dice che l’importante per un presidente del Consiglio è scagliarsi contro le mafie fin dall’esordio in Parlamento. Bene, leggete qua: «Ci aspettano tre anni di lavoro. Tre anni nei quali, uscendo via via dalla crisi, attueremo le grandi riforme. Le riforme istituzionali, dalla riduzione del numero dei parlamentari, all’elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica; la grande, grande, grande riforma della giustizia; la profonda riforma e l’ammodernamento del sistema fiscale, […]. Continueremo con la stessa determinazione la lotta contro la mafia e la criminalità organizzata. Vogliamo dare più sicurezza per i cittadini, vogliamo arrivare ad avere meno tasse, meno burocrazia, più infrastrutture e più verde». Se non avete buona memoria, vi aiuto: è Silvio Berlusconi, discorso al Parlamento del maggio 2010. Tanto per dirci quanto valgano le parole. Brividi, eh?

Il 6 giugno, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha pensato bene (furbescamente convinto che basti un po’ di cerchiobottismo retorico per accontentare un po’ tutti) di esprimere solidarietà al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per gli infamanti attacchi ricevuti nei giorni scorsi che hanno violentato anche la memoria del fratello Piersanti, ammazzato dalla mafia. Piersanti Mattarella (che sta alla storia dell’antimafia come i verbi essere avere stanno allo studio della lingua italiana) nel discorso presidenziale è diventato un congiunto con tanto di «adesso non ricordo esattamente». Alcuni dicono che quel «non ricordo esattamente» (detto da uno che ha uno stuolo di assistenti per redigere il discorso, oltre ai suoi due prodi scudieri Di Maio e Salvini) si riferisse all’ignoranza del «social su cui sono avvenuti gli attacchi e non sul nome di Piersanti»: la toppa è peggio del buco. Ma ciò che conta è che tutta questa antimafia esibita come un finto centurione pronto a spennarti davanti al Colosseo è stata sventolata con quel Salvini che di Berlusconi è stato fino a ieri il cavalier servente e con un contratto co-firmato da quella Lega dell’ex tesoriere Belsito, così affiatato con uomini della ‘ndrangheta calabrese, senza ricordare i referenti salviniani che in Sicilia sono appena stati arrestati e indagati per voto di scambio.

Interviene sdegnato a correggere Conte un Delrio, capogruppo del PD alla Camera, in gran forma che scandisce piccato il nome di Piersanti Mattarella con tanto di applauso generale. Come ha (giustamente) sottolineato il capogruppo a Montecitorio del Movimento 5 stelle Francesco D’Uva, l’ammonimento «viene da chi, sotto interrogatorio, non ricordava nemmeno che i Grande Aracri fossero di Cutro: eppure ci andava a Cutro a fare la processione…» (ne avevamo scritto su Left qui).

Così anche ieri si è assestato un altro importante colpo contro la mafia. Avanti così.

Buon giovedì.

«Vogliono impedirci di organizzare la Notte bianca. Ma noi la faremo lo stesso». Gli studenti contro il rettore della Sapienza

È scontro aperto all’Università La sapienza di Roma tra il rettore Eugenio Gaudio e gli studenti dei collettivi e delle assemblee di facoltà. L’oggetto del contendere è la stretta securitaria messa in atto dall’ateneo, che rende più difficili le pratiche per organizzare eventi negli spazi universitari. Una pratica che da sempre contrassegna la socialità dell’ateneo romano. Nel mirino, in particolare, la dodicesima edizione della Notte bianca della Sapienza, kermesse autogestita divenuta ormai appuntamento tradizionale nella agenda culturale della Capitale. Per comprendere la vicenda, occorre però fare un passo indietro.

Dallo scorso gennaio, infatti, il Senato accademico dell’ateneo ha approvato un nuovo regolamento sugli eventi ludici all’interno della Città universitaria, nel quartiere San Lorenzo. Un regolamento che, di fatto, recepisce in toto il Testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza, riuscendo addirittura a renderlo più stringente di quanto già non fosse. Tra le principali problematicità che gli studenti contestano troviamo innanzitutto la necessità di ottenere i permessi di Comune e Questura, eccessivamente costosi e difficili da reperire, e l’obbligo di costituirsi in associazione iscritta all’albo, per poter chiedere autorizzazioni di qualsiasi tipo.

Il nuovo provvedimento dell’ateneo non ha comunque interrotto la storica proliferazione degli eventi autogestiti in università, una tradizione che da sempre caratterizza la Sapienza. Studenti e studentesse dei collettivi e delle assemblee di facoltà hanno continuato ad organizzare dibattiti, presentazioni di libri, eventi di sport popolare e feste di autofinanziamento sfidando i divieti posti dall’amministrazione.

Il pugno duro del rettorato, però, non si è fatto attendere. Dagli spazi autogestiti sgomberati ai cancelli sbarrati prima di una festa di autofinanziamento, passando per le aule negate in occasione di iniziative culturali, gli studenti si sono trovati davanti a un piano repressivo ben preciso.

«Per le aziende private che ogni giorno infestano la Città universitaria con i loro stand pubblicitari l’accesso è sempre più semplice – tuona una rappresentanza di studenti, dalla cassa montata durante un pranzo sociale nello storico “pratone” – mentre noi, che ogni giorno arricchiamo quest’università di cultura e socialità alternativa, ci ritroviamo con cancelli chiusi e minacce di denunce».

Per questo motivo, è partita una mobilitazione. Rifacendosi allo slogan che utilizza l’ateneo per le giornate di orientamento, i collettivi hanno lanciato la campagna “Porte aperte alla Sapienza”, una rassegna di assemblee, pranzi sociali e azioni. Il 29 maggio, gli studenti hanno interrotto l’assemblea del Senato accademico, presentando le loro rivendicazioni e le loro proposte, e ribadendo la centralità dei momenti di cultura e di socialità all’interno dell’università, che dovrebbero essere tutelati e garantiti.

Dalla pagina Facebook “Notte bianca Sapienza”, evento autogestito che ogni anno raccoglie migliaia di persone nella Città universitaria dell’ateneo più grande d’Europa, gli studenti fanno sapere inoltre che cercheranno – nonostante tutto – di garantire lo svolgimento della serata, sfidando i divieti imposti. L’evento prevede una giornata di sperimentazione culturale indipendente, di partecipazione e socialità. Sono previsti due palchi, con un hip hop contest, un’istallazione di videomapping, e numerosi live set e dj set musicali. Le spese che saranno raccolte, andranno a sostegno delle spese legali del movimento studentesco.

“Smascheriamo l’università di carta” è il sottotitolo dell’edizione 2018 della kermesse. «Università di carta. Perché ormai basata solo sul profitto e sulla rincorsa all’ambito pezzo di carta, mettendo da parte socialità e pensiero critico» spiegano gli organizzatori dell’evento nel video-comunicato, che riprende ironicamente l’estetica della celebre serie tv spagnola La casa di carta. «Noi non possiamo sottostare a questo gioco – continuano – per questo anche quest’anno, come ogni anno la Notte bianca ci sarà».

E, come ogni anno, le tappe di avvicinamento, la programmazione e le call per gli artisti di strada sono state lanciate sui social, mantenendo di fatto il solito impianto. Otto giugno è la data scelta per quest’edizione. Una giornata che cercherà di rimarcare soprattutto un discorso politico sulla riappropriazione degli spazi e della cultura all’interno delle mura universitarie, mettendo in crisi il regolamento della Sapienza e l’apparato securitario che ne consegue. Per smascherare «l’università di carta».

Chi vende le armi che Israele usa per sparare ai civili palestinesi? Corbyn denuncia il «vergognoso» silenzio dell’Occidente

epa06656856 Labour Leader Jeremy Corbyn (C) delivers a speech during Labour's local election campaign launch in London, Britain, 09 April 2018. Local government elections are scheduled for 03 May 2018 with all London boroogh councillor seats to be elected. EPA/ANDY RAIN

Il nuovo nemico di Corbyn il rosso è il “western silence”, il silenzio dell’Occidente. Quello che riguarda gli ormai oltre cento morti della Grande Marcia del ritorno di questo 2018 a Gaza.

Shameful”. Vergognoso. La voce del leader laburista da Londra arriva in tutte le capitale europee, fino in Palestina. “Il silenzio, o peggio, il supporto di flagranti azioni illegali, da parte di molti governi occidentali, compreso il nostro, è vergognoso”, ha scritto sulla sua pagina ufficiale Facebook mentre martedì in migliaia, alla piazza del Parlamento di Londra, manifestavano per il “diritto al ritorno” del popolo palestinese.

A sinistra la denuncia e la memoria, a destra un silenzioso oblio. Corbyn, con appelli e dichiarazioni, non dimentica di ricordare la crudeltà del conflitto palestinese ogni mese, mentre la May tace. “La decisione del governo britannico di non supportare una commissione d’inchiesta indipendente alle Nazioni Unite a Gaza, o la più recente risoluzione che condanna l’uso indiscriminato della forza israeliana, è moralmente indifendibile”, ha continuato Corbyn, che ha già denunciato più volte le posizioni assunte dai conservatori.

Razzan Najjar, l’infermiera ventenne uccisa da un cecchino israeliano lo scorso venerdì 2 giugno, è morta a poche centinaia di metri dalla recinzione che separa la Striscia dal territorio israeliano. Il giorno dopo in migliaia erano al suo funerale, ma la sua uccisione è solo “l’ultimo tragico promemoria della brutalità indiscriminata, inflitta su ordine del governo di Benjamin Netanyahu”, ha scritto Corbyn che da aprile sta facendo pressione sul governo May affinché il Regno Unito sostenga le Nazioni Unite nell’intenzione di realizzare un’indagine internazionale sulla vendita di armi a Israele «in violazione delle leggi internazionali» sul commercio delle armi.

“A casa loro” e il libro bellissimo che non si è studiato nessuno

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte (S) con il ministro dellinterno e vicepremier Matteo Salvini (D) ed il ministro del lavoro e vicepremier Luigi Di Maio (S)durante il dibattito in aula al senato sul voto di fiducia, Roma, 05 giugno 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

C’è un libro bellissimo, in giro per il mondo, che non si prende la briga di recitare nessuno. È, secondo me, il libro con le parole più pesate che mi sia mai capitato in mano, uno di quelli in cui anche le virgole hanno la tornitura di chi ci ha messo tempo, mestiere e passione.

Ha un inizio fulminante, di quelli che entrano subito nel senso della storia, senza troppi giri: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Famiglia umana. Inizia così. E famiglia umana è un manifesto culturale, politico, letterario. Tutto insieme.

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”: ragione e coscienza. Ecco l’accordo. Ragione e coscienza. E poi c’è la sicurezza, anche qui, la sicurezza che riempie tutti i giornali, i dibattiti, le distorsioni. Ascoltate bene: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.” Ed è una rivoluzione, perché la sicurezza va solo con con la libertà e il diritto alla vita come compagne. Non è mica la sicurezza che se ne sta sola e guardinga con la bava alla bocca che va di moda di questi tempi; questa è una sicurezza sempre allegra, in mezzo alla gente, che gira il mondo, che sorride alla vita. È simpatica, questa sicurezza raccontata così, è una con cui farci un viaggio o andarci a teatro, per dire.

Poi: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”. Soprattutto, si legge, ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni”. E insieme alle persone anche le loro storie devono muoversi. Davvero. C’è il diritto di “ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

Le storie che devono correre in giro per il mondo senza riguardo per le frontiere sono una favola. Parola della Dichiarazione Universale per i Diritti Umani, firmata a Parigi il 10 dicembre del 1948, quasi settant’anni fa. Settant’anni per studiarla e sembra che non abbia fatto i compiti nessuno. Così la casa per la famiglia umana, nonostante le dichiarazioni universali è una villetta bifamiliare, triste e grigia e mal illuminata che sta nel vicolo cieco nella periferia dei nostri tormenti. Sul citofono ci sono due nomi, in stampatello, scoloriti ai bordi: casa nostra e casa loro.

(Il brano è tratto dal mio spettacolo teatrale “A Casa Loro”. Uno spettacolo terribilmente attuale. Per questo mi sono permesso di proporlo qui. Perché siccome la cultura è sparita dalle parole di insediamento del premier Conte allora proviamo a farla filtrare in giro come possiamo. Per palchi o giornali. Buon mercoledì.)

Data alle fiamme dall’ex. «Cosa volete, a volte così è la vita» dice il presidente Vizcarra

Donne e violenza. Vita, fuoco e morte in Perù. Eyvi, 22 anni, è deceduta venerdì 2 giugno in ospedale per le ustioni riportate dopo che Carlos, il suo ex, l’ha cosparsa di benzina e ha appiccato le fiamme. Ma “a volte così è la vita”, ha detto il presidente della Repubblica, Martin Vizcarra. Sono state le parole scelte dal capo dello Stato per le condoglianze alla famiglia della ragazza.

Veronika Mendoza, ex candidata presidenziale, del partito di sinistra Nuevo Peru, ha scritto: “No, signor Martin Vizcarra, la vita non è così. Eyvi è stata uccisa da Carlos Hualpa ma anche dal machismo dello stato e della società”.

Eyvi Agreda è morta perché il 60% del suo corpo era completamente ustionato, perché ad aprile, Carlos Hualpa, suo ex fidanzato e carnefice, l’aveva raggiunta sull’autobus dove si trovava, ha pronunciato queste parole: “Se non sei mia, non sarai di nessuno” e le ha dato fuoco.

Per Eyvi, contro le parole del presidente, perché “la vita non è così”, per la legalizzazione dell’aborto e la fine delle violenze sessuali commesse impunemente, le attiviste di NiUnaMenos hanno marciato a Lima fino al Parlamento il 4 giugno.

In Perù nei primi quattro mesi del 2018 almeno 43 donne sono state uccise, mentre i tentativi di femminicidio sono stati 103, secondo le statistiche ministeriali. Rispetto allo stesso periodo nel 2017 l’aumento dei crimini registrati contro le donne è del 26,4%.

Il caso di Eyvi adesso è arrivato sul tavolo di Vizcarra. “Protezione, prevenzione e attenzione ai crimini commessi contro le ragazze”: sono le nuove promesse del presidente del Perù. Il quale ha annunciato che la violenza contro le donne sarà “priorità di questo Stato” e presto, per prevenire i crimini, “verrà creata una commissione d’emergenza”.

Nessuna pacchia, nessun respiro. Caro Salvini, resisteremo ogni secondo

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini a Fiumicino per sostenere la candidatura di William De Vecchis a sindaco della citta', 4 giugno 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Matteo Salvini è una persona banale, semplice semplice, terra terra. È convinto che le sue stellette da ministro dell’Interno possano fare davvero paura e oggi, protetto dall’immunità parlamentare, promette querela in ogni dove come un berlusconiano qualsiasi, uno di quelli che devi cercare su google quando ti fa scrivere dal suo avvocato per averlo citato di sguincio in un articolo qualsiasi.

Matteo Salvini è uno di quelli che alla fine finisce per credere alle sue bugie, sono gli esemplari peggiori, e a forza di fare campagna elettorale si convince che le sue iperboli siano davvero la fotografia della realtà: così alla fine deve intervenire il Viminale per ricordargli che i rimpatri che continua a promettere costerebbero più del reddito di cittadinanza e qualche suo amico cerca di fargli leggere i numeri di un’invasione che esiste solo nel suo cervelletto.

Matteo Salvini è anche un furbo. Furbo nel senso di convinto di farla franca grazie all’indulto dell’indignazione: si dichiara padre di tutti i figli dei migranti (con un po’ di paracattolicesimo che qui da noi funziona sempre) e poi firma un contratto di governo insieme al M5s (che ormai di Salvini è il muretto di sponda come quello che serve per arrivare presto in porta alle partitelle dell’oratorio) in cui dichiara che i bambini negri si iscrivono all’asilo solo dopo tutti i bianchi.

Matteo Salvini è preoccupato. Molto. Moltissimo. Perché non si governa con una diretta facebook e da ministro gli tocca fare i conti con quella realtà che violenta ogni volta che inventa uno slogan: la realtà di guidare un partito che ha affossato l’Italia servendo Berlusconi, la realtà di un partito che ha promesso al Nord le promesse che ora si è messo a raccontare al Sud, la realtà di un’intelligenza politica che in due giorni è riuscita a fare incazzare perfino la Tunisia che grazie al salvinismo ha trovato il suo momento di gloria.

Salvini è il niente mischiato con il niente se non ha un nemico. Salvini non esiste, davvero. C’è se i negri spennano i piccioni ai semafori o esiste sulla coda di qualche stupro: Salvini è il più grande business costruito sui problemi che finge di combattere. Esiste solo come negazione. Se meno per meno non facesse più sarebbe zero. Assoluto.

Salvini è convinto che in questo Paese arrabbiato (e lui ha concimato la rabbia per anni) il suo ruolo da ministro finirà per metterlo al riparo. E invece è vero al contrario: c’è un pezzo di Paese che ribatterà colpo su colpo ad ogni sua fanfaronata, ad ogni suo lisciare la pancia peggiore del Paese. Potrà sdoganare qualche manipolo di razzisti che riemergono dalle fogne ma sarà sempre contraddetto dai molti capaci di essere lucidi.

Salvini sparisce nel momento in cui si realizza una soluzione. Salvini esiste se si ingigantisce il problema.

E noi resisteremo ogni secondo di ogni giorno di tutti i giorni. Ci dovrà fare l’abitudine. Il ministro deve provare cosa significa l’opposizione. Se non la fanno quelli che la dovrebbero fare li sostituiranno i tanti che tengono la schiena dritta. Come Aboubakar Soumahoro che ieri in parole semplici si è opposto a Salvini come la sinistra non riesce a fare da tempo.

Ci si rivede, Matteo.

Buon martedì.

Via al trapianto dei microbi dell’intestino, nostri alleati nella lotta ai tumori

Dr. Benjamin Jin, a biologist working on immunotherapy for HPV+ cancers, works in the lab of Dr. Christian Hinrichs, an investigator at the National Cancer Institute at the National Institutes of Health (NIH) in Bethesda, Maryland, February 7, 2018. Experimental trials are ongoing at the National Institutes of Health Clinical Center, a US government-funded research hospital where doctors are trying to partially replace patients' immune systems with T-cells that would specifically attack cancers caused by the human papillomavirus (HPV), a common sexually transmitted infection. A person's T-cells will naturally try to kill off any invader, including cancer, but usually fall short because tumors can mutate, hide, or simply overpower the immune system. Immunotherapies that have seen widespread success, such as chimeric antigen receptor (CAR-T) cell therapies, mainly target blood cancers like lymphoma, myeloma and leukemia, which have a tumor antigen -- like a flag or a signal -- on the surface of the cells so it is easy for immune cells to find and target the harmful cells. But many common cancers lack this clear, surface signal. Hinrichs' approach focuses on HPV tumors because they contain viral antigens that the immune system can easily recognize. / AFP PHOTO / SAUL LOEB (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP/Getty Images)

Magari non sarà un’operazione elegante. Magari ad alcuni potrà sembrare persino disgustosa. Ma il trapianto del bioma intestinale – sì, insomma, dei microbi che stanno nelle feci – potrebbe entrare presto a pieno titolo nelle terapie oncologiche. Perché gli studi preliminari dicono che questi nostri ospiti senza ritegno possano essere davvero utili nella lotta contro alcuni tipi di cancro.

Tutto inizia negli anni 90 del secolo scorso, quando alcuni studiosi trovarono un possibile legame tra un microbo, l’Helicobacter pylori, e il cancro allo stomaco. Da quel momento in poi si è compreso che alcuni batteri possono generare infiammazioni che indeboliscono gli strati della mucosa intestinale e, di conseguenza, rendono più facile l’invasione di agenti esterni al corpo. Tutto questo crea – come ricorda Giorgia Guglielmi sulla rivista Nature – un ambiente adatto allo sviluppo di tumori. Fin qui nulla di inatteso. Gli oncologi sanno da tempo che le infiammazioni contribuiscono allo sviluppo di alcuni tipi di cancro e anche che alcune infiammazioni possono dare origine a un tumore.

E da tempo sappiamo – anche se da non molto lo abbiamo messo bene a fuoco – che il nostro bioma è costituito sia di materiale genetico sia di microbi. Di miliardi e miliardi di microrganismi di diverso tipo e genere che caratterizzano un certo ambiente. Anzi, tutti gli ambienti. Compreso il corpo umano. Infatti, sono dappertutto: nel tratto gastrointestinale, certo. Ma anche nella bocca, sulla pelle, negli organi genitali, nel cervello. Sono di specie, appunto, le più diverse: virus, batteri; archeobatteri; eucarioti come protozoi, funghi e nematodi. Sono tantissimi: nel corpo di ciascuno di noi – ricordano Roman M. Stilling e un gruppo di suoi colleghi in un articolo pubblicato poco tempo su Frontiers in cellular and infection microbiology – vi sono qualcosa come 100mila miliardi di cellule non umane, per un peso complessivo compreso tra 1 e 2 chilogrammi e con un patrimonio genetico che ammonta a 9,9 milioni di geni non umani. Il che significa che nel nostro organismo per ogni gene “nostro” vi sono attivi almeno 500 geni “altri”. I soli batteri amici sono di 40mila specie appartenenti a 1.800 generi diversi. Tutti questi ospiti formano il nostro microbioma: senza il quale non solo non potremmo vivere, ma non ci saremmo neppure potuti evolvere.

Sappiamo tutto questo, ma non mancano le sorprese. La maggiore sorpresa è stata la scoperta recente – risale al 2013 – che alcuni batteri possono essere nostri amici nella lotta al tumore, perché aiutano la capacità di contrasto del cancro da parte di una nuova classe di farmaci utilizzata nell’immunoterapia antitumorale. E questi batteri amici si trovano e prolificano proprio nell’intestino. Sì è visto, in particolare, che questi farmaci sono molto efficaci in individui che nel loro intestino hanno certi tipi di batteri e del tutto inefficaci in individui che invece non presentano microbi amici.

Di più. Proprio cinque anni fa, infatti, il gruppo diretto da Laurence Zitvogel all’Istituto Gustave Roussy di Parigi e quello di Romina Goldszmid e Giorgio Trinchieri al National cancer institute di Bethesda, Maryland, Usa, hanno mostrato che alcuni trattamenti basati sul microbioma intestinale riuscivano ad attivare le risposte immunitarie di alcuni pazienti oncologici.

Così, con una forte accelerazione negli ultimi tre anni, è iniziata un’intensa attività di studio sui legami tra i microbi dell’intestino e la terapia del tumore. Lo stesso Laurence Zitvogel ha verificato, allora, che le ciclofosfamidi utilizzate come farmaci oncologici danneggiano le mucose, consentendo ai batteri dell’intestino di uscire dai loro luoghi usuali, raggiungere i linfonodi e attivare una benefica risposta immunitaria al cancro. La stessa équipe parigina ha poi verificato che esiste una sinergia tra i batteri intestinali e un’altra classe di farmaci oncologici, quelli che i medici conoscono come “inibitori checkpoint”. Farmaci che risultano efficaci solo nel 20-40% delle persone trattate. Ebbene, Zitvogel e il suo gruppo hanno verificato che gli “inibitori checkpoint” sono efficaci nei topi che ospitano nel loro intestino un certo microbioma e del tutto in efficaci nei topi che quel microbioma non lo possiedono.

Queste scoperte hanno prodotto una reazione a catena, si è iniziato a verificare sia l’efficacia del trapianto di bioma intestinale nei topi sia il rapporto tra microbioma e farmaci antitumorali anche nell’uomo. Si è sperimentato anche il trapianto di bioma intestinale umano nelle viscere dei topi. Tutti con risultati promettenti. Tanto che lo scorso mese di novembre Laurence Zitvogel e alcuni colleghi americani hanno pubblicato un articolo sulla rivista Science in cui tirano un po’ le fila di tre anni di ricerche e dimostrano che i batteri amici tendono non riescono a lavorare in modo efficace se il soggetto (un topo da laboratorio) è stato curato con antibiotici anche per infezioni che nulla hanno a che vedere con il cancro.

Insomma secondo Laurence Zitvogel e i suoi colleghi americani ci sono dati più che sufficienti e incoraggianti per passare alla sperimentazione clinica del trapianto di bioma intestinale. Ovvero da uomo a uomo. In realtà, tutto è pronto, riporta ancora Nature. Hassane Zarour, un immunologo della University of Pittsburgh in Pennsylvania, è già in accordo con la casa farmaceutica Merck per raccogliere i batteri fecali da persone che hanno reagito positivamente agli “inibitori checkpoint” e trapiantarli in persone che non hanno risposto al trattamento. La sperimentazione inizierà nel giro di poche settimane. Per la cronaca: la Merck ha investito 900mila dollari nella sperimentazione.

Allo stesso modo, Jennifer Wargo, scienziata e chirurgo dell’Anderson cancer center di Houston, in Texas, insieme al Parker institute for cancer immunotherapy di San Francisco, in California, e all’azienda biotech Seres Therapeutics di Cambridge, sta iniziando a verificare se il trapianto di microbioma intestinale da persone che rispondono alle terapie è in grado di ricostruire un nuovo ambiente microbiologico efficace contro i tumori nelle persone che non rispondono alle terapie.

Ma di sperimentazioni progettate e persino in corso ce ne sono, in molti ospedali oncologici. Mentre l’idea di mettere in campo il microbioma intestinale sta interessando molti ricercatori impegnati anche nella cura di altre malattie, non di natura oncologica. A febbraio, per esempio, la Infectious diseases society of America ha raccomandato ai medici affiliati di utilizzarlo, il trapianto di microbi dell’intestino, nel trattamento di coliti e altre infezioni causate dal batterio, il Clostridium difficile, presente nel 3% degli adulti e persino nel 70% dei neonati, che come avverte il nome non è sempre semplice da trattare.

Dunque il poco elegante e persino disgustoso ma, a quanto sembra, efficace trapianto funziona. E, in ogni caso, genera molte attese. Tuttavia, dicono molti ricercatori, ci sono ancora molti punti da chiarire. Finora abbiamo parlato in maniera abbastanza generica di microbioma intestinale. Non è stato un caso. È che i ricercatori non sanno ancora bene né quali sono i batteri amici che ci possano aiutare (anche) a combattere il cancro e altre malattie né, a maggior ragione, quali sono i meccanismi precisi con cui la esplicano, questa loro amicizia.

Non sappiamo neppure se per attivare la loro azione terapeutica il microbioma intestinale ha bisogno di altri cofattori. E quali. È anche per questo che i ricercatori francesi e americani hanno iniziato studi in cooperazione, per verificare se c’è e quanto conta il fattore dieta. Ma studi di questo tipo dovranno continuare.

C’è, tuttavia, qualche “ma” sull’avvio di sperimentazioni cliniche, sollevato da altri ricercatori critici, come è normale che sia nell’attività scientifica. Li possiamo riassumere, questi diversi ma, in poche righe. Data questa enorme mole di incertezza – non conosciamo né i batteri terapeuticamente attivi né il meccanismo d’azione preciso -, la sperimentazione sull’uomo del trapianto del microbioma intestinale potrebbe risultare piuttosto rischiosa. Si potrebbero avere effetti collaterali. Non sappiamo, infatti, come la ristrutturazione del bioma possa rompere gli equilibri fisiologici. Non sappiamo se il trapianto aiuta a combattere il cancro ma predispone il paziente ad altre malattie. Non sappiamo, infine – anche se le precauzioni in caso di trapianto sono sempre molto alte -, se il trasferimento favorisce la diffusione di agenti infettivi rari e pericolosi.

Sono tutti nodi da sciogliere, forse prima che il trapianto del bioma intestinale entri nell’ultima fase della sperimentazione, quella clinica.

«Stop Disney poverty»: protestano i lavoratori del colosso Usa. Sanders è con loro

epa04851520 Handout image provide by Disneyland: Mickey Mouse and the 2015 Disneyland Resort Ambassadors celebrate the exciting new philanthropic program, 'Million Dollar Dazzle', announced during a ceremony celebrating the 60th anniversary of Disneyland park in Anaheim, California, USA, 17 July 2015. Celebrating six decades of magic, the Disneyland Resort Diamond Celebration features three new nighttime spectaculars that immerse guests in the worlds of Disney stories like never before with "Paint the Night," the first all-LED parade at the resort; "Disneyland Forever," a reinvention of classic fireworks that adds projections to pyrotechnics to transform the park experience; and a moving new version of "World of Color" that celebrates Walt Disney's dream for Disneyland. EPA/Paul Hiffmeyer / Disneyland HANDOUT EDITORIAL USE ONLY EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

«Voglio sentire qual è la difesa morale di un’azienda che fa 9 miliardi di profitti l’anno, il cui amministratore delegato guadagna 400 milioni e ha i lavoratori che muoiono di fame. Ditemi come tutto questo possa essere giusto». Rosso di rabbia, Bernie Sanders agita le mani in aria e urla queste parole ai lavoratori radunati intorno al palco in California del sud, ad Anaheim.

Nella città – parco a tema di Disneyland – è scoppiata la guerra. Migliaia di posti di lavoro sono a rischio, mentre si combatte per essere pagati almeno 15 dollari l’ora: l’aumento richiesto dai sindacati è di un solo dollaro l’ora, un intervento urgente, dovuto all’aumento del costo della vita.

«Stop Disney poverty» è l’urlo di battaglia dei lavoratori: bisogna mettere fine alla povertà generata dall’azienda.

Nell’azienda la paga minima è di poco più di 13 dollari l’ora e l’11% degli impiegati del parco divertimenti «sa cosa vuol dire essere un senzatetto», ha conosciuto la povertà estrema, pur lavorando per una compagnia che l’anno scorso ha registrato 9 miliardi di profitti. I risultati della ricerca compiuta dalle organizzazioni che si battono per i diritti dei lavoratori, sono ora al tavolo dei negoziati con l’azienda. Per la portavoce della Disney, Suzi Brown, è un sondaggio «inaccurato, non scientifico, politicamente motivato», compiuto dai sindacati che hanno «deliberatamente distorto» il risultato e in realtà «non riflette come la maggioranza dei 30mila impiegati percepisce la compagnia».

La Disney pagherà quei 15 dollari orari, lo ha annunciato venerdì 1 giugno, ma lo farà solo dal 2020.

Per David Huerta, presidente del sindacato locale, non è abbastanza: «gli affitti sono aumentati, il costo della vita è aumentato, i salari devono mantenere il passo».

«La lotta che stiamo compiendo qui ad Anaheim non è solo per voi» ha detto ancora Sanders, ma «per milioni di lavoratori in tutto il Paese che sono sick and tired, stufi marci, di lavorare loger hours for lower wages, più ore e per salari più bassi». Bernie bastona anche i media sulla vicenda, che non chiederanno «come fa la Disney a fare 9 miliardi di profitto, mentre tre quarti dei suoi dipendenti non possono pagarsi le spese elementari».

Il senatore rosso del Vermont è tornato per dare il suo supporto ai lavoratori del «posto più felice del mondo», dove i dipendenti non possono permettersi nemmeno di affittare una casa e si nutrono solo di junk food, cibo spazzatura.

Sanders con i sanderistas, – come vengono chiamati i suoi sostenitori -, è in giro da una costa all’altra d’America. Dopo la lotta per i diritti dei lavoratori della Walt Disney, terrà un incontro per la riforma della giustizia con i membri di Black Lives Matter, poi parteciperà ad una manifestazione con i lavoratori dei docks, gli operai delle banchine dei porti degli Stati Uniti.

Da quei palchi parlerà anche della riforma del suo sistema sanitario, Madicare for all (v.Left n.22 del 1 giugno) , che deve essere accessibile per tutti, che «deve essere riconosciuto come un diritto, non un privilegio. Ogni uomo, donna, bambino nel nostro Paese dovrebbe avervi accesso a prescindere dal suo salario».

Questa è la nuova idea attorno alla quale si stanno coalizzando i democratici americani, un avanzamento dell’Aca, (Affordable care act, detto anche Obamacare, creato sotto l’amministrazione Obama nel 2009).

Le urne in California stanno per aprirsi, le primarie si terranno tra pochi giorni. Bernie proverà ad essere rieletto nel suo Stato, in Vermont, a novembre, e poi, di nuovo, nell’intero Paese, dopo essere stato sconfitto due anni fa da Hillary Clinton nell’ultima battaglia per il vertice del partito democratico. White house again: Casa Bianca di nuovo. Jeff Weavers, il manager della sua campagna elettorale 2016, non l’ha escluso: «il senatore sta considerando una nuova campagna per la presidenza» nel 2020.

Sul piano di Sanders per la sanità articolo su Left in edicola


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