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Qui dove rovistare tra i rifiuti è chiamato “rubare”. E si spara

Colpi di fucile. Mirato, puntato come un tirassegno solo che qui è ancora più divertente perché a cercare di non farsi ammazzare c’è un uomo vero, in più “negro”. Sacko Soumayla è morto come si muore nelle zone di guerra, con un colpo ficcato dentro alla testa e le gambe che crollano. Sacko era entrato con i due suoi compagni Madiheri Drame, 30 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, la vittima era entrata all’ex Fornace, una fabbrica abbandonata nella zona di San Calogero, vicino a Gioia Tauro e alcuni bianchi e puri scesi da un Panda hanno cominciato a prenderli a fucilate.

Cercavano lamiere per costruire una baracca da aggiungere alla baraccopoli di San Ferdinando, una zona di pacchia, come direbbe il ministro dell’Interno Matteo Salvini, dove non troppo tempo fa un incendio ha ucciso Becky Moses. Non è solo un omicidio a sfondo razziale, è una tentata strage se non fosse che gli altri due sono riusciti a mettersi al riparo.

Ma la decadenza di un Paese che assomiglia sempre di più all’odore dei conati salviniani sta soprattutto nei commenti all’accaduto: da una parte c’è la politica che tace quasi tutta perché con il governo giallo verde i “negri” possono morire e dall’altra ci sono quelli che giustificano l’accaduto dicendo che quelli stavano rubando.

Se rovistare tra i rifiuti e le macerie diventa un furto allora il degrado è compiuto: siamo nel tempo in cui avere vistosamente bisogno di aiuto, essere pubblicamente disperati e essere oscenamente poveri è insopportabile. Lo chiamano decoro, ordine, sicurezza e pulizia ma ha l’odore dell’intolleranza verso ciò che vorremmo nascondere dalla vista.

Fate così: stamattina gridate “ladro” a qualcuno che cerca di recuperare spizzichi di cibo dalla spazzatura. Guardatelo bene in faccia, come non reagisce. Quella è la fotografia di un’epoca.

Buon lunedì.

I mille interrogativi aperti del caso Babchenko

epa06775847 Russian dissident journalist Arkady Babchenko speaks during an interview with foreign media in Kiev, Ukraine, 31 May 2018. Babchenko spoke about his faked assassination within which the Security Service of Ukraine (SBU) had detained a suspect who apparently was engaged in preparations for the contract killing of the journalist. It had been intentionally reported earlier that Russian opposition journalist Arkady Babchenko was shot dead on 29 May 2018 in his Kiev home by three shots to his back and that he died from his wounds on the way to hospital. Arkady Babchenko had left Russia in 2017 and lives in Kiev since August 2017. EPA/VALENTYN OGIRENKO / POOL

Al Cpj, Comitato protezione giornalisti, Bebe, addetto ai contatti con la stampa, si scusa tanto: «Siamo sommersi di domande sulla questione, i miei colleghi stanno investigando, perdonami, non c’è tempo per un’intervista nei prossimi giorni, ma c’è questo».

Ciò che Bebe invia, è una serie di domande che l’organizzazione ha reso pubbliche e a cui sta cercando di trovare risposte plausibili. Il caso è quello di Babchenko: il giornalista russo Arkady, morto, ma anche “resuscitato”, a fine maggio a Kiev. «Quanto era credibile la minaccia alla vita di Babchenko? Che prove aveva l’Sbu, – che ha messo in scena il suo assassinio -, che i servizi segreti russi stessero orchestrando un omicidio?». Poi «perché sono stati accusati i segreti servizi russi prima di completare le indagini? Da quando e quanto sapeva la moglie del giornalista di tutto questo? Siamo contenti che Babchenko sia vivo», dicono ancora dal Cpj, ma allo stesso tempo «questa azione estrema delle autorità ucraine ha il potenziale per sminuire la fiducia pubblica nei giornalisti e ammutire l’ira della società civile quando i giornalisti vengono uccisi».

Tutti i giornali del mondo hanno comunicato con sgomento la notizia della morte dell’ex soldato, veterano delle guerre cecene e poi reporter di guerra, ma qualche ora dopo, i quotidiani hanno dato l’informazione opposta: quella della sua “resurrezione”. Babchenko si è presentato negli uffici dell’Sbu, servizi segreti ucraini, a Kiev, dove è stato mostrato il video del suo presunto omicida. L’unica cosa che si vede nell’inquadratura però sono le mani di qualcuno che conta molti soldi, banconota dopo banconota, proprio davanti all’obiettivo della telecamera: è il compenso per il suo assassinio che, secondo gli interlocutori in macchina, costa 30mila dollari. Il killer riceve la prima metà, l’altra, dice la voce fuori campo, la riceverà a lavoro compiuto. L’Cpj però mantiene i suoi interrogativi: «Non sono state date prove concrete durante la conferenza stampa delle autorità ucraine».

La prossima volta che un giornalista verrà ucciso in Russia, la gente comincerà a chiedersi se è vero, hanno scritto molti operatori della stampa, tra cui uno dei massimi esperti di servizi segreti russi, il giornalista Andrej Soldatov. La vicenda Babchenko farà storia. «La morte era un fake, il danno invece no. Babchenko è “resuscitato”, la verità non ci riuscirà così facilmente»: il suo caso non ha nemmeno lontanamente «danneggiato la narrativa di Mosca, hanno fatto invece un regalo alla propaganda», c’è scritto in un editoriale apparso sul Guardian. Non è firmato, ma condiviso dalla testata e dalla maggioranza degli operatori dei media che hanno pianto la morte del giornalista, hanno sorriso alla notizia del suo «ritorno in vita», ma poi hanno cominciato a fare domande. Babchenko non ha risposto se non così: «L’etica giornalistica è l’ultima cosa a cui penso in questo momento». Presto diventerà ucraino e abbandonerà la cittadinanza russa. Ora vive in una località segreta e ha promesso di «morire a 96 anni, dopo aver ballato sulla tomba di Putin».

Adesso servono motivi, evidenze, ragioni credibili: «Che prove ci sono contro questo presunto killer arrestato? E chi è l’uomo ora tenuto in custodia? Who is he, where is he?». Un uomo è stato messo in carcere: si chiama Boris German, ma, una volta in manette, ha accusato ancora un altro uomo e si è dichiarato, al contrario, collaboratore del controspionaggio gialloblu. Sarebbe stato al gioco per salvare la vita al giornalista. Mentre si continua ad indagare sul caso Babchenko, Maidan è tornata.

A Kiev il 26 maggio gli attivisti hanno sfilato vestiti da galeotti, a righe bianche e nere, con catene ai polsi: un simbolo della prigionia, un tributo di solidarietà agli oltre 60 prigionieri politici ucraini chiusi nelle carceri russe. I manifestanti hanno soprattutto chiesto la liberazione di Oleg Sentsov, il regista accusato dalle autorità di Mosca di aver organizzato attentati terroristici in Crimea dopo l’annessione della penisola alla Russia nel 2014. Si è marciato per lui anche a Tel aviv e Lipsia, fino a Vienna e Sydney, ma anche nella stessa Mosca. Sentsov è entrato in sciopero della fame il 14 maggio, deve scontare oltre 20 anni di carcere e, come ha riferito a sua sorella Natalia Kaplan, vorrebbe morire quando tutti saranno dietro lo schermo o negli stadi affollati della Federazione di Putin: «Sono felice se morirò durante i Mondiali di calcio per riportare l’attenzione sulla vicenda dei miei connazionali in prigione». Questa è notizia vecchia, la nuova però è che Sentsov è in terapia medica di sostegno e molti temono per la sua salute.

Dal caso Skripal a quello di Babchenko, l’indice dell’Ovest si leva sempre per accusare Mosca, ma il Cremlino ricorda che questo avviene sempre «senza prove». Nemmeno l’Ucraina è una patria sicura per i giornalisti: sono passati quasi due anni esatti da quando Pavel Sheremet, giornalista dell’Ukrainska Pravda, è stato ucciso a Kiev il 20 luglio 2016. Una bomba è esplosa nell’auto che guidava mentre stava raggiungendo Radio Vesti. Sheremet, – amico di Boris Nemtsov, ucciso alle porte del Cremlino nel 2015 -, era un feroce oppositore del governo Putin, ma il reporter criticava il leader russo almeno quanto quello ucraino, Poroshenko. Mentre si compie l’inszenirovka, la messa in scena di Babchenko, l’assassinio – reale – di Sheremet rimane in un dossier sommerso dalla polvere al dipartimento inchieste della capitale.

Ucraina: guerra e pace. E Russia, terra di scambi di prigionieri e celle chiuse. Dopo essere stata in carcere in Russia, dove era accusata dell’omicidio di due giornalisti russi in territorio di guerra, la soldatessa Nadezhda Savchenko è tornata a Kiev nel maggio 2016. La pilota è stata arrestata a fine marzo scorso, di nuovo, con la stessa accusa di Sentsov: terrorismo. Avrebbe pianificato di far saltare in aria la Rada, il Parlamento di Kiev. Nonostante si dichiari innocente, si è detta però pronta allo scambio prigionieri: la sua condanna la sconterà in Russia se «i 60 ostaggi del Cremlino saranno liberi. Capisco quale potrebbe essere il mio destino in Russia, ma se 60 ucraini e tatari della Crimea fossero scambiati per me, sono pronta a scontare 22 anni in una prigione russa».

Da Mosca, a Kiev, fino in Italia. Per la morte del fotoreporter Andy Rocchelli e del giornalista – all’epoca suo traduttore – Andrej Mironov, è stato accusato Vitaly Markiv, 29enne italo-ucraino, rinviato a giudizio in un’udienza preliminare tenutasi al tribunale di Pavia lo scorso maggio. Stesso mese, dalla primavera di oggi a quella di ieri: era maggio anche quattro anni fa, quando Andy e Andrej persero la vita nella Slaviansk sotto assedio. Nella cittadina dell’Ucraina dell’est i militari di Kiev erano sulla collina, le truppe dei filorussi erano a valle. Markiv, secondo l’accusa, era sulla collina. Il processo in cui anche la Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana si è costituita parte civile insieme alla famiglia Rocchelli, comincerà il prossimo 6 luglio.

Dal 2014, primo anno della guerra in Donbass, il conflitto non è finito in Ucraina e il suo presidente non manca quotidianamente di ricordarlo. Fa domande alla comunità internazionale, ma raramente fornisce risposte. A inizio giugno è direttamente a lui che si è rivolto il Cpj: è l’ultima richiesta, ma senza punto interrogativo. È una lettera. «Caro presidente Poroshenko, siamo il Comitato protezione giornalisti, le chiediamo di tenere al più presto una conferenza stampa con gli ufficiali ucraini coinvolti nell’operazione Babchenko, perché abbiamo delle domande da rivolgerle».

«Cerca di fuggire almeno tu, hai tutta la vita davanti»

People hold portraits of missing relatives while former Argentina's de facto President (1982-1983) and Army chief Reynaldo Bignone (C R) speaks with the judges during his trial, in Munro, Buenos Aires on April 20, 2010. Bignone, 81, is charged with the kidnapping and torture of 56 people who were held in secret detention centers at the Campo de Mayo military base, on the outskirts of Buenos Aires during Argentina's "dirty war" against leftists. In addition to the kidnapping and torture charges, Bignone is accused of having stolen children from some of the kidnapped detainees. AFP PHOTO / JUAN MABROMATA (Photo credit should read JUAN MABROMATA/AFP/Getty Images)

Nella mia famiglia c’è tutto quello che la dittatura argentina ha prodotto: esuli, prigionieri politici, desaparecidos, torturati, assassinati e nipoti recuperati». La voce di Gustavo Carlos Molfino è calma ma non fredda, negli occhi non c’è odio mentre ricorda quello che ha vissuto tra il 1979 e il 1980 nel suo Paese d’origine. A quel tempo era poco più che un adolescente ma già ricopriva un ruolo chiave nel movimento dei Montoneros, l’organizzazione guerrigliera di ispirazione socialista che tentò in ogni modo di contrastare la repressione della giunta civico-militare guidata da Jorge Videla prima di essere decimata.

«Ero tra coloro che avevano il compito di coordinare la clandestinità in Argentina dei militanti braccati dall’intelligence della dittatura che aveva il suo braccio armato nel cosiddetto Battaglione 601» racconta Gustavo Molfino a Left. Lo incontriamo a Roma, dove si trova per testimoniare al processo in cui sono imputati quattro militari brasiliani – Joao Osvaldo Leivas Job, Carlos Alberto Ponzi, Atila Rohrsetzer e Marco Aurelio da Silva Reis – per il sequestro, l’omicidio e la sparizione dell’italo-argentino Lorenzo Viñas Gigli, avvenuto il 26 giugno 1980 in Brasile mentre fuggiva dall’Argentina. Figlio dello scrittore David Viñas e di Adelaide Gigli, un’artista di origini marchigiane, Lorenzo in quanto militante della gioventù peronista viveva in costante pericolo e aveva intenzione di raggiungere la madre rientrata a Recanati, attraverso Rio de Janeiro.

Una volta oltrepassato il confine brasiliano fu arrestato e internato per un breve periodo in un luogo di detenzione clandestino al Paso de dos libres. Dopo di che fu riportato in Argentina. Viñas è stato visto vivo per l’ultima volta pochi giorni dopo da Silvia Tolchinsky, una montonera, vicino al famigerato Campo de Mayo, il centro di detenzione utilizzato dal Battaglione 601. Dopo quell’incontro di lui si persero le tracce. L’operazione di polizia appena descritta rientra nella prassi consueta del Plan Condor (vedi box a pag. 49). I fuoriusciti da uno dei Paesi aderenti al Condor venivano sequestrati con l’aiuto delle autorità locali (in questo caso brasiliane) e poi portati nel Paese di origine (in questo caso l’Argentina) dove venivano segregati nei centri di detenzione clandestina, interrogati, torturati per farsi indicare nomi e nascondigli dei loro compagni di resistenza e, a seconda dei casi, uccisi e fatti scomparire. Ed è per questo motivo che Gustavo Molfino è stato chiamato a deporre nella Capitale dal pm Tiziana Cugini: è un testimone chiave per raccontare come funzionava l’Operazione Condor. Avendola vissuta sulla sua pelle.

«Dopo i mondiali di calcio del 1978 si intensificò la repressione a causa della controffensiva dei montoneros e alla fine del 1980 a centinaia erano stati arrestati, uccisi o fatti scomparire» racconta Molfino. «Nel 1979, a 17 anni, andai in esilio volontario con mia madre, Noemi Esther “Mima” Giannetti de Molfino. Riparammo in Spagna, dove c’era una cellula importante di fuoriusciti montoneros». Nel 1975 era morto Franco e dopo 40 anni di dittatura il Paese iberico si trovava in pieno periodo di transizione indirizzandosi faticosamente verso la democrazia. Pensavano di essere più al sicuro, ma non avevano fatto i conti con…

L’inchiesta di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


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Se la Calabria guarda a sinistra

Attivisti del movimento “14 luglio” di Nicotera durante il blocco della stazione ferroviaria di Rosarno. Protestano contro le mancate risposte sui temi del mare e dell’acqua inquinata che esce dai rubinetti

«Contro la rassegnazione, noi del Sud abbiamo voluto lanciare un movimento. Dobbiamo riprenderci la voglia di sognare, dobbiamo resistere». È il 24 aprile e al Teatro San Carlo di Napoli si ricorda il sindaco Angelo Vassallo, ucciso nel 2010 in un agguato. Sul palco, mentre si discute del ruolo dei sindaci in prima linea contro le mafie, Michele Conia primo cittadino di Cinquefrondi, paese della piana di Gioia Tauro, dopo aver parlato della lotta alla disoccupazione, alla criminalità e all’isolamento, annuncia la nascita de Il Sud che sogna

Tre giorni prima, in un’assemblea nella mediateca di Cinquefrondi intitolata a Pasquale Creazzo, poeta socialista perseguitato dal fascismo, era nato il nuovo movimento culturale e politico. Una rete di comitati, associazioni, singoli militanti di partiti della sinistra (da Sinistra italiana, Leu fino a Potere al popolo) che hanno in comune lotte sui territori in difesa dell’ambiente e per la legalità e che provengono da tutte le cinque province calabresi. A due mesi dalle elezioni che hanno sancito il trionfo del M5s, dalla Calabria parte una reazione che si basa su esperienze collettive esistenti da anni, comprese quelle di liste civiche.

«Il Sud che sogna significa che i nostri sogni sono grandi perché vogliamo una Calabria migliore e non è facile. Ma noi i nostri sogni li vogliamo concretizzare», spiega Rita La Rosa, portavoce del movimento insieme a Michele Conia. Assistente sociale, presidente dell’Avis di Nicotera, ha trent’anni e fa parte di uno dei comitati del Sud che sogna, il Movimento 14 luglio di Nicotera, piccolo comune in provincia di Vibo Valentia. «Si chiama così perché in quel giorno del 2016 abbiamo occupato…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola


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In viaggio con Kader Abdolah nel cuore dell’Europa che cambia

È un viaggio nella storia ma anche nel presente dell’Europa vista da un inedito e illuminante punto di vista orientale il nuovo romanzo di Kader Abdolah, Uno scià alla corte d’Europa edito da Iperborea.
Due secoli fa, come negli anni Duemila, il vecchio continente era ad un punto di svolta e stava sviluppando una nuova identità. Oggi grazie all’incontro con i migranti che arrivano da Paesi lontani. Allora grazie a conquiste del sapere, della scienza e della tecnica. Nel XIX secolo l’Europa conobbe un vero e proprio salto di paradigma, proiettandosi verso un futuro di modernizzazione di cui lo scià protagonista di questo nuovo romanzo di Kader Abdolah rimase affascinato.

“Re bambino” costretto a diventare tiranno per imposizione di un sistema di potere basato sulla stirpe e sul sangue, lo scià (Nassereddin Shah Qajar era il suo vero nome) durante il suo Grand tour osservò, curioso e sbalordito, il prodigio di treni a vapore, futuri telefoni e polverine “magiche” come l’aspirina. E se, come racconta Kader Addolah, mescolando sapientemente storia e fantasia, la vista di quel progresso gli dette l’immediata misura della propria inadeguatezza (facendolo d’un tratto vergognare dell’harem, dello stuolo di servitori a seguito e della carovana di tappeti e antiche spade) l’incontro con Bismarck, con la regina Vittoria e con i nuovi padroni dell’industria bellica e dello sfruttamento dei lavoratori gli resero subito chiaro l’alto prezzo umano da pagare.

Di questo lo scià scrisse nel suo diario. Kader Abdolah lo immagina alle prese con penna e calamaio mentre la sua preferita Banu, moderna Shahrazād, gli legge romanzi di Tolstoj, di Gončarov e di altri grandi scrittori che in sorprendenti pagine di Uno scià alla corte d’Europa riuscirà perfino ad incontrare. In Russia, lo scià incontrerà anche lo zar Nicola II, come lui destinato a morire fucilato. Due dittatori ignari del proprio destino e prossimi ad essere cancellati dalla storia; l’uno nel 1919 a San Pietroburgo per mano dei bolscevichi, l’altro a Teheran nel 1896 per mano di terroristi nihilisti. Attraverso le parole del narratore e suo alter ego, l’orientalista dell’università di Amsterdam Seyed Jamal, Kader Abdolah, che da giovane fu perseguitato dal regime dello scià e da quello dell’ayatollah, aggiunge qui una toccante nota autobiografica: «Mentre frequentavo l’università entrai a far parte di un movimento di sinistra», fa dire a Seyed.«Parlavamo di Nicola II e giustificavamo il suo assassinio come un atto storicamente necessario compiuto dai bolscevichi. Non provavamo alcun sentimento, trattavamo la questione come la pagina di un vecchio libro di storia». Ma poi Seyed aggiunge: «Quando ad anni distanza lessi della principessa Dagmar e di Banu nei diari dello scià mi commossi. Non le vedevo più come foto in bianco e nero ingiallite dal tempo, ma come persone con paure e sogni».

Ed è questa umanizzazione della storia uno degli aspetti più seducenti di Uno scià alla corte d’Europa, che rileggendone il senso più profondo, non fa sconti a nessuno, né alla paranoia su cui si regge il potere dello scià che vede traditori ovunque, né al disumano e lucido positivismo capitalista su cui si regge il potere in Occidente. Ma il bello è che non si tratta di un romanzo a tesi. Kader Abdolah ci porta nel castello dei destini incrociati della storia e soprattutto ci fa conoscere la magia dell’incontro con l’altro, con il diverso da sé, che apre la porta di una possibile trasformazione, in noi stessi e nella società. Lo fa con semplicità narrando la vicenda di un immaginario Seyed Jamal, emigrato dalla Siria in Olanda, dove si è costruito una nuova vita, insegnando all’università. Un giorno ritrova per caso il diario di viaggio dello scià Nadir e, mettendosi sulle sue tracce narra la storia d’Europa da un punto di vista nuovo, ricreando in maniera poetica e immaginifica le Lettere persiane (1721) di Montesquieu.

Kader Abdolah

Incontrando Kader Abdolah al Salone del libro di Torino e in vista della sua partecipazione, il primo giugno, a La grande invasione ad Ivrea, non potevamo che partire da questo suo personaggio che molto gli assomiglia. Come lui orientale, come lui ex giovane rivoluzionario, come lui si è inventato una nuova identità di scrittore e studioso lontano dal suo Paese di origine.

«In un certo senso sì, mi sono nascosto dietro di lui, gli ho dato molte parti di me, forse Seyed sono io con una maschera», dice Kader Abdolah con sguardi e modi da seducente narratore di fiabe. «Che cosa mi ha permesso di tenere insieme il piano della storia, la letteratura e l’attualità? La mia gelosia!», risponde ridendo. «Ero geloso dell’impresa di questo scià che, nell’Ottocento, è riuscito a viaggiare per sei mesi attraverso l’Europa, in un periodo così importante, quando non c’era ancora la luce, non c’erano i computer. In un momento in cui l’Europa era impegnata a costruire una identità nuova, per se stessa. Erano gli albori di un nuovo continente, potente, pieno di energia. Quando ho letto il libro dello scia – confessa Kader Abdolah – ho capito che lui aveva visto molte cose, ma non era riuscito a vederle realmente. Le aveva viste con gli occhi ma non è riuscito a comprenderle davvero. Ha intravisto novità storiche come l’aspirina, ha orecchiato qualcosa al telefono, ma non ne ha afferrato la portata. Allora mi sono detto: io farò lo stesso viaggio. Ma io so cosa è la luce, cosa è un’aspirina, e ne farò un romanzo per me stesso».

Lo scià subisce uno shock culturale venendo in Europa, ma allo stesso tempo è come un’illuminazione, vede più profondamente se stesso. L’incontro fra due culture così diverse può essere fonte di conoscenza invece che di scontro culturale?

Mi piace il personaggio del re in questo romanzo perché, come me, viene dalla cultura orientale, approda alla cultura occidentale, e cerca di scrivere in modo libero. Io ho fatto lo stesso. Sono venuto dall’Iran. Lui era un dittatore. Io vengo da una dittatura. Lui cercava di incontrare delle persone per scrivere. Io faccio lo stesso. Sono arrivato qua, ho cambiato lingua di scrittura per poterci incontrare, per incontrare le persone e l’Europa, per avere la possibilità di scrivere le mie storie, come volevo.

Viaggiando, lo scià si rende conto di essere un re da niente ma capisce il potere che ha la scrittura.

Sì lui era un re, ma non voleva esserlo. Da piccolo era stato costretto a diventarlo. Di fronte alle pressioni straniere, dell’Inghilterra, della Russia, di fronte alle pressioni dell’entourage divenne dittatore, ma lui voleva stare solo per scrivere. Ma non sapeva cosa avrebbe scritto. Disse a se stesso: non sono un grande re, non lo sarò mai. C’è un solo modo per diventare una grande persona, fare un lungo viaggio per scrivere. Così ha scritto centinaia di pagine su quell’esperienza. Nella storia persiana lui è un re da nulla, ma è ricordato come piacevole scrittore.

Durante quel viaggio molti pregiudizi e illusioni vengono a cadere. Per esempio le donne occidentali non erano così libere come le apparenze potevano far pensare?

Lo scià viaggiava con molte donne dell’harem, che non avevano nessuna libertà. Ma scopre che anche le mogli dei re occidentali avevano le stesse limitazioni, vivano chiuse nei castelli. Tuttavia il momento in cui lui giunge in Europa è un momento cruciale, in cui l’Europa sta conquistando un nuovo volto: libertà delle donne, libertà nella modernizzazione. Lui vede tutto questo, ma non lo comprende sul momento, tutto ciò che sta accadendo è estremamente nuovo.

Rispetto al progresso dell’Europa la sua cultura sembra arretrata, ma è ricca di immaginazione, di narrazioni fiabesche, di interpreti di sogni. Lo scià viene da una cultura che a differenza di quella positivista occidentale non svaluta la dimensione interiore. Cosa ne pensa?

Lo scià viene da un Paese molto ricco dal punto di vista culturale, il Paese delle mille e una notte, dei tappeti volanti, di Alì Babà e i 40 ladroni, conosce il potere della narrazione e fa di quel viaggio qualcosa che supera la realtà. Rende romanzesca l’Europa, la ricrea in un racconto fantastico. Anche io ho trasformato la mia esperienza dell’Europa in letteratura. Lui l’ha fatto a suo modo. Ha tradotto l’Europa in un libro, perché aveva bisogno di raccontare per essere libero. Io ho fatto lo stesso, ho creato una nuova narrazione europea e in questo modo l’Europa è diventata la mia Europa.

In questo libro ci sono pagine molto belle e toccanti sui migranti. Come scrive Sayed in un tweet: «I migranti hanno molto coraggio, hanno fantasia, vanno incontro al futuro». Invece la cronaca ne parla solo in termini negativi, paventando pericoli ed emergenza. La letteratura ha il compito oggi di offrirne un diverso racconto?

Negli ultimi 25 anni sono arrivati 30 milioni di migranti in Europa, via mare, via terra, in volo. Fin qui solo la tv e i giornali hanno parlato di migranti. La cronaca è superficiale e ignora le loro storie. Quelle persone sono venute qui in cerca di cambiamento, hanno cominciato una nuova vita olandese, tedesca, italiana, francese, svedese. Hanno cambiato se stessi e stanno cambiando l’Europa. Ma nessuno parla di queste cose. Solo la letteratura è in grado di mostrare tutto ciò. è un dovere oggi per uno scrittore raccontarli in modo diverso. I media dicono che sono persone povere, pericolose, buone, cattive ecc, ma uno scrittore porta il lettore nell’animo del migrante. In questo momento quella persona è un immigrato, ma fra 50 o 60 anni sarà un olandese, un’italiana ecc. Io racconto questa trasformazione.

In Olanda i liberali di destra vogliono chiudere le frontiere. Ma in questo libro lei racconta anche di giovani studenti siriani applauditi al loro ingresso in aula da compagni di università. Queste due realtà convivono?

Queste realtà esistono in tutti i Paesi. In Germania c’è chi grida ai migranti di andarsene e ci sono quelli che portano cibo, indumenti, che vanno a incontrarli. Entrambi questi aspetti coesistono, così va la società, che per crescere ha bisogno di confronto, di dialettica, di rapporti, per creare qualcosa di nuovo

Lei è dovuto fuggire dall’Iran di Khomeini, molti suoi amici e conoscenti sono stati incarcerati, torturati, uccisi. Oggi cosa pensa di ciò che sta succedendo e delle minacce di Trump?

È uno scenario molto triste. Io odio il regime iraniano, mi sono sempre opposto agli Āyatollāh. Ma con le sanzioni Trump sta punendo il popolo iraniano. È uno schiaffo in faccia all’Iran ma – ecco il fatto nuovo – è anche uno schiaffo all’Europa. Trump dice: Italia se tu vendi qualcosa all’Iran ti punisco. Dice lo stesso alla Francia. È per

icoloso. l’Europa deve fare qualcosa. È un momento delicato nei rapporti fra Europa e America. La vicenda che riguarda i rapporti Usa-Iran è nota. Ma si sta d

elineando una nuova situazione fra l’America e il Vecchio continente. Io vedo Trump come un dittatore che prova a imporre all’Europa cosa fare, si comporta come gli ayatollah. Io vedo in Trump un ayatollah che vuole imporsi a livello internazionale.

In Siria si sta combattendo una guerra per procura, molti Paesi 

intervengono nel conflitto e chi continua a farne le spese è la popolazione civile.

La guerra potrebbe finire ma Trump non l’accetta e fa il gioco sporco.

*

(traduzione di Francesco Troccoli)

 

L’intervista di Simona Maggiorelli allo scrittore iraniano Kader Abdolah è stata pubblicata su Left del 1 giugno 2018


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Una crisi di certezza della realtà

La situazione di crisi politica in cui si trova l’Italia negli ultimi giorni è drammatica e senza precedenti. Al momento di andare in stampa abbiamo saputo che c’è l’ipotesi di andare a votare a luglio per accelerare un processo che Mattarella ipotizzava durasse perlomeno 3 mesi. È evidente a chiunque che Salvini è riuscito in un’impresa incredibile. È riuscito a manipolare Di Maio e il Movimento 5 stelle e questo in fondo non era difficile data la voglia di governare del Movimento. Ma soprattutto è riuscito a prendere in contropiede il presidente della Repubblica e con ciò tutto quello che egli rappresenta, ossia le istituzioni e l’Italia intesa come Repubblica democratica e la sua popolazione. Il presidente della Repubblica infatti rappresenta la nazione intera e la sua unità. Non una parte o un’altra né tantomeno qualche ipotetico potere straniero o peggio ancora occulto. Mattarella ha dato ascolto ai due partiti che potevano formare una maggioranza parlamentare per formare un governo e votargli la fiducia.

La prima enorme anomalia è stata il nome del presidente del Consiglio. Non certamente per il fatto che avesse qualche riga di troppo nel suo curriculum, peraltro impeccabile. Ma per il fatto che il premier non fosse un politico ma un tecnico. Enorme anomalia che rivela evidentemente quanto i Cinque stelle tenessero a governare: sono stati disposti a rinunciare al premier avendo il doppio dei parlamentari della Lega. Una strategia più accorta avrebbe consigliato a Di Maio, non potendo essere lui il premier, di mettere lui il veto a Salvini. Questo sì gli avrebbe mantenuto i consensi che ora sta in parte perdendo. Secondo errore strategico dei Cinque stelle ma perfettamente legato al primo: accettare il nome di Paolo Savona come ministro dell’Economia in presenza di un premier politicamente debolissimo. Savona che non ha mai nascosto, né mai smentito in alcun modo, i suoi piani di trattare con l’Europa basandosi sulla minaccia di un “piano B”, ossia l’uscita dall’euro, esplicitato in un dettagliato documento facilmente reperibile in rete. Né è servita a nulla la “letterina” scritta domenica 27 dallo stesso Savona. Nel testo non viene mai dichiarato di non volere uscire dall’euro ma solo di voler trattare con l’Europa, ossia un’ovvietà per chi aspira ad essere ministro dell’Economia.

L’enorme problema rappresentato da Savona era un combinato disposto: un completo principiante in politica come primo ministro e un navigato tecnico molto esperto di politica come ministro dell’Economia che non avrebbe avuto alcun ostacolo a fare quello che voleva, senza alcun controllo. Con Di Maio premier, per quanto debole da un punto di vista di esperienza, sarebbe stata un’altra storia. Un premier indicato dal 34% di elettori ha una forza di indirizzo enorme e in nessun modo comparabile con quella di un primo ministro tecnico. Ma forse va cercato nel “contratto” il primo errore di Di Maio. Perché mai sottostare ad una trattativa con la Lega quando si ha il doppio di voti? Un enorme errore di ingenuità politica! Salvini ha avuto gioco facile a “rigirare come un calzino” il povero Di Maio. E viene il sospetto che non volesse veramente farlo il governo. Perché altrimenti avrebbe accettato un compromesso, peraltro con un nome che era quello di un suo fedelissimo. Anche perché se la reale intenzione di Salvini è quella di uscire dall’euro non c’è alcun bisogno di avere come ministro Paolo Savona. Né tantomeno c’è bisogno di Savona ministro per discutere veramente con l’Europa. Come se un singolo ministro, per di più tecnico, faccia la differenza nella realizzazione del programma di governo!

Ora il problema è diventato un non detto: nel mondo è diventato ovvio che Lega e Cinque stelle vogliono l’uscita dall’euro. E che le prossime elezioni saranno un referendum pro o contro l’euro. Una Italexit. Lega e Cinque stelle marciano sulla teoria del complotto dei mercati controllati dai tedeschi e dalla Ue che vogliono imporci di fare quello che dicono loro ovvero che siamo una nazione a sovranità limitata e che quindi questi incredibili cattivoni non volevano il “governo del cambiamento”. Non possono quindi dire “non è vero vogliamo rimanere nell’euro” perché perderebbero immediatamente il voto plebiscitario che prevedono di avere. L’incertezza sul futuro si traduce immediatamente in sfiducia. Prima di tutto dei mercati che reagiscono subito. Ma si può poi propagare, come è già successo nel 2011, al sistema economico in generale. È questo il grande pericolo che Mattarella voleva evitare. È una questione di realtà di vita di tutti, non è un complotto dei mercati, né una questione politica. È una questione di realtà. In tutto ciò Renzi e quel che resta del Pd continuano a vivere in una realtà parallela, sconnessi dalla realtà vera. Renzi è convinto che gli elettori che non lo hanno votato torneranno dal lui, capiranno che lui aveva ragione.

Non funziona così. Il Pd continuerà a perdere. Perché gli elettori di sinistra sono mediamente persone a cui piace comprendere il motivo di quello che accade, anche in politica. E certamente sanno bene e non dimenticano che Renzi è colui che ci ha portato in questo gran pasticcio che in qualche modo era esattamente quello che lui voleva. Il “tanto peggio tanto meglio” che non serve a nessuno. Il resto della sinistra è sbandato, non sa come orientarsi. È in crisi di certezze.  L’idea propagandata dalla Lega che “Savona avrebbe saputo farsi valere in Europa” e che Mattarella ha attentato alla democrazia è stata accolta come vera da tante, tantissime persone di sinistra. Troppi si sono fatti abbindolare da una narrazione falsa e molto pericolosa per la nostra democrazia. Sembra una crisi di rapporto con la realtà, non si capisce più cosa sia vero e cosa no, cosa sia pericoloso e cosa no. Cari compagni, aprite gli occhi! State commettendo un errore madornale. Non esistono complotti se non quello della Lega per farvi credere che Mattarella è manipolato e che siamo tutti nelle mani dei tedeschi. Ma chi vi manipola sono i leghisti o i Cinque stelle (quello che preferite) quando credete che i problemi dell’Italia siano risolvibili in pochi mesi, grazie a facili ricette da realizzare in pochi mesi. Mattarella ha applicato una Costituzione nata dopo il fascismo. Nell’esercizio perfettamente corretto delle sue funzioni ha fermato la nomina di un ministro che poteva avere un significato dirompente per tutti. Non per i poteri forti o poteri deboli o poteri inesistenti. Per tutti.  Nel nostro Paese la democrazia è regolata dalla Costituzione che va rispettata, anche nelle sue parti che sembrano più oscure. Se non si capisce è meglio sospendere il giudizio e aspettare di capire di più. Una sola cosa, molto semplice, va capita e ricordata: il Presidente della Repubblica rappresenta tutti. Nessuno escluso.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Riprendiamoci la festa laica del 2 giugno

Le feste laiche? Sono nostre. Riprendiamocele!
Voi che fate il 2 giugno?
In che senso?
È festa
Ah! Allora dipende
Da cosa?
Da come capita, da che giorno della settimana è.
Quest’anno sabato.
Peccato! Fosse stato venerdì si poteva andar fuori, al mare! Che tempo si prevede?
Buono!
Allora faremo un buon weekend.

Come è potuto accadere? Non si tratta solo che le persone, quelle che di solito incontriamo sui mezzi pubblici, quelle che si segnano quando si passa davanti a una chiesa o di cui devi ascoltare le insulsaggini mentre aspetti alle fermate, ignorino del tutto che il 2 giugno è la festa della Repubblica, che ne ricorda l’atto fondativo, che lo stesso popolo italiano ha decretato col proprio voto nel referendum istituzionale del 1946; il vero dramma è che non si senta in maniera diffusa e unitaria il desiderio di festeggiare la riconquistata libertà. Non voglio muovere accuse di scarso patriottismo, non mi appartiene, osservo solo l’accettazione fredda di una festa del tutto svuotata di senso, snaturata dai soliti rituali ufficiali: parate militari, evoluzioni di frecce tricolori alla presenza delle massime autorità dello Stato. Una Repubblica nata dalla Resistenza, fondata su una Costituzione che “ripudia” la guerra noi la festeggiamo mostrando i muscoli? E non con i fuochi pirotecnici, i balli in piazza e i pranzi collettivi come fanno gli americani il 4 luglio e i francesi il 14?

Non voglio riaprire diatribe che investono le nostre feste civili da 70 anni, tali da indurre alcuni governi a eliminarle e altri di colore diverso a reinserirle o i tentativi costanti di tutte le destre di cancellare il 25 aprile, che ci ricorda la vittoria sul nazifascismo e che è diventata la festa intestata all’Anpi così come il primo maggio è appannaggio dei sindacati, ma mi piacerebbe capire perché il 2 giugno noi non lo sentiamo come la festa della libertà e della democrazia. Ma come sono andate le cose al momento della nascita della Repubblica? Dopo una guerra anche civile, in cui gli italiani si sono venuti a trovare su due fronti contrapposti, l’un contro l’altro armati, barricata mai più stata abbattuta?

La nascita di una nazione è importante per il suo sviluppo successivo come quella di un bambino. Il 2 giugno 1946 è nata la Repubblica italiana, “in sordina, senza gesti giacobini, senza rappresaglie e senza comitati di salute pubblica: Repubblica in prosa e a lumi spenti”, così Calamandrei; gli italiani hanno dato “scacco al re”in modo civile e composto: una grande prova di maturità politica e di resistenza morale, dopo 20 anni di fascismo e 3 di guerra; la penisola trasformata in un enorme campo di battaglia in cui tutta la popolazione viene coinvolta, con sofferenze e patimenti, mai prima d’ora conosciuti. Una situazione che ha messo a rischio la stessa unità nazionale. Unità che la Resistenza riesce a ricomporre solo in parte, maggiormente dove spira il “vento del nord”, mentre il “regno del Sud”, liberato dagli alleati vede il riorganizzarsi dei tradizionali gruppi dominanti, fermi al potere con il beneplacito degli alleati. Un’Italia divisa geograficamente, che rischia di sfasciarsi insieme alla sconfitta della guerra fascista e che dal giugno del ’45 è guidata da un uomo integerrimo: Ferruccio Parri, messo però nella più assoluta impossibilità di agire dal ferreo controllo alleato, responsabile in primis della mancata epurazione delle più alte sfere dello Stato e della burocrazia. Per i partiti antifascisti una reale possibilità di rinnovamento è la Costituente e la vittoria della Repubblica al Referendum istituzionale.

Anche i cattolici votano per la Repubblica, ma ben 6 degli 8 milioni di voti democristiani vanno alla monarchia; certo l’atteggiamento di De Gasperi non è adamantino, da politico avveduto lascia libertà di coscienza al proprio elettorato, ben consapevole che se la Chiesa non prende una posizione pubblica netta, è però filomonarchica tanto da ritardare il rientro in Italia di don Sturzo, sincero repubblicano. La Dc è inoltre una convinta sostenitrice del voto alle donne, in quanto le reputa maggiormente influenzabili dalla Chiesa. La monarchia sabauda, anche in questo frangente, gioca sporco, ben salda sul trono, cerca di rimandare la prova elettorale per riconquistare consenso, ben sostenuta dai partiti di destra: liberali, monarchici e fascisti, che rifanno capolino e in seguito ingrossano le fila de L’uomo qualunque di Giannini

Noi siamo nati così: luci ed ombre, ma gli Usa e la Francia?

Gli Usa sorgono da un crogiuolo di lingue, culture, storie e religioni diverse, provenienti da tutta Europa e a predominanza inglese; una miscela da cui emerge una società con caratteristiche originali. Una società che cancella con un genocidio di massa i nativi. Le colonie fino a metà ’700 non pensano all’indipendenza dall’impero Britannico, orgogliose di farne parte, sono le leggi sul bollo del 1775 ad accendere la miccia e a generare, da una protesta, una ribellione che si trasformerà in guerra di liberazione. Il 2 luglio del 1776 il Congresso approva la Dichiarazione di indipendenza, stilata da T. Jefferson, B. Franklin e J. Adams: atto di nascita della nazione.
John Adams scrive alla moglie Abigail: «Il secondo giorno di luglio del 1776 sarà l’evento più memorabile della storia dell’America. Sono portato a credere che sarà celebrato dalle generazioni future come una grande festa commemorativa. Dovrebbe essere celebrato come il giorno della liberazione, attraverso solenni atti di devozione a Dio Onnipotente. Dovrebbe essere festeggiato con pompe e parate, con spettacoli, giochi, sport, spari, campane, falò ed illuminazioni, da un’estremità di questo continente all’altra, oggi e per sempre»

In seguito si scelse di festeggiare il 4 luglio, il giorno in cui la Dichiarazione di indipendenza è resa pubblica, per il resto i festeggiamenti seguono le indicazioni di Adams, parole in cui leggiamo l’orgoglio di un popolo che ha combattuto all’unisono e diventa nazione (e pluribus unum) e sceglie come proprio emblema l’aquila dalla testa bianca. Simbolo di potenza già nell’impero romano. Aquila inserita in uno scudo araldico con le ali aperte e la bandiera a stelle strisce sul corpo; essa stringe nell’artiglio destro un ramoscello d’ulivo, ad indicare l’amore per la pace e in quello sinistro 13 frecce, insomma sempre pronta a far la guerra! L’occhio acutissimo dell’aquila ci mette in relazione con quello di dio rappresentato sul retro. Insomma una nazione che si fonda sulla religiosità, che si riconosce nelle proprie feste e nei propri simboli, ma che è piena di contraddizioni.

Solo qualche anno dopo anche la Francia, al culmine della sua gloriosa rivoluzione e di una lotta tutta interna, sconfigge l’ancien régime con la presa della Bastiglia e sceglierà in seguito questa data come fondativa della nazione; fu Benjamin Raspail nel 1880 a proporre al parlamento francese l’istituzione di questa festa. Agli anni 30 dell’800 risale invece il dipinto di Delacroix, della Marianne, splendida donna con le tette al vento; che guida il popolo alla lotta contro il reazionario Carlo X e che rappresenta la Rivoluzione e con essa anche la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, valori per i quali è necessario lottare. La Marianne dell’89 era una giovane donna che indossava il berretto frigio, simbolo esso stesso della libertà poiché in epoca romana viene portato dagli schiavi che si sono liberati.

Una Marianne che rimane unica rappresentazione della Rivoluzione al di là delle numerose fazioni che hanno bisogno tutte del favore popolare, che questa immagine femminile incarna, e che nessuno pensò mai di modificare, solo in tempi più vicini a noi è stata notevolmente cambiata: ben vestita e più composta dal momento che deve incarnare i valori di una borghesia non più rivoluzionaria ma che ha conquistato potere politico e economico. Si è chiesto, in seguito, alle attrici francesi più in voga di impersonarla: da Brigitte Bardot a Catherine Deneuve, da Laetitia Casta a Sophie Marceau. Così la Marianne continua a evolversi e a vivere nel popolo francese. Le sue tette però vengono spesso prese di mira come ha fatto di recente il sindaco di Neuville-en-Ferrain, che non sopportando la vista di un seno nudo nonché troppo prosperoso di una scultura che troneggiava all’interno del municipio, l’ha fatta rimuovere e sostituire con una più morigerata, tra le proteste dei suoi concittadini; insomma un’immagine troppo seducente e che va censurata. E noi? (invidia a parte per le belle tette della Marianne) come siamo messi?

Il profilo severo di donna turrita, inserito nella scheda del referendum sulla forma istituzionale dello Stato dai fautori della Repubblica, è un’immagine classica che trae origine dall’antica Roma e verrà riproposta nei francobolli, nella serie cosiddetta Siracusana. Un simbolo astratto non paragonabile in nessun modo alla Marianne; indice di tempi severi. Ma se questa è l’unica immagine che riescono a proporre i partiti che portano avanti la battaglia per la Repubblica, mi riferisco a tutta la sinistra, che lo fa senza l’ambiguità e la doppiezza della Dc di De Gasperi, casa Savoia ripropone lo stemma monarchico. Una monarchia che ricorre al ridicolo del re di maggio, ultima carta da giocare visto che ormai non si può più rimandare, mentre avrebbero dovuto, con dignità allontanarsi dall’Italia, che hanno loro sì portato nel baratro del fascismo, della guerra e della distruzione, non solo non fanno alcun passo indietro, ma con il supporto delle gerarchie cattoliche, conducono una campagna referendaria serrata, accusando poi i fautori della Repubblica di “brogli”elettorali!

Di fronte a immagini così scarse ci viene da pensare che poi la Repubblica si sia presa la sua rivincita e si sia scelta un’immagine di donna giovane e bella che ne è diventata la rappresentazione. Mi riferisco alla giovane donna sorridente che alza sulla propria testa la prima pagina del Corriere della Sera in cui campeggia la scritta “è nata la Repubblica italiana” pubblicata dal settimanale Il Tempo il giorno della proclamazione della Repubblica. Una foto scattata da Federico Patellani. L’aver ignorato per 70 anni l’identità di questa donna ha certamente reso più facile farla diventare l’immagine di tutte le donne e delle loro lotte; ma ora, grazie ad un “crowdsourcing intorno a un sorriso”, quel bellissimo volto ha un nome e un cognome: Anna Iberti, che all’epoca aveva 24 anni e lavorava all’Avanti. Una storia tutta all’interno del giornalismo italiano dunque, una storia che porta il volto di una donna orgogliosa di esserne l’interprete, un volto e un sorriso che ci fanno sperare ancora che una nuova alba da qualche parte ci sia. Ci dovrà essere.

Buona festa della Repubblica!

L’articolo di Rita De Petra è tratto da Left in edicola


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Con la May è impossibile scioperare. Corbyn punta all’abrogazione delle norme antisindacali

epa06424852 Members of the Rail, Maritime and Transport (RMT) workers union picket Waterloo Station in London, Britain 08 January 2018. RMT workers are striking on the 8, 10 and 12 January over a dispute over the role of guards.The strikes mainly affect services on the regional South Western Railway (SWR) and are causing minor disruption. EPA/NEIL HALL

In Gran Bretagna per i lavoratori è diventato sempre più difficile lottare per far rispettare i propri diritti. Questo, a causa di un nuovo atto governativo voluto dai conservatori che pone dei freni nell’organizzazione delle proteste. Ed è anche su questo fronte che il leader laburista Corbyn, già un anno fa, ha annunciato che darà battaglia.

Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio nazionale statistiche britannico, nel 2017 soltanto 33mila persone non hanno lavorato per vertenze di lavoro, una cifra molto più bassa rispetto alle 154mila dell’anno precedente come si può leggere sul Guardian.

Non solo. La paga media è peggiorata rispetto a dieci anni fa, quando la crisi finanziaria è cominciata; la crescita dei salari non era così bloccata dai tempi delle guerre napoleoniche, calcola il Guardian, eppure la protesta è diventata più difficile, da quando il Trade Union Act, nuovo atto sindacale, è entrato in vigore nel marzo 2017.

«La possibilità dei lavoratori di entrare in sciopero per difendere il loro lavoro è stata limitata. È soprattutto il caso del settore pubblico in cui i rappresentanti del sindacato devono affrontare più ostacoli per organizzare uno sciopero» ha detto la sindacalista Hannah Reed, della Tuc, Trade Union Congress, la confederazione che raggruppa 58 sindacati del Regno Unito.

Secondo il nuovo atto governativo, per l’organizzazione degli scioperi si devono superare  due soglie: quella del 50% e del 40% degli aventi diritto che devono pronunciarsi a favore dello sciopero. Inoltre i lavoratori devono rendere nota l’organizzazione dello sciopero 14 giorni prima della protesta invece di sette, come previsto dal precedente patto.

I più grandi scioperi del Regno Unito sono stati registrati negli anni 70: quasi cinque milioni di persone nel 1979 hanno manifestato contro il governo affinché cambiasse le sue politiche. Ma già nel 2015 solo 81mila lavoratori hanno partecipato agli scioperi: era la prima volta in 120 anni che il numero dei partecipanti agli scioperi britannici era inferiore ai 100mila.

Nel 2017 il numero di lavoratori che ha potuto battersi per i propri diritti è stato il più basso dal 1893, anno in cui iniziarono gli scioperi collettivi nazionali per il carbone e 634mila operai decisero di unirsi per pretendere condizioni lavorative migliori. Allora c’era la regina Vittoria sul trono, oggi a Downing Street c’è Theresa May.

Uno dei primi passi che compirebbe l’amministrazione laburista di Corbyn, una volta al governo, sarebbe proprio questo: abrogare il patto “feroce”, il Tory Trade Union Act, introdotto nel 2017 dai conservatori. «Una delle prime cose che faremo» disse Jeremy il rosso  ad una manifestazione organizzata con le delegazioni sindacali scozzesi, sarà dare «alle persone il diritto di organizzarsi collettivamente, renderemo le loro vite migliori, più sicure, più felici. La scelta del Paese sarà chiara, è il popolo contro i potenti. Come i sindacati staremo dalla parte dei many, not the few, dei molti, non dei pochi».

 

Salviamo l’articolo 9 da liberisti e legastellati

Palermo's Piazza Pretoria. Fontana Pretoria by Francesco Camilliani.

Alla voce “cultura” il contratto giallo-nero firmato dal «signor Luigi Di Maio» e dal «signor Matteo Salvini» non è eversivo, come invece accade sul piano dei diritti dei migranti o su quello del vincolo imperativo da imporre ai parlamentari. Non lo è perché non è di cambiamento, anzi è una dichiarazione di sconcertante banalità, in cui ci si impegna a perpetuare l’orrendo stato delle cose: con una inconsapevolezza e una inerzia degne di un qualunque assessore o ministro del Pd o di Forza Italia (su questo, come su quasi tutti i temi cruciali, tra loro peraltro indistinguibili). Innanzitutto bisogna notare che il tema “cultura” si esaurisce nel patrimonio culturale, e in una sesquipedale appendice sullo spettacolo dal vivo. Niente altro.

Veniamo dunque al piatto forte, il povero patrimonio. Si inizia con l’originale affermazione per cui «il patrimonio culturale italiano rappresenta uno degli aspetti che più ci identificano nel mondo»: non che ci identificano di fronte a noi stessi, sia chiaro, ma agli occhi degli altri. Si capisce che il piano inclina già verso il brand Italia così caro al pensiero dominante, e al renzismo che lo incarnava: non una parola sulla costruzione culturale della nazione. Meglio, vien da dire, visto quello che avrebbe potuto scrivere la Lega, che è portatrice di una “visione” dell’identità culturale radicalmente contraria a quella progettata dalla Costituzione: non, cioè quella di una nazione costruita per via di cultura (e dunque aperta per definizione alle modifiche di chi viene, in pace, a vivere tra noi), ma anzi una stirpe del sangue che rifiuta i «non italiani», e strumentalizza il cristianesimo usandone i simboli (crocifissi e presepi) come clave verso l’Islam, e in generale verso gli “altri”.

Di tutto questo non c’era traccia (per fortuna), e il discorso scivola subito nel più usurato armamentario metaforico della retorica del petrolio d’Italia, dalla metà degli anni Ottanta di Gianni De Michelis e fino a Dario Franceschini, così cara a tutto il “pensiero” del nostro ordoliberismo all’amatriciana. Uscendo (finalmente) dal Collegio Romano con lo scatolone in mano, il sullodato Franceschini ha finito come aveva cominciato: definendo, cioè, il Mibact come «il più importante ministero economico del Paese». Coerentemente, l’aveva gestito come un supermercato, anzi un outlet del patrimonio. E tanto valeva che continuasse lui, visto che il contratto che avrebbe dovuto legare le mani al suo successore parla solo in termini di «ricchezze artistiche e architettoniche» che oggi il Paese «non sfrutta a pieno», «lasciando in alcuni casi i propri beni ed il proprio patrimonio culturale nella condizione di non essere valorizzati a dovere».

Ricchezza, sfruttamento, valorizzazione: queste le parole chiave di un non cambiamento. E se qualcuno avesse dubbi, legga il passo in cui si enuncia il sacro principio per cui «lo Stato non può limitarsi alla sola conservazione del bene, ma deve valorizzarlo e renderlo fruibile attraverso sistemi e modelli efficaci, grazie ad una gestione attenta e una migliore cooperazione tra gli enti pubblici e i privati». Un inchino al pensiero unico: che evoca la tutela e la conservazione solo per definirli freni, ostacoli, zavorre. Una tesi lunare anche sul piano pragmatico: nel senso che oggi lo Stato fa esattamente il contrario, cioè non tutela e non conserva, ma semmai valorizza a vanvera, e cioè mercifica allegramente. Non poteva mancare l’inascoltabile mantra sui privati, un rosario che si snocciola sempre uguale da decenni, e che non tiene conto del fatto che il patrimonio è già stato privatizzato nelle midolla: dalla legge Ronchey e dal suo ancor peggiore ampliamento voluto da Antonio Paolucci (primi anni Novanta). E che, dunque, semmai bisognerebbe ricostruire il ruolo dello Stato: cioè fare tutto il contrario di ciò che dice il contratto giallo-nero.

E ancora: è certo sacrosanto affermare che «tagliare in maniera lineare e non ragionata la spesa da destinare al nostro patrimonio, sia esso artistico che culturale, significa ridurre in misura considerevole le possibilità di accrescere la ricchezza anche economica dei nostri territori». Ma, a parte la surreale distinzione tra “patrimonio artistico” e “culturale” (concepita evidentemente da un analfabeta) sfugge agli ottimi estensori il punto cruciale: e cioè che oggi il problema non è “non tagliare” (non c’è rimasto più nulla da tagliare), ma al contrario aumentare esponenzialmente i ridicoli finanziamenti. Perché siamo a uno 0,7 % del Pil speso dallo Stato in cultura, che ci fa terzultimi in Europa dimostrando che (alla faccia della propaganda di Franceschini) siamo messi ancora peggio di quando l’indimenticato Sandro Bondi lasciò lo scranno più alto del patrimonio (era il 2008, e la spesa pubblica in cultura era allo 0,8 % del Pil).

Su tutto, poi, la frustrante indicazione del “movente” alla virtù: dovremmo finanziare il patrimonio per far crescere la «ricchezza» materiale: del «progresso spirituale (oltre che materiale) della società» di cui parla l’articolo 4 della Costituzione, nessuna memoria. Del «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) manco a parlarne. La cosa è tanto più avvilente quanto si rammenti che il programma sui Beni culturali del Movimento 5 stelle era un altro mondo: a tratti oggettivamente buono, e comunque molto più serio, dettagliato e “a sinistra” di quello, per dire, di Liberi e uguali.

Per non fare che qualche esempio: ci si impegnava esplicitamente a far sì che «il comparto relativo al ministero per i Beni e le attività culturali e del turismo, sul totale generale del bilancio dello Stato, possa varcare la soglia almeno dell’1 percentuale rispetto al Pil». E ci si impegnava anche a «rivedere profondamente la riforma (Franceschini) dell’organizzazione del ministero e dei suoi organi periferici»; oltre che a revocare la mostruosa liberalizzazione delle esportazioni di Beni culturali voluta da Andrea Marcucci e approvata da Franceschini («il Movimento 5 stelle ritiene, dunque, necessaria l’immediata revisione di quella parte della Legge per il mercato e la concorrenza e il ripristino della fondamentale funzione di controllo da parte degli organi competenti»). Si annunciava «un fondo dotato di risorse adeguate se si vuole raggiungere l’obiettivo di dotare il nostro Paese di un catalogo unico nazionale digitale del patrimonio».

E vivaddio si affermava di ritenere «indispensabile una ricognizione e valutazione del reale fabbisogno di risorse umane per raggiungere livelli adeguati di gestione e tutela negli archivi e nelle biblioteche». Insomma, si comunicava con efficacia la volontà di attuare «il diritto alla tutela costituzionalmente garantito», e di farlo per la via maestra: cioè attraverso «un adeguato riconoscimento e valorizzazione delle figure professionali che operano nel settore dei beni culturali», e restituendo anche alcune «attività di valorizzazione alla sfera pubblica, lasciando ai concessionari privati i soli servizi di bigliettazione, caffetteria, ristorazione e guardaroba». Infine, condannando il fatto che «il decreto legge c.d. Sblocca Italia ha spalancato le porte alla cementificazione del territorio e dei paesaggi italiani, in barba all’art. 9 della Costituzione», si riteneva «fondamentale attribuire di nuovo le piene funzioni di tutela del paesaggio alle soprintendenze».

Era a causa di questo bel programma che avevo considerato la possibilità di accettare la proposta di Luigi Di Maio di stare come ministro per i Beni culturali nella lista presentata alla vigilia delle elezioni: un’opzione presto tramontata a causa della manifestata volontà di cambiare la Costituzione (appunto all’articolo 67 sul vincolo di mandato), e a quella che allora era solo l’ombra di un possibile accordo con la Lega, inaccettabile per me antifascista. Al posto del mio nome, Di Maio inserì quello di Alberto Bonisoli, esperto di management e direttore dell’Accademia di belle arti privata di Milano: una scelta diametralmente opposta, davvero difficile da capire.

Gli faccio i miei migliori auguri: anche se tutto lascia credere che la musica non cambierà. Con la destra, la sinistra, o con il governo del presidente l’eclissi dell’articolo 9 non sembra destinata a passare.

L’articolo di Tomaso Montanari è tratto da Left in edicola


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Sorci verdi

Nasce il Governo giallo-verde-nero Salvini-Di Maio – con Fratelli d’Italia a sostegno della maggioranza di Governo -, liberista in economia, illiberale sul fronte dei diritti civili, xenofobo razzista e securitario.

Un Governo sostenuto dalle forze che hanno capitalizzato sul piano elettorale le insicurezze sociali prodotte dall’attacco al lavoro ed allo stato sociale dei Governi tecnici sostenuti dal Pd e da governi dal Pd direttamente guidati, attacco che ha avuto il suo punto più alto con Matteo Renzi e le sue scelte come il Jobs Act, la Buona Scuola, l’attacco al Sindacato ed il tentativo – fallito – di riscrittura costituzionale.

Un Governo con una forte investitura nelle classi popolari e nel mondo del lavoro, se come afferma una ricerca della Fondazione Di Vittorio il 33% degli iscritti della stessa Cgil ha votato M5Stelle ed un 10% Lega.

Precipitano in questo risultato processi di fondo e scelte dell’oggi e di ieri.

La scelta dell’oggi riguarda il Pd e Matteo Renzi, che ha scientemente spinto il M5Stelle verso la Lega, non aprendo neppure una interlocuzione parlamentare che avrebbe potuto condurre ad un esito ben diverso sul piano del governo del Paese.

Una scelta politicamente grave, che corre il rischio di saldare definitivamente sia sul piano elettorale che sociale il blocco giallo-verde ad egemonia leghista.

Le scelte di ieri rimandano al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed alla sua precisa responsabilità nel non aver permesso che il Paese andasse immediatamente al voto dopo l’implosione del governo Berlusconi – alimentando e subendo il terrorismo dello spread e dei mercati – lavorando per la costruzione del cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, quello della controriforma Fornero sulle pensioni e la sostanziale manomissione dell’articolo 18. La Sinistra larga, se si fosse votato allora, avrebbe archiviato per sempre la stagione del Centrodestra, Lega compresa, e non avremmo avuto nello scenario politico né l’assalto vittorioso di Matteo Renzi al Pd di Bersani né l’esplodere della creatura della Casaleggio associati e di Beppe Grillo.

I processi di lungo periodo e di livello strutturale rimandano alla profondità della faglia rappresentata dal voto del 4 di marzo. Le politiche di austerità e di limitazione delle sovranità costituzionali portate avanti dai conservatori e dalla maggioranza delle forze appartenenti all’Internazionale Socialista hanno consegnato a livello di massa i cosiddetti sconfitti della globalizzazione alle forze reazionarie e xenofobe, che ripropongono nella propaganda e nell’agitazione politica elementi che hanno caratterizzato il fascismo “sansepolcrista” e tutte le destre sociali.

Temi che parlano e fanno presa su un mondo del lavoro non più rappresentato da tempo sul piano politico, impoverito e precarizzato, sfibrato dalla sfiducia nell’azione collettiva, individualizzato dal capitalismo post-fordista, annichilito dalla nuova ragione del mondo della retorica manageriale e dalla società della prestazione.

Un processo di privatizzazione e gestione privatistica ed aziendale della società e dei rapporti sociali che trova sul piano politico-istituzionale una ulteriore affermazione con il cosiddetto “contratto del Governo del cambiamento”, sanzione formale della vittoria dell’azienda sul lavoro e della aziendalizzazione della vita quotidiana – resa possibile anche dallo sfarinamento dei partiti di massa prodotto dalla gestione politica di Tangentopoli che trovò il suo punto più devastante dall’appoggio del PdS ai referendum di Mariotto Segni, decretando con il superamento della legge elettorale proporzionale a favore del maggioritario l’alterazione sostanziale dell’equilibrio Quarantottesco dei poteri.

Nella lunga traversata nel deserto che ci aspetta non sarà inutile fissare dei punti fermi.

L’Italia è una Repubblica parlamentare, non presidenziale, e tale deve restare.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

La legge elettorale deve essere di solido impianto proporzionale.

Le maggioranze di governo si ricercano in Parlamento.

La Costituzione repubblicana ha la prevalenza sui Trattati Europei.

Bisogna abolire il pareggio di bilancio in Costituzione.

La nostra Costituzione permette perfino la transizione al Socialismo per via democratica.

Bisogna dare risposte concrete e materiali al bisogno di lavoro e di liberazione dal lavoro, di salario, di pensioni, di sanità e di scuola pubblica.

Chi pensa di opporsi al Governo Salvini-Di Maio in nome dell’austerità e del “non ci sono alternative” all’ordoliberismo tedesco consegnerà il nostro Paese alle forze della Destra Sociale più radicale.

Chi pensa di opporsi soltanto sul piano dei diritti civili senza legarli e farli marciare assieme ai diritti sociali spingerà ancor più le classi popolari verso la reazione.

La proposta di un Fronte Repubblicano avanzata dalle forze che hanno portato nel nostro Paese l’attacco al Lavoro ed allo Stato Sociale sono – oltre che risibili – pericolosissime perché produrrebbero una polarizzazione che correrebbe il rischio di essere definitiva tra élites europeiste tecnocratiche e liberiste e destre più o meno sociali securitarie, xebofobe e fasciste.

Eppure le elezioni americane e la situazione inglese dovrebbe averci insegnato qualcosa: per sconfiggere Trump non ci vuole la Clinton ma Sanders, per rivitalizzare il Partito Laburista non ci vogliono gli attardati epigoni delle terze vie e degli Ulivi mondiali ma un socialista moderno ed ottocentesco come Corbyn.

Maurizio Brotini è segretario Cgil Toscana