Home Blog Pagina 728

«Quante gliene abbiamo date a Cucchi». La versione dell’ex moglie del carabiniere imputato

L'avvocato della famiglia Cucchi, Corrado Oliviero, mostra delle foto durante il dibattimento del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi, a Roma 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

«C’ero pure io, quante gliene abbiamo date a Cucchi»: al processo Cucchi è il giorno di Raffaele D’Alessandro, anzi dell’ex moglie di uno dei cinque carabinieri imputati a vario titolo per la morte del geometra romano in conseguenza al suo arresto, nell’ottobre del 2009, per possesso di sostanze. Gli altri sono Alessio Di Bernardo, Francesco Tedesco, sempre della stazione Appia, tutti per omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità. E poi ci sono altri due imputati, il maresciallo Roberto Mandolini, che risponde dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.

Oggi Anna Carino ha raccontato tutto in aula: «Il mio ex marito mi disse di avere partecipato alla perquisizione in casa di Stefano Cucchi e che non avevano trovato niente. Ma dopo diversi mesi, dopo aver visto un servizio in tv, mi fece una confidenza. Mi disse che la notte dell’arresto era stato pestato, aggiungendo: “C’ero pure io, quante gliene abbiamo date”». «Raffaele mi raccontò di un calcio che uno di loro aveva sferrato a Cucchi che aveva provocato una caduta rovinosa del ragazzo. Nel raccontarlo mi sembrò quasi divertito; rideva e davanti ai miei rimproveri mi rispondeva “Chill è sulu nu drogato e ‘mmerda”». Anna Carino ha precisato di non sapere dove fosse avvenuto il pestaggio e dove Cucchi cadde. «Più volte al mio ex ho chiesto il motivo, ma non mi hai risposto. Mi ha raccontato anche di altri pestaggi ad arrestati o a persone che avevano portato in caserma; anche se non si trattava di pestaggi di questo livello».

Dalla sua testimonianza, seguita da quella dell’attuale marito, scaturisce il ritratto di un carabiniere «irascibile», «non in grado di discutere senza urlare», uno che raccontava le sue imprese con «spavalderia e fierezza». Anche a Giovanni Rendina, che diventerà il marito della sua ex, con cui era in amicizia, D’Alessandro racconterà di «aver fatto fare le scale a calci» a quel ragazzo che aveva contribuito ad arrestare, «un drogato di merda che pesava quaranta chili», come ripete il teste su una specifica domanda di Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, protagonista di altri processi di malapolizia. «A lui piaceva raccontare – ha detto il teste – così ho pensato che si stesse vantando. In quel momento c’erano altre persone sotto processo per la morte di Cucchi (agenti di polizia penitenziaria e sanitari del Pertini, ndr), non immaginavo fosse qualcosa in più della sua spavalderia». Molto tempo dopo, incrociando i suoi ricordi con quelli della sua compagna, Rendina riuscirà a collocare in ben altra cornice le confidenze di quella sera con D’Alessandro.

Anna Carino ha raccontato anche che quando la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, appariva in tv, «Raffaele la insultava pesantemente». Poi arrivò il momento di fissare in un incidente probatorio quelle sue dichiarazioni. «Quando sono stata sentita – ha detto Anna Carino – avevo paura, temevo la sua reazione. Anche in passato aveva avuto reazioni violente; non è stato però mai aggressivo fisicamente». La donna decise anche di mandare un messaggio all’ex marito. «Gli dissi che mi dispiaceva, ma non avrei potuto fare altro che dire la verità. Ma lui non rispose. Da quel giorno però i nostri rapporti si sono quasi azzerati», ha spiegato la donna.

Nel gennaio 2016, poi il contatto tra Ilaria Cucchi e la Carino. «Mi sentivo in dovere di farlo per chiedere scusa per non aver parlato prima. La incontrai e le dissi che mio figlio mi aveva detto che un giorno sbirciò sul telefono del padre mentre parlava con un amico e vide le foto di Stefano; e che il padre disse all’amico ‘Io accussì l’aggio lassatò». Poche settimane prima di questo incontro, la donna era stata sentita dagli inquirenti e aveva confermato frasi già intercettate dalla Squadra mobile. Era il 19 ottobre 2015 quando fu davanti al pm. Nelle intercettazioni alla base di questo processo che, dopo otto anni, ha finalmente illuminato il cono d’ombra in cui erano stati conservati i carabinieri, D’Alessandro si sente mentre dice: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie».

La svolta investigativa arriva quando Anna Carino gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (…) che te ne vantavi pure… che te davi le arie». «Raffaele – disse Carino ai pm – è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento».

Afghanistan, il Paese che non si dà pace

Da Helmand a Kabul la strada è lunga 700 chilometri. La percorreranno tutta senza cibo o acqua nelle ore diurne. Marceranno dalla provincia sotto il controllo dei talebani, fino alla capitale afgana, dove sperano di arrivare prima della fine del Ramadan. Sono uomini, cittadini comuni, a centinaia, che si sono messi in marcia chiedendo una pace che manca nel loro paese da 17 anni.

«Se non muori di guerra, muori di povertà, non c’è altra opzione che unirsi a questo convoglio per la pace» ha detto Abdullah Malik Hamdard. «Non c’è più posto sicuro in Afghanistan, la guerra deve finire» e questo potrà accadere solo se una tregua per il cessate il fuoco verrà raggiunta tra governo e talebani. «Entrambe le parti dovrebbero accordarsi per la pace» ha detto Zaheer Ahmad Zindani all’Afp. Lui ha cominciato a mettere un piede dietro l’altro in memoria di sua sorella, uccisa in un attentato anni fa.

A maggio, quaranta gradi al sole, quando la marcia è cominciata, erano solo in nove. Mentre attraversavano il Paese in guerra, dozzine di persone si sono spontaneamente unite al gruppo e adesso sono almeno cinquanta. «Posso rimanere ucciso se rimango a casa, ma anche se esco e se vado in negozio. Così ho deciso che è molto meglio morire per la pace, così la prossima generazione potrà averla» ha detto Sardar Mohammad Sarwari, che si è unito alla marcia perché «in Afghanistan non è rimasto alcun posto sicuro».

Un governo di scafisti

Un'immagine a bordo della nave Aquarius, attualmente ferma a 35 miglia dall'Italia e 27 miglia da Malta in attesa di istruzioni definitive sul porto sicuro dove attraccare con i 629 naufraghi accolti a bordo nella notte tra sabato e domenica. Ansa/Karpov/SOS Mediterranee ++ No sales, editorial use only ++ +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++ ++HO-NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Se è scafista chi mette in pericolo delle vite umane per un tornaconto personale, che siano soldi o che sia potere, allora Matteo Salvini e Danilo Toninelli ieri hanno vinto il premio internazionale di scafisti del giorno: usano persone per accrescere la propria credibilità, tengono in ostaggio dei disperati e la chiamano trattativa politica, gli uomini e le donne e i bambini per loro diventano cose da spremere per ottenere un risultato.

Se è scafista chi vende per agevole un’azione rischiosa, potenzialmente mortale, minimizzandone i rischi e normalizzando il dolore allora per il governo italiano, guidato da quei due, è stato un’ottima banda di scafisti: ci hanno detto che le persone “stanno tutte bene” su una barca in cui sta terminando il cibo, dove ci sarebbero almeno una quindicina di donne incinta, alcuni feriti per le angherie subite. Stanno tutti bene, dicono quelli. Anzi, Salvini ha addirittura detto di avere proposto il trasbordo di donne e bambini. Proposta mai arrivata alla nave, dice la portavoce di Aquarius. Ognuno decida liberamente chi mente tra i due.

Se è scafista chi utilizza la violenza per ottenere a tutti i costi un obiettivo allora Salvini che esulta per una nave deviata in Spagna è uno scafista. Toninelli che esulta per la storica vittoria politica è uno scafista. E la cosiddetta vittoria è patetica oltre che malsana: vale quanto vincere una gara sui 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara.

Se è scafista chi distorce la realtà per convincersi (e convincere) dell’ineluttabilità delle proprie azioni allora Salvini e Toninelli che gridano vittoria ma dimenticano che una nave italiana con 1000 migranti sbarcherà nelle prossime ore valgono come quelli che in Libia promettono un’accoglienza dignitosa alle loro vittime. Le bugie, del resto, sono l’humus indispensabile per i crimini. Sempre. È una bugia tutto quel bel discorso dei 5 miliardi di euro che Salvini insiste nell’indicare come spesa per i migranti (da tagliare) omettendo il fatto che non sono soldi dell’Italia (ma un deficit concesso dall’Europa proprio per gestire i flussi migratori) e che non possano essere usati per altro.

Intanto la Aquarius è ferma da 24 ore in attesta di istruzioni. E la domanda rimane la stessa: ma se dovesse morire qualcuno, chi ne risponde?

Loro, gli scafisti.

Nei Balcani monta l’onda razzista e xenofoba, sulla scia di Budapest

Bosnia e Montenegro. Poi Croazia, Serbia, Slovenia. Ma ora anche l’Albania. Balcani uniti contro i rifugiati. Ad est il tango delle reciproche accuse per la nuova crisi migratoria è cominciato. Intanto, in arrivo da Medio Oriente e Nord Africa, – ma anche dall’Asia -, i profughi proseguono lungo le nuove rotte aperte dai trafficanti di uomini, che adesso fanno tappa a Tirana. Nei primi cinque mesi del 2018 i migranti che le autorità albanesi hanno fermato sono stati 2311. Nello stesso periodo, da gennaio a maggio dello scorso anno, erano solo 162. La cifra 2311 è doppia rispetto all’intero 2017, anno in cui hanno raggiunto il Paese solo mille profughi.

L’Oim, Organizzazione mondiale migrazione, ha avvertito il primo giorno di giugno che i numeri dei flussi sono in aumento. Ma mentre i binocoli sono puntati tra le onde del Mediterraneo e al centro del mirino c’è la nave Aquarius, per i migranti una nuova alternativa è quella balcanica, a est. In totale, da inizio gennaio a fine maggio 2018, Bosnia, Montenegro ed Albania hanno registrato più di 6700 nuovi arrivi. Nel 2017 erano solo 2600 in totale.

Il picco in Bosnia si è toccato a fine maggio: con 5mila migranti su tutto il territorio e nessuna struttura adeguata il Paese ha organizzato un vertice sulla migrazione a Sarajevo lo scorso 7 giugno. Hanno partecipato i rappresentati delle autorità di Bosnia, Croazia, Serbia, Montenegro, Albania, Grecia, Austria e Slovenia per dire “mai più 2015”: la crisi migratoria di 3 anni fa non può essere affrontata di nuovo.

Pochi accordi concreti sono stati raggiunti tra rappresentanti e membri politici. Le autorità bosniache accusano i vicini di “mancanza di onestà”. Il ministro della sicurezza bosniaco Dragan Mektic il 30 maggio ha riferito che c’è un incremento del numero di migranti dall’Iran, da quando la Serbia ha introdotto il regime senza visti per i cittadini di Teheran: “Arrivano legalmente in Serbia, poi illegalmente in Bosnia”, unico attraversamento possibile verso il nord Europa. Per Metkic, adesso, bisogna “diventare parte di Frontex”, rafforzare gli agenti alle frontiere e “rimandare indietro i profughi” dai paesi in cui sono arrivati. Se Sarajevo si scaglia contro Belgrado, Podgorica si arrabbia con Tirana, perché “l’Albania non fa abbastanza” per gestire i flussi di profughi e non compie controlli alle frontiere. La soluzione del Montenegro è una minaccia di 26 chilometri: è la lunghezza della recinzione che si vuole costruire al confine con l’Albania. L’Ungheria di Orban, la prima ad usare il muro di filo spinato in Europa, si è già fatta avanti e si è offerta di donarla a Podgorica.

Sui bambini allontanati dalle famiglie interrogazione a Di Maio e Bonafede. Pastorino, Leu: «Questa è vita reale, non propaganda»

Palisades, USA - March 6, 2014: These brothers with high functioning autism find a lot of enjoyment studying 'old school' style using workbooks instead of electronic devices to learn their academic skills.

Il dramma delle tante famiglie spezzate a causa dell’eccessivo – e spesso arbitrario – ricorso all’allontanamento forzato dei bambini da padri e madri, finisce ora in Parlamento. Dopo l’inchiesta di Left, in cui avevamo raccolto testimonianze e denunciato lungaggini burocratiche, errori giudiziari e abusi da parte di chi (dagli assistenti sociali ai tribunali per minori) deve occuparsi di pratiche molto delicate, il deputato di Liberi e uguali (eletto con Possibile), Luca Pastorino, ha presentato un’interrogazione parlamentare rivolta ai ministri delle Politiche sociali, Luigi Di Maio, e della Giustizia, Alfonso Bonafede.

Nell’atto parlamentare, Pastorino ricorda come «la legge quadro in materia di adozione e affidamento (…) delinea un ampio sistema di norme a tutela dell’interesse primario del minore a crescere e ad essere educato nel proprio nucleo familiare e sancisce che, al fine di prevenire l’allontanamento dei minori dalle proprie famiglie di origine, è fondamentale il sostegno alla genitorialità da parte dello Stato» e quindi la messa in atto di tutti gli interventi di prevenzione e aiuto nei confronti dei nuclei familiari più fragili sotto il profilo culturale ed economico.

Come Left aveva ampiamente sottolineato, infatti, la sottrazione del minore alla famiglia è considerata come un’extrema ratio, praticabile solo laddove tutte le misure di sostegno al nucleo familiare non abbiano dato gli esiti auspicati. Senza dimenticare – altro aspetto fondamentale – la temporaneità dell’affido, che dovrebbe rappresentare solo una breve parentesi di vita al di fuori del contesto familiare di provenienza.
Tutti principi che, come emerso anche dall’ultima relazione della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, vengono puntualmente disattesi, dato che ad oggi si riscontrano un’eccessiva durata dell’allontanamento dei minori (oltre i due anni previsti dalla legge), errori di valutazione delle realtà familiari, motivazioni generiche nella scelta di allontanamento, mancanza di controlli delle strutture di accoglienza, arbitrarietà degli assistenti sociali, divieto di rapporti fra il minore e la famiglia di origine. «Circostanze – si legge ancora nell’atto parlamentare – che violano apertamente la protezione dell’unità familiare e contrastano con l’obiettivo primario di garantire sempre la centralità della relazione tra figli e genitori».

Una situazione drammatica e spesso sottovalutata, dunque. Ed è per questo che Pastorino rivolge tanti e puntuali quesiti ai due ministri pentastellati, chiedendo ad esempio «quali iniziative intendano adottare al fine di verificare l’idoneità delle comunità in cui i minori sono ospitati» e quali, ancora, per «garantire che siano assicurati i livelli essenziali delle prestazioni sociali in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale».

«Si parla molto di politiche per le famiglie, talvolta anche in chiave propagandistica – spiega Pastorino a Left -. Ecco invece che qui si parla di un aspetto concreto di vita reale per sostenere determinati nuclei familiari. Di fronte a un problema così delicato serve un sistema informativo nazionale di raccolta dati che fornisca in tempo reale il numero complessivo di minori fuori famiglia e la loro collocazione». Raccolta dati che ad oggi non esiste.
Vedremo ora se Di Maio e Bonafede risponderanno all’interrogazione. Anche perché, aspetto non secondario, nella passata legislatura della questione si occuparono con atti e denunce anche parlamentari M5s. Insomma, un ottimo banco di prova per capire se il «governo del cambiamento» sia tale solo a parole o anche nei fatti.

«Che governino loro! Vediamo cosa sanno fare». E loro governano, appunto

Una immagine del ministro dell'Interno Matteo Salvini e l'hashtag #chiudiamoiporti pubblicata sul suo profilo Twitter, 10 giugno 2018. TWITTER MATTEO SALVINI +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++ ++HO-NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Che i giornalisti debbano limitarsi a raccontare i fatti senza esprimere opinioni è l’ultima moda di chi opinioni radicate non ne ha, ideali nemmeno a parlarne, e vorrebbe disinfettare il mondo tutto intorno per non dovere spiegazioni. Che ci sia una barca in mezzo al Mediterraneo davvero stupisce qualcuno? Che quest’Europa preoccupata più dai bilanci che dalle persone venisse pungolata da Salvini nel modo più salvinamente possibile vi stupisce? Beh, male: il rafforzamento della rotta già impunemente intrapresa da Minniti e i suoi sodali è il minimo che Salvini debba fare per non essere preso a pesci in faccia dai suoi sostenitori.

Stupisce piuttosto che ci si stupisca che mettere Salvini al ministero dell’Interno significhi sdoganare l’imbruttimento etico e sociale e stupisce che tutti quelli che hanno concorso al suo trionfo oggi sembrano meravigliati da ciò che accade. La Lega di Salvini, vale la pena ricordarlo, ha preso il 17% dei voti alle elezioni: chi scrive gli italiani hanno scelto scrive un’immane cazzata: Salvini è lì perché il Movimento 5 Stelle gli ha regalato i suoi voti e ne finirà mangiato (a proposito: dove sono i respingimenti nel contratto di governo?), Salvini è lì perché l’intellighenzia si è scagliata tutta contro Savona a ministro ma non ha battuto ciglio su uno xenofobo al ministero dell’Interno ma soprattutto è lì per la pessima modalità di chi ha declamato tutto soddisfatto “lasciamoli governare così si vanno a schiantare”. E ora a schiantare ci va la nave Aquarius con 629 persone (tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte). E poi ci andrà il Paese.

Ecco, dove sono, cosa pensano, che ci dicono tutti quelli che hanno votato per il cambiamento e si ritrovano Salvini? Cosa dicono quelli che avrebbero voluto gustarsi i pop-corn assistendo allo spettacolo ora che lo spettacolo è arrivato? Cosa dicono quelli che hanno ripetuto il mantra “facciamoli provare”?

Dico, quelli, quelli che non fanno parte della parte xenofoba, spaventata, rissosa eppure sono finiti in questa maggioranza, cosa dicono? Il presidente della Camera Roberto Fico cosa dice? Quelli che “voto M5s perché non c’è più la sinistra” cosa dicono?

A me pare che Salvini faccia il Salvini. Sono gli altri, che non sento. E per favore evitateci i seguaci di Minniti: quello il lavoro sporco lo faceva fare agli altri, semplicemente.

Buon lunedì.

La partita più difficile di Mohammed Salah

Egyptian gather at a cafe near a graffiti of Egyptian footballer Mohamed Salah in Cairo on March 22, 2018. / AFP PHOTO / FETHI BELAID (Photo credit should read FETHI BELAID/AFP/Getty Images)

A metà marzo, alle presidenziali egiziane, Mohammed Salah è arrivato secondo. Dopo al-Sisi e prima di Moussa Mustafa Moussa, candidato fantoccio di elezioni farsa, che di voti ne ha presi meno di 700mila. Quasi due milioni di egiziani, il 7% degli aventi diritto, hanno annullato la scheda; di questi, circa un milione secondo fonti della stampa egiziana, ha scritto il suo nome a penna sulla scheda: Mo Salah. Sommati al 59% di astensioni, hanno dato uno spaccato della protesta interna al regime del presidente golpista.

Una protesta silenziosa a causa della repressione che da luglio 2013 strangola stampa indipendente, associazioni di base, sindacati autonomi, gruppi ultrà, partiti di opposizione. Se si legge così la presunta apatia del popolo egiziano dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, il giocatore del Liverpool diventa quasi un modello interpretativo. Figura affatto istituzionale, restia a sbilanciarsi sul piano politico, Salah è protagonista di gesti, diretti e indiretti, che assumono la forma di implicita critica al regime.

La «quarta piramide», come lo chiamano gli egiziani, calciatore africano dell’anno, autore della storica qualificazione dell’Egitto ai Mondiali in Russia (la prima dopo 28 anni) e primo marcatore nella Premier league, a Mo Salah è attribuito di tutto: è il volto rassicurante dell’islam in un’Europa sempre più islamofoba (con la tifoseria dei Reds che allo stadio canta «Siamo tutti musulmani»), è l’orgoglio nazionale in periodo di crisi nera, è la periferia povera che si fa mito. È ovunque: nei murales al Cairo, accanto ai volti di cantanti leggendarie, come l’egiziana Umm Khultum e la libanese Fairuz, o del Nobel per la letteratura Mahfouz; nelle magliette e i poster venduti nei negozi di chincaglierie; nelle lampade tradizionali del Ramadan.

È l’idolo perché «ha sofferto come noi», dicono per le strade: nato nel 1992 nel villaggio di Nagrig nel Delta del Nilo, camminava ogni giorno due ore per andare ad allenarsi. La sua famiglia era povera, i genitori non si sono potuti permettere di dargli un’educazione superiore e lui si è dato al pallone. Fino alla gloria che sta da anni riversando su Nagrig, occulta forma di critica a un governo incapace di fornire servizi, sviluppo, occupazione alle zone più marginalizzate del Paese. Con un’inflazione alle stelle che mangia i magri salari dei lavoratori e l’austerity imposta dal Fondo monetario internazionale che erode i sussidi alle classi basse, Salah ha…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Porti chiusi ai 600 migranti di nave Aquarius. La scelta disumanitaria di Salvini e Toninelli

Porti chiusi per i 629 migranti a bordo di Aquarius, la nave che opera nel mar Mediterraneo della ong Sos Mediterranée. È la scelta, tristemente clamorosa, concordata dal ministro dell’Interno Matteo Salvini e dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Un segnale del giro di vite del governo giallonero, contro chi rischia la vita in mare per fuggire spesso da guerre e persecuzioni e contro chi è impegnato a salvarli.

La decisione trapela da una lettera urgente, inviata alle autorità maltesi dal leader leghista Salvini, nella quale si chiede di far approdare alla Valletta l’imbarcazione, essendo quello il “porto più sicuro”. Mentre non è stato concesso alcun permesso per l’approdo in Italia.

La risposta, da Malta, non si è fatta attendere. Il salvataggio di Aquarius «è avvenuto nell’area di ricerca e salvataggio libico ed è stato coordinato dal centro di Roma. Malta non è l’autorità di coordinamento e non ha competenze su questo caso», ha affermato un portavoce del governo della Valletta, come riporta Malta Today.

Nave Aquarius, che ospita anche personale di soccorso di Medici senza frontiere, ha a bordo più di seicento migranti, tra i quali 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte. Le persone salvate dalle acque del Mediterraneo sono state recuperate in sei diverse operazioni di soccorso, tra le quali una molto impegnativa, a seguito del ribaltamento di un gommone che aveva fatto finire 40 persone in mare.

https://www.facebook.com/sosmeditalia/posts/2042818502634800

«Oltre 750 morti nel Mediterraneo nel 2018: il salvataggio di vite in mare deve restare una priorità assoluta di ogni governo» ha dichiarato la portavoce dell’Unhcr per l’Europa meridionale Carlotta Sami, dopo aver appreso la notizia della missiva del governo italiano

L’Aquarius era l’unica nave umanitaria attiva nella zona Sar (Search & rescue) italiana. Nel weekend il numero di soccorsi in mare era tornato ad aumentare: 470 persone sono sbarcate sabato mattina tra Reggio Calabria e Pozzallo, grazie all’impegno degli equipaggi della Sea watch, la Seefuchs, e la Diciotti della Marina militare italiana.

«Se qualcuno pensa che si ripeterà un’estate con sbarchi, sbarchi e sbarchi senza muovere un dito, non è quello che farò come ministro. Non starò a guardare», aveva detto sempre sabato il ministro Salvini in una diretta Facebook

Non è Putin il miglior alleato di Assad

TOPSHOT - EDITORS NOTE: Graphic content / Residents in a government-held part of Aleppo's Salaheddin neighbourhood watch as buses evacuate rebel fighters and their families from rebel-held neighbourhoods in Syria's northern embattled city on December 15, 2016. A convoy of ambulances and buses left rebel territory in Aleppo in the first evacuations under a deal for opposition fighters to leave the city after years of fighting. The rebel withdrawal will pave the way for President Bashar al-Assad's forces to reclaim complete control of Syria's second city, handing the regime its biggest victory in more than five years of civil war. / AFP / Youssef KARWASHAN (Photo credit should read YOUSSEF KARWASHAN/AFP/Getty Images)

In Bosnia, un colpo di mortaio sul mercato di Sarajevo cambiò il corso della guerra, convincendo infine la comunità internazionale a intervenire. In Siria, i siriani ti dicono: «Oggi la tregua tiene, c’è solo un po’ di artiglieria». Per molti, in Siria il mondo è rimasto a guardare. Era il 2012, eravamo nel mezzo della battaglia di Aleppo, eravamo sotto bombardamento quando una bambina notò il mio telefono, e mi chiese: «Hai il numero dell’Onu?». Ma in realtà, in questi anni in Siria l’Onu non è stata affatto marginale. Anzi. Intenzionalmente o no, è stata la migliore alleata di Assad.

Il suo intervento è cominciato con gli aiuti umanitari. Perché l’Onu non solo ha comprato beni e servizi per milioni e milioni di dollari dai più controversi affaristi siriani, come Rami Makhlouf, foraggiatore di alcune tra le più feroci milizie lealiste: ma ha deciso di cooperare esclusivamente con Assad. Si è giustificata sostenendo che per statuto, è tenuta a cooperare con l’unico governo riconosciuto, che è appunto il governo di Damasco. E quindi, nonostante due sue risoluzioni, la 2165 e la 2258, l’abbiano poi apertamente autorizzata a operare indipendentemente dal consenso di Assad, ha rinunciato, per esempio, a raggiungere Deir Ezzor, in cui erano in trappola 200mila civili, perché secondo Assad l’aeroporto non era sicuro. Anche se ogni giorno, intanto, atterravano dieci dei suoi aerei per rifornire i suoi soldati.

L’Onu non solo ha consegnato gli aiuti umanitari sempre e solo ad Assad. Ma a lungo, non ha mai neppure tracciato i propri convogli. Non si è mai neppure chiesta dove finissero. Per mesi, ad Aleppo l’unico luogo in cui si è visto il logo dell’Unhcr è stato il mercato nero. E d’altra parte. Dopo quattro anni di assedio, nel 2016 l’Onu è infine entrata a Daraya: ma per distribuire zanzariere contro la malaria. L’ultimo caso era stato nel 2009.

E per Assad, tutto questo è stato perfetto. Perché Assad ha seguito dall’inizio una strategia molto chiara e precisa: presentarsi al mondo come l’unico possibile garante della stabilità. Con i suoi bombardamenti, ha sistematicamente raso al suolo tutto quello che i ribelli hanno conquistato, metro a metro, per impedire che si radicassero delle istituzioni alternative a quelle di Damasco, delle forme efficaci di autogoverno. Allo stesso tempo, ha cercato di indurre i siriani a rifugiarsi nelle aree sotto il suo controllo, assicurando cibo, medicine, elettricità, gasolio: assicurando una vita normale. Ma senza il sostegno esterno, questa strategia non avrebbe mai funzionato. Perché l’economia della Siria non esiste più: parliamo di un Paese in cui il Pil è crollato dell’80 per cento. Senza Hezbollah, l’Iran, e poi la Russia, il fronte avrebbe ceduto.

Ma senza l’Onu, avrebbe…

L’articolo di Francesca Borri  prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Il ricatto del debito pubblico

Indignants hold posters reading "We won't pay the debt, we want to earn" as they take part in a protest against the Bank of Italy in the centre of Rome on October 12, 2011 as President of Italy Giorgio Napolitano meets with Bank of Italy Governor and incoming ECB'S President Mario Draghi for the meeting "Italy and the World Economy, 1861-2011." Bank of Italy governor and future head of the European Central Bank Mario Draghi called on today Prime Minister Silvio Berlusconi's government to act fast to save the country from the debt crisis. AFP PHOTO/ FILIPPO MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

C’era una volta un popolo che viveva al di sopra delle sue possibilità…». A pensarci bene, quella sul debito è proprio una brutta favola, «una narrazione mortale», dice ad esempio un bancario, Luca Giovanni Piccione, che con Liberi da interessi (Dissensi, 2016) ha provato a spiegare il debito ai bambini e ai loro genitori. «La trappola del debito», tiene a precisare Marco Bersani, saggista, militante di Attac. Perché il debito pubblico è lo strumento con cui da secoli i governi reperiscono risorse per creare investimenti. L’austerità, le privatizzazioni, quel gigantesco trasferimento di ricchezza dal monte salari al monte profitti e rendite, che chiamiamo neoliberismo, sono stati sempre imposti ricorrendo allo storytelling, la narrazione, appunto, per mascherare la «trappola».

Per esempio quella della Welfare Queen dei tempi di Reagan: c’era una volta una disoccupata mantenuta dai sussidi di disoccupazione al volante di una Cadillac mentre degli operai valorosi potevano a stento pagarsi il biglietto dell’autobus. «Cominciò così il grande assalto allo Stato sociale», ricorda Yves Citton nel suo Mitocrazia (Alegre, 2013). Per il debito è iniziata nello stesso periodo, col divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (12 febbraio 1981) con cui, inseguendo una misura analoga della Fed, la Banca d’Italia smette di essere compratrice di ultima istanza a basso tasso e l’intero ammontare dei buoni deve essere smaltito sul mercato con interessi sempre più alti. Da allora, nonostante il Paese chiuda quasi sempre in avanzo primario (spendendo meno di quello che incassa) il debito continua a crescere. Il rapporto debito/Pil – che s’era conservato stabile dal 1960, sotto il 60% (parametro arbitrario della Ue secondo il quale un Paese sarebbe “sano”) – dal 1981, anno del “divorzio”, schizza al 122%. Oggi è al 131% essendo salito parecchio anche con il governo Monti perché l’austerità deprime il Pil ossia il denominatore di quella banale frazione algebrica su cui si imperniano le politiche della Ue.

«Ogni volta che serve uno choc o anche solo un po’ di spavento ecco che rispunta la trappola del debito: il teatrino di questi giorni è emblematico – spiega a Left, Bersani – con Mattarella e settori legati alla Bce che hanno provato a drammatizzare la nomina di Savona che, però, è un po’ difficile da arruolare nelle forze antisistema con quel curriculum di incarichi in Bankitalia, Bnl, Unicredit, Impregilo, Luiss, ministro del governo Ciampi o, addirittura vicepresidente dell’Aspen institute (il gotha del capitalismo mondiale – imprenditori, politici, speculatori, giornalisti – tra cui, in Italia, Monti, Tremonti, Prodi, Paolo Mieli ecc…). Lo stesso “piano B” di Savona parla la lingua del neoliberismo: uscita dall’euro, nazionalizzazione della Banca d’Italia e, per rimettere a posto i conti, privatizzazioni e svendite del patrimonio pubblico».

«Naturalmente il debito pubblico esiste. L’invenzione, o la trappola, consiste nel…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA