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Lanzalone verso le dimissioni, l'”ordine” di Di Maio arriva via radio

Potrebbero arrivare proprio mentre leggete questo articolo le dimissioni del presidente di Acea Luca Lanzalone, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della procura della Capitale sullo stadio della Roma. L’ordine è arrivato via radio, dallo stesso Di Maio su Rtl di primo mattino, oggi 14 giugno: «Lanzalone si deve dimettere da Acea, mi aspetto nelle prossime ore questo gesto». «Tra i primi provvedimenti da fare, subito il Daspo per i corrotti e gli agenti sotto copertura che ci servono sempre di più», aggiunge il capo politico dei 5 Stelle. Intanto, nella tarda serata di ieri, 13 giugno, la sindaca di Roma Virginia Raggi ha ricevuto l’amministratore delegato di Acea Stefano Antonio Donnarumma e avrebbe sollecitato una rapida soluzione per la governance dell’azienda.
Tra gli arrestati per le vicende legate allo stadio della Roma, infatti – oltre al costruttore Parnasi proprietario dei terreni in cui dovrebbe essere costruito – c’è proprio Luca Lanzalone che Paolo Berdini, assessore all’urbanistica defenestrato da Raggi per i suoi dissidi, nel suo libro Roma, polvere di stelle (Alegre 2018) definisce “sindaco vicario di Roma”.
E Berdini non ha mai avuto dubbi che sia stato Lanzalone ad aver messo la parola fine alla sua esperienza di assessore. Lanzalone, racconta Berdini, era stato chiamato da Virginia Raggi per gestire la mediazione con l’As Roma nel momento in cui i Cinque stelle decidono di scavalcare l’allora assessore all’urbanistica e fare il nuovo stadio, che pure avevano avversato nella precedente legislatura e durante la campagna elettorale. Dal canto suo, Lanzalone dopo aver brillantemente gestito la mediazione con la Roma viene premiato dalla giunta pentastellata che lo nomina presidente di Acea, vera cassaforte della città, che i cinquestelle si guardano bene dal ripubblicizzare come vorrebbe il dettato referendario. Coerenza e onestà non sembrano molto di moda, ma questa è un’altra storia.

Lanzalone, quello che volle la testa di Berdini
“È un personaggio importante, l’avvocato Lanzalone – scrive Berdini nel suo libro –  Nel 2005, a trentasei anni, quando esplode uno dei primi scandali delle banche, viene chiamato a far parte del collegio difensivo della Banca di Lodi che era sotto la guida di Giampiero Fiorani. È titolare di un importante studio legale che ha sede principale a Genova e filiali a Londra, New York e Miami. Il sesto sindaco vicario ha dunque legami con quel mondo finanziario globalizzato insofferente a ogni tentativo di regolare il governo urbano, ed è stato chiamato per contrastare un sostenitore della cultura dell’uguaglianza. Gli impegni presi davanti agli elettori sono stati stracciati utilizzando un grande esperto di banche. L’urbanista non serve più se si decide di stringere accordi con il mondo finanziario».
«Lanzalone svolgeva le funzioni dell’assessore per la questione stadio» e, secondo il gip le dichiarazioni di Berdini «appaiono attendibili». Dalle intercettazioni «è emerso chiaramente il ruolo decisionale assunto da Lanzalone e la riconducibilità alla sua persona del mutamento di indirizzo in relazione al progetto stadio». Sempre nelle carte si fa riferimento al fatto che Parnasi «chiede l’intervento di Lanzalone per fare fronte all’iniziative dell’ex assessore Berdini». In una intercettazione Parnasi riferisce che «ero dato per spacciato perché avevano messo assessore Berdini, un pazzo totale… assoluto… matto». In un’altra intercettazione Berdini è accusato di «suggerire le cose alla Grancio», la consigliera dissidente espulsa da M5S proprio perchè si oppose allo stadio.

Lanzalone, come Wolf di Pulp Fiction
Un facilitatore con il compito di fare combaciare gli interessi pubblici con quelli privati nell’operazione stadio, un’opera da un miliardo di euro come volume d’affari. Questo il ruolo di Luca Lanzalone che emerge dalle carte dell’inchiesta sull’opera che dovrebbe sorgere nella zona di Tor di Valle. Lo stesso Luca Parnasi sintetizza la figura del presidente di Acea come «Wolf» il personaggio del film Pulp Fiction che risolveva i problemi. «Il 30 marzo 2018 – è detto nell’ordinanza di custodia cautelare – Lanzalone parlando dello stadio comunica a Parnasi di aver individuato un escamotage idoneo ad accelerare i tempi della procedura… Parnasi è entusiasta e pronuncia più volte la parola Wolf». «Eh ma quando c’è Lanzalone… – ripete l’imprenditore – quando c’è Wolf… quando c’è Wolf.., la questione…».

Parnasi: corruzione stile anni 80
«Adesso non mi costa molto… una volta non hai idea quanto mi costava»: Parnasi aveva immaginato la faccenda come un investimento da fare in vista delle elezioni. Un metodo, il suo, che uno stretto collaboratore definisce «tutto italiano, da anni 80», un metodo che per la Procura di Roma il gruppo Parnasi trattava come un «asset di impresa», un ramo su cui investire. «Io spenderò qualche soldo sulle elezioni… che poi vedremo come vanno girati ufficialmente con i partiti politici… anche questo è importante perché in questo momento noi ci giochiamo una fetta di credibilità per il futuro ed è un investimento che io devo fare…», dice Parnasi in una conversazione contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare di quasi 300 pagine firmata dal gip Maria Paola Tomasello. Per Parnasi si tratta di un «investimento molto moderato» rispetto al passato, ma utile per agganciare la nuova politica, da M5S alla Lega. Anche attraverso soldi ad associazioni ed Onlus come PiùVoci vicina alla Lega. Dalle carte dell’inchiesta emergono ‘aiuti’ per le campagne elettoriali, favori personali, promesse di assunzioni e consulenze. Ed e così che l’imprenditore e i suoi ‘fedelissimi’, secondo l’accusa, avrebbero foraggiato politici e funzionari pubblici per «ammorbidirli e indurli a un atteggiamento di favore nei confronti del progetto dello stadio». Diversi gli incontri e le conversazioni telefoniche accertate con politici di schieramenti diversi. Dal vicepresidente del Consiglio regionale, Adriano Palozzi (Fi), ora ai domiciliari, che gli avrebbe chiesto «una mano» per la campagna elettorale, assicurando: «Se io vinco vado a fare l’assessore in Regione e sono utile», all’ex assessore regionale Michele Civita, anche lui ai domiciliari, che in un incontro chiese all’imprenditore «un posto di lavoro per mio figlio». Ma Parnasi punta soprattutto a stringere rapporti col potente consulente per il Campidoglio sul dossier stadio Luca Lanzalone.

Lanzalone chi? Quello messo lì da Di Maio, Bonafede e Fraccaro
«Lanzalone è stato messo da Grillo, dal professor Bonafede e da Fraccaro», sostiene Parnasi nel corso di una cena, quel Lanzalone con «Wolf», il risolvitutto di Pulp fiction, ovvero colui che «ha fatto lo stadio della Roma». Parnasi si muove a tutto campo: si informa sul boss di Ostia Roberto Spada, attraverso i suoi offre una casa ad un assessore di Milano che rifiuta («Abbiamo fatto una brutta figura, sembravamo i romani dei film quando vanno a Milano», chiosano i suoi), si prodiga a cercare posti di lavoro ma, sempre un suo collaboratore ammonisce l’interlocutore: «fanno tutti così, finché sei una figa che gli interessa ti portano a cena fuori poi ne serve un’altra e parlano con quella». Insomma, come dicono i suoi, un metodo démodé ma «è l’unico che conosce». Un metodo che per la procura è corruzione diffusa. E coinvolge l’estabilishment a Cinque stelle che già non brillava in efficienza e ora rischia di non poter nemmeno più sostenere quell’aura di onestà a cui sembrava tenere così tanto. In particolare, secondo quanto accertato dai magistrati, Parnasi aveva promesso a Luca Lanzalone promesse di consulenze per il suo studio legale pari a circa 100 mila euro e aveva garantito il suo aiuto nella ricerca di una casa e di uno studio a Roma. All’ex assessore regionale del Pd, Michele Civita, in cambio dell’asservimento della sua funzione, il gruppo Parnasi aveva promesso l’assunzione del figlio in una delle società. Per l’attuale vicepresidente del Consiglio Regionale, Adriano Palozzi, Parnasi avrebbe erogato fatture per operazioni inesistenti pari a 25 mila euro. Infine l’attuale capogruppo M5S, Paolo Ferrara, avrebbe ottenuto da Parnasi un progetto per il restyling del lungomare di Ostia.
Il quasi ex presidente di Acea, Luca Lanzalone, tra il gennaio e il febbraio del 2017, nelle vesti di consulente per il M5S portò avanti, sul fronte del progetto stadio, una mediazione con l’amministrazione comunale e la Eurnova, la società di Parnasi che acquistò i terreni dell’ippodromo di Tor di Valle, dove dovrebbe sorgere la nuova struttura, dalla società Sais della famiglia Papalia. La mediazione ha portato ad una modifica del primo progetto con una riduzione delle cubature degli immobili «extra stadio» e la cancellazione delle due torri del grattacelo che sarebbero dovute sorgere in prossimità del’impianto.

Bufera anche su Roberta Lombardi
Dall’ordinanza emerge come Parnasi si fosse speso per «un’ attività di promozione in favore del candidato alla Regione Roberta Lombardi». In questo modo «egli rafforza i suoi legami con Paolo Ferrara e con Marcello De Vito – scrive il gip -, che gli hanno avanzato tale richiesta in quanto ricoprono rilevanti incarichi nell’ambito dell’amministrazione capitolina. I due svolgono un ben preciso ruolo nell’approvazione nel progetto dello stadio». Da parte sua Roberta Lombardi ribatte: «A portare Lanzalone a Roma è stato il gruppo che si occupava degli enti locali (Di Maio, Fraccaro e Bonafede, ndr)», ricorda in un’intervista l’attuale capogruppo M5S alla Pisana. «Sono rimasta esterrefatta dalla notizia sia dell’arresto che dell’indagine su Ferrara – dice – mai avrei pensato che degli episodi del genere potessero riguardare il mio Movimento. La differenza tra noi e gli altri dev’essere nella reazione». Lombardi, più famosa per le sue dichiarazioni sul “fascismo buono” o su “meno profughi più turisti”, assegna le responsabilità della vicenda a «chi ha portato Lanzalone a contatto con il Movimento, affidandogli incarichi delicati e facendolo diventare presidente di Acea. Lanzalone è entrato in contatto con il gruppo che gestiva gli enti locali, da Livorno, dove ha lavorato bene per il risanamento dell’Aamps, fino a Roma, dove dopo il caso Marra fu messo a controllare tutto quello che Raggi aveva firmato nei mesi in cui lo aveva avuto come braccio destro». Parlando di Parnasi, afferma poi che «quel che si comprende dalle carte è che Parnasi stava tentando un’opa sui politici romani, muovendosi a 360 gradi e avvicinando anche alcuni del Movimento, ma non me o candidati regionali, l’ho incontrato solo una volta, alla Camera, in trasparenza; congedandosi, ha detto: mi faccia sapere se ha bisogno di qualcosa, non l’ho mai più cercato, visto o sentito da allora».

Lanzalone chi? Chiedete a due-tre ministri chi è
Lo scandalo dello stadio di Roma è lo strascico di una asprissima diatriba in casa pentastellata. Nel cerchio magico del capo politico e vicepremier Luigi Di Maio, già incastrato tra l’irruenza di Salvini e le critiche degli ortodossi, preoccupano gli attacchi all’attuale ministro della giustizia Alfonso Bonafede da parte degli duri-puri del movimento per il ruolo avuto a Roma. Il suo nome è fuori dalle indagini ma rischia di finire come la vittima sacrificale di nuovi ed antichi rancori riaccesi anche dall’infornata di viceministri e sottosegretari targati 5 Stelle. È all’avvocato Bonafede, infatti, che Luigi Di Maio decise di affidare il «commissariamento» della giunta Raggi quando a Roma rischiava di crollare il sogno del governo pentastellato. È da lui – ricorda chi lo chiama in causa – che è passata anche la decisione di affidarsi ad un superconsulente come Luca Lanzalone per la gestione delle partecipate romane dopo che aveva con successo contribuito alla soluzione della grana Aamps a Livorno, grazie anche al lavoro dell’assessore pentastellato Gianni Lemmetti: anche lui ‘prestato’ poi alla giunta capitolina. È abbastanza per far dire anche ad un 5 Stelle di stretta osservanza che la misura rischia di «essere colma» e che il Movimento «è arrivato ad un livello di infiltrazione senza precedenti» a causa dei troppo deboli controlli posti in essere. La grana stadio lascia esterrefatti tutti e non solo quelli che oggi hanno facile gioco a dire «io l’avevo detto». Nel frullatore finisce anche Roberta Lombardi ma anche l’avvocato e candidato a far parte del governo pentastellato dei «superesperti» Mauro Vaglio, voluto sempre da Di Maio.

Antropologia per capire, agire, impegnarsi. La lezione di Tullio Seppilli

Seppilli

Il secondo Congresso di antropologia medica – che si svolge a Perugia dal 14 al 16 giugno – dedica le giornate a Tullio Seppilli, tra i più convinti sostenitori e attivi diffusori dell’antropologia in Italia, a poco meno di un anno dalla sua scomparsa. Il titolo, Un’ antropologia per capire, per agire, per impegnarsi, che è una sua frase, ben rappresenta la lezione di un intellettuale che sentiva la necessità e l’urgenza di tradurre la riflessione antropologica in un agire sulla realtà, trasformando la ricerca in impegno sociale.

«Tullio Seppilli non era solo un accademico – racconta Giuseppe Schìrripa, docente di antropologia all’Università La Sapienza di Roma -. Era un grande intellettuale e un grande studioso che ha allargato i confini dell’antropologia portandola verso aree innovative, ma era anche una persona che svolgeva la sua ricerca pensando ad una prassi politica. Seppilli è stato un esponente importante del Pci umbro, fortemente impegnato in politica e nelle lotte per la chiusura dei manicomi.

Ebreo, nato nel 1928 a Padova, figlio di Alessandro, igienista e sindaco di Perugia per il Psi dal 1953 al 1964, e di Anita Schwarzkopf, nota antropologa, a 10 anni si trasferisce in Brasile con i genitori a causa delle leggi razziali e vi rimane fino al 1948.

«In Brasile aderisce al partito comunista – continua Schìrripa -. In quegli anni frequenta l’università dove diventa allievo dell’antropologo Claude Bastide e altri antropologi francesi che in quel periodo insegnavano in Brasile, come Levi Strauss. Comincia a fare ricerca e a lavorare. Negli anni brasiliani fa ricerche sul sincretismo religioso e tra le sue prime pubblicazione, ci sono quelle che riguardano le chiese afrobrasiliane. La vocazione politica e quella antropologica, come ci dice la sua storia, viaggiano insieme, non possono essere disgiunte: nella sua visione dell’antropologia, il marxismo, quello gramsciano, è la chiave fondamentale per comprendere la società.

La sua è un’antropologia fortemente marxista, la chiamerei una visione del mondo, ma ancora meglio una chiave analitica per comprendere il mondo dal punto di vista antropologico. Ovviamente arricchita da altri stimoli perché una persona apertissima, affatto dogmatica. Seppilli crede davvero che l’intellettuale marxista, e quindi l’antropologo, lavori per il cambiamento del mondo, non solo per la sua comprensione. Non a caso quando torna in Italia diventerà assistente e collaboratore di De Martino. Anche De Martino in quegli anni, prima della rottura con Togliatti che lo porterà ad abbandonare il Pci nel 1956, era fortemente impegnato in politica come segretario del Pci di Foggia».

Dal 1955 insegna Antropologia culturale all’Università di Perugia e qui, nel 1956, crea l’Istituto di etnologia e antropologia culturale, che dirigerà fino al 1999 e che sarà per decenni un crocevia di iniziative e un punto di riferimento per numerosissimi studenti e studiosi. La sua elaborazione teorica si concentra sui problemi che riguardano il rapporto tra il “biologico” e il “sociale”. L’antropologia medica di Seppilli si occupa della dimensione sociale e antropologica della salute, della malattia, della cura e di come culture differenti abbiano sviluppato conoscenze e pratiche diverse. 

«Seppilli – continua l’antropologo – sostiene che non possiamo dimenticare quelle che sono le basi biologiche dell’essere umano ma nello stesso tempo non si può ridurre la malattia semplicemente a danno biologico. È necessario comprendere come la malattia viene elaborata, dal punto di vista culturale, da parte delle singole società. Ogni società ha la sua interpretazione della causa di malattia e da questa ne consegue la terapia. Le condizioni sociali influiscono sui processi biologici e la stessa efficacia della terapia ha a che fare con i processi simbolici, non solo con i processi fisiologici. Processi simbolici che attivano la capacità di autoguarigione del corpo Il rapporto tra l’aspetto biologico, quello sociale e culturale è un rapporto dialettico, di continua interazione».

Il discorso antropologico di Seppilli si rivolge agli uomini, cercando di comprendere come essi diano senso alle loro azioni. «La cultura – conclude Schìrripa – è la possibilità di conferire senso a quello che gli uomini fanno, qualunque cosa sia. De Martino quando ci parla del lamento funebre, racconta di un modo per dare valore, senso alla morte. Una crisi che non ha soluzione ma che viene trasformata in un momento che crea valore. Quello che cerchiamo di fare nel nostro lavoro di antropologici è capire il senso delle azioni degli uomini, capire perché. Questo, secondo me, vale in generale per tutta l’antropologia, non solo per Seppilli: capire cosa significa essere umani, cosa significa il mondo intorno a noi, cosa significa ciò che noi facciamo nel mondo. L’uomo si muove in quanto animale sociale e in quanto crea una serie di significati».

Le minacce alle donne nigeriane vittime di tratta, nonostante l’editto che le libera dal giogo dei riti juju

Prostitutes leave an hotel in Benin City, capital of Edo State, southern Nigeria, on March 29, 2017. In Benin City, Nigeria's capital of illegal migration, no one says the word "prostitution". The word on the street for the young girls who leave for Italy or France is "hustling". About 37,500 Nigerians arrived in Italy by boat in 2016, more than from any other African country, and most of them were from the southern city, the capital of Edo state. / AFP PHOTO / PIUS UTOMI EKPEI (Photo credit should read PIUS UTOMI EKPEI/AFP/Getty Images)

Se, da un lato, l’editto dell’Oba (il re in lingua locale ndr) proclamato all’inizio del 2018 a Benin city, che annulla i riti juju  fatti ai danni delle vittime di tratta, libera e dà fiducia e speranza a migliaia di giovani nigeriane, dall’altro, facendo tremare il mondo dei trafficanti, li obbliga a riorganizzare il proprio modello di business. E gli effetti non sono per nulla scontati. Perché la mafia nigeriana è più insidiosa del juju (il complesso delle religioni tradizionali dell’Africa occidentale ndr).
«Il proclama dell’Oba ha prodotto una prima reazione per cui le donne, contattate dalle nostre unità di strada o ospitate nelle comunità di accoglienza, hanno gridato alla libertà. In realtà, nulla è cambiato. Probabilmente, si sentono meno minacciate ma, di fatto, sono comunque all’interno di circuiti criminali che le terrorizzano in altro modo e le forme di controllo continuano a esistere», spiega a Left, la responsabile Area immigrazione e tratta degli esseri umani della cooperativa Lotta contro l’emarginazione, Tiziana Bianchini.
Tant’è che «il numero delle donne nigeriane in strada non è sparito: l’effetto mediatico e comunicativo è stato molto forte ma le giovani continuano a consegnare soldi là dove devono consegnarli e le madam, che non hanno accennato a nessun movimento di fuga, al limite possono aver modificato i giochi di forza in alcuni rapporti individuali», conclude Bianchini.
Difatti, «nonostante l’editto dell’Oba, le mamam continuano a pressare le giovani vittime per farsi pagare il debito, visto che è stato concordato, affermando che l’editto non è valido o è valido solo per le persone di Edo State (lo Stato nella Nigeria meridionale ndr)», precisa il presidente di Piam onlus, Alberto Mossino. In realtà, la liberazione dal rito che, in teoria, le solleverebbe dalla coercizione delle madam, ha suscitato un effetto boomerang perché «in assenza del potere del juju, le madam mettono in campo nuovi metodi di ricatto: in Italia, le ragazze saranno controllate con più determinazione, aumentando il livello di schiavitù e sfruttamento e i rischi di violenze, aggressioni e omicidi nei confronti di chi si ribella, da parte dei trafficanti», continua Mossino.
A dimostrare che il ricatto da loro esercitato è più pericoloso dell’editto dell’Oba, ed è prevedibile, così, che «le vittime rientreranno in un nuovo circuito di sfruttamento gestito da chi controlla i joint, le case in affitto o i legami con gli avvocati per le pratiche d’asilo», chiosa Mossino. Non solo: i trafficanti aggireranno gli effetti del proclama portando le ragazze a fare il rito juju in altri Stati della Nigeria dove il potere spirituale dell’Oba non ha nessuna influenza. Anche in Italia, con l’appoggio di juju master e stregoni che vivono nel Belpaese da anni. E ciò in barba a quanti pensano che chiudere la rotta libica sia la soluzione per fermare la tratta.

Un Bloomsday italiano a Dublino

Bloomsday enthusiasts get into the sartorial spirit of Ulysses in the novel's native town, Dublin

«È un giorno di metà giugno… sul teatro lungo la riva del fiume in alto sventola la bandiera… il dramma ha inizio. Un attore si fa avanti nell’ombra… è il fantasma, il re, re e non re, e l’attore è Shakespeare: ha studiato l’Amleto per tutti gli anni della sua vita che non fossero vanità allo scopo di recitare proprio la parte del fantasma».
Siamo alla National Library of Ireland, e nell’economia dell’Ulisse di Joyce è il 16 giugno del 1904. Chi parla è Stephen Dedalus, eteronimo joyciano per eccellenza. Ma siamo davvero là, a quell’ora, in quel giorno? O non ci troviamo forse a Southwark, sulle rive del Tamigi? Lì dove si ergeva un teatro, il Globe, regno di quello Shakespeare, attore e drammaturgo, marito e amante, padre di un figlio, Hamnet, che avrebbe prestato il nome al maggiore rampollo della sua mente (Hamlet) e persino al padre di questi (Re Amleto)?

La biblioteca nazionale era un centro di cultura laica nella Dublino di Joyce, e a guardarla ora non sembra cambiata tanto. Sopra l’entrata della sala principale campeggia una targa commemorativa proprio di quel bibliotecario che apre la scena del nono episodio dell’Ulisse più su citato. Al suo interno si tengono continuamente manifestazioni artistiche, mostre, conferenze pubbliche.

Quest’anno, per le celebrazioni del Bloomsday dell’Istituto di Cultura Italiana diretto dalla vulcanica Renata Sperandio, quella biblioteca tornerà, proprio come nell’Ulisse, a farsi palcoscenico: un palcoscenico tutto italiano. Il 15 giugno ospiterà le performance di un joycianissimo Alessandro Bergonzoni che duetterà con il funambolico Edoardo Camurri, e poi interverremo in dialogo anche noi due traduttori del Finnegans Wake. Il giorno successivo sarà la volta di una rassegna di canzoni italiane e irlandesi legate a Joyce, ad opera del cantante Simon Morgan insieme al professor Barry McCrea. Performatività, mito, linguaggi, musica. Sono i quattro punti cardinali dell’opera di Joyce, artista sempre più attuale e in grado di parlare, con lo stesso messaggio lungimirante di emancipazione, a generazioni che, per appartenere davvero al futuro, non possono non rivisitare criticamente il loro passato.

Joyce parla all’Irlanda come parla all’Italia, per dirci di…

Il reportage di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone prosegue su Left in edicola


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Chiesa e 8xmille, il delitto perfetto

A bishop holds a religious book during the 68th General Assembly of the Italian Episcopal Conference on May 18, 2015 at the Vatican. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Finanziare la religione di alcuni con (tanti) soldi pubblici non è cosa da Paese laico e civile. Specialmente se quel Paese ha un enorme debito pubblico. A maggior ragione se la Chiesa che viene principalmente sovvenzionata possiede enormi ricchezze finanziarie ed è il più grande immobiliarista del mercato. L’Italia riesce a compiere questa prodezza. Lo fa mettendo le mani, come si suol dire, nelle tasche dei contribuenti, prelevando dalle imposte versate sui redditi delle persone fisiche circa un miliardo di euro l’anno tramite il meccanismo dell’8xmille. Un meccanismo fondato sull’inganno. Anche in questo caso l’origine di tutti i mali (clericali) è il Concordato. Stavolta però quello del 1984, firmato dal socialista Craxi, non quello del 1929 firmato dal fascista Mussolini. È stato infatti con il nuovo Concordato che si è superato l’istituto della congrua. L’assegno di congrua era in buona sostanza lo stipendio dei parroci erogato direttamente dallo Stato. Non un paradiso di laicità, certo. Ma la modica entità dell’emolumento, il pieno controllo dello Stato, un minimo di autonomia dei parroci dai vescovi – senza trascurare la diminuzione dell’esborso determinata dal lento e costante calo delle ordinazioni sacerdotali – rendevano la congrua decisamente preferibile al perverso meccanismo dell’8permille, che la sostituì per effetto della Legge 222/1985. Lo Stato iniziò così a pagare la Conferenza episcopale italiana sulla base di vaghi resoconti: non più per lo specifico sostentamento del clero, ma per generici «scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica».

Il primo inganno. La Legge 222/1985 stabilì che una frazione del gettito Irpef, fissata inizialmente all’8‰, avrebbe determinato l’ammontare dei fondi pubblici sui quali la Chiesa cattolica poteva mettere le mani, in base alle scelte fatte dai contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi. La stessa legge si premurò di specificare che una apposita commissione si sarebbe riunita ogni tre anni a partire dal 1989 «al fine di predisporre eventuali modifiche» al coefficiente stabilito. Modifiche al ribasso sollecitate con fermezza dalla Corte dei conti, che nella sua relazione del 2014 scrive che i contributi pubblici alle religioni sono «gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati. (…) Nel corso del tempo, il flusso di denaro si è rivelato così consistente da garantire l’utilizzo di ingenti somme per finalità diverse», dando così vita «a un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana». Della commissione che ad oggi si sarebbe dovuta riunire già nove volte e della riduzione di una percentuale rivelatasi così sproporzionata non c’è alcuna traccia.

Il secondo inganno. Sempre alla Legge 222/1985 si deve il trucco che permette alla Chiesa di incamerare l’80% dei fondi in presenza del 37% delle preferenze a suo favore. La formula è la seguente: «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Per chiarirci: contribuisce al travaso di fondi pubblici dalle casse statali a quelle della Cei anche chi non esprime alcuna scelta nella sezione Otto per mille del modello 730-1, anche chi non presenta dichiarazione dei redditi perché esonerato, talvolta perfino chi sceglie la destinazione “Stato” (sì, ci stati casi di Caf che hanno cambiato la scelta espressa dal contribuente, spiegando che il software utilizzato assume che venga scelta sempre la Chiesa cattolica!). Più che un trucco…

Roberto Grendene è il responsabile comunicazione interna e campagne dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti – Uaar

L’articolo di Roberto Grendene prosegue su Left in edicola


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Stefano Allievi: Un welfare universale per l’Italia, che non faccia distinzione tra migranti e altre classi deboli

Not welcome: immigrants are feared particularly in the UK (Photo: European Commission)

Segen era eritreo, aveva 22 anni e l’11 marzo è morto di fame poco dopo essere sbarcato nel porto di Pozzallo in Sicilia insieme ad altri 90 migranti recuperati in mare dalla nave della ong spagnola Proactiva open arms, una delle poche rimaste a soccorrere i migranti al largo delle coste della Libia. Secondo le testimonianze raccolte durante il salvataggio, il giovane in fuga dalla dittatura sanguinaria di Afewerki era stato segregato per 19 mesi in un lager libico. I medici dell’ospedale di Modica dove è stato trasportato d’urgenza non hanno potuto far nulla contro le conseguenze della malnutrizione che ne aveva compromesso irrimediabilmente lo stato psicofisico.

Benoît Duclos è una guida alpina e fa parte dei volontari di Refuge solidaire, un gruppo che da mesi opera sul confine italo-francese per soccorrere i migranti che, respinti a Ventimiglia dalla polizia di Macron, provano ad entrare in Francia attraverso le Alpi piemontesi. Il 10 marzo è stato bloccato dai gendarmi in territorio francese mentre correva in auto verso un ospedale per consentire a una donna nigeriana in preda alle doglie di partorire. L’aveva soccorsa poco prima insieme ai suoi due figli di due e quattro anni mentre arrancavano in mezzo alla neve a 1900 metri di quota. Inflessibili, i poliziotti hanno impedito a Duclos di proseguire e la donna ha partorito in macchina. Il 14 marzo alla guida alpina è stato contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Rischia 5 anni di carcere.

Sono solo alcune tra le ultime notizie di questo tipo in un 2018 che si concluderà, il 10 dicembre prossimo, con le celebrazioni dei 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sintomi di un fallimento sul fronte “umanitario” da parte di Paesi fondatori di quell’Europa che da sempre si proclama culla della civiltà e paladina dei diritti umani anche in nome del motto “liberté, egalité, fraternité” che ispira la Dichiarazione Onu. Un motto “rivoluzionario” che evidentemente rispetto ai migranti è stato ormai messo fra parentesi. E quanto al nostro Paese, considerando la vittoria elettorale di formazioni nazionaliste come il Movimento 5 stelle e xenofobe come la Lega di Salvini, difficilmente assisteremo a breve a una inversione di tendenza. Per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto e per individuare delle soluzioni ci siamo rivolti a Stefano Allievi, docente di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova, autore di numerosi saggi sul tema, compreso l’ultimo da poco uscito per Laterza, Immigrazione. Cambiare tutto.

«Partirei da una semplice osservazione. Fino al 4 marzo le discussioni politiche e le prime pagine dei giornali erano occupate ossessivamente dai problemi collegati all’immigrazione. I partiti – con in testa quelli che hanno vinto le elezioni – sono stati una fonte continua di slogan aggressivi, “soluzioni definitive” o spacciate come tali». Dal 5 marzo, invece, più nulla per quasi due mesi. (Fino all’insediamento del governo Conte-Salvini-Di Maio e alla crisi Aquarius – l’intervista è precedente, ndr). «L’immigrazione – prosegue Allievi – è scomparsa dai radar della politica e dall’orizzonte mediatico, nonostante le notizie, anche di rilievo, non mancassero. Eppure proprio questo argomento è stato decisivo nello spostare una grande massa di voti», dal centro sinistra verso destra. Secondo lo studioso, che da decenni si occupa di migrazioni in Europa, il fatto che non se ne sia parlato più dopo il voto è la prova che l’interesse «sta nel sollevare il problema, non nel trovare soluzioni». Perché «quello che succede, in realtà, è che chi più è riuscito a canalizzare le frustrazioni e le proteste, alcune anche fondate, dell’elettorato rispetto alla gestione del fenomeno migratorio, ha interesse a che il problema persista. Tanto il capro espiatorio non vota».

Negli ultimi anni la “sensibilità” degli italiani verso il tema dell’immigrazione è notevolmente cambiata ma ciò non può spiegarsi solo con le sparate di Salvini o i titoli “deliranti” di giornali xenofobi e razzisti. «Questa svolta a destra dell’opinione pubblica è oggetto della mia attenzione in Immigrazione. Cambiare tutto. L’immigrazione è un fenomeno strutturale da decenni. Tuttavia è sempre stato affrontato in termini di emergenza, come fosse un fatto episodico. Ho pensato pertanto che fosse urgente una riflessione critica intellettualmente onesta su tutte le questioni che accompagnano le migrazioni attuali, affrontando quelle più spinose con proposte radicali. In un certo senso mi sono sentito in dovere morale di rispondere alle critiche, alle obiezioni, alle incertezze, alle insicurezze, alle paure di chi sempre più visibilmente è contro le politiche di accoglienza se non contro gli stranieri in generale. E questo accade ormai non più solo nell’elettorato di destra ma anche a sinistra e nel mondo cattolico».

Anche alla luce degli episodi narrati in precedenza, ci si chiede se la vera emergenza sia l’immigrazione o la percezione che si ha del fenomeno. «Accusare le persone di ascoltare solo gli slogan e di negare la realtà è un modo sbagliato di affrontare il problema. Non è solo che alcuni capiscono male. Bisogna avere idea del perché ci sono le migrazioni e cosa succederà in futuro. Abbiamo a disposizione milioni di dati oggettivi, molti li cito nel libro, che ci dicono che gli arrivi di questi ultimi anni sono meno degli arrivi regolari di dieci anni fa ed enormemente meno del fabbisogno italiano ed europeo rispetto, per esempio, al numero di persone che va in pensione e non è sostituito nel mercato del lavoro. Ogni anno, a livello europeo, questo differenziale è pari a -3 milioni. Da qui al 2050, vuol dire 100 milioni di lavoratori in meno, in Italia 10. O ci va bene così – però bisogna sapere quali sono le conseguenze in termini di welfare, di pensioni etc – oppure si inizia a ragionare su come regolamentare gli ingressi di cui peraltro abbiamo bisogno».

Secondo Allievi, la prima cosa da fare è riaprire canali regolari, che oltretutto darebbero una giustificazione politica al blocco di quelli illegali. «È evidente che non si può continuare così. Chiudendo gli ingressi legali l’Europa e l’Italia hanno dato la gestione delle politiche migratorie in mano alla criminalità transnazionale. È come se affidassimo il contrabbando di alcol e sigarette alla mafia e alla camorra». Alcune ong provano ancora a sottrarre i migranti dal giogo dei trafficanti ma il 18 marzo la Proactiva open arms è stata sequestrata dalla procura di Catania nell’ambito di un’inchiesta su uno sbarco di 218 persone avvenuto il 16 marzo a Pozzallo, lo stesso approdo dove cinque giorni prima aveva trasportato Segen e i suoi compagni. Il responsabile della ong e il comandante della nave sono indagati per associazione a delinquere per traffico internazionale di migranti e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La loro presunta colpa è quella di aver prestato soccorso in mare e di non aver consegnato i profughi a una motovedetta di Tripoli. Ai giornali il comandante ha dichiarato che i militari libici hanno minacciato di aprire il fuoco se non gli avessero consegnato i fuggitivi.

«Ciò che il mondo cattolico e il centrosinistra con i suoi decreti non hanno colto è che il problema non è essere pro o contro gli sbarchi» osserva Allievi. «È chiaro che le persone in mare vanno salvate anche perché è reato non farlo, il punto è che non devono essere più costrette a partire in quel modo. Il meccanismo attuale, figlio di politiche europee sbagliate e in Italia della Bossi-Fini, produce arrivi irregolari e una serie di irregolarità a cascata. Che la comunità percepisce come pericolose. La sinistra su questo è silente. I viaggi sono inevitabili e vanno gestiti, non innalzando muri o bloccando i porti ma nell’ottica dello sviluppo e dell’integrazione». In che modo? «Per quanto riguarda i richiedenti asilo, i corridoi umanitari sono un importante esempio di una pratica che funziona, produce integrazione e costa pochissimo». Con questi corridoi il rovesciamento di prospettiva sarebbe totale: «Non si aspetta che arrivino, li si va a prendere nei campi profughi sulla base, ovviamente, di criteri umanitari». Non è l’unico ribaltamento di prospettiva che mette sul tavolo Allievi. «La proposta più forte che faccio nel libro consiste nel superare la distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo. Tutte le persone che emigrano chiedono la stessa cosa: una seconda possibilità, l’opportunità di potersi realizzare laddove nel proprio Paese non è possibile». La migrazione economica è la normalità, oggi invece è considerata un reato. «Siamo stati noi a creare questa stortura con la Bossi-Fini. Avendo chiuso qualsiasi possibilità di accesso regolare in pratica obblighiamo molti dei migranti a mentire per ottenere la protezione umanitaria: l’unico modo per avere il permesso di soggiorno. Se un cittadino del Gabon potesse andare all’ambasciata italiana, chiedere il visto, pagarsi il viaggio di ritorno, cosicché nel caso in cui facesse qualcosa di sbagliato possa ritornare indietro, pagarsi l’assicurazione sanitaria per il periodo in cui è alla ricerca di lavoro, dopo di che se non ce la fa torna indietro, come è sempre successo, tutto quello che è accaduto in questi anni non sarebbe accaduto. Non solo. Ormai possono arrivare, come detto, solo attraverso gli sbarchi gestiti dalla criminalità. È questo che genera il senso di insicurezza profondo nella società. Continuare così non ha senso. Un sistema del genere rischia di produrre effetti devastanti sul tessuto sociale e di sicuro non favorisce l’integrazione».

Un’altra proposta forte di Allievi riguarda la creazione di «meccanismi di welfare universale». «È stato creato un sistema che genera odio nei confronti dei migranti da parte delle classi più disagiate. Prendiamo i famosi 35 euro al giorno che si spendono nei centri di accoglienza. In Italia è un tipo di sussidio che viene ricevuto solo da poche categorie in difficoltà sociale oltre i richiedenti

asilo, tra cui i disabili gravi e raramente anziani non auto sufficienti. Bisogna uscire dall’idea di offerta di aiuto specifica per il migrante. Il richiedente asilo va aiutato in quanto persona in difficoltà al pari di altre persone in difficoltà. Peraltro ci sono già degli esempi positivi in tal senso in alcuni Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) dove oltre a garantire l’assistenza ai profughi si riesce a produrre occupazione per “italiani”: assistenti sociali, psicologi, insegnanti di italiano, esperti di orientamento al lavoro. Bisogna andare incontro a questo tipo di sofferenza sociale, non fare spallucce come se fosse un argomento della destra. Perché non lo è, semmai è un argomento che si trasforma in un voto a destra». Superando alcune barriere ideologiche secondo Allievi ci sono ancora nonostante tutto dei margini per attuare politiche pragmaticamente ragionevoli.

Ma la vera svolta, conclude, sarebbe predisporre una sorta di Piano Marshall europeo per l’Africa. «Conosciamo tutti i benefici che dopo i disastri della seconda guerra mondiale portò sia all’Europa, che agli Stati Uniti. In pratica ci aiutarono a casa nostra, per dirla come Salvini e Meloni. Il punto è che costò agli americani una somma pari al 10 per cento del bilancio Usa. Sarebbe la soluzione definitiva, un investimento geniale. Tuttavia mi risulta difficile pensare che i leader della destra vadano a dire ai loro elettori: ora il 10 per cento delle vostre tasse sarà speso per gli africani in difficoltà così non vengono più qui».

L’intervista al sociologo Stefano Allievi è stata pubblicata su Left n. 12 del 23 marzo 2018. Per acquistare la versione digitale

 

Per approfondire, Left in edicola dal 15 giugno 2018


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L’onestà con garbo di Maran

Ieri il sindaco di Milano Beppe Sala ha dichiarato di avere parlato con il suo assessore Pierfrancesco Maran e di avere saputo da lui «che in realtà non c’è stata nessuna offerta» e basta leggere le intercettazioni che riguardano il costruttore Luca Parnasi, arrestato ieri nell’ambito dell’operazione che riguarda la costruzione del nuovo stadio a Roma, per accorgersi come gli “ambasciatori” spediti a Milano si fossero resi conto fin da subito che non c’era spazio per mettere in pratica nel capoluogo lombardo una pratica corruttiva.

«Siamo andati a parlare con l’assessore Maran, quello di Milano, no? – racconta Giulio Mangosi al telefono con una tale Valentina – E Simone (Contasta, anche lui agli arresti, ndr) che gli prova a vendere alla Tecnocasa un appartamento… e quello dice, amico mio no! Cioé qua funziona così… qua se tu mi dici che la cosa la riesci a fare è perché la puoi fare, a me non mi prendi per culo perché io non mi faccio prendere… io… io non voglio essere… non voglio prendere per il culo chi mi ha votato. Siamo andati dall’assessore a fare una figura (incomprensibile) cioè proprio, sembravamo i romani… quelli sai… dei centomila film che hai visto? I romani a Milano»

I due se la ridono: «peggio di Totò», dicono.

Eppure tra l’odore dell’inchiesta romana (che bisognerà poi vedere come andrà a finire) si coglie un dato significativo che era andato perduto: non sono tutti uguali, no, e distinguere per non confondere sarebbe un primo passo per recuperare ecologia nel dibattito politico. E non sono diversi i milanesi dai romani (come Mangosi prova a convincersi al telefono per giustificarsi) e non sono nemmeno diversi gli appartenenti di una fazione rispetto all’altra: semplicemente anche nella politica (così come in tutti i campi) esistono persone che praticano l’onestà con garbo e con misura, senza farne un vessillo da sventolare come clava contro gli avversari.

La corruzione endemica del nostro Paese (così come gli stretti rapporti con le mafie) non è affare di un solo partito e tantomeno un tema da usare per concimare la propaganda: si combatte (se davvero si vuole combattere) con i comportamenti e con i prerequisiti morali che dovrebbero essere richiesti a qualsiasi pezzo di classe dirigente di questo Paese. Che gli amichetti di Parnasi trovino incredibile che la corruzione non sia normale è il campanello d’allarme di cui la politica dovrebbe occuparsi (al di là dei risvolti giudiziari). Che la politica riparta dai comportamenti (più che dagli annunci e dalle dirette Facebook) sarebbe una buona pratica per tutti.

Buon giovedì.

Mia figlia Ilaria Alpi uccisa da nessuno

Luciana Alpi, madre della giornalista Ilaria Alpi, durante la presentazione del libro 'Esecuzione con depistaggi di Stato' presso la sede della FNSI, Roma 6 luglio 2017. FOTO FABIO FRUSTACI/ANSA

«Sono certa che presto avrò verità e giustizia dalla procura di Roma sul duplice omicidio di Mogadiscio. Spero che le persone di cui i giudici di Perugia hanno riportato i nomi nella sentenza dell’ottobre scorso siano chiamate a dire finalmente la verità sull’incarcerazione dell’innocente Hashi Omar Hassan e sul massacro di Mogadiscio». Luciana Alpi aveva scritto queste righe pochi giorni prima che la procura di Roma mettesse una pietra tombale sull’inchiesta per l’omicidio di sua figlia Ilaria e di Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. E, come lei stessa ha raccontato, contava di leggerle alla presentazione dell’edizione aggiornata del suo libro Esecuzione con depistaggi di Stato (Kaos Edizioni) scritto con il marito Giorgio, il giornalista Maurizio Torrealta e con Mariangela Gritta Grainer, all’epoca parlamentare Pds.

Ma dopo questa inaspettata svolta, l’incontro del 6 luglio alla sede della Federazione nazionale stampa italiana a Roma, si è trasformato nella prima occasione pubblica in cui Luciana Alpi si è espressa sulla decisione della procura capitolina di chiedere al Gip di archiviare il duplice omicidio, ritenendo impossibile individuare i colpevoli e il movente del brutale omicidio.

«Sono passati 23 anni e 3 mesi da quando mia figlia Ilaria e Miran Hrovatin sono stati assassinati a Mogadiscio. Da quel giorno si sono susseguite commissioni governative e parlamentari, cinque magistrati, svariati processi e trasmissioni televisive. Ma è stato completamente inutile, perché intanto dietro tutto questo ci sono state continue manovre: depistaggi, calunnie, bugie, apparati dello Stato che hanno voluto tenere nascosti i killer, i mandanti e i moventi dell’omicidio di mia figlia» ha detto Luciana Alpi, emozionata ma decisa. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano a Mogadiscio per documentare, per conto della redazione del Tg3, la guerra civile somala e per effettuare un’inchiesta su un presunto traffico d’armi e rifiuti tossici tra l’Italia e la Somalia. Lo Stato italiano in quegli anni aveva infatti donato all’allora Governo somalo una flotta di sei navi per favorire il commercio ittico tra l’Italia e la Somalia. Per la Somalia quelli erano gli anni della guerra civile, e non era certo che le imbarcazioni smerciassero solo pesce. Si sospettava infatti che esistesse un enorme traffico d’armi e rifiuti tossici tra i due Paesi.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, a Mogadiscio quel 20 marzo proprio per indagare sui presunti traffici, sono stati assassinati in circostanze estremamente misteriose e mai chiarite. Ma i genitori della giornalista sono sempre stati sicuri del nesso tra i due eventi. Per 23 anni si sono susseguite rivelazioni e colpi di scena: i taccuini e i nastri di Ilaria furono rubati, i testimoni chiave del processo sparirono e, ad oggi, nessuno è stato incarcerato. La verità, insomma, ancora non è emersa.

«Per me oggi non è una giornata normale, la mia emotività è molto scossa» dice a un certo punto la signora Alpi, che non si è mai arresa all’idea che fosse impossibile ottenere giustizia per l’omicidio della figlia. «Prima con mio marito Giorgio, mancato nel 2010, poi da sola ho ricevuto solenni impegni da parte di tutte le autorità dello Stato. Non ricordo nemmeno più la quantità di promesse e impegni verbali, ma il risultato finale è stato zero. Si è arrivati al punto di far incarcerare per 17 anni un innocente pur di coprire i responsabili del doppio delitto. Il 19 ottobre 2016 la Corte d’appello di Perugia ha perlomeno rimediato a questo scandalo scarcerando l’incolpevole Hashi Omar Hassan».

Hassan è il cittadino somalo finito nel 2000 in carcere dopo essere stato condannato a 26 anni con l’accusa di essere l’esecutore dei due omicidi. I giudici di Perugia lo hanno assolto «per non aver commesso il fatto». Decisiva fu, nel 2000, la testimonianza di un altro cittadino somalo, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, che lo aveva identificato come componente del gruppo che uccise i due inviati. Gelle scomparve però nel nulla alla vigilia della sua deposizione in tribunale e gli inquirenti non sono mai riusciti a trovarlo. Successivamente è stato rintracciato a Birmingham, in Inghilterra, dalla troupe di Chi l’ha visto? e davanti alle telecamere ha raccontato di essere stato pagato per testimoniare il falso. Stando alle sue rivelazioni, andate in onda il 18 febbraio 2015, nel 1997, Gelle era stato portato in Italia per testimoniare sulle presunte violenze di cui era stato vittima da parte di alcuni soldati italiani in Somalia. Una volta arrivato gli venne offerto di testimoniare sull’omicidio dei due inviati, per «chiudere il caso». In cambio, ha detto l’uomo ai giornalisti Rai, ricevette denaro e la promessa di poter lasciare la Somalia, dove infuriava la guerra.

«Nelle motivazioni della sentenza del 19 ottobre i giudici di Perugia hanno messo nero su bianco nomi e cognomi di chi ha portato avanti “le attività di depistaggio di ampia portata” che ci sono state su questo caso», ricorda Luciana Alpi. «È la Corte di Perugia a parlare di depistaggio: la sentenza parla di un falso testimone protetto e manovrato dallo Stato italiano per far condannare un innocente. Tutto questo pur di mantenere nascosta la verità sul questo delitto». 

Quella di Perugia è sicuramente stata una sentenza clamorosa, in cui alcuni giudici hanno per la prima volta riconosciuto una volontà da parte dello Stato di insabbiare la verità sull’omicidio dei due inviati. «Mi aspettavo che la gravità dei fatti accertati e denunciati nella sentenza dei giudici di Perugia provocasse un piccolo terremoto istituzionale dal Quirinale in giù, e credevo che i colleghi di mia figlia, il mondo del giornalismo italiano, riportassero con il dovuto rilievo la notizia di una sentenza di tale gravità. Ma non è successo nulla di tutto questo», conclude la mamma di Ilaria Alpi.

L’articolo di Elena Basso è tratto da Left n. 28 del 15 luglio 2017


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Inetti (ma “del cambiamento”) e pronti a sostenere una tesi e il suo contrario

Forte, il Di Battista: riuscirebbe a sostenere una tesi e il suo contrario nel giro di poche ore con la stessa identica foga e così basta guardarselo per qualche minuto durante un suo comizio (a proposito: qualcuno si ricorda un atto parlamentare degno di nota, una proposta di legge, un qualsiasi intervento non comiziante degno di nota?) per capire che l’uomo che si schiantava contro Salvini “cazzaro verde” oggi dice di essere d’accordo con Toninelli (che non esiste, quindi con Salvini). Tra i punti da sottolineare c’è l’umile affermazione di essere “l’unico che ha letto la sentenza Dell’Utri su Berlusconi” (e chissà cosa ne dicono i pm di quel processo e cosa ne dicono i poveri stronzi sotto programma di protezione da una vita, a saperlo che bastava Di Battista…) e la tiepida affermazione “io ho lavorato in Africa per una vita” (detto testualmente così). Eccolo qui:

Però vi diranno che Di Battista ormai non c’entra già nulla e allora forse vale la pena vedere i protagonisti del governo del cambiamento: all’Interno, ad esempio, come sottosegretario c’è Carlo Sibilia (ci sarà tempo per parlare degli altri). Carlo Sibilia è quello che il 20 luglio del 2014 twittò letteralmente:

“Oggi si festeggia anniversario sbarco sulla . Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa…”.

Carlo Sibilia è quello che il 26 novembre del 2011 sulla piattaforma del M5s propose una legge per legalizzare unioni “di gruppo”, e “tra specie diverse”.

C’è Maurizio Santangelo, neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, che scrisse “Con un po (testuale, senza apostrofo) di impegno l’Etna risolverebbe tanti problemi dell’Italia”.

C’è l’onorevole Gianluca Vacca che de l’Unità scrisse “è tornata a infangare le edicole. Le discariche sono sature, non c’era bisogno di nuova spazzatura”.

C’è il nuovo sottosegretario Claudio Cominardi che alla Camera ci svelò che la strage di Piazza della Loggia fu “un complotto di Bilderberg”.

Non conta più nulla: quello che hai detto, quello che hai fatto, ciò su cui hai giurato, le cazzate che hai scritto scivolano in scioltezza in nome della speranza e del “lasciamoli lavorare”. Un Travaglio ci avrebbe costruito una letteratura sull’inettitudine e le contraddizioni di un governo del genere. Solo che si è già giocato il jolly.

Buon mercoledì.

«Quante gliene abbiamo date a Cucchi». La versione dell’ex moglie del carabiniere imputato

L'avvocato della famiglia Cucchi, Corrado Oliviero, mostra delle foto durante il dibattimento del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi, a Roma 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

«C’ero pure io, quante gliene abbiamo date a Cucchi»: al processo Cucchi è il giorno di Raffaele D’Alessandro, anzi dell’ex moglie di uno dei cinque carabinieri imputati a vario titolo per la morte del geometra romano in conseguenza al suo arresto, nell’ottobre del 2009, per possesso di sostanze. Gli altri sono Alessio Di Bernardo, Francesco Tedesco, sempre della stazione Appia, tutti per omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità. E poi ci sono altri due imputati, il maresciallo Roberto Mandolini, che risponde dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.

Oggi Anna Carino ha raccontato tutto in aula: «Il mio ex marito mi disse di avere partecipato alla perquisizione in casa di Stefano Cucchi e che non avevano trovato niente. Ma dopo diversi mesi, dopo aver visto un servizio in tv, mi fece una confidenza. Mi disse che la notte dell’arresto era stato pestato, aggiungendo: “C’ero pure io, quante gliene abbiamo date”». «Raffaele mi raccontò di un calcio che uno di loro aveva sferrato a Cucchi che aveva provocato una caduta rovinosa del ragazzo. Nel raccontarlo mi sembrò quasi divertito; rideva e davanti ai miei rimproveri mi rispondeva “Chill è sulu nu drogato e ‘mmerda”». Anna Carino ha precisato di non sapere dove fosse avvenuto il pestaggio e dove Cucchi cadde. «Più volte al mio ex ho chiesto il motivo, ma non mi hai risposto. Mi ha raccontato anche di altri pestaggi ad arrestati o a persone che avevano portato in caserma; anche se non si trattava di pestaggi di questo livello».

Dalla sua testimonianza, seguita da quella dell’attuale marito, scaturisce il ritratto di un carabiniere «irascibile», «non in grado di discutere senza urlare», uno che raccontava le sue imprese con «spavalderia e fierezza». Anche a Giovanni Rendina, che diventerà il marito della sua ex, con cui era in amicizia, D’Alessandro racconterà di «aver fatto fare le scale a calci» a quel ragazzo che aveva contribuito ad arrestare, «un drogato di merda che pesava quaranta chili», come ripete il teste su una specifica domanda di Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, protagonista di altri processi di malapolizia. «A lui piaceva raccontare – ha detto il teste – così ho pensato che si stesse vantando. In quel momento c’erano altre persone sotto processo per la morte di Cucchi (agenti di polizia penitenziaria e sanitari del Pertini, ndr), non immaginavo fosse qualcosa in più della sua spavalderia». Molto tempo dopo, incrociando i suoi ricordi con quelli della sua compagna, Rendina riuscirà a collocare in ben altra cornice le confidenze di quella sera con D’Alessandro.

Anna Carino ha raccontato anche che quando la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, appariva in tv, «Raffaele la insultava pesantemente». Poi arrivò il momento di fissare in un incidente probatorio quelle sue dichiarazioni. «Quando sono stata sentita – ha detto Anna Carino – avevo paura, temevo la sua reazione. Anche in passato aveva avuto reazioni violente; non è stato però mai aggressivo fisicamente». La donna decise anche di mandare un messaggio all’ex marito. «Gli dissi che mi dispiaceva, ma non avrei potuto fare altro che dire la verità. Ma lui non rispose. Da quel giorno però i nostri rapporti si sono quasi azzerati», ha spiegato la donna.

Nel gennaio 2016, poi il contatto tra Ilaria Cucchi e la Carino. «Mi sentivo in dovere di farlo per chiedere scusa per non aver parlato prima. La incontrai e le dissi che mio figlio mi aveva detto che un giorno sbirciò sul telefono del padre mentre parlava con un amico e vide le foto di Stefano; e che il padre disse all’amico ‘Io accussì l’aggio lassatò». Poche settimane prima di questo incontro, la donna era stata sentita dagli inquirenti e aveva confermato frasi già intercettate dalla Squadra mobile. Era il 19 ottobre 2015 quando fu davanti al pm. Nelle intercettazioni alla base di questo processo che, dopo otto anni, ha finalmente illuminato il cono d’ombra in cui erano stati conservati i carabinieri, D’Alessandro si sente mentre dice: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie».

La svolta investigativa arriva quando Anna Carino gli ricorda al telefono: «Hai raccontato a tutti di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda (…) che te ne vantavi pure… che te davi le arie». «Raffaele – disse Carino ai pm – è sempre stato un tipo molto aggressivo. Quando indossava la divisa, poi, si sentiva Rambo. Mi raccontava anche di pestaggi ai danni di altri soggetti, che avevano portato in caserma in altre circostanze. Ricordo che mi parlò di pestaggi ai danni di extracomunitari, anche se non si trattava di pestaggi di questo livello. Per quello che ho percepito io, soprattutto quando lo sentivo mentre ne parlava con altri, il pestaggio di Cucchi fu molto più violento».