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La Chiesa di Bergoglio e la farsa della finta povertà

Vescovi e cardinali al termine dei lavori del concistoro straordinario, Citt‡ del Vaticano, 20 febbraio 2014. Bishops and cardinals at the end of extraordinary Consistory, meeting of the Holy Father with the cardinals, to reflect on the Family, in the Vatican City, 20 February 2014. ANSA/ FABIO FRUSTACI

«Kirchensteuer», è così che viene chiamata in Germania la tassa sulle religioni. Una tassa odiosa per il cui recupero la legislazione tedesca prevede un meccanismo estremamente efficiente nell’attivare una procedura di infrazione qualora ci si renda inadempienti nel versamento. Da tempo i tedeschi hanno preferito dichiarare di non aderire a nessuna confessione religiosa proprio per sottrarsi al pagamento della kirchensteuer. In Italia il meccanismo è diverso. Non si aggiunge una ulteriore tassa alle circa cento tasse previste dal sistema fiscale, ma si detrae una percentuale dalla tassa più elevata, l’Irpef. Lo 0,8% dell’Irpef può essere destinato a 12 diverse confessioni religiose che hanno stipulato una intesa con lo Stato italiano. Il sistema della tassazione in favore delle confessioni religiose, per come è concepito, lascia intendere al contribuente che sia strutturato in una sostanziale volontarietà, tanto più che tra le opzioni possibili, si include anche lo Stato. A ben vedere non c’è alcuna linearità e nella ipotesi in cui  nessuna delle opzioni viene sottoscritta dal contribuente «la ripartizione della quota d’imposta non attribuita è stabilita in proporzione alle scelte espresse». È proprio in questa ulteriore ripartizione che si consuma la perversione del privilegio fiscale.

In altri termini la quota di tassazione che non ha ricevuto alcuna indicazione di destinazione opzionale, viene nuovamente ripartita tra le confessioni religiose secondo la stessa proporzione registrata per le opzioni espresse. In sintesi. I contribuenti italiani sono circa 41 milioni e cinquecentomila. Di questi soltanto il 45% circa esprime un’opzione tra le 13 possibili e stiamo parlando di circa 18 milioni di contribuenti. All’interno di questo 45%, il 37% circa esprime una opzione verso la Chiesa cattolica. Quel 37% è costituito da circa 15 milioni di contribuenti. Circa 15 milioni di contribuenti costituiscono, all’incirca, l’80% dei contribuenti che hanno espresso la loro opzione. A questo punto l’80% del gettito Irpef destinato alle confessioni religiose di coloro che non hanno espresso alcuna opzione, viene destinato alla Chiesa cattolica. Per avere cognizione delle cifre di cui si sta parlando, possiamo ricordare che nel 2016 la Chiesa “povera” di Bergoglio ha incamerato dall’8×1000 del gettito Irpef un miliardo e trecentomila euro.

Il 16 maggio 2016 aprendo i lavori della 69ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, durante la quale si dovevano assumere decisioni sulla spartizione del “bottino”, Bergoglio, assolutamente incurante dell’incoerenza rispetto al contesto, ha esortato i suoi interlocutori: «Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». Più devastante dell’incoerenza del messaggio propalato, è stata la risonanza che simile frase ha avuto sui media, proni ad assecondare la farsa della finta povertà mentre ci si sedeva al banchetto dell’avidità. Decisamente più coerente fu Paul Marcinkus, un cardinale al centro di scandali finanziari internazionali, il quale non aveva mai celato la sua “passione” per il denaro e del quale resta famosa la frase: «Non si governa la Chiesa con le Ave Maria».

Tornando a tempi più recenti, un’analisi sulla tassa per le religioni rende imprescindibile il richiamo alla relazione della Corte dei conti del dicembre 2016 nella quale è stato tracciato un quadro desolante. Assenza di controlli, rilevanti anomalie, perdurare degli elementi di debolezza nella normativa, sproporzione rispetto alla Chiesa cattolica la quale riceve più dalla quota indistinta (ovvero quella senza alcuna indicazione opzionale) che non dalle precise scelte dei contribuenti.

Queste in estrema sintesi le accuse della Corte dei conti. Già nel 2014 (v. art. di Grendene) la Corte aveva denunciato le aberrazioni sottese al meccanismo di redistribuzione dell’8xmille rilevando come, a fronte di un 37% di indicazione per scelta opzionale, la Chiesa cattolica arriva a riscuotere l’82% dell’intera partita contabile. I rilievi della Magistratura contabile si erano concentrati sul perverso meccanismo della assegnazione finale perché non rispettava (e non rispetta ancora oggi)  i «principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza» che in uno Stato di diritto improntato al rispetto dei diritti costituzionali e dei diritti umani, hanno un senso, ma nello Stato della Repubblica pontificia italiana, hanno lo stesso senso delle Ave Marie di Marcinkus.

Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo

L’articolo di Carla Corsetti è tratto dal numero di Left in edicola


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Irrazionale umanità

È inevitabile scrivere dell’Aquarius. La vicenda della nave bloccata al largo delle coste siciliane con più di 629 persone a bordo tra cui donne incinta e minori non accompagnati. Lo sconcerto è enorme. Un atto di una violenza inaudita verso persone inermi. Da un punto di vista politico Salvini ha dimostrato di continuare a manovrare il M5s e tutto il governo a suo piacimento, come già aveva fatto durante i 3 lunghi mesi dopo le elezioni. Come ha osservato Lucia Annunziata è lui il vero capo del governo. Nessuno gli ha contestato la decisione di bloccare l’Aquarius in mare, decisione presa in assoluta autonomia senza consultare il capo del governo che era in volo, di ritorno dal G7.

Ma la cosa più drammatica e sconcertante sono le tante, troppe voci di consenso verso questa decisione del ministro dell’Interno, anche tra amici e persone di ambienti che si dicono essere di sinistra. Salvini sa essere persuasivo. Sa che la maggioranza che sostiene il suo governo vuole il reddito di cittadinanza perché non pensa di poter trovare lavoro e a volte nemmeno lo cerca; sa che vuole che gli si indichi la soluzione ai propri problemi e vuole che qualcuno gli dica che quei problemi sono dovuti a qualcosa di esterno, ad un nemico che si possa accusare di tutto ciò che non va; specula sulla voglia di riscatto dei propri elettori, sulla necessità di non sentirsi più gli ultimi, nel non sentirsi incapaci di reagire.

Ieri in un bar ho sentito un’affermazione che mi ha fatto comprendere quale veramente sia il problema dei migranti nella testa degli elettori di Salvini (e non solo di quelli purtroppo). Una persona ha detto “Qui ormai è tutto difficile, bisognerebbe avere il coraggio di andarsene”. Il coraggio di andarsene… i migranti quel coraggio ce l’hanno. E non è soltanto un coraggio che viene dalla disperazione. Perché pensando meglio è un coraggio che è lo stesso di chi decide di andare a studiare o a cercare fortuna altrove, chi decide di andare via di casa, chi si separa da una situazione comoda e conosciuta per andare verso l’ignoto. Il coraggio di chi decide di andare verso ciò che non si conosce avendo solo l’idea di una possibilità di vita migliore.

Non è una questione economica ma è una questione di qualità della vita. La ricerca di una realizzazione personale che evidentemente nel luogo di origine non c’è. Il migrante, che sia economico o meno non ha importanza, reagisce alla realtà che non gli permette di realizzare se stesso. Non rimane inerte. Ha una capacità di reagire, di rifiutare ciò che è e che non va bene. Non annulla, non nega la realtà, ma la rifiuta andandosene. Il migrante in questo senso è frustrante per chi non è come lui, chi non ha quella reazione. Mette in crisi la persona che quel coraggio, qualunque ne sia il motivo, non ce l’ha. Il migrante che può mettere in crisi l’identità razionale è il diverso da se stessi perché rappresenta l’esistenza di una possibile vita diversa che si è deciso essere non esistente.

E qui devo necessariamente citare lo psichiatra Massimo Fagioli. Egli ha scoperto e poi teorizzato l’esistenza della pulsione di annullamento che è quel pensiero del tutto inconscio e quindi normalmente sconosciuto all’essere umano, che fa di ciò che è ciò che non è e di ciò che non è ciò che è. È una dinamica psichica che compare alla nascita, come reazione allo stimolo luminoso che, fusa alla vitalità, determina la comparsa del pensiero come idea di esistenza del rapporto con un altro essere umano simile a se stessi. È là l’origine della fantasia. È la realtà del pensiero umano che è irrazionale e ha come fondamento la ricerca dell’altro per realizzare se stessi. Il migrante mette in crisi il comfort, la tranquillità dell’identità razionale. È colui che cerca se stesso ribellandosi al proprio destino.

D’altra parte la dinamica di annullamento è esattamente ciò che sta alla base del rovesciamento della realtà propagandata da Salvini. Il problema non sta tanto in quello che pensa o non pensa Salvini di cui non mi interessa affatto. Il problema sta nella violenza del suo pensiero e nell’istigazione che fa verso chi lo ascolta ad esercitare la stessa violenza di pensiero. È una violenza invisibile nascosta in un pensiero facile: “Quelle persone non sono persone. Quelle persone non esistono. Quelle persone non sono esseri umani.” Sembra una cosa di poco conto, invece è un pensiero pericoloso che può portare conseguenze politiche molto gravi.

Per comprendere meglio il significato politico di questo pensiero accenno soltanto un passaggio che rubo a Marcella Fagioli da un suo recente intervento al convegno “La politica” (*): «Per fare un pensiero non si possono perdere gli affetti». Ovvero, il pensiero senza affetti non è un pensiero umano. Il pensiero senza affetti è un pensiero che diventa disumano. Ovvero che con ha più rapporto con la realtà umana. Il pensiero senza affetti, argomenta e motiva, da una spiegazione logica e razionale. “Non possono venire tutti qui”. “L’Europa deve fare la sua parte”. “Non corrono rischi su quella nave”.

Salvini, furbescamente, dà le giustificazioni razionali. Dà le stampelle che servono per non cadere nell’angoscia del vuoto di trovarsi a sentire di non essere più umani, di non avere più gli affetti per non ribellarsi e indignarsi alla pazzia violenta di lasciare 629 naufraghi in mezzo al mare.

E così accade che le persone dicano “ma in fondo ha fatto bene, ha ottenuto dall’Europa ciò che è giusto”.
Salvini non ha ottenuto niente dall’Europa.
Ha solo ottenuto un pezzo di disumanità in più in chi pensa che abbia ragione.
In chi ha chiuso gli occhi perdendo un pezzo di affettività.
Salvini vuole una razionale disumanità.
A Salvini ci dobbiamo opporre con una irrazionale umanità.

Perché la verità è che siamo esseri irrazionali. Come gli immigrati che rischiano la vita per una vita diversa. La nostra reazione deve essere come la loro.
Non possiamo e non dobbiamo chiudere gli occhi. Mai.

(*) www.ventisecondi.it

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Letteratura al femminile in mostra a Roma, tra graphic novel, fumetti e riviste

Parlare di temi complessi con codici semplici ed universali. È questa la missione del Festival di fumetti “Bande de femmes”, organizzato da Tuba, la Libreria delle Donne di Roma, che fino al prossimo 16 giugno, riempirà le strade e i locali del Pigneto, con presentazioni di fumetti, riviste di genere e graphic novel. Una celebrazione del rovescio, del sottosopra, del controcorrente, di tutto ciò che esiste e che rappresenta materia pulsante della nostra società, negata e violata di continuo dalla politica, dagli stereotipi e dall’intolleranza.

«Riuscire a far passare dei concetti profondi in modo elementare è una dote che non tutti hanno e invece i fumetti che presentiamo hanno proprio questo pregio» – commenta Sara del bar Tuba, impegnato da dieci anni circa a portare nel quartiere di Roma est temi di cui non si sente parlare spesso, accogliendo la comunità del posto tra le sue maioliche colorate, rendendolo un luogo accogliente e vivace.

«A volte in questa città il centro è svuotato di senso, che invece si diffonde in tanti piccoli altri luoghi e noi proviamo a far sì che il Pigneto sia uno di questi, ogni giorno». Altro che periferia! Un’altra parola chiave del Festival, a cui è dedicata una mostra itinerante “Periferie plurali”, distribuita in 15 spazi – tra locali e librerie – del Pigneto.

Sguardi diversi ritraggono il concetto di periferia in modo metaforico e molteplice, dall’isolamento che attanaglia coloro che vivono fuori dal centro città alle “soggettività periferiche”, narrate poco e male nel dibattito pubblico. È al racconto di queer, trans, gay e lesbiche, che la fumettista francese Julie Maroh, nota per la graphic novel Il blu è un colore caldo, da cui Abdellatif Kechiche ha tratto il film vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2013, La vita di Adele, ha dedicato il suo ultimo lavoro Corpi sonori (Panini 9L), che sarà presentato durante il Festival. «Le domande che mi pongo ogni volta che mi accingo a realizzare un lavoro sono: perché ho voglia di raccontare questa storia, perché è importante, come faccio ad arrivare al cuore della gente», dichiara Maroh, che nella sua ultima opera mette al centro tutto ciò che normalmente al centro non è, con un intento politico, di riflessione e di denuncia.

Il rapporto tra la singola soggettività e la società vive di tormenti e rifiuti, ma anche di incomprensioni e paura, a cui si reagisce solo con la presa di coscienza e la lotta. Io sono Una (Add editore) dell’autrice inglese Una – un nomen omen scelto per innescare un processo di immedesimazione nel pubblico – racconta con una rara delicatezza il tema della violenza sulle donne. «Tra i vari motivi che mi hanno spinto a scegliere questo pseudonimo, c’è sicuramente l’idea di rendere la storia che racconto universale. Questa storia è successa a me, ma in realtà potrebbe essere la storia di tutte». Un’opera dove prevalgono i toni del grigio e del bianco, con qualche sporadica punta di rosso, ad innalzare la tensione del racconto, che ha al centro una giovane donna di 12 anni, che dopo un abuso, finisce per perdere la vitalità che un tempo le era propria e inizia a sentirsi sola e colpevole. La storia della fanciulla, che vive nella regione inglese dello Yorkshire, dove le viene fatta questa violenza, procede parallelamente alle indagini e alla ricerca di Peter Sutcliffe, serial killer realmente esistito, noto con il nome di “Lo Squartatore dello Yorkshire”. Negli anni 80, fu accusato di aver ucciso 13 donne e di aver provato ad ucciderne altre 7. «Per lottare contro la cultura patriarcale serve sorellanza e serve diventare protagoniste del dibattito pubblico, proprio come è successo in Argentina e in Irlanda, dove le donne hanno vinto la lotta per ottenere la legalizzazione dell’aborto. E occorre credere alle donne – continua Una – Quando ho iniziato a scrivere la graphic novel, come prima cosa mi sono chiesta perché le donne non denunciassero le molestie sessuali che subiscono ogni giorno».

Anche la provincia che ci racconta Silvia Rocchi in Brucia (Rizzoli Lizard), ispirata a quella pisana che le ha dato i natali, ha i tratti sospesi e al contempo assordanti dello Yorkshire di Una. Le protagoniste di questa graphic novel sono due donne, Tamara e Maria, legate da un profondo senso di amicizia, nonostante l’una sia un’operaia e l’altra sia la figlia del dirigente della fabbrica. Sullo sfondo di questo legame, l’acciaieria e il lavoro operaio, che detta i tempi e i modi di vita di tutti i personaggi che gravitano nel testo. Gesti ripetitivi e automatici, dietro i quali si celano slanci di lotta e speranze per il futuro, proprio come quelli a cui assisteva in famiglia Silvia, quando era piccola. L’opera – in cui prevale il colore nero, mentre il rosso preannuncia la tragedia – trae linfa dalla storia familiare di Rocchi ed è infatti ambientata negli anni 80. «Ho una certa fascinazione per quegli anni, poi era il periodo in cui anche mio padre lavorava alla Piaggio – racconta l’autrice -. Le storie che ho sentito di più erano le sue, principalmente legate a momenti di sciopero. Io era piccola e sentivo questi racconti, quasi mitologici e ho cercato di restituirli a mio modo». C’è anche una sensibilità di genere in Brucia, dove la donna operaia è e “può” essere solo inserviente, mentre l’uomo è e “deve” essere alla colata di acciaio.

Tre giorni di “Bande des femmes”, scanditi dalla presenza di altre note firme del fumetto: Rita Petruccioli, Laura Scarpa, Assia Petricelli, Alice Milani, Tuono Pettinato, Niccolò Pellizzon, Unavite. Un festival dei mondi, dei corpi e delle visioni possibili, organizzato in collaborazione con Biblioteche di Roma, con il sostegno del Mibact e di Siae nell’ambito dell’iniziativa “S’illumina, copia privata per i giovani, per la cultura”. Un’occasione importante per disintossicarsi dalle narrazioni ordinarie.

Chiesa cattolica e 8xmille, il delitto perfetto

A bishop holds a religious book during the 68th General Assembly of the Italian Episcopal Conference on May 18, 2015 at the Vatican. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Finanziare la religione di alcuni con (tanti) soldi pubblici non è cosa da Paese laico e civile. Specialmente se quel Paese ha un enorme debito pubblico. A maggior ragione se la Chiesa che viene principalmente sovvenzionata possiede enormi ricchezze finanziarie ed è il più grande immobiliarista del mercato. L’Italia riesce a compiere questa prodezza. Lo fa mettendo le mani, come si suol dire, nelle tasche dei contribuenti, prelevando dalle imposte versate sui redditi delle persone fisiche circa un miliardo di euro l’anno tramite il meccanismo dell’8xmille. Un meccanismo fondato sull’inganno. Anche in questo caso l’origine di tutti i mali (clericali) è il Concordato. Stavolta però quello del 1984, firmato dal socialista Craxi, non quello del 1929 firmato dal fascista Mussolini. È stato infatti con il nuovo Concordato che si è superato l’istituto della congrua. L’assegno di congrua era in buona sostanza lo stipendio dei parroci erogato direttamente dallo Stato. Non un paradiso di laicità, certo. Ma la modica entità dell’emolumento, il pieno controllo dello Stato, un minimo di autonomia dei parroci dai vescovi – senza trascurare la diminuzione dell’esborso determinata dal lento e costante calo delle ordinazioni sacerdotali – rendevano la congrua decisamente preferibile al perverso meccanismo dell’8permille, che la sostituì per effetto della Legge 222/1985. Lo Stato iniziò così a pagare la Conferenza episcopale italiana sulla base di vaghi resoconti: non più per lo specifico sostentamento del clero, ma per generici «scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica».

Il primo inganno. La Legge 222/1985 stabilì che una frazione del gettito Irpef, fissata inizialmente all’8‰, avrebbe determinato l’ammontare dei fondi pubblici sui quali la Chiesa cattolica poteva mettere le mani, in base alle scelte fatte dai contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi. La stessa legge si premurò di specificare che una apposita commissione si sarebbe riunita ogni tre anni a partire dal 1989 «al fine di predisporre eventuali modifiche» al coefficiente stabilito. Modifiche al ribasso sollecitate con fermezza dalla Corte dei conti, che nella sua relazione del 2014 scrive che i contributi pubblici alle religioni sono «gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati. (…) Nel corso del tempo, il flusso di denaro si è rivelato così consistente da garantire l’utilizzo di ingenti somme per finalità diverse», dando così vita «a un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana». Della commissione che ad oggi si sarebbe dovuta riunire già nove volte e della riduzione di una percentuale rivelatasi così sproporzionata non c’è alcuna traccia.

Il secondo inganno. Sempre alla Legge 222/1985 si deve il trucco che permette alla Chiesa di incamerare l’80% dei fondi in presenza del 37% delle preferenze a suo favore. La formula è la seguente: «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Per chiarirci: contribuisce al travaso di fondi pubblici dalle casse statali a quelle della Cei anche chi non esprime alcuna scelta nella sezione Otto per mille del modello 730-1, anche chi non presenta dichiarazione dei redditi perché esonerato, talvolta perfino chi sceglie la destinazione “Stato” (sì, ci stati casi di Caf che hanno cambiato la scelta espressa dal contribuente, spiegando che il software utilizzato assume che venga scelta sempre la Chiesa cattolica!). Più che un trucco…

Roberto Grendene è il responsabile comunicazione interna e campagne dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti – Uaar

L’articolo di Roberto Grendene prosegue su Left in edicola


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Professioni pericolose, essere giornalisti in Kashmir

In Kashmir sangue e giornalismo, di nuovo. Giovedì è morto Shujaat Bukhari, il reporter ed editor del quotidiano in lingua inglese Rising Kashmir.

È stato ucciso da uomini a volto coperto che hanno aperto il fuoco contro di lui e la sua scorta. Con Bukhari è morta anche una delle sue guardie del corpo: il giornalista viveva sotto protezione delle forze dell’ordine da quando hanno provato ad ucciderlo la prima volta, nel 2000, diciotto anni fa.

Reporter e veterano del conflitto nella regione contesa da India e Pakistan, – una guerra dimenticata dove oltre 20 giornalisti hanno già perso la vita -, Bukhari lavorava “lungo il filo del rasoio”. È dove svolgono la loro professione e il loro dovere molti dei reporter kashmiri, come ricorda l’ultimo report, pubblicato lo scorso dicembre, dell’IFJ, International Federation of Journalists.

Secondo la polizia, i killer in moto erano in attesa nei pressi dell’entrata della redazione del giornale Rising Kashmir a Srinagar. Quando è arrivato Bukhari, gli anno scaricato addosso tutti proiettili a disposizione e sono sfrecciati via prima che qualcuno potesse fermarli. Ancora nessuno gruppo radicale della zona ha rivendicato l’attentato, una morte “che ha devastato tutta la comunità di giornalisti nella regione, ma questo incidente non è il primo. In passato abbiamo perso molti giornalisti, tutto questo sottolinea in che difficili condizioni i giornalisti lavorino in Kashmir” ha detto il collega di Bukhari, Yusuf Jameel.

Cosa vuol dire fare il giornalista in quella zona di guerra, Bukhari lo aveva già spiegato nel 2016 in un articolo per la BBC: “Intimidazioni, assalti, arresti, censure sono la parte tipica della vita di ogni giornalista in Kashmir”.

“Pacchia”, “crociera” e la lingua di ricino che si sparge in giro

Migranti sulla nave Aquarius, in una immagine pubblicata sul profilo Twitter MSF Sea, 14 giugno 2018. TWITTER MSF SEA/KARPOV/SOS MEDITERRANEE +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Tre dichiarazioni a caso:

È tutto sotto controllo  è tutto tranquillo non c’è problema alcuno” con la nave Aquarius. Andrà in Spagna? Gli hanno chiesto i giornalisti. “Certo non è che adesso possono anche decidere dove cominciare e dove finire la crociera. Mi sembra che l’arrivo sia previsto sabato senza intoppi”.

“Il 99 per cento delle domande respinte è oggetto di ricorso e c’è il business degli avvocati di ufficio che fanno soldi sulla pelle di questi disgraziati e occupano le aule dei tribunali. Anche su questo occorre fare qualcosa”.

“Regeni? Sono più importanti i rapporti con l’Egitto”.

Sono solo tre frasi pescate nel mucchio di bile che vomita ogni giorno Matteo Salvini, quello che ha bisogno di spargere letame tutto intorno per esistere, farsi notare, prendere qualche like e continuare a nutrire le pance affamate del cattivismo che l’ha portato fino al ministero dell’Interno e finirà per sbranarselo. Non lo sa, Salvini, che usare le parole come manganello non è nient’altro che una vigliaccheria di chi vorrebbe apparire come l’uomo dal pugno duro e invece finirà per passare per un patetico bofonchiatore. Non funzionerà per sempre che gli basti aggiungere qualche frasetta da cresimando (come il “lo dico da padre” che ormai usa come intercalare) per evitare di essere smascherato in quella che lui rivende come autorità e invece è l’incapacità di uscire da una campagna elettorale che necessita di un nemico sempre più grande. Finirà come quell’Arlecchino che incapace di controllare la propria fame feroce inizia mangiandosi una mosca e finisce per mangiarsi le sue stesse braccia e le sue stesse gambe.

Arriverà il giorno in cui non basterà questo linguaggio greve e grondante d’odio (perché non è populismo, no, è tossicità linguistica di chi è tossico nel pensiero); non basterà più per distrarre i disperati dalle proprie disperazioni e alla fine avrà allenato all’odio i suoi stessi odiatori.

Poiché la lingua però è un luogo sociale anche nella lingua difenderemo l’etica e la dignità. Anche qui. Sempre. Tutti i giorni. Senza respiro.

(ps: «Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena». «Dalla Prefettura 17 Maggio 1944 – XXII»: è una frase di Giorgio Almirante, fascista che firmò il manifesto in difesa della razza. Ieri la capitale d’Italia, Roma, governata da quelli né di destra né di sinistra gli ha dedicato una via. Quando sono né di destra né di sinistra sono quasi sempre di destra ma troppo codardi per dichiararlo). (Nella notte Raggi ha fatto dietrofront, annunciando una mozione Ndr).

Buon venerdì.

Aquarius, cronaca di una vergogna annunciata

Many refugee and migrants have endured alarming levels of violence and exploitation in Libya and during harrowing journeys from their home countries. Aquarius has received food supply from the Italian coast guards off the coast of Sicily. These supplies are essential for the long journey to Valencia, Spain.

«La nave Aquarius andrà in Spagna. Ora è in Italia, andrà in Spagna». Con queste parole il ministro dell’Interno Salvini, a metà pomeriggio di giovedì 14 giugno, ha liquidato la sorte dei 106 migranti in balia delle onde nel mar Mediterraneo sulla nave gestita in collaborazione da Medici Senza Frontiere (Msf) e Sos Mediterraneè. L’Aquarius dunque non attraccherà in Sardegna. Da mercoledì la sta costeggiando affrontando venti da 35-40 nodi e onde di quattro metri, dopo il trasferimento di 523 persone sulle navi italiane. In una nota diffusa nel pomeriggio, il team medico di Msf racconta di ave assistito «almeno 80 persone con sintomi da mal di mare, tra cui donne incinte e una neo-mamma che allattava il suo bambino. La maggior parte delle persone ha dormito nel riparo allestito all’interno della nave per proteggerle dal vento». «È stata una notte molto dura, il mare era grosso e la maggior parte delle persone ha avuto il mal di mare» racconta Aloys Vimards, capo progetto di Msf a bordo della Aquarius. «Stamattina molte di loro stanno ancora male, ma la situazione è più serena. Le persone sono nel riparo e si stanno riprendendo dalla nottata. Abbiamo distribuito arance, barrette di cereali, cornetti e thè freddo forniti ieri dalla Guardia Costiera Italiana e le condizioni del mare sono leggermente migliori». Nelle stesse ore della mattinata una una nave militare Usa ha soccorso 41 naufraghi al largo di Tripoli, recuperando anche 12 cadaveri di persone annegate. È stata però costretta a rigettarli in mare non avendo celle frigorifere a bordo. Calcolando che sui gommoni vengono mediamente imbarcate 100-120 persone, potrebbero esser almeno cinquanta i migranti dispersi. Una nuova tragedia. Scontata, purtroppo, essendo ormai rimaste solo in tre le navi umanitarie (con la Aquarius costretta ad allungare il suo tragitto fino in Spagna) che si occupano dei salvataggi nel Canale di Sicilia.

Nel corso delle operazioni di soccorso, la nave Usa Trenton ha contattato la Sea watch 3, che si trovava nelle vicinanze, per un eventuale trasbordo dei 41 superstiti – la Trenton non è certo in zona con la priorità dei soccorsi in mare -, ma la ong tedesca ha chiesto che la guardia costiera individuasse prima una destinazione italiana sicura. Alla risposta della guardia costiera italiana che i soccorsi non erano coordinati dalla sua supervisione, e che pertanto lo scalo sicuro andava stabilito d’accordo con la guardia costiera libica, la Sea watch 3 ha preferito rinunciare all’operazione.

Anche perché dall’Italia Salvini faceva sapere che «le navi che battono bandiera straniera devono rivolgersi a Paesi stranieri!». Quindi secondo logica, la Sea watch 3 avrebbe dovuto portare i 41 superstiti fino ad Amburgo.

Ricapitoliamo ora quanto accaduto da sabato 9, il giorno prima dell’inizio della crisi dell’Aquarius.

La mattina del 9 giugno oltre 200 persone sono sbarcate nel porto di Pozzallo, in Sicilia. In parte dalla nave CP 941 Diciotti, della guardia costiera, in parte dalla nave Seefuchs, dell’ong Sea Eye, che venerdì 8 aveva anche chiesto invano aiuto a Malta. Il 10 giugno, 937 persone sono state soccorse al largo di Tripoli dalla guardia costiera italiana e da altre imbarcazioni. In un primo momento, anche la nave Aquarius ha soccorso circa 200 di questi naufraghi, che sono stati poi trasbordati sulla Diciotti, insieme a quelli soccorsi dalle altre navi. Questi naufraghi verranno infine sbarcati a Catania il 12 giugno.

Successivamente, sempre nella giornata di domenica, la Aquarius ha soccorso altre 629 persone, tra cui 7 donne incinte e 123 minori non accompagnati, oltre a diverse persone con sintomi da annegamento, ustioni e ipotermia. A questo punto il ministro degli interni Matteo Salvini ha dato inizio ad una serie di tweet, lanciati tra domenica sera e lunedì 11 mattina, affermando che l’Italia «ha finito di chinare il capo», che «non può farsi continuamente carico di tutti i migranti mentre l’Europa sta a guardare», e «che Malta non può dire sempre no» (cosa peraltro non vera considerando, per esempio, che la percentuale di rifugiati presenti sull’isola sul totale della popolazione è sei volte maggiore rispetto a quella italiana).

Parte così il braccio di ferro diplomatico con Malta. Che, dal canto suo, si dichiara disponibile al solo trasbordo dei soli naufraghi in condizione di pericolo imminente. In serata c’è una telefonata tra il primo ministro Conte e il suo omologo maltese Joseph Muscat. Conte chiede al collega di farsi carico della situazione e il secondo in risposta afferma che in questo modo l’Italia sta agendo contro i trattati internazionali. Arrivano anche le parole del ministro delle Infrastrutture Toninelli, da cui dipende la chiusura dei porti, secondo cui, anche qualora per estrema emergenza umanitaria i profughi venissero sbarcati in Italia, il governo si presenterebbe immediatamente a Bruxelles a chiederne il ricollocamento.

Sempre durante la mattinata di lunedì 11 si diffonde la notizia che anche la Sea Watch 3 sta facendo rotta verso l’Italia con centinaia di migranti a bordo. Altro tweet di Salvini: «In Europa c’è Malta che rifiuta qualsiasi collaborazione, la Francia che respinge alla frontiera, la Spagna che difende i suoi confini con le armi e ognuno che fa quello che gli pare e si disinteressa della situazione». Alla Sea Watch viene promesso lo stesso trattamento dell’Aquarius, che staziona in mezzo al Mediterraneo senza sapere dove poter attraccare.

Nel primo pomeriggio un comunicato della Sea Watch smentisce che la nave abbia dei naufraghi soccorsi a bordo. Frattanto il neo primo ministro spagnolo Sanchez ed il sindaco di Barcellona Ada Colau si dichiarano disponibili ad accogliere la Aquarius. La destinazione sicura viene infine trovata in Valencia.

Durante la notte tra l’11 e il 12 giugno, con le condizioni del mare che andavano peggiorando e la nave stipata oltre il limite di sicurezza, si stabilisce che la maggior parte dei naufraghi a bordo vengano trasferiti sulla nave Dattilo della guardia costiera italiana e su un’altra nave della marina militare. Insieme scorteranno la Aquarius e le 106 persone a bordo fino a Valencia.

Salvini si fa bello con i suoi, sostenendo che facendo la voce grossa si ottengono risultati. Ma Sanchez ha “offerto” il porto di Valencia per una questione di umanità e non certo perché qualcuno ha alzato la voce e messo in pericolo 629 profughi per mero calcolo elettorale.

Veniamo ora a qualche considerazione in merito all’accaduto, a cominciare dall’epilogo del 12 mattina, col salvataggio di 41 persone e il recupero di 12 cadaveri da parte dell’USS Trenton, ancora in attesa di istruzioni e che, nel frattempo, in assenza di celle frigorifere sulla nave, si è già dovuto liberare dei 12 corpi, abbandonandoli alla deriva.

In primo luogo i fatti del 12 mattina sembrano essere la possibile diretta conseguenza di un minore pattugliamento della zona, dovuto anche all’assenza forzata di un’imbarcazione ong, come l’Aquarius, della nave Dattilo della guardia costiera e di una nave della marina militare, tutte in rotta verso Valencia, per i noti esiti della vicenda della nave di Sos Mediterraneé e Medici senza frontiere. Oltre a suonare come un’ennesima conferma dell’inefficienza di ogni preteso controllo libico su operazioni di ricerca e salvataggio in mare. Sull’effettiva esistenza di una zona SAR libica si è giocato tutto il tentativo, già con Minniti ministro dell’Interno, durante il governo Gentiloni, di limitare l’operatività delle ong in zona, come pure tutta la precedente questione del presunto favoreggiamento dell’attività di immigrazione clandestina da parte della Pro Activa Open Arms, messa sotto sequestro a marzo per avere rifiutato di consegnare ai libici naufraghi appena soccorsi, e per avere rifiutato Malta quale approdo sicuro. I fatti del 12 mattina, tanto per cominciare, sembrano indicare che i libici non controllano e non soccorrono nessuno – ed è lecito ipotizzare che lo stiano facendo apposta per mettere in discussione gli accordi con l’Italia e ottenere ancor di più dal nuovo governo Conte-Salvini-Di Maio.

A questo proposito, vale la pena ricordare come adesso siano soltanto quattro le navi di ong che pattugliano il mediterraneo centrale: oltre alla Aquarius, adesso impegnata per qualche giorno lontano dalla zona, ci sono la Sea Watch 3, la Seefuchs di Sea Eye, già molto più piccola, la nave di Mission Lifeline. A giorni si aggiungerà di nuovo la Pro Activa Open Arms, a lungo ferma dopo il sequestro del 15 marzo scorso predisposto dal pm Zuccaro. Nel frattempo è stata sostituita dalla imbarcazione Abstral, poco adatta però ad operazioni di ricerca in mare e a soccorsi troppo complicati.

Resta la prova di forza di Salvini, parzialmente ridimensionata dalla mossa del neo primo ministro spagnolo Sanchez. E resta l’assurdo viaggio che 629 persone sono state costrette ad affrontare senza alcun motivo. Andrà certamente accertato se quello della Aquarius sia stato un respingimento in violazione delle procedure per il diritto di asilo. Ma per dimostrare quanto sia stata strumentale l’azione muscolare del governo giallonero, basta ricordare che i migranti sbarcati dalla Diciotti erano stati soccorsi inizialmente proprio dalla Aquarius. Dunque, se va bene che i migranti vengano prima salvati da una ong e poi trasbordati alla guardia costiera o alla marina militare questo vuol dire che non esiste alcuna “invasione”, o altre amenità. Bufala su cui si è poggiata la campagna elettorale (da destra al Pd) e da cui ha preso il via l’attività del governo giallo nero del fantasmatico Giuseppe prof. Conte.

Fine del «sogno» di Kvirikashvili, il premier georgiano si è dimesso

epa06804989 (FILE) Giorgi Kvirikashvili, Prime Minister of Georgia, attends the opening day of the 48th annual meeting of the World Economic Forum, WEF, in Davos, Switzerland, 23 January 2018 (reissued 13 June 2018). According to reports, Georgian Prime Minister Giorgi Kvirikashvili has resigned following mass protests against government in the country. Kvirikashvili was Georgian Prime Minister since 2015. EPA/GIAN EHRENZELLER

La resa è arrivata. Il “sogno georgiano” è finito. Il premier Giorgi Kvirikashvili lascia la carica. “Se le mie dimissioni saranno utili al Paese, non ci penserò un secondo a presentarle” ha detto il 13 giugno e, qualche ora fa, ha mantenuto la promessa. “Ho sempre giocato di squadra e ora ne valuto l’umore, ho preso la decisione, lascio la mia carica” ha detto ieri in tv. “Tra me e il leader del partito ci sono dei disaccordi, credo che sia il momento che il partito abbia l’opportunità di creare un nuovo gabinetto” ha concluso, affidando la sua voce ai microfoni del primo canale statale.

La disputa che ha portato all’allontanamento di Kvirikashvili dalla scena politica è quella che si è aperta con Bidzina Ivanishvili, uomo più ricco del Paese e fondatore del suo gruppo politico, il “Partito del sogno”. Il punto di arrivo del premier combacia con quello di rottura con il tycoon. Ivanishvili, ex premier del paese, 62 anni, una casa-fortezza di vetro, uno zoo privato con pinguini e zebre, ha una fortuna che sfiora un terzo del Pil dell’intero paese, calcola il New York Times.

Kvirikashvili ha abbandonato la poltrona per lo scontro con l’uomo più potente del paese, ma anche per la pressione compiuta da quello “medio”: Zara Saralidze, “l’uomo comune, senza partito”, – come lui stesso si è definito -, che da settimane “chiede giustizia”. Suo figlio è stato ucciso in una rissa lo scorso dicembre. Chi lo ha accoltellato a morte è a piede libero: i killer sono figli di alti funzionari dell’élite del paese e sono rimasti impuniti. Anche se condanne sono state emesse dal tribunale, i veri responsabili l’hanno fatta franca. Da quando è successo, la voce di Saralidze è diventata quella di Tiblisi, che ha cominciato a protestare contro la corruzione delle autorità. Il procuratore Irakly Shotadze è stato costretto a dimettersi il 31 maggio quando migliaia di persone si sono riunite davanti al suo ufficio nella Capitale per manifestare: “Spero che la giustizia prevalga” ha detto prima di andarsene.

Ritorsioni nei giorni successivi. Le ong si sono rifiutate di partecipare al processo di selezione del candidato che avrebbe dovuto sostituire Shotadze, richiedendo altre dimissioni, quelle del ministro della giustizia, Thea Tsulukiani. La piazza, invece, aveva incominciato a chiedere quelle dell’intero governo.

Accuse di coinvolgimento delle autorità nel caso di omicidio, sciopero dei mezzi pubblici e poi dei minatori, manifestazioni di giovani e studenti, hanno costretto le autorità a cominciare a navigare tra frantumi e macerie, finché Kvirikashvili non ha deciso di fare un passo indietro tra fragilità e paradossi della repubblica. Ora chi crede che un’altra rivoluzione stia per cominciare in Caucaso, si chiede se sarà una replica di quella delle rose del 2003 o se assomiglierà a quella più recente ad Erevan. Dall’Armenia, fino in Georgia.

Non sono razzisti «ma»

Matteo Salvini (D-S), ministro dell'Interno, con Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, e Luigi Di Maio, ministro del Lavoro, durante la discussione e la votazione di fiducia al Governo Conte alla Camera dei Deputati, Roma, 6 giugno 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

In un’afosa domenica di giugno, il ministro dell’Interno leghista blinda i porti italiani, e la nave di una ong con 629 profughi a bordo si trova a vagare nel Mediterraneo quasi senza scorte alimentari. Solo il giorno appresso, il nuovo premier spagnolo Sànchez si offrirà di accoglierla. De Magistris e Accorinti, sindaci di Napoli e Messina, hanno provato a sfidare Salvini in nome dei valori umanitari su cui si fonda la legge del mare. Anche il loro collega di Livorno, Nogarin, proverà a farlo ma in pochi minuti ritratterà: «Oggettivamente questo poteva creare dei problemi al governo, mi è sembrato corretto rimuovere il post». Salvini esulta, è convinto che alzare la voce sia la carta vincente. Il premier Conte sembra un ostaggio.

Su Twitter i due hastag – #chiudiamoiporti e #portiaperti – si fronteggiano. Ma il 32% della popolazione italiana è d’accordo sul fatto che l’Italia debba rispedire le imbarcazioni dei migranti nel Mediterraneo, anche se questo implica il rischio di morti. E la metà di “noi” è d’accordo sul fatto che i cittadini saranno costretti a proteggere di persona le coste e i confini qualora la crisi migratoria continuasse, e soltanto il 23% si dichiara in disaccordo. La metà degli italiani ritiene che le ong non considerino l’impatto sul Paese dei salvataggi di migranti. Ma che Paese siamo diventati?

Left ha potuto leggere in anteprima i dettagli di “Capire la maggioranza incerta in Italia”, una ricerca che sarà presentata in un evento di Amref-African medical and research foundation a Milano (vedi box nella pagina seguente). «Non sono razzista ma…» è un incipit piuttosto in voga nel discorso pubblico. Bene, gli italiani – secondo la ricerca – sono proprio cosi: non-sono-razzisti-ma. «Ma» significa che sono spaventati, disorientati, resi ansiosi da «un uso sofisticato della tecnologia digitale e una narrativa semplificata che dipinge l’immigrazione come un’invasione».

«Tecnicamente si tratta della parte italiana di una ricerca di segmentazione finanziata da una fondazione con sede a Belfast, The social change initiative, nell’ambito di More in common, un incubatore di comunicazione per la promozione dei diritti sociali. Da un po’ circola nei tavoli degli addetti ai lavori ma ora…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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Sulla pelle dei migranti

Lasciare migranti in balia del mare, negare un approdo sicuro a un’imbarcazione di soccorso, dirottare l’accoglienza è delinquenziale. Lasciare al largo più di seicento persone fra i quali molti bambini, donne in gravidanza e minori è un’azione disumana, lucida, criminale che rivela politicanti disposti a tutto per un pugno di voti. Che politica è quella che fa la voce grossa con le persone più vulnerabili, impugnando vangeli e sciorinando rosari? La gestione salviniana del caso della nave Aquarius è stata paradigmatica. Dopo aver affermato tutto e il contrario di tutto, il governo legastellato è venuto alla scoperto; ora si è visto di che pasta è fatto: un indigeribile mix di razzismo e xenofobia, angusta e violenta difesa del proprio “particulare” cancellando ogni dimensione umana e di rapporto (e in questo modo perdendo completamente il senso della gravità della situazione, perdendo la capacità di comprendere e agire in un modo che non sia cieco e distruttivo).

Non si lasciano persone in mezzo al mare. Punto. Non c’è neanche il bisogno di spiegare perché. Non sono astratti comandamenti divini a imporcelo, è la nostra realtà di esseri umani in carne ed ossa, il nostro sentire, comprendere, immaginare, vedere la realtà dell’altro. Avendo perso ogni dimensione umana i nazisti pianificarono lucidamente la soluzione finale. Gli ebrei, i rom, i dissidenti politici, gli omosessuali, i malati mentali, gli handicappati ai loro occhi non erano più persone, ma ingombri al progresso e alla produttività, esseri subumani, cose, oggetti inanimati e inutili da bruciare e far sparire.

La storia non si ripete mai uguale. E non vogliamo fare equazioni meccaniche. Ma quel 17 per cento con cui il leghista Salvini, nei fatti, governa con il beneplacito dei grillini (33 per cento) è un numero che evoca le pagine più buie del nostro passato. Con il 19 per cento dei Blocchi nazionali, Mussolini entrò nel 1921 il quel Parlamento che un anno dopo lo mandò al potere. E a dargli man forte furono i gregari, fu «l’uomo qualunque», indifferente, superficiale, che considera la violenza come un fatto normale, che l’accetta senza scandalo, per stupidità, per calcolo personale, per cecità. Così una visione fatua e deresponsabilizzante del fenomeno strutturale dell’immigrazione ha dilagato in politica e sui media. Anche quelli di centrosinistra, come Repubblica che per sostenere la gestione securitaria dell’ex ministro dell’Interno Minniti, l’anno scorso parlava di «estremismo umanitario» delle ong (poiché fanno di tutto per salvare persone che rischiano di annegare!). Solo una visione stolida della realtà può far dire che organizzazioni non governative che soccorrono i migranti nel Mediterraneo agiscono come «taxi del mare» (formula inventata nell’aprile del 2017 dall’attuale ministro Luigi Di Maio). Poi, in campagna elettorale cominciò la pioggia di slogan grillini inneggianti a «sbarchi zero». Nel “contratto” di governo con la Lega sono diventati slogan forcaioli di espulsione di 500mila migranti. In spregio ad ogni fattibilità, visti costi esorbitanti per i contribuenti che avrebbero tali rimpatri forzati. Ma la demagogia populista se ne infischia della realtà. È accaduto anche nei giorni scorsi quando il ministro dell’Interno ha annunciato di voler tagliare i 35 euro che lo Stato spenderebbe per ogni migrante. Incurante del fatto che quei soldi vanno alle organizzazioni che si occupano di migranti (non ai migranti stessi), e dunque creano posti di lavoro, e soprattutto che quei soldi ci arrivano dall’Unione europea.

Sulla pelle dei migranti Salvini ha ingaggiato un braccio di ferro con l’Europa da cui non otterrà niente, se non una riduzione degli stanziamenti in aiuto all’Italia. Opposta è stata la scelta e l’azione politica del neo capo del governo spagnolo, il socialista e ateo Sànchez che non ha giurato sulla Bibbia ma ha offerto all’Aquarius un approdo a Valencia. «Non possiamo permettere di avere altre tragedie come quelle di Aylan» ha detto il sindaco di Valencia, Joan Ribo. «È fondamentale aiutare queste persone in un momento in cui le posizioni e i governi di estrema destra che si stanno manifestando in Italia e altrove lasciano abbandonati alla propria sorte 629 rifugiati, tra i quali 130 bambini». Semplice, naturale, rapporto con la realtà. Lontano anni luce dalla politica clericofascista che difende la vita fin dal concepimento ma lascia che le persone anneghino. Domande urgenti e radicali affollano la mente: come opporsi e combattere una politica che, abdicando a se stessa e al proprio fine del bene collettivo, diventa stampella delle destre e prassi disumana? Cosa c’è dietro questa accettazione silenziosa della violenza? Tornano in mente le parole della psichiatra Maria Gabriella Gatti al convegno che la settimana scorsa Left ha organizzato insieme alla rivista Il sogno della farfalla a Firenze: «Non si può non tenere conto della realtà non cosciente che è propria dell’essere umano, che dà senso alla vita ed ai rapporti. È la sola che può comprendere il gelo che si impossessa dei cuori, quando essi annullano i propri simili. Ed è la sola, la realtà non cosciente, ad avere la scienza per curarli, attraverso la ricerca per la malattia mentale e scoprendo la pulsione di annullamento».

Se la politica annulla la realtà umana dei migranti (quelli a bordo dell’Aquarius e quelli in arrivo) si apre una pericolosissima deriva. A chi dice «prima la patria, Dio e gli italiani» (Salvini), a chi dice «prima la sicurezza» facendo credere che i migranti rappresentino un pericolo (Toninelli) noi torniamo a dire «prima le persone». #restiamoumani.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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