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Prima vennero a prendere gli zingari. Poi a smascherare i Salvini

Italian Interior Minister Matteo Salvini gestures as he delivers a speech about the ship Aquarius at Lower Chamber in Rome, Italy, 13 June 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Sarebbe troppo facile citare il famoso sermone del pastore Martin Niemöller (no, non è Brecht, mi spiace):

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Qui non è questione di apatia, no, non solo, non è principalmente quello. Qui si tratta di sparare nel mucchio dei deboli a caso (e non c’è niente di meglio che prendersela con gli zingari che a livello di violenza subita e persecuzioni sono tra i primi al mondo) sapendo che compiere un censimento su base etnico è incostituzionale in Italia (gliel’ha ricordato nemmeno troppo gentilmente il suo collega Di Maio), fingendo di non sapere che un “censimento” in realtà esiste già nei cassetti del suo ministero (volontariamente redatto dalle associazioni che si occupano di campi rom) e soprattutto fingendo di non ricordare che quelli che lui chiama zingari sono molti italiani e quasi tutti europei comunitari. Non solo: Salvini è talmente prevedibile che oggi risuona molto più chiaro il richiamo di Liliana Segre, che nel discorso di insediamento del governo al Senato disse di rifiutarsi «di pensare che la nostra civiltà democratica sia sporcata da leggi speciali nei confronti di Rom e Sinti». «Ma cosa c’entra?», dissero in molti. Ecco cosa c’entra.

Ora voi immaginate un politico che nonostante sia ministro insiste nella propaganda elettorale lanciandosi in affermazioni che non hanno nessun senso oltre che solleticare gli istinti peggiori di questo Paese, immaginate un ministro che propone di fare qualcosa che non è consentita dalla Costituzione, immaginatelo smentito dai suoi alleati e poi costretto a fare retromarcia (sapendo bene quanto poco rumore fare la smentita rispetto alla cretinata) e immaginate che con la sua bestialità riesca a nascondere la notizia dell’ex segretario condannato per avere fatto assumere una cara amica in una società controllata da Regione Lombardia che lui presiedeva. Immaginate un ministro che vorrebbe essere il Prefetto di ferro e invece non dice una parola che sia una sulla criminalità organizzata o sui potenti, limitandosi a scalciare gli ultimi del mondo.

Basta poco questa volta per non permettere che prendano gli zingari e poi vengano a prendere tutti gli altri: basterebbe studiare la Storia e riconoscerli. Un censimento per i mafiosi, i corrotti, i corruttori, gli sporchi che continuano a occupare posti tra la classe dirigente, gli incapaci e i fascisti.

Labour live, Jeremy Corbyn accolto come una rock star

Un po’ in tutta Europa i partiti di sinistra stanno smobilitando. Crisi ideologiche, organizzative ed economiche stanno riducendo l’azione politica dei grandi partiti della tradizione socialista al lumicino. Sempre più liquidi, sempre più “disintermediati”. In questo clima, la scelta del Partito Laburista di organizzare un grande festival all’aperto, a pagamento, in cui si mischiassero arte, musica, poesia e politica appare quasi un’azione eretica.

Un’eresia che ha portato il partito di Corbyn a organizzare il primo Labour live, un festival tenutosi a White hart lane, nel tentativo di rompere gli schemi: mischiare linguaggi e generazioni, parlare di poesia, ascoltare musica pop e al contempo delineare il proprio progetto politico per il futuro del paese.  Sul palco band esordienti, altre molto affermate, giornalisti famosi e, ovviamente, John McDonnel e Jeremy Corbyn.

Certo un tentativo del genere era un rischio: sia dal punto di vista economico che mediatico. Le ragioni sono autoevidenti: organizzare un evento pubblico a pagamento, per un partito politico, espone immediatamente al rischio di “bucare” la partecipazione. E in queste settimane la stampa, soprattutto quella di destra, ha spinto molto sui pochi biglietti venduti e sulle poche persone che avrebbero partecipato all’evento.

Ma la morbosità con cui i Conservatori hanno seguito l’evolversi del Labour live, oggetto perfino delle attenzioni di Theresa May durante il question time in Parlamento della scorsa settimana, dimostra come la destra britannica sia molto preoccupata dalla popolarità raggiunta da Jeremy Corbyn e dalle sue proposte, forti di un partito che conta, ad oggi, oltre 550mila iscritti.

È difficile, in occasioni del genere, arrivare ad un numero preciso di partecipanti: c’è chi dice 13mila persone in totale che siano entrate nella venue, chi dice che nel momento clou, durante l’intervento di Corbyn, i presenti fossero circa tremila. Quale che sia il numero definitivo, poco importa: rimane la bellezza dell’eresia, della volontà di provare a fare qualcosa di sperimentale. Una volontà che per troppo tempo è mancata alla sinistra europea.

«Schedatura dei Rom? L’Italia sta scivolando verso una democratura»

Predrag Matvejevic ci rilasciò questa intervista nel 2008. Si era ai tempi della schedatura dei Rom voluta dal ministro dell’Interno leghista Maroni e già allora il grande saggista, migrante forzato dalla ex-Jugoslavia, scomparso nel febbraio del 2017, metteva in guardia dai rischi per la democrazia e la tenuta del tessuto sociale provocati da azioni come quella che oggi intende mettere in atto Salvini nel solco del suo collega di partito e di qualcosa di sinistramente simile accaduto qualche decennio fa in Italia.

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«Straniero, espulso, esule, profugo, rifugiato, fuggiasco, sfollato, deportato, esodato, espatriato, fuoriuscito, esiliato, respinto. Ho tenuto una lezione alla Sorbona sul fatto che la lingua italiana è quella con la più ampia gamma di termini per parlare dei migranti. E invece, ora si sente solo insistere su clandestini e irregolari. Ma cosa significa clandestinità in tempo di pace? Sono cose queste che mi hanno profondamente sorpreso dell’Italia». Predrag Matvejevic, scrittore e saggista, docente di Letterature comparate alla Sorbona di Parigi e professore ordinario di Slavistica all’università La Sapienza di Roma, nominato “per chiara fama”, è nato nel 1932 a Mostar nella ex-Jugoslavia e da qui è «dovuto emigrare» nel 1991 dopo che «una sventagliata di mitra dei nazionalisti croati ha colpito la mia porta di casa». Per 14 anni in Italia, Matvejevic da pochi mesi è tornato nella sua terra e vive a Zagabria «dove il nazionalismo abbaia ma non ha più i denti». Il 17 luglio sarà a Rivoli (To) in occasione della mostra Le porte del Mediterraneo. Leggerà un saggio sulla condizione degli «emigrati» in Europa di cui anticipa a left alcuni passaggi.

«Partirò da alcuni fatti personali. Sono figlio di un emigrato russo. Mio padre è partito nel 1920 da Odessa. Era politicamente menscevico. Voglio dire, da uomo di sinistra, che i menscevichi non sono quella caricatura che gli staliniani hanno fatto di loro. Sono persone di sinistra che hanno fatto la rivoluzione di febbraio nel 1917 avendo capito che la Russia feudale dello zar e della Chiesa non poteva realizzare il grande sogno della civiltà europea di creare una società giusta. Dopo un lungo girovagare per l’Europa dell’Est mio padre è arrivato a Mostar, qui ha conosciuto una ragazza bosniaca croata cattolica. Un ortodosso e una cattolica, tutto quello che occorreva perché nascesse un figlio laico, laicissimo. Nel 1941– prosegue Matvejevic – i nazisti sono venuti a prendere papà perché avevano saputo delle sue origini russe. Questo bastava per essere deportato. Dopo quattro anni è tornato vivo, ma pesava 40 chili di meno. Non l’ho riconosciuto e ho pianto due giorni. Dunque con questa esperienza mai avrei pensato di emigrare, di partire. Poi, quella raffica di mitra…».

Giunto in Italia, Matvejevic ha avuto la cittadinanza da Giorgio Napolitano all’epoca ministro dell’Interno. «Non sapete quanto è importante per un emigrato poter viaggiare nella zona di Schenghen», dice. «Il mio non è stato un vero esilio, dopo quegli spari ho scelto di andare via da Mostar. Ho passato tre anni in Francia e nel 1994 sono arrivato in Italia. La vedevo come uno dei Paesi più tolleranti, più accoglienti. Ma poi la Lega, con Berlusconi che segue Bossi, e ora questo ministro dell’Interno che è un uomo rozzo, hanno creato un vergognoso clima contro gli immigrati che l’Italia non merita». Il professore ritiene inaccettabile il piano di Maroni che prevede il fotosegnalamento dei minorenni di etnia rom. «All’inizio del secolo scorso, la mafia organizzava l’emigrazione in Sicilia. Molti vostri connazionali sono stati sbarcati in Marocco credendo di essere arrivati negli Usa. E lì sono rimasti fino alla seconda guerra mondiale. Come può un popolo che ha vissuto queste sofferenze, tanta emigrazione, assumere certi atteggiamenti? In un Paese in cui la Chiesa ha tanto peso perché non influenza i politici a non fare quello che stanno facendo? Perché – prosegue Matvejevic – i cristiani non si rileggono alcuni passaggi delle loro sacre scritture? L’Esodo per esempio, dove è scritto “Non molesterai lo straniero, né lo opprimerai, perché foste anche voi stranieri nella terra d’Egitto”. Vorrei che i vescovi nelle loro prediche invece di essere solidali con chi attua la schedatura analizzassero queste parole così belle». Il problema, per la religione come per certa politica, secondo lo scrittore, è sempre lo stesso. La persona straniera che arriva in una nuova terra porta con sé la propria cultura, una cultura diversa. E questo fa paura. «Di fronte allo sconosciuto – spiega – c’è chi si chiude nella propria “particolarità”. In un saggio ho scritto che questa non è un valore a priori, ma può diventarlo a condizione che si confermi come tale. Perché anche l’antropofagia, mangiare l’altro, è particolarità. E dunque questi che schedano i rom si chiudono nella propria particolarità come se fosse un valore assoluto. Senza mai metterlo in discussione. Purtroppo sento la mancanza di una cultura adeguata che potrebbe risolvere queste questioni».

Matvejevic in queste settimane sta aggiornando la sua opera cardine, il Breviario mediterraneo, tradotto in 22 lingue e pubblicato in Italia da Garzanti. «Rileggendolo ho pensato che mancava una riflessione sul pane. Cibo prezioso che non è stato inventato sulle sponde del Mediterraneo, ma che in questa regione è stato accolto e valorizzato, allo stesso modo di come sono state accolte le tre religioni monoteistiche».

Il pane come metafora per raccontare la capacità dell’Europa di aprirsi a nuove culture e tradizioni che vengono da fuori. Quella stessa Europa che ultimamente ha lanciato messaggi contraddittori sulla soluzione italiana del tema immigrazione. «Io sono stato due anni nel gruppo dei saggi della Commissione europea creato da Romano Prodi. Siamo riusciti a mettere allo stesso tavolo israeliani, palestinesi e arabi ed è cominciato un dialogo molto importante. Ma il successore di Prodi ha sciolto questo gruppo. C’è una deriva pericolosa che la cultura potrebbe arrestare e invece è proprio la cultura che viene accantonata». Questo genere di pericolo è il tema su cui verte il prossimo saggio che Matvejevic ha intenzione di scrivere. «L’ex Europa dell’Est è entrata in Ue con i suoi problemi di democrazia. Ma anche in alcuni Paesi dell’Occidente si sta scivolando verso quella che ho definito «democratura». Una forma di governo cioè che dietro un’apparente forma esterna di democrazia assume atteggiamenti e movimenti dittatoriali. E questo pericolo lo vedo molto presente in questo momento in Italia. Lo abbiamo visto in Polonia con i fratelli Kaczynski e i loro atteggiamenti clericali. Ma anche nei Balcani, dove serbi, croati, bosniaci hanno subordinato la nazionalità alla religione professata. Questa prassi è un nervo scoperto dei nuovi rapporti che si sono creati all’interno dell’Unione. Su cui anche la cultura dell’Est non ha riflettuto abbastanza. Ha troppo sofferto e ancora non riesce a ripensare le proprie sofferenze. Dall’altro lato c’è la cultura occidentale, orgogliosa in modo antipatico direi, che non ha il coraggio di affrontare questi problemi, queste divisioni. Ma come si può fare l’Unione se le frontiere sono ancora così strette? Ecco, mi piacerebbe vedere la Turchia in Europa, potrebbe fare da baluardo ai nuovi fondamentalismi».

Matvejevic dedica infine un pensiero alla sua Mostar. «La vita è ancora durissima, la città è spaccata. Nella parte orientale i musulmani rimasti sono ancora sotto shock e questa sorpresa li rende immobili. Dall’altra sponda del fiume, dove ci sono i cattolici, direi che la metà della gente, a cui potrei appartenere anche io, ha vergogna di quello che hanno fatto i fascisti croati. C’è però chi farebbe di nuovo la stessa cosa. Quasi tutta Mostar durante la II Guerra mondiale era dalla parte della Resistenza. Aveva un grande battaglione di partigiani. Quando avevo 9 anni, mio zio – che lavorava in ospedale – un giorno mi disse di portare un sacco con i medicamenti ai partigiani feriti. Uno zio croato cattolico che collaborava in clandestinità con la Resistenza. Questa era la Mostar di una volta, quella di cui sono orgoglioso, a cui appartengo e che difendo».

Intervista pubblicata su Left n. 28 dell’11 luglio 2008

Dimitri Nicolau, l’immagine interiore della musica

Dimitri Nicolau è stato non solo un compositore straordinario ma anche un uomo di rara qualità. Ora a dieci anni dalla morte, scrivere di lui, raccontare qualcosa della sua complessa personalità artistica è compito ancora difficile. Il rapporto personale, l’amicizia, hanno travalicato la relazione tra compositore ed interprete e rendono complicato mantenere la distanza necessaria per affrontare un discorso strettamente musicologico. Inoltre, la sua poetica non si è limitata alla sola espressione musicale ma, sia per una esigenza personale che per motivi storici, Dimitri Nicolau si è trovato nella condizione di dover elaborare e poi saper verbalizzare i motivi della sua originalità, delle sue scelte artistiche; cosicché il suo essere artista si è intrecciato in maniera inestricabile con una ricerca sull’identità umana, unica al mondo: quella dell’Analisi collettiva con la “teoria della nascita” dello psichiatra Massimo Fagioli. Queste due dimensioni, questi due universi, la composizione musicale e la ricerca sulla origine del pensiero umano nonché del linguaggio musicale, per lui sono sempre state inseparabili e sono divenute come vedremo, motivo della sua svolta artistica fondamentale e il suo “Manifesto d’artista”.

Dimitri Nicolau, artista lo è stato veramente. Autore prolifico con un catalogo di circa trecento opere tra sinfonie, musica da camera strumentale e vocale, teatro musicale, fiabe musicali e divertentissime canzoni composte per la Tv dei ragazzi, si è indubbiamente sporcato le mani di musica. È stato il promotore della rinascita artistica del mandolino e degli strumenti a plettro, scrivendo opere straordinarie che hanno trovato grande attenzione nei Paesi del nord Europa. Ha avuto anche una particolare attenzione per il mio strumento, il saxofono, con quaranta splendidi lavori alcuni dei quali mi sono stati dedicati e dove ancora scopro una bellezza sempre nuova.

La sua musica… ci si accorge subito che dalla sua musica non è possibile mantenere una distanza; non è possibile un ascolto distaccato, educato alla passiva attesa del già noto. La sua musica ci viene incontro, si offre con originalità di linguaggio e una sincerità che si percepisce profondissima. Accanto ad una sapienza musicale straordinaria c’è una vitalità prorompente. Ben presto ci si rende conto che siamo noi ascoltatori, a dover sostenere con la nostra capacità un livello, lui avrebbe detto di rapporto, assolutamente inaspettato. C’è un comporre che procede per emozioni, che non parte mai da un calcolo razionale per stabilire la cornice formale entro cui inserire suoni che diventerebbero così, solo un elemento di arredo musicale; c’è invece un comporre che segue il libero fluire del senso musicale, una forma interiore che si fa linguaggio nel suo stesso essere resa percepibile. Troviamo in lui una “linea melodica” ricca di fantasia, dove la vitalità dei richiami alla musica popolare delle sue origini si fonde con i colori di una libertà armonica particolarissima e fa sentire tutta la sua verità. Nella sua musica agisce una umanità mai esibita, un “essere”, che è la piattaforma di base da cui tutto si muove.

E appunto, il cardine della poetica di Dimitri Nicolau è che l’artista senza l’umano non è: «La musica più profonda è nel rapporto interumano» diceva. L’uno (l’artista), non può essere senza l’altro (l’umano), o ci sarà la violenza di voler riproporre l’idea della morte dell’arte, l’impossibilità della bellezza, la malattia, il caos; oppure più subdolamente, attraverso un’arte consolatoria invitare alla rassegnazione di fronte al male inevitabile. Questo “inganno” che ancora allontana le persone dai concerti di musica contemporanea, esigeva una presa di posizione. Lui la prese. Espresse queste idee pubblicamente in interviste, articoli, programmi di sala, con il coraggio necessario che indubbiamente aveva. La sua notorietà lo portò ad uno scontro frontale con i detentori del potere culturale che dettava legge negli anni Settanta e che non ammetteva alcuna deroga, che non tollerava nessuna “nascita” diversa. Una diversità che si sarebbe immediatamente proposta come falsificazione di tutta la costruzione filosofico-musicale del secondo dopoguerra. Sostenne lo scontro con una certezza di identità che trovava conferma e forza nel lavoro di ricerca e cura dei seminari dell’Analisi collettiva. Lì, aveva certamente ritrovato quella immediatezza nel sentire gli affetti, come quando ancora bambino a Keratea, ascoltava affascinato… perché Nicolau è cresciuto su una piccola isola greca, dove l’unica musica era quella popolare: la si sentiva nelle feste, nei funerali, durante le pause dal lavoro degli uomini, dalle donne intente ai lavori domestici.

Ha sempre raccontato la sua meraviglia nello scoprire le emozioni diverse che uno stesso canto gli dava se cantato da persone diverse…evidentemente già aveva inteso il discorso difficilissimo sull’interprete! Comincia così da solo lo studio della musica, tenuto segreto a tutti, anche alla sua famiglia; compone il primo brano all’età di tredici anni: una sonatina per mandolino e pianoforte, che non ha mai rinnegata e anzi inserita nel suo catalogo col numero d’opera 100. Poi la fuga in Italia nemmeno diciottenne e la richiesta di asilo politico per sfuggire al regime dei colonnelli; il diploma al Centro sperimentale di cinematografia e il lavoro nel cinema, prima come direttore della fotografia, poi come compositore: questo fu l’inizio della sua carriera musicale.

Nel 1975 la svolta umana e stilistica definitiva che sancisce il rifiuto e lo scontro con la cultura musicale dominante. Lui la racconta così in una intervista a P.Scarnecchia: «Non saprei esattamente cosa fosse nel frattempo maturato… un rapporto con una donna in maniera nuova, profonda e nello stesso tempo difficile e affascinante… l’attesa della nascita di un figlio, un’amica che… ci porta a casa dei libri dai titoli inconsueti formati da parole come marionetta, istinto, conoscenza, nascita…più leggevo più mi si chiarivano le idee su quello che cercavo anche nella musica…una esigenza crescente di separarmi radicalmente da tutto quello che non condividevo…composi di getto “La Melodia ritrovata”, un lavoro per grande orchestra senza sapere se e quando sarebbe stato realizzato…questo accadde dieci anni dopo…quest’opera si propone come un percorso di separazione…dalla filosofia della musica fondata sul pensiero violento di derivazione hegeliana, freudiana, di Adorno e i suoi epigoni…per ripartire dalla mia sola realtà e fantasia personale…era arrivato il momento di rischiare senza essere distrutto».

Dimitri Nicolau si è così giocato la vita dimostrando che era possibile opporsi al disumano nell’arte… continuando nonostante il silenzio pervicace della critica ufficiale, a comporre la sua musica seguendo il «libero fluire di una fantasia originaria». Senza padri, né padroni. Ha scelto di offrire ai musicisti la possibilità di una rivolta dal basso, cercando e facendo rapporto direttamente con la sensibilità e l’intelligenza dei singoli, proponendo ai molti compagni di strada, di accettare il rischio di toccare il fondo: ritrovarsi da soli di fronte alla “pagina bianca” e non aver nulla da scrivere.
Ma subire la legge del padre, soffocare la propria fantasia per il terrore di morire di fame e di freddo è vero scrivere? Lui ha proposto una strada: «Mi sembra che per ogni artista, diventi sempre più fondamentale la conoscenza della realtà umana, della propria realtà, a partire dalla propria origine, la nascita». Scoprire cioè, che proprio la separazione dal padre è il primo passo per ritrovare la propria fantasia.
Dieci anni sono passati… e anche se «È lunga ancor la strada», il clima culturale comincia a dare qualche segnale di cambiamento. Sono sempre di più i compositori che trovano il coraggio di presentarsi con la loro verità e sincerità, sono sempre di più gli interpreti che trovano il coraggio di scegliere i loro compositori.
Dobbiamo essere grati alla resistenza di identità umane e musicali come quella di Dimitri Nicolau.

Pier Paolo Iacopini è concertista di sassofono e docente per il suo strumento al Conservatorio di Bari.

Mercoledì  20 giugno alle ore 17 la Biblioteca nazionale centrale di Roma, l’Istituto di bibliografia musicale (Ibimus) in collaborazione con Clm (Consorzio Liberi Musicisti) ricordano a dieci anni dalla scomparsa, la straordinaria figura del compositore di origine greca Dimitri Nicolau con le testimonianze di chi lo ha conosciuto e un concerto. Con l’occasione, verrà istituito attraverso una donazione di partiture da parte della famiglia alla Biblioteca Nazionale, il “Fondo Dimitri Nicolau”.
Una mostra che sarà inaugurata alle ore 16 illustrerà a grandi linee i filoni principali della sua attività compositiva e darà modo ai visitatori di scoprire anche un aspetto poco conosciuto di Nicolau: il suo interesse per la pittura e il disegno. 

Qui il programma della giornata

 

L’immigrazione ai tempi di Trump: arresto per i bambini stranieri che attraversano il confine con il Texas

Nel Texas meridionale, dietro sbarre e reti di metallo, aspettano da soli, ma senza sapere bene cosa. Gli Stati Uniti hanno chiuso in gabbia i minori non accompagnati, arrestati mentre cercavano di attraversare il confine messicano. In ogni gabbia, tra bottiglie di acqua vuote, buste delle patatine e qualche coperta, ci sono 20 bambini. In tutto sono duemila e non sanno dove siano i loro genitori.

Dopo l’Odissea di terra, – in fuga da violenza e povertà dell’America latina -, la US Bordel Patrol ai migranti e richiedenti d’asilo ha dato il suo “welcome”, benvenuti negli Usa, solo nelle sue prigioni. Non ci sono fotografie che lo testimonino, perché ai giornalisti è stato vietato l’accesso nell’ex deposito Walmart dove i bambini sono stati rinchiusi. I loro genitori, migranti che hanno attraversato il confine illegalmente, sono stati trattenuti in altre strutture. Dopo essere stati separati dai loro figli, adesso aspettano di sapere se verranno rispediti indietro o se rischiano la galera.

Duemila minori, nelle ultime sei settimane, sono stati separati dai genitori, da quando il procuratore Jeff Sessions ha trasferito i poteri alla Homeland Security per la gestione della migrazione alla frontiera sud. È avvenuto lo scorso sei aprile: questo è il risultato della politica di “tolleranza zero” che Trump aveva promesso durante la campagna elettorale.

Gruppi della sinistra nordamericana e attivisti dei diritti umani denunciano e protestano per quello che sta accadendo. Perfino Melania Trump si è opposta a questa policy dell’amministrazione del marito: la sua portavoce ha riferito che “odia vedere i bambini separati dai genitori”, l’America deve essere un Paese “che segue la legge”, ma “governa col cuore”, democratici e repubblicani devono unirsi “per una riforma sull’immigrazione”.

No, i nemici dei miei nemici non sono miei amici

C’è (voluta da quell’arruffapopoli che è Matteo Salvini e da alcuni accesi tifosi nella classe dirigente del Movimento 5 Stelle) questa nuova deriva di voler dividere la politica nell’antipatico (e intellettualmente disonesto) chi è con noi e il chi è contro di noi. La polarizzazione di un Paese per accrescere il proprio ego da parte dei governanti è una pratica antica di cui continua ad abusare Trump negli Usa e più o meno tutti i despoti delle peggiori democrazie.

Così se vi capita di inorridire per la chiusura dei porti di Salvini verrete subito bollati come i buonisti di sinistra e messi nel calderone in cui stanno anche gli indignati disattenti sulle politiche di Minniti e allo stesso modo se vi permettete di notare l’ipocrisia di una certa sinistra che strumentalmente si riscopre accogliente vi diranno che no, che non si può fare così, perché altrimenti è un favore a Salvini. Spariscono tutti i toni intermedi e sparisce in fondo anche la sana dialettica politica che permette di cogliere, valorizzare e coltivare le differenze.

Così per il gioco delle opposte tifoserie non si dovrebbe far notare che fa bene Di Maio a chiedere dignità per i rider di Foodora e delle altre aziende simili e fa benissimo a ribadire che non è proprio il caso di accettare il solito patetico ricatto di chi dice se non vanno bene le nostre regole ce ne andiamo dall’Italia. Se si scrive rispondono che quello di Di Maio è solo mero calcolo elettorale e viene da pensare che sarebbe bellissimo che per mero calcolo elettorale si decidesse di riabilitare i diritti dei lavoratori. Così come è una riforma urgente quella che vorrebbero i 5 Stelle per rendere pubblici i bilanci di partiti e fondazioni. Lo fanno solo perché sono immischiati nella questione dello stadio di Roma, dicono gli altri (e probabilmente è vero) ma non si capisce perché la proposta che nel merito è condivisibile debba essere osteggiata.

Il gioco, insomma, è che i nemici dei nostri nemici dovrebbero essere nostri amici e fa niente che certa destra abbia trovato praterie per colpa di certa pessima sinistra. “O con noi o con loro”, dicono, banalizzando il dibattito a un discorso da bar. Poi si stupiscono che i peggiori agitatori diventino protagonisti e ministri.

Che strani, eh?

Buon lunedì.

La politica disumana dei porti chiusi

La nave Aquarius è ferma in alto mare, al centro di un caso internazionale e di uno scontro tra Italia e Malta. A bordo dell’imbarcazione di Medici senza Frontiere e Sos Mediterranée ci sono 629 migranti, tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte (foto Ansa) foto disposta a disposizione dall'ONG "SOS Mediterranee" mostra il salvataggio in mare di un totale di 629 migranti il 10 giugno 2018 (emesso l'11 giugno 2018).

La crisi della nave Aquarius sarà ricordata come il primo gesto, violento, di un esecutivo che dimostra di prendere sul serio la propria agenda politica, con al vertice la lotta ai più deboli. Una priorità che appassiona sempre di più anche il movimento di Grillo e Casaleggio (al di là di qualche timido monito del presidente della Camera Roberto Fico, o del post solidale coi migranti “in ostaggio” a bordo della nave umanitaria del sindaco di Livorno Nogarin poi rapidamente cancellato).
Se, infatti, la scorsa estate la smania di sbarrare i porti ai migranti dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti – ora sapientemente dissimulata – aveva incontrato un freno nell’opposizione netta del ministro dei Trasporti Graziano Delrio, oggi il suo omologo Toninelli rivendica una perfetta sintonia con le mosse del Viminale. Il “poliziotto buono”, insomma, non c’è più. Ma è indubbio che un fil rouge leghi l’operato dei due governi. Rispetto al Codice di condotta per le ong, al decreto Minniti Orlando sull’immigrazione, alla missione militare in Libia, l’escalation di Salvini si presenta come il loro naturale compimento. Grazie alla strada spianata dalla guerra al cosiddetto «estremismo umanitario», il leader leghista ha potuto tenere per giorni 629 esseri umani privi di soccorso in mezzo al mare, sfiancati, sul ponte assolato dell’imbarcazione di Sos Mediterranée, senza che la cosa abbia destato lo scalpore che avrebbe meritato tra i cittadini italiani.
Al momento di andare in stampa, l’imbarcazione della ong europea sta facendo rotta verso la Spagna, in seguito alla decisione della sala operativa della Guardia costiera di Roma di accettare la proposta del premier iberico Sànchez e far sbarcare i migranti soccorsi a Valencia, dopo il parziale trasbordo su due mezzi della marina italiana.
Ma all’interno di quale perimetro legale si è dispiegata la strategia del governo giallonero?…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Die Linke si schiera con i rifugiati

08 June 2018, Germany, Leipzig: Bernd Riexinger, co-chairman of the party Die Linke (The Left), and Katja Kipping, party chairperson of Die Linke, pictured during the Die Linke federal party conference. Photo by: Britta Pedersen/picture-alliance/dpa/AP Images

Prima che iniziassero i lavori del congresso, Katja Kipping ha dato una mano ai giovani del suo partito. Insieme si sono presentati al Jobcenter di Lipsia e hanno provato ad aiutare, con una sorta di sportello improvvisato (ma non troppo: per i ragazzi della Linke è un’attività normale), volantini e caffè, quanti avrebbero presentato domanda per il sussidio agli sportelli “ufficiali”. Per Kipping, lo avrebbe ribadito il 9 giugno nel suo intervento, la scelta era obbligata: è questa la sua idea di partito, che non fa mancare il suo aiuto a quanti ne hanno bisogno, siano tedeschi costretti a chiedere il sostegno dello Stato perché senza lavoro o perché non riescono a sopravvivere con il loro salario, siano rifugiati che, per le ragioni più diverse, scappano dai loro Paesi. Proprio per questo motivo, Kipping voleva un congresso chiarificatore, tramite il quale la sua idea uscisse rafforzata. È stata accontentata, però, solo in parte.

A Lipsia, infatti, si è consumato lo scontro, l’ennesimo, tra le anime della Linke. Uno scontro che non ha prodotto effetti immediati, se non palesare nuovamente una spaccatura e un conflitto e congelare e rinviare, ancora una volta, la discussione. Già prima che iniziassero i lavori, Katja Kipping e Bernd Riexinger, che dal 2012 guidano il partito, avevano chiesto che il congresso fissasse in modo chiaro la linea del partito, in particolare sulla questione dei rifugiati. A questo proposito hanno presentato una mozione che trattava il tema dei offene Grenzen, confini aperti, come pure della lotta alle cause delle migrazioni. L’obiettivo era…

L’articolo di Fernando D’Aniello prosegue su Left in edicola


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Le parole disumanizzanti degli spaventatori

La parola che ha preceduto la crisi della nave Aquarius ed il rifiuto senza precedenti delle autorità italiane ad accogliere i naufraghi nei porti della penisola, è la parola “pacchia”. La pronuncia il neoministro dell’Interno Matteo Salvini in piena campagna elettorale per le amministrative. È il 2 giugno, in una piazza di Vicenza, Salvini dice «per i clandestini è finita la pacchia». È uno slogan, pura propaganda. Una frase che contiene “clandestini”, il vecchio termine preferito dagli spaventatori di professione per criminalizzare i migranti e la nuova parola “pacchia” che la Treccani ci ricorda essere un «deverbale di pacchiare, “mangiare con ingordigia”, usato per indicare una condizione di vita facile e spensierata». In una sola frase c’è il corredo completo della mistificazione e della distorsione della realtà che la politica produce costantemente quando parla di migranti. Un linguaggio che raramente viene riprodotto in forma critica dal giornalismo italiano. È un sistema che produce risultati, lo abbiamo visto nelle elezioni del 4 marzo che sono state precedute da una campagna elettorale di due mesi, esattamente 59 giorni, durante i quali sono comparse sui giornali parole che sembravano scomparse. La parola “negro” ad esempio, scritta 57 volte sui giornali. In due mesi, fa una volta al giorno. Ed è un record rispetto agli anni precedenti. In tutto il 2016 era comparsa 52 volte, mentre nel 2017 è stata scritta 104 volte, quasi il doppio ma in 12 mesi, non in 2. La comparsa della parola negro è…

Valerio Cataldi è presidente dell’associazione Carta di Roma che studia il rapporto tra informazione e immigrazione

L’articolo di Valerio Cataldi prosegue su Left in edicola


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La sinistra riparte dallo studio e dal confronto

«Se i tempi non chiedono la tua parte migliore, inventa altri tempi», così in Baol di Stefano Benni, così chi vive in tempi che chiedono costantemente di competere, tutti contro tutti, con l’ossessione del successo e allo stesso tempo la colpevolezza di non poterci arrivare.

Il tempo presente chiede la parte peggiore di ciascuno perché fra democrazia e capitalismo, fra sfruttati e sfruttatori, fra la giustizia e il sopruso hanno vinto i secondi. E, come diceva Bernie Sanders rivolgendosi al Partito democratico Usa: «Non è Trump che ha vinto, siamo noi che abbiamo perso»; sono le forze progressiste che hanno abdicato alla funzione di governo dell’economia e della tecnologia e si sono fatte governare. Di più, son diventate subalterne ideologicamente e nell’espressione delle classi dirigenti, o forse peggio, irrilevanti. L’Italia, una volta patria del Pci, risulta oggi il fanalino di coda in termini non solo di organizzazione del fronte del lavoro e del precariato, ma anche sul piano della qualità del dibattito e della sperimentazione di forme di mobilitazione e aggregazione.

È venuto a mancare, a sinistra, il pensiero strategico e di prospettiva, quello che consente di fare politica rappresentando una parte ma avendo a cuore anche gli interessi generali. Non c’è traccia qui del dibattito sulle forme alternative di proprietà, delle idee sulla riconfigurazione della forma partito ai fini dell’egemonia culturale, della problematizzazione del nesso nazionale-sovranazionale per come emergono nel Labour, in Podemos e nella sinistra europea. Per questo è oggi più urgente che mai riconciliare i luoghi di pensiero e i cervelli che li abitano con i luoghi decisionali della politica che ne sono poveri. Solo così si può spezzare la catena dei politicismi e dell’autoreferenzialità, e rendere nuovamente utile la politica istituzionale. Non è più possibile ignorare il patrimonio di conoscenze e competenze che servono, e già esistono, per creare e mantenere il consenso.

Tanto più in un momento nel quale l’Europa sembra intrappolata nella…

L’articolo del collettivo Ragione in rivolta prosegue su Left in edicola


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