Home Blog Pagina 724

Gente di Dublino

The Dubliners, in Europa li chiamano così. «Moriva dal desiderio di salire in cielo attraverso il tetto e di volare verso un altro Paese dove non avrebbe più sentito parlare dei suoi guai, eppure una forza lo spingeva dabbasso scalino per scalino». Forse solo questa frase, rubata a uno dei racconti di Joyce, è il punto di contatto tra i suoi Dubliners del 1914 e i “dublinati” di cento anni dopo. Chi fugge dal proprio Paese perché in guerra o perseguitato, in virtù del Regolamento di Dublino (ora alla III versione) deve presentare domanda d’asilo nel Paese Ue in cui sbarca. Dublinati, dunque, sono quei profughi che, identificati in Italia o in Grecia, riescono comunque a raggiungere parenti o amici altrove, ma poi – impigliati nella rete Eurodac, la banca dati delle impronte digitali dei richiedenti asilo – vengono riaccompagnati al punto di partenza secondo una pratica condannata da una recentissima sentenza della Corte di giustizia dell’Ue. Meccanismo iniquo, quello di Dublino, di cui da tempo è in ballo una riforma: una proposta è stata approvata otto mesi fa dall’europarlamento (con il no di Lega e M5s) ma il Consiglio, a guida bulgara, ha presentato una controproposta penalizzante per i Paesi in prima linea, mentre prende piede la “faccenda nera” di una esternalizzazione delle frontiere.

Il testo del Parlamento europeo «elimina il criterio del primo Paese d’arrivo, che a tutt’oggi affida solo a Italia e Grecia la gestione dei richiedenti asilo, e lo sostituisce con un meccanismo di ricollocamento obbligatorio e permanente, oltre a estendere le possibilità di ricongiungimenti familiari allargati e a prevedere sanzioni per gli Stati che non accolgano. Si tratta di cambiamenti molto positivi frutto del compromesso tra le sinistre, una parte del Ppe, socialisti e verdi. Non è ancora l’ideale ma sarebbe un cambio radicale di paradigma. Il blocco delle navi è il frutto velenoso del blocco negoziale su Dublino IV, e usa i migranti come ostaggi», spiega a Left Barbara Spinelli, eurodeputata del Gue, il gruppo unitario della sinistra europea. Già tre anni fa, di fronte a un flusso record di 48mila arrivi, un’assessora del Campidoglio sperimentò un corridoio umanitario per i transitanti, coloro che cercavano di non lasciare l’impronta dell’indice a una guardia italiana. «Fu possibile così realizzare migliaia di ricongiungimenti familiari e la politica iniziò a parlare di relocation». Ma la ripartizione dei migranti non ha mai funzionato e tre anni dopo la situazione è peggiore di quella ricordata da Francesca Danese, ora portavoce del Forum del III Settore del Lazio. «Dublino va ripensata ma lontano da questo circo mediatico sulla pelle di chi fugge dall’orrore dei campi in Libia», dice anche Giorgia Linardi, portavoce in Italia di Sea watch, una delle Ong che operano nel Mediterraneo da quando, tre anni fa, i governi europei hanno sostanzialmente azzerato le missioni di salvataggio in mare. Che lo si guardi dal mare, o dai sentieri della rotta balcanica, o dalla terraferma di Bruxelles, il naufragio di chi fugge da guerre o carestie è anche il naufragio della politica, nessun governo è innocente. Dalla Aquarius….

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

La sfida di Trudeau ai falsi moralisti: via libera in Canada al consumo ricreativo di marijuana

Buongiorno, Canada. «Oggi sono lieto di annunciarvi che il nuovo regime di regolamentazione del consumo di cannabis entrerà in vigore il 17 ottobre». Lo ha detto sorridendo ai suoi cittadini in video Justin Trudeau, dopo l’approvazione del Parlamento al cosiddetto “C-45”. Con 52 si e 27 no al Senato, il Cannabis Act è stato approvato. Ottawa ha legalizzato e regolato il consumo ricreativo della marijuana . Così, ha scritto Trudeau in un tweet, «non sarà più oggetto di profitto del crimine organizzato».

Il ministro della Giustizia, Jody Wilson Raybould, parla di cambiamento: «Ci lasciamo indietro il modello fallito del proibizionismo». Al centro della bandiera rossa e bianca, la foglia d’acero è stata sostituita da quella della marijuana, – solo per qualche ora – , quando molti canadesi sono usciti per strada a festeggiare con il vessillo bicolore sulle spalle. Dopo l’Uruguay nel 2013, il Canada è il secondo Paese del mondo a legalizzare l’uso ricreativo della cannabis.

La marijuana ricreativa è una delle «trasformazioni più radicali della cultura canadese degli ultimi decenni», scrive il New York Times: «Molte questioni da regolamentare rimangono ancora aperte», ma questo era un passo necessario per il governo liberale del primo ministro Trudeau, deciso ad eliminare «l’industria illegale della droga che frutta sette miliardi l’anno ai criminali, per proteggere i minori dai rischi dell’accesso a droghe illegali».

Il coraggio di avere paura delle nostre periferie

Seduti, imbavagliati, con in mano cartelli con le cifre drammatiche della povertà in Italia "che ruba la speranza, la dignità e i diritti". In occasione della XX Giornata Mondiale della lotta alla povertà, una cinquantina di ragazzi di Libera e Rete della Conoscenza hanno organizzato un flash mob all'entrata della Stazione Termini di Roma per lanciare la Campagna Miseria Ladra del Gruppo Abele e Libera. ANSA/UFFICIO STAMPA LIBERA +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Non abbiamo paura degli altri, non solo, quella è l’apparenza, quello che ci viene più facile, soprattutto di questi tempi in cui ci viene continuamente suggerito: abbiamo paura di noi, delle nostre solitudini e di prenderci la briga di andare a visitare le nostre periferie. Le nostre periferie non sono le zone meno centrali dei nostri quartieri: le nostre periferie siamo noi, noi un passo più in là del nostro lavoro (se abbiamo la fortuna di averlo, ma vale anche per la nostra disoccupazione), noi una goccia di più della nostra famiglia (se abbiamo la fortuna di averla, ma vale anche per la nostra cerchia), noi appena fuori da quello che siamo nel vocabolario stinto di questo tempo (madri se siamo donne, professionisti riconosciuti se siamo uomini, gran lavoratori se siamo manovali, fedeli alla divisa se siamo poliziotti o carabinieri, appassionati se siamo artisti, onesti se siamo dipendenti pubblici, volenterosi se abbiamo meno di trent’anni, umili se siamo in stage, regolari se siamo universitari, affettuosi quando siamo nonni, responsabili se da poco viviamo da soli, precisi se invece siamo manovalanza specializzata, mai fermi se siamo disoccupati, disponibili se siamo neoassunti, intellettualmente onesti se siamo giornalisti, umili se abbiamo studiato più dei nostri capi, riservati se siamo consulenti, instancabili se siamo sfruttati e così via).

Stiamo tutti in un aggettivo che ci pone tra i buoni o tra i cattivi. E le nostre periferie, quelle che ci aspettano a casa nei brevi momenti in cui rimaniamo soli, le abbiamo lasciate disabitate, pronte ad essere occupate da quello che ci viene già comodo. E l’affittuario più comodo per le stanze che non vogliamo visitare è la paura: è sempre a disposizione, ha centinaia di interpreti ed è sempre pronta a farsi chiamare legittima difesa.

C’è un posto, al di fuori dei canoni stabiliti, che non sappiamo più visitare e di cui sembra che non sia capace di parlarci più nessuno. Il cattivismo si è preso le periferie perché gli altri non sanno più come rivolgersi. Non abbiamo paura dei negri e dei rom: abbiamo paura dei poveri (che sono spesso negri e spesso zingari) perché abbiamo paura dei poveri che possiamo diventare noi. L’abbiamo visto in giro: lo zio che per tutta una vita ha indossato una giacca e una cravatta e ora innaffia le rose smunte aspettando il diritto di avere una pensione, l’amico manager che ora si confonde in mezzo ai magazzinieri pagati in nero, il compagno brillante che si è laureato due volte e ci tocca offrigli la pizza perché è arrivato tardi in un mercato del lavoro già marcito.

Oltre a difendere gli ultimi dovremmo avere il coraggio di raccontare la paura di diventare ultimi anche noi. Così si disinnescherebbe la retorica di questi giorni: non abbiamo paura dei poveri ma abbiamo paura della povertà che non ci è mai sembrata così terribilmente possibile. Nonostante il marchio doc sugli aggettivi.

Buon giovedì.

Prove tecniche di cessate il fuoco in Sud Sudan

Il ribelle incontra il presidente. I due signori della guerra del Sud Sudan tenteranno nelle prossime ore di trovare un accordo di pace. Si sono dati appuntamento in un Paese terzo, l’Etiopia. Il leader dei ribelli Rieck Machar all’alba di questa mattina è arrivato ad Addis Abeba per incontrare il presidente del paese, Salva Kiir. Tregua, compromesso, cessate il fuoco: almeno una di queste tre soluzioni può far terminare una guerra iniziata cinque anni fa.

Finora tutti i negoziati per la pace sono falliti e il conflitto etnico ha lasciato già sul terreno migliaia di morti. Nonostante gli appelli internazionali, in Sud Sudan si spara e si spara ancora. Due anni: l’ultima volta che i due hanno tentato di far terminare la guerra civile è stato nel 2016. Dopo il genocidio in Ruanda nel 1994, quella sudsudanese è una delle più gravi crisi d’Africa.

Nello Stato più giovane del mondo – il Sud Sudan è indipendente dal Sudan dal 2011 – la guerra civile va avanti dal 2013, quando le truppe leali a Machar, ex vice di Kiir, si sono ribellate contro quelle del presidente. Sono tre i milioni di profughi che hanno dovuto abbandonare la casa per essere sfollati in altre zone del Paese o nella vicina Uganda.

Soluzione o risoluzione: a tutti i costi. L’incontro di oggi deve dare i suoi frutti: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha caldeggiato l’ipotesi di un embargo e sanzioni contro il paese se un accordo politico e militare non verrà raggiunto.

Il desert blues di Bombino per i rifugiati: «La musica è il mio messaggio d’amore contro ogni guerra»

Vestito con gli abiti tradizionali della sua terra, quella del Niger, di etnia tuareg, aveva illuminato con la sua chitarra blues il folto pubblico di piazza San Giovanni, in occasione del Primo maggio. Bombino, pseudonimo di Oumara Moctar, a margine del tradizionale concertone dello scorso anno, aveva raccontato a Left della sua passione per la musica, che fin da bambino ascoltava in famiglia e che poi dal deserto lo aveva portato in giro per il mondo. Amandola sempre di più perché, solo in questo modo – ci spiegava – può diventare una vera professione.

Dalla terra d’Africa con le sonorità tradizionali, scopre poi i mostri sacri del rock come Hendrix e Knopfler per iniziare la sua carriera negli anni novanta. È nel 2013 che Bombino ottiene successo con l’album Nomad, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, chiarissimo riferimento a suoi trascorsi personali, quando a causa della guerra in Niger, da giovanissimo, era stato costretto a emigrare in Algeria e Libia. Con la sua chitarra e i suoi variegati suoni, la stella internazionale del desert blues torna in Italia, per una tournée che lo vedrà da noi fino a fine ottobre, per presentare Deran, il nuovo album. Dieci tracce, scritte in dieci giorni: un omaggio appassionato al suo popolo, in cui Bombino unisce con maestria la tradizione e il rock più moderno. Deserto e città, il binomio che lo rende universale e che gli ha permesso di lavorare con i più grandi della musica: da Keith Richards a Stevie Wonder, da Robert Plant fino al nostro Lorenzo Jovanotti.

Un prodotto viscerale che mescola folk, rock, funk e il sottogenere “tuareggae” di cui è pioniere: un blues/rock misto al reggae e al bounce, cantato nella sua lingua madre, il tamasheq (una varietà della lingua berbera, ndr). Un messaggio di speranza in questo momento così doloroso per tanti uomini, suoi connazionali soprattutto, costretti spesso ad abbandonare la propria terra. Come fece lui, anni fa, costretto all’esilio, divenendo il simbolo musicale di questa data mondiale. Lo potremo applaudire proprio il 20 giugno, al Monk di Roma, per la serata #Withrefugees: il live organizzato per la Giornata mondiale del rifugiato, promossa da Arci e Unhcr, in collaborazione con lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr). In occasione della data romana, abbiamo incontrato nuovamente il virtuoso musicista africano per parlare del suo nuovo lavoro e di questa data importante per lui e per tutti noi.

In questa data del 20 giugno, dedicata a tutti profughi del mondo, sarai al Monk; quale sarà il tuo messaggio, artistico e umano, qui da noi, in un momento così difficile, con le attuali scelte di governo e la scellerata decisione di chiudere i porti?
Per ben due volte, nella mia vita, sono dovuto fuggire. Certo, è un’esperienza che non puoi dimenticare. Una volta che sei stato profugo, c’è qualcosa che ti entra dentro e non ti lascia mai più. Poco importa il successo che ho come musicista, io mi ricorderò per sempre del giorno in cui sono stato costretto a lasciare la mia casa a causa di ciò che sono. Il mio messaggio è comunque di avere sempre speranza. La musica è uno strumento di pace, il mio messaggio di fratellanza, di amore contro ogni guerra.

Sarai a Roma fino a ottobre, in concerto per tutta Italia, dove porterai la tua musica: qual è stato il lavoro che ti ha portato a questo tour?
Presenteremo l’ultimo album Deran. L’Italia è per me una seconda casa, il pubblico è caloroso e affettuoso. A volte mi urlano «Bombino» come se fosse un coro, e io ne sono davvero felice. Andrò negli Stati Uniti a luglio e poi tornerò in Europa, suoneremo un po’ dappertutto, anche in Sardegna dove siamo già stati, in Sicilia, poi a Firenze e infine Torino a ottobre.

Ti capita di ascoltare musica italiana? Con quali dei nostri artisti lavori?
Conosco parecchi musicisti italiani. In questi anni ho lavorato con Adriano Viterbini e con Lorenzo Jovanotti. Adriano è un chitarrista fantastico, abbiamo fatto alcuni live insieme e poi io ho suonato nel suo disco. Con Lorenzo ho suonato nel suo penultimo disco (Lorenzo 2015 Cc, nel brano ”Si alza il vento”, ndr) e poi sono stato suo ospite a dicembre in una trasmissione televisiva.

La musica come strumento di dialogo con tutti, come lo è questo ultimo album, interamente registrato nella tua terra, ma dal sapore internazionale, che non trova barriere di sorta; come speri lo accolgano, sia il tuo pubblico più affezionato, sia quello che verrà per la prima volta ad ascoltarti?
Sì, è stato registrato in Africa interamente, a Casablanca, in un bellissimo studio. I temi del nuovo album sono quelli abituali e ricorrenti: l’amore per la mia cultura, per la mia famiglia e per i miei amici, il rispetto per per la nostra storia e per il deserto. Queste sono le cose che mi ispirano e di cui canto. Lo stile sarà una continuazione con quello del passato, anzi mi sento di dire che ciò che amo maggiormente di questo album è il fatto che unisca tutti gli stili del mio passato: rock blues, la musica tradizionale tuareg la musica tenera e lenta, e anche il “tuareggae”.

Photo credit: Steven Pisano (CC BY 2.0)

Il coraggio di ogni giorno. Contro la mafia

Dal 20 al 24 giugno torna Trame il festival di Lamezia Terme contro le mafie. Cinque giornate di incontri aperti al pubblico, un Festival unico con ospiti provenienti da tutto il mondo, animato e voluto ogni anno da un’intera comunità che si riunisce, in un territorio fortemente inquinato dalla ‘ndrangheta, attorno a dibattiti e testimonianze dirette di chi ogni giorno combatte contro il crimine. Molti gli ospiti prestigiosi che nelle precedenti edizioni hanno preso parte al Festival, testimoniando la lotta al fenomeno mafioso: figure istituzionali come il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho,  scrittori e storici come John Dickie e Nando Dalla Chiesa, ma anche personaggi dello spettacolo come Lina Sastri, Pif, Ficarra e Picone e Brunori SAS e ancora giornalisti, scrittori, esponenti della società civile. Pubblichiamo la presentazione del direttore Gaetano Savatteri

**

Il coraggio di ogni giorno è quello degli invisibili. Il coraggio di ogni giorno è una canzone di Enzo Avitabile e Peppe Servillo, dedicata a Scampia. Il coraggio di ogni giorno è un libro di Herman Hesse, premio Nobel per la letteratura, dove sono raccolti saggi, lettere e racconti del grande scrittore tedesco e che si apre con una frase emblematica: “Non c’è altra via che conduca al compimento e alla realizzazione di sé, se non la rappresentazione quanto più compiuta del proprio essere. ‘Sii te stesso’ è la legge ideale, per un giovane almeno; non c’è altra via che conduca alla verità e allo sviluppo”. Parole che oggi più che mai, in tempi di smarrimento, anche e soprattutto di una certa antimafia molto proclamata e poco vissuta coerentemente, servono da bussola per muoversi dentro un mondo difficile e complesso. Trame in questi otto anni ha dimostrato di saper fare, pensare e riflettere sulla coerenza collettiva e singola. E continua a farlo anche e soprattutto nel momento in cui la città dove Trame nasce e vive è nel pieno del suo terzo scioglimento amministrativo per mafia, proprio quando cadono i cinquanta anni dalla sua costituzione come Comune frutto dell’unificazione di tre centri. Il coraggio di ogni giorno è quello delle ragazze e dei ragazzi che sono passati da Trame, quei volontari che rappresentano il più grande patrimonio che questa esperienza ha accumulato e distribuito per le città di Calabria e del resto d’Italia. Il coraggio di ogni giorno è quello dei giusti che esercitano la loro onestà senza slogan né eroismi. A queste donne e uomini che a volte ignoriamo e che tra loro stessi si ignorano, Trame 8 vuole dare voce e visibilità. Per far sapere a tutti che non sono soli. Che non siamo soli. Che il coraggio di ogni giorno esiste, anche se non si vede.

 

Facevano già schifo ventisei anni fa

“Fino a ieri “terroni go home” l’avevano scritto solo con le bombolette spray, sui muri all’ingresso delle città o sui cartelli delle autostrade. Mani anonime che nella notte lanciavano urbi et orbi il loro sfratto ai meridionali, urla senza volto dietro le quali poteva esserci uno, nessuno o centomila. Fino a ieri. Perché da sabato scorso l’invito agli italiani del Sud a tornarsene a casa, a lasciare i territori del Nord, è scritto nero su bianco su un grande manifesto che campeggia sui muri di molte città, dall’Emilia rossa al Trentino bianco, dall’opulenta Lombardia al candido Veneto.

Cosa c’è scritto, su quel manifesto? C’è un segnale d’allarme, messo lì a motivare quel che segue: “Emergenza!”. E c’ è un invito cortese e ipocrita: “Onesti e bravi siciliani, calabresi, campani e sardi, fate un atto di coraggio: tornate a casa”. Il tutto condito dalla seguente argomentazione: “La criminalità organizzata e protetta si è impadronita delle vostre terre e quella povera gente ha bisogno di voi. I nostri figli ci sono già andati e sono stati accolti a fucilate. In una terra ostile, dove il razzismo e la criminalità dilagano e la presenza degli alpini e di tutti i nostri giovani soldati è osteggiata, vogliamo ritorni la civiltà”. E chi può portarcela, la civiltà, meglio di quei meridionali che l’hanno conosciuta al Nord? Nessuno. Dunque facciano le valige, lascino pure ai settentrionali le loro case e i loro posti di lavoro, e vadano a sbrogliare quella matassa insanguinata che si chiama mafia.

La novità, dicevamo, è la firma. “I giovani del Nord”, che sarebbe l’organizzazione giovanile della Lega di Bossi. E così accanto al federalismo e alla rivolta fiscale, in attesa di una improbabile marcia su Roma, i leghisti puntano verso il Sud un missile che somiglia molto a quella pulizia etnica che sembrava sepolta nei libri di storia e invece è riemersa tra le macerie dell’ex Jugoslavia. Le case di Zafferana. Evidentemente, più la crisi avanza, più la politica va in cancrena e più si fa strada quella sorda insofferenza che sette anni fa, quando il vulcano minacciava le case di Zafferana, si manifestò in Veneto con le scritte sui ponti dell’ autostrada: “Forza Etna!”. Fuori i sudisti dal Nord?

A Trento, appena il manifesto è apparso sui muri della città, un commerciante di origini calabresi ha alzato il telefono e ha chiamato, allarmatissimo, il centralino dell’Adige. Il giornale ha aperto il caso e il leader dei giovani dc del Trentino, Maurizio Roat, ha subito lanciato l’allarme: “Questo genere di inviti evoca sinistri ricordi del passato, e propone scenari jugoslavi. I giovani della Lega vogliono forse promuovere l’epurazione etnica?”. Luca Matteja, il segretario dei “Giovani del Nord”, ha dato una risposta debole ed evasiva: “Il vero razzismo è continuare a opprimere la gente onesta e sana del Sud con il modo di governare della Dc”. Non ha detto che lui non intende affatto rimandare a casa i meridionali. Né l’ha detto il capogruppo della Lega a Montecitorio, Marco Formentini, subito intervenuto per tentare di sgombrare il campo dagli imbarazzanti sospetti avanzati dal giovane democristiano.

Quel manifesto, sostiene l’onorevole Formentini, “era stato fatto nel mese di agosto, in occasione delle tensioni scoppiate tra i nostri militari e alcuni individui faziosi”. Roba vecchia, scaduta. E come la mettiamo con l’invito ai meridionali a tornarsene a casa? Qui il capogruppo si arrampica un po’ sugli specchi, spiegando che l’intenzione era quella di invitare “gli altri giovani di ogni regione d’ Italia, ad impegnarsi nella lotta alla criminalità e per il riscatto della gente onesta”. Chi parla di “epurazione etnica” conclude Formentini, non ha capito nulla. Anzi, compie un’operazione “tendenziosa e in malafede”. Una smentita a metà, come si vede. Che non fuga per niente il dubbio che la Lega intenda alla fine cavalcare quell’inconfessabile sentimento popolare che vorrebbe rispedire al Sud i terùn, gli emigranti brutti sporchi e cattivi venuti a rubare il lavoro ai figli della Padania”.

L’articolo che avete appena letto risale al 28 ottobre del 1992 (che anno, quel ’92, in cui la Lega era il governo del cambiamento con tutti quei corrotti), è stato pubblicato in quell’anno su Repubblica e racconta perfettamente il periodo che stiamo vivendo e soprattutto la natura della Lega di Salvini (o Lega Nord, o Lega Lombarda o come si è chiamata in tutti questi anni passati) che da sempre ha avuto bisogno di individuare dei pericolosi ultimi per accendere gli animi e rimestare nella merda. Ma questa volta, nel buongiorno di oggi, non c’è nemmeno bisogno di leggere altro: leggete questo pezzo di ventisei anni fa, stampatelo, giratelo via mail agli amici. Ecco quello che siamo stati senza imparare la lezione.

Buon mercoledì.

Una Giornata del rifugiato dal significato speciale

Fourteen-year-old Amina Hassan [NAME CHANGED] stands in an area for new arrivals in the Ifo refugee camp in North Eastern Province, near the Kenya-Somalia border. She is seven months pregnant and arrived in the camp 10 days ago with her mother-in-law and other relatives. They are waiting to register for food and other aid. Amina and her family walked for 26 days from their hometown of Dinsor, south-east of the Somali town of Baidoa, braving lions and hyenas and surviving on food they received from strangers. Amina has never attended school and was married off by her parents at age 12. Her husband is still in Somalia, searching for work in the southern port city of Kismayu. The camp is among three that comprise the Dadaab camps, located near the town of Dadaab in Garissa District.On 10 July 2011 in eastern Kenya, UNICEF Regional Director for Eastern and Southern Africa Elhadj As Sy visited the Dadaab camp for Somali refugees to focus increased attention on the humanitarian crisis in the Horn of Africa. Kenya, Somalia and Ethiopia are the three Horn of Africa countries most affected by a worsening drought, rising food prices and the persistent conflict in Somalia. More than 10 million people, including in neighbouring Djibouti and Uganda, are now threatened by the worst drought in the region in 60 years. Somalia faces one of the most-severe food security crises in the world as it continues to endure an extended humanitarian emergency, with tens of thousands fleeing into Kenya and Ethiopia. More than 10,000 Somalis a week are arriving in the Dadaab camps, where aid partners struggle to meet the needs of some 360,000 people, in facilities meant for 90,000.ANSA/ UFFICIO STAMPA UNICEF +++ HO - NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Il 20 giugno di ogni anno, dal 2001, si celebra la Giornata mondiale del rifugiato, indetta dall’Onu per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo il dramma di quanti sono obbligati a fuggire dal proprio Paese e dalle cose che amano di più per cercare altrove una possibilità di futuro e di realizzazione. L’evento fu creato per la prima volta in occasione deal cinquantesimo anniversario dell’approvazione, nel 1951, della Convenzione internazionale sullo status di rifugiato politico. La Giornata mondiale del rifugiato coincide anche con la pubblicazione del Rapporto Global Trends dell’Unhcr, l’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.

Sono oltre 68 milioni le persone costrette alla fuga nel 2017, secondo il rapporto, una ogni 110. E l’85% viene ospitata in Paesi in via di sviluppo. Si tratta del numero più alto dall’approvazione della Convenzione di Ginevra ad oggi. A causare il record, in particolare – si legge nel rapporto – è stata la crisi nella Repubblica democratica del Congo, la guerra in Sud Sudan e l’esodo in Bangladesh di centinaia di migliaia di profughi rohingya, in fuga dal Myanmar.

Alla fine del 2016, invece – ricorda sempre l’Unhcr – erano stati stimati circa 65 milioni di profughi al mondo. Di questi, 22 milioni e mezzo avevano lo status di rifugiati, sotto mandato dell’agenzia Onu; mentre circa 10 milioni erano le persone considerate ufficialmente apolidi, cui vengono negati i diritti più elementari, come lavoro, casa, salute, scuola e libertà di movimento e, nel 2016, sono stati rimpatriati forzosamente circa 200mila richiedenti asilo. Più del 50% dei richiedenti asilo aveva un’età inferiore ai 18 anni.

In Italia, lo straniero perseguitato nel suo Paese d’origine può trovare asilo e protezione sul nostro territorio con il riconoscimento dello status di rifugiato. Può richiedere asilo nel nostro Paese presentando una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione del suo Paese. Le medesime norme si applicano anche agli apolidi (cioè a quelle persone prive di nazionalità) che, per gli stessi motivi, non vogliono fare ritorno nel Paese nel quale avevano precedentemente la dimora abituale. Anche nel caso in cui non ci fossero gli estremi per attribuire lo status di rifugiato ad uno straniero, qualora quest’ultimo corra un grave pericolo nel suo Paese, può essere prevista una particolare tutela chiamata protezione sussidiaria. In entrambi i casi si parla di protezione internazionale.

Secondo il monitoraggio dell’Unhcr, nei primi sei mesi del 2018, circa 40mila persone sono arrivate in Europa attraverso il Mediterraneo, seguendo tre rotte equamente distribuite: Gibilterra, la rotta italiana e la rotta dei Balcani. I morti in mare accertati durante la traversata sono stati circa 800. Dopo le politiche repressive introdotte dal governo Pd con la legge Minniti-Orlando e il codice anti Ong, il numero degli arrivi si è drasticamente ridotto. Negli ultimi tre anni il numero di migranti, dopo essersi ridotto, nel 2016, ad un terzo di quello del 2015 (da circa un milione a 360mila), si è ulteriormente dimezzato, passando a 170.000 circa nel 2017. Come è noto, minori arrivi non significa meno partenze e fughe da Paesi in guerra, dittature, terrorismo, torture etc. È infatti ignoto, per esempio, il numero delle persone intercettate dalle bande criminali che gestiscono i lager e il mercato degli schiavi in Libia, Paese con cui il governo italiano ha stretto accordi in materia di gestione dell’immigrazione.

Morte di Stefano Cucchi, il carabiniere Casamassima: «Minacciato dai colleghi, il governo faccia qualcosa»

«Ci tengo a fare questa diretta perché voglio che si venga a sapere quello che mi sta succedendo…». Appare in divisa su un noto social network , l’appuntato dei carabinieri che, il 15 maggio scorso ha testimoniato al processo Cucchi. Ora il militare denuncia pubblicamente il mobbing nei suoi confronti fornendo uno spaccato inquietante delle condizioni di lavoro nell’Arma. Storie che già sono accadute nei confronti dell’appuntato che volle denunciare l’esistenza di milioni di schedature illegali nelle caserme dei carabinieri (è stato radiato dal corpo), o dell’ispettore della digos che osò scrivere una lettera aperta, sotto forma di lettera a Federico Aldrovandi, durante il processo per l’omicidio di quel diciottenne, a Ferrara, che lui aveva conosciuto da piccolo, aveva accompagnato a scuola e che gli era toccato riconoscere stecchito dalla violenza di quattro suoi colleghi.

«La sto facendo in divisa perché a questa divisa ci tengo – spiega Casamassima nella diretta – me la sono sudata e adesso per aver fatto il mio dovere, come uomo, come carabiniere per aver testimoniato al processo dove un giovane, Stefano Cucchi, è morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze, e sono tutte negative». Alla vigilia di quel 15 maggio, Casamassima era impaurito, scoprirà che «non erano fobie ma si sono concretizzate: mi è stato notificato un trasferimento alla Scuola, sarò allontanato da casa, demansionato dopo vent’anni per strada. Abbiamo subito di tutto, nessun rappresentante di Cobar e Cocer è voluto stare dalla nostra parte e mi hanno detto di stare attento perché dal Comando generale c’erano troppe pressioni.

È giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento? Domani alle 8 di mattina cercherò di incontrare il comandane generale, ho presentato diverse istanze che non sono mai state accolte, ho ancora fiducia che possa cambiare qualcosa dopo di che sarò costretto a rivolgermi alla procura, a denunciare ai magistrati perché il processo Cucchi è ancora aperto, ci sono altri carabinieri che devono essere sentiti, ogni azione nei miei confronti va a compromettere l’andamento del processo».

Quel giorno in tribunale, dopo la scoperta di verbali contraffatti per minimizzare le condizioni di Cucchi, Casamassima ha confermato i dubbi di sempre sulle violenze subite da parte di chi lo aveva arrestato e dei depistaggi che si sono innescati nella fase successiva. Al banco dei testimoni, l’appuntato Riccardo Casamassima e sua moglie, Maria Rosati, parigrado nei carabinieri. Ecco perché nel video l’appuntato usa il plurale.

Nell’ottobre 2009, il maresciallo Roberto Mandolini «si è presentato in caserma – disse Casamassima – mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, quando si riferì ai ‘ragazzi’, l’idea era che erano stati i militari che avevano proceduto all’arresto». È la conferma del pestaggio del giovane geometra romano, arrestato nell’ottobre 2009 e poi morto una settimana dopo in ospedale, che emerge dalla voce di uno dei teste chiave del processo, oggi davanti alla prima Corte d’assise di Roma. La decisione di raccontare questo episodio arrivò qualche anno dopo la morte di Cucchi, nel 2015, «perché pensavo che Mandolini volesse fare lui stesso qualcosa. Avevo paura di ritorsioni – ha aggiunto Casamassima – dopo la mia testimonianza hanno cominciato a fare pressioni pesanti nei miei confronti. Ho avuto anche problemi perché ho rilasciato interviste non autorizzate; si stava cercando di screditarmi, e io dovevo far capire che tutto quello che dicevano non era vero». «Il figlio del maresciallo Mastronardi, anche lui carabiniere, mettendosi le mani sulla fronte mi raccontò che nella notte dell’arresto vide personalmente Cucchi e lo vide ridotto male a causa del pestaggio subito. Disse che lui non aveva mai visto una persona combinata così». Casamassima ha detto anche che «il nome di Stefano Cucchi come del massacrato di botte fu percepito dalla mia compagna, Maria Rosati, che era dentro quell’ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria».

«Mandolini – ha detto poi Rosati – disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato», che stavano cercando «di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno». La decisione di raccontare questo episodio qualche anno dopo – nel 2015 – ha accumunato entrambi i testimoni: entrambi pensavano che spettasse al maresciallo Mandolini relazionare sulla vicenda, e comunque avevano paura di ritorsioni. E quando Casamassima consigliò a Mandolini di andare dal Pm a raccontare quanto sapeva, la risposta fu: «No. Il Pm ce l’ha a morte con me».

E ora Casamassima si appella a tutte le cariche dello Stato. A «Salvini, Di Maio, al presidente del Consiglio» poiché ritiene «inammissibile che in una istituzione come l’Arma dei carabinieri quando denunci qualcosa ti trovi a subire trasferimenti, punizioni e vessazioni». Infine legge «che scrivono su di me i miei superiori nelle note caratteristiche: carabiniere poco esemplare, inadeguato al senso della rendimento appena sufficiente… vi terrò aggiornati».

«Il carabiniere Riccardo Casamassima ha testimoniato – scrive Ilaria Cucchi su fb – così come lo ha ha fatto la carabiniera Maria Rosati, oggi sua compagna e madre dei suoi figli. Furono loro a dare il via a questo processo per l’uccisione di Stefano Cucchi. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi dissero di aver visto mio fratello estremamente sofferente dopo quel feroce pestaggio subito alla caserma della Casilina durante il foto segnalamento. Sono stati sentiti dopo che alcuni loro colleghi avevano ammesso, davanti ai giudici, di essere stati convocati dai superiori, dopo la morte di mio fratello, per modificare le loro annotazioni. Casamassima oggi è stato trasferito alla scuola allievi con demansionamento umiliante e consistente decurtazione dello stipendio. L’ho sentito in lacrime, disperato. Cari Generali Nistri e Mariuccia, era proprio necessario tutto questo, dopo quanto è emerso durante il processo sino ad ora? La scuola allievi Carabinieri aveva proprio bisogno, oggi, di Riccardo Casamassima? Proprio oggi?».

«Alla prossima udienza dell’11 luglio dovranno sfilare di fronte ai Giudici tanti colleghi del povero Casamassima – spiega -. Saranno ben consci di quel che gli è successo oggi. D’altronde la Scuola allievi aveva bisogno improcrastinabile di lui. Da più parti, dopo quanto sta emergendo al processo, ci viene raccomandata cautela e prudenza. Ci viene letteralmente detto di stare attenti. Lei, generale Nistri, ci ha detto che ‘tutti hanno scheletri nell’armadio’. Noi non li abbiamo, a meno che qualcuno non ce li metta. Ma questa è fantascienza».

«Massima solidarietà al carabiniere che ha fatto il suo dovere raccontando al magistrato quel che sapeva sulla morte di Stefano Cucchi – commenta Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione -. È stato declassato e trasferito mentre meriterebbe una medaglia. Non è tollerabile che in una Repubblica democratica si ostacoli la ricerca della verità da parte dell’Arma dei Carabinieri. Non è accettabile che colpendo Casamassima si lanci un segnale omertoso e intimidatorio a tutti gli uomini in divisa: non denunciate abusi. Si tratta di una mentalità mafiosa incompatibile con la nostra Costituzione democratica. Il presidente della Repubblica e il governo hanno il dovere intervenire. Non confido nel ministro degli Interni che, per raccattare voti dei settori più corporativi delle forze dell’ordine, ha più volte sostenuto il loro diritto all’impunità. Non lasciamo solo Riccardo Casamassima. I responsabili del mobbing nei confronti di Casamassima vanno rimossi, i vertici dell’Arma devono immediatamente fare chiarezza. È su questi problemi che le vecchie rappresentanze militari sono sempre state silenziose mentre con sindacati autonomi e indipendenti, come sancito dalla Corte costituzionale, il diritto, lo Stato di diritto, può e deve entrare nelle caserme italiane».

Nella Turchia del sultano Erdogan, è l’islam insegnato nelle scuole l’arma in più contro la democrazia

Quelle pubbliche chiudono senza fare troppo rumore, quelle religiose invece si diffondono. È il destino delle scuole nella Turchia di Erdogan che vuole plasmare la “generazione pia”. In un discorso pubblico il presidente lo specificò ad alta voce sei anni fa: “Vi aspettate che un partito con un’identità conservatrice e democratica cresca una gioventù atea? Noi non abbiamo questo scopo”.

L’islam come educazione. Con migliaia di insegnanti laici licenziati, dopo la chiusura di decine di istituzioni democratiche dopo il tentativo di colpo di stato del 2016, Erdogan si prepara alle elezioni del 24 giugno come fossero un referendum su se stesso e sul suo potere, conquistato e mai abbandonato 15 anni fa.

All’epoca le scuole religiose – dove lo studio del Corano e dell’arabo sono materie fondamentali- erano solo 450 nel paese. Oggi sono 4500: da Istanbul ad Ankara, si sono espanse grazie all’aumento del 68% del budget che il governo ha destinato loro. Quantificato in dollari, si tratta di un miliardo e mezzo. Gli studenti, invece, secondo la Reuters, sono oltre un milione.

Le “Imam Hatip”, scuole religiose, – dove è stato educato da bambino lo stesso Erdogan -, piacciono ai suoi sostenitori e allarmano i suoi critici. Ai genitori laici e scontenti non rimane che pagare e mandare i loro figli a scuole private, oppure marciare e protestare: più insegnanti, meno imam. Per difendere gli ultimi valori laici rimasti, contro l’islamizzazione costante delle classi, si battono le famiglie: i genitori dei bambini raccolgono firme, manifestano, ricordano che dalla nascita della Repubblica nel 1923, le scuole sono state sempre laiche. Il principio secolare su cui Mustafa Kemal Ataturk ha fondato lo Stato è sotto attacco, dicono gli attivisti di #Don’t touch my school, non toccare la mia scuola, un movimento che si è diffuso già in 20 città.

Ad Istanbul, Erdogan Delioglu, uno dei genitori coinvolti nel Movimento per l’Educazione scientifica e secolare, ha detto al NYT che a bambini di 12 anni è stato fatto vedere in classe un film violento con mostri e demoni: “Un film che insegna che se abbandoni la fede, è quello l’orrore che ti aspetta”. Nonostante le lamentele dei genitori, “il film è stato ritrasmesso in un’altra classe” e altri bambini hanno fatto incubi e di notte non sono più riusciti a dormire.