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Un’altra Europa è possibile. Di sinistra

Spanish left-wing party Podemos leader Pablo Iglesias (C) gives a speech alongside French presidential election candidate for the far-left coalition La France insoumise Jean-Luc Melenchon (R) during a rally in Paris on April 21, 2017, just two days before the first round of the French presidential election. (Photo by Julien Mattia/NurPhoto via Getty Images)

Ricapitoliamo: il contratto di governo fra M5Stelle e Lega picchia duro sui diritti dei lavoratori, non si occupa dei disoccupati e attacca il welfare. I Cinquestelle si sono rimangiati tutte le promesse fatte in campagna elettorale. Nel programma di governo non si parla più neanche di rivedere il Jobs act varato dal governo Renzi, provvedimento che – come è noto – ha dopato il mercato del lavoro producendo solo riduzione delle tutele e maggiore precarietà. Mentre si continua a parlare di abolizione della riforma Fornero delle pensioni, scompaiono le stime sul budget necessario per attuare il reddito di cittadinanza, il cavallo di battaglia della campagna elettorale di Di Maio&co. C’è invece la proposta della Lega di introdurre la flat tax, misura che favorisce i ricchi pesando sulle spalle degli strati sociali più in difficoltà. Difficoltà che aumenterebbero se venisse attuato questo programma politico, chiamato “contratto” da Salvini e Di Maio con una scelta lessicale già di per sé tristemente significativa.

Come era purtroppo prevedibile il governo giallo verde si tinge anche di xenofobia, minacciando 500mila rimpatri forzati di migranti (che peraltro costerebbero cifre insostenibili ai cittadini), criminalizzando l’immigrazione e, tanto per rendere la vita più difficile a chi ha scelto l’Italia per cercare di rifarsi una vita, togliendo i contributi per gli asili nido per i bambini «extra comunitari». Mentre affossano la riforma del sistema penitenziario, Salvini e Di Maio intendono inasprire le pene, allungare la carcerazione preventiva e, per rispondere all’affollamento delle patrie prigioni, invece di ricorrere a pene alternative, prevedono di costruire nuove carceri e massicce assunzioni di guardie di custodia. In barba all’articolo 27 della Costituzione che parla di pena come rieducazione in vista di un reinserimento nella società (non come vendetta) e condizioni di detenzione che rispettino i diritti umani. Proprio per le inumane condizioni di detenzione in cui sono costretti i carcerati, l’Italia è già stata più volte condannata dalla Corte europea, merita ricordarlo.

Fra i molti punti sbalorditivi (per usare un eufemismo) di queste quaranta pagine di accordo di governo c’è anche una strenua difesa della proprietà privata. Alla voce “legittima difesa” viene cancellata con un colpo di spugna la proporzione fra offesa e difesa, permettendo un giustizialismo pistolero, fai da te, in stile Usa. Fra i moltissimi punti inaccettabili di questo “contratto” forcaiolo, razzista, anti democratico e populista c’è anche un’aperta eurofobia. D’accordo, l’uscita dall’euro ed espressioni di euroscettismo più dichiarato erano nella bozza di accordo che poi è stata emendata. Ma restano, anche nella richiesta di cancellazione del debito, indizi di una relazione muscolare con l’Europa che potrebbe incoraggiare sovranisti in tutta l’Unione. L’esultanza di Marine Le Pen all’annuncio di un governo gialloverde la dice lunga. Già in passato aveva indicato i leghisti come alleati in senso stretto e i grillini come alleati delle idee. Le risuonerà certamente familiare la decisione dei due schieramenti di imporre il vincolo di mandato di memoria fascista ignorando l’articolo 67 della Costituzione che invece prevede che i parlamentari non siano obbligati a votare come dice il loro partito né a rimanere per forza nel gruppo parlamentare del loro partito.

Ci sarebbe molto da dire anche sulla pochezza della proposta culturale: i Cinquestelle “dimenticano” le battaglie contro il consumo di suolo e sposano la logica mercantile della valorizzazione di marca renziana e franceschiniana richiamando espressioni come patrimonio d’arte petrolio d’Italia, con cui da De Michelis in poi tanto è stato fatto per svendere, affossare, alienare i beni culturali. Su questo come sul resto del programma torneremo con vigile attenzione e critiche documentate. Qui ci interessa soffermarci ancora sull’euroscettismo che connota i due partiti che insieme si apprestano a governare. L’anno prossimo ci saranno le elezioni europee e siamo convinti che invece proprio nello scenario europeo si possa esprimere un nuovo internazionalismo di sinistra, necessario per fermare l’avanzata di un nazionalismo egoista e anti storico, ma anche per cambiare l’Europa che fin qui è stata solo un’unione di mercati, che ha fatto l’interesse delle élite senza affrontare il nodo delle disuguaglianze.

Per questo abbiamo chiesto a politologi come Nadia Urbinati e umanisti come Carlo Ossola di rileggere per Left il Manifesto di Ventotene e di parlarci della longeva e fruttuosa storia dell’Europa, che è storia delle università, che è storia dell’arte, una storia lunga centinaia di anni, che non può essere annullata. Per questo abbiamo chiesto ad economisti, politici, parlamentari europei di aiutarci a immaginare un’altra Europa possibile. Democratica, laica, inclusiva. Piccoli passi sono già stati fatti con l’accordo siglato a Lisbona da Bloco, Podemos e France insoumise. è solo l’inizio. C’è spazio per una sinistra europea che rifiuti le istanze neoliberiste e quelle sovraniste, c’è spazio in Italia per una sinistra che faccia davvero opposizione.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Violenza, fame e carestia dietro i bambini soldato. E nel Sud Sudan in 19mila sono ancora reclutati

Popolazione alle prese con il deterioramento della crisi umanitaria in Sud Sudan, in un'immagine diffusa da Oxfam che, con altre 9 organizzazioni umanitarie, ha lanciato un appello alla comunita' internazionale e alle Nazioni Unite per la protezione dei civili e dei volontari, con il rispetto del cessate il fuoco. Quasi cinque milioni, secondo l'organizzazione, le persone senza cibo, 2,5 milioni gli sfollati. Roma, 28 luglio 2016. ANSA/ US OXFAM +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Duecentodieci bambini soldato sono stati liberati il 20 maggio dai gruppi armati in Sud Sudan, è il terzo rilascio di un gruppo di minori avvenuto nel 2018, ma qui termina la buona notizia. L’Unicef stima infatti che rimangono ancora altri 19mila bambini reclutati come soldati nel Paese. Con la guerra che dura ormai da cinque anni e all’orizzonte poche speranze reali per una soluzione, mentre i colloqui per la pace sono in stallo, nessuno sa come e quando terminerà il conflitto scoppiato nel dicembre del 2013.

Nonostante l’Onu abbia emanato protocolli per mettere fine a reclutamenti tra i minori, nel mondo  decine di migliaia i bambini stanno imbracciando un fucile. Molti di loro vivono nel Sud Sudan, uno Stato dove «la cessazione delle ostilità è una finzione, il processo di pace finora non ha prodotto niente, l’economia è collassata, le persone vanno incontro a sofferenze inimmaginabili», ha detto Mark Lowcock, capo ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, in visita nel Paese. Un Paese, ricordiamo, vittima di epidemie e di una carestia costante.

Quest’anno, in totale, 806 bambini soldato sono stati sottratti ai gruppi armati attivi nel Sud Sudan. «Altri mille verranno liberati nei prossimi mesi» ha assicurato Farham Haq, portavoce delle Nazioni Unite. Ma non è solo la violenza delle milizie che contribuisce a creare i bambini soldato. È anche la fame e la miseria. «Non tutti i bambini sono reclutati, molti si uniscono ai gruppi armati perché pensano non ci sia altra opzione» ha detto Mahimbo Mdoe, rappresentante Unicef, che ad aprile, per un altro rilascio aveva ribadito che «il processo di reintegrazione è delicato, dobbiamo garantirlo ai bambini».

Per recuperare i piccoli e farli tornare alla vita normale per tre mesi verranno seguiti con un programma  speciale di educazione. Non è  facile. A febbraio, altri 300 bambini erano tornati alla vita di prima, dopo una cerimonia conosciuta come “l’abbandono delle armi”, un momento più simbolico che altro, in cui si svestono dalla divisa e indossano abiti civili. Serve anche questo per superare un momento così drammatico della propria vita. Se per le ragazze essere reclutate spesso vuol dire stupro e violenza, matrimoni e gravidanze forzate, per i ragazzi significa essere obbligati ad uccidere, spiare membri della loro famiglia o essere costretti al cannibalismo. «I traumi da superare sono immensi» ha detto Mdoe.

Secondo l’ultimo report dell’IPC, Food security Phase Classification, Unicef e Fao, le cifre, per le migliaia di persone rimaste senza alcuna fonte di cibo, in Sud Sudan parlano di una catastrofe umanitaria. Secondo gli ultimi dati, che risalgono al 2017, ci sono 4.8 milioni di persone in emergenza, il doppio rispetto all’anno precedente. Per gennaio 2018 le previsioni allora parlavano di 5 milioni. Tra loro oltre un milione di bambini sotto i cinque anni è a rischio malnutrizione, 300mila ad alto rischio di morte.

A causa del conflitto tra il presidente Salva Kiir e il suo ex alleato e vice presidente Rieck Machar, il conflitto in Sud Sudan continua costantemente dal 2013. Sono oltre 4 milioni i profughi e oltre 50mila le vittime stimate.

 

Nel 2015, 1775 bambini soldato sono stati liberati, ma il reclutamento non si è mai fermato. E infatti il Sud Sudan è uno dei Paesi al mondo con il più alto numero di bambini arruolati, come si può vedere dalla mappa di Child soldiers.

Nel 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato un protocollo per mettere fine ai reclutamenti e nel 2014 è stata lanciata una campagna globale per liberare tutti i bambini dai campi di battaglia. C’è stato qualche successo, le Nazioni Unite sostengono che 115mila bambini sono stati liberati globalmente dal 2000, ma in nazioni devastate dalla guerra come Yemen, Iraq, Sud Sudan i numeri stanno crescendo, si leggeva in una inchiesta della fine del 2017 nel Washington Post.

Se a casa non hanno più le loro famiglie, massacrate da una tribù rivale, se non trovano una fonte di sostentamento, se non scorgono alternative di vita futura, i bambini diventati grandi tornano dai loro carnefici d’infanzia, si uniscono volontariamente a milizie armate etniche, paramilitari, gruppi ribelli, militari ufficiali. E le Ong che si occupano di loro hanno una formula in questi casi: scrivono accanto al loro nome “re-recruited”, ri-reclutati.

 

Allarme dell’Unhcr: 294mila richiedenti asilo in fuga dall’America centrale

epa06710982 Central American migrants cross into the United States at the El Chaparral border crossing, in Tijuana, Mexico, 04 May 2018. The US Customs and Border Protection Office (CBP) continued to receive asylum requests from members of migrant caravans, most of whom remain outdoors at the crossroads between Tijuana, Mexico and San Diego, California, USA waiting for their requests to be reviewed by the authorities. EPA/JOEBETH TERRIQUEZ

Dietro le spalle, mentre corrono, si lasciano  la ferocia e la furia mortali delle loro patrie in America Centrale. «Il livello di violenza è diventato brutale» ha annunciato l’Unhcr con un comunicato sulla situazione dei profughi latinoamericani che nel 2017 hanno raggiunto una cifra record.

Nel 2011 il numero di persone che abbandonava la regione sudamericana si aggirava intorno ai 18mila. Ma secondo i dati appena pubblicati, la stessa cifra è cresciuta del 58%. Sono stati 294mila i richiedenti d’asilo nel 2017 provenienti soprattutto da tre Paesi: Honduras, El Salvador e Guatemala.

Milioni sono scappati nel Nord da questo triangolo mortale, dove si trovano 43 delle 50 città con più omicidi al mondo, dove il rischio di morte per gli abitanti è più alto di quello che vivono i civili in uno Stato in guerra. Luoghi pericolosi, soprattutto per le donne, le “women on the run”, le donne in fuga, come le definisce l’Unhcr.

Chi scappa fugge da violenza organizzata e deportazioni. Tra il 2011 e il 2016, 161mila sudamericani hanno fatto richiesta d’asilo negli Usa, quando i profughi interni erano già 714mila. Molti non ce l’hanno mai fatta e non ce la faranno mai: 75mila persone sono sparite dal triangolo del nord e dal Messico negli ultimi 15 anni.

L’aumento del numero dei richiedenti asilo, cresciuto 16 volte dalla fine del 2011, come dimostrato nel report dell’Unhcr, preoccupa la Casa Bianca. Le gang sud americane sono composte da “animali”, scrivono nel comunicato emesso dagli uffici di Washington. La violenza delle gang è usata per negare l’accesso proprio alle loro vittime in fuga. Ma la stretta sulla migrazione nel Paese a stelle e strisce è cominciata molto prima di oggi.

Il picco nell’aumento di fughe e spostamenti dei migranti in Sud America è legato anche alla politica migratoria degli Stati Uniti: dal 2013 al 2015 il governo di Washington ha fatto espatriare più di 300mila persone, che avevano commesso dei reati, nei tre Stati del triangolo, altri 550mila in Messico. «Il ritorno di tanti con un passato criminale è coinciso con l’aumento della violenza, la politica di deportazione dei latinoamericani è stata espansa durante l’amministrazione Obama» ha scritto meno di un anno fa nella sua inchiesta Robert Muggah sul Guardian.

Oggi bisogna abbandonare anche altri stereotipi. Non si fugge più solo “attraverso”, ma anche “verso”. «Non possiamo più parlare del Messico come un Paese di transito, adesso è definitivamente un Paese di destinazione» ha detto la portavoce dell’Unhcr nel Paese, Francesca Fontanini. Nel 2016 hanno chiesto di rimanere in Messico 9mila profughi, un anno fa sono diventati 14mila. «Le persone che arrivano dicono che il livello di violenza è brutale, sono praticamente prigioniere delle loro case per la mancanza di libertà. Vivono in circostanze traumatizzanti e violente».

A 26 anni dalla strage di Capaci ecco le verità nascoste nei diari di Giovanni Falcone

Francesca Laura Morvillo e Giovanni Falcone in una foto senza data. ANSA / MIKE PALAZZOTTO

Nuovi scenari sulla strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, come si legge nel libro di Edoardo Montolli  I diari di Falcone (Chiarelettere) uscito il 17 maggio e di cui pubblichiamo alcuni estratti

Le agende dimenticate
Giovanni Falcone annotava tutti i suoi impegni su due databank, due agende elettroniche tascabili. Apparecchi che restarono in voga per qualche anno, fin quando la loro funzione non fu sostituita dai cellulari. Quelle di Falcone vennero recuperate poco dopo la strage di Capaci. Una memoria esterna, su cui il giudice riversava i suoi appunti, scomparve per sempre. Ma nei processi, nonostante alcuni punti oscuri rilevati dai due consulenti che le analizzarono, le agende furono liquidate in fretta. Ne fu sminuita la portata. E vennero smentiti alcuni impegni che lui si era segnato e che apparivano su una di esse, risultata misteriosamente cancellata solo dopo il sequestro.
Passò tutto in secondo piano, come il fatto che, dopo la sua morte, qualcuno ne avesse letto i file sui computer al ministero, lasciandovi traccia.


L’indagine, d’altra parte, puntava a prendere gli assassini, i mafiosi che, per ucciderlo, il 23 maggio 1992 avevano fatto saltare in aria addirittura un’autostrada. Un’esplosione perfetta nei tempi e devastante nella portata, simile a un atto di guerra, che Cosa nostra non si era mai sognata di fare prima. E che in seguito non avrebbe più ripetuto. Per più di un paio di decenni, così, le copie cartacee del contenuto delle due agende sono rimaste sepolte negli archivi giudiziari, all’interno delle relazioni che ne fecero i consulenti, senza che fossero più studiate.

La campagna d’odio contro Genchi
Vi sono incappato nove anni fa, quando mi sono occupato di Gioacchino Genchi, vicequestore aggiunto palermitano e consulente di procure e tribunali di mezza Italia in alcuni tra i processi più delicati del paese, che era stato anche uno dei periti a occuparsi di quelle agende. L’altro, l’ingegnere Luciano Petrini, è stato ammazzato molto tempo fa, senza che sia mai stato preso il responsabile.
Genchi era stato consulente del pm Luigi De Magistris nell’inchiesta «Why Not». Era stato scritto e detto che aveva intercettato qualcosa come 350.000 persone. Bollato dall’allora premier Silvio Berlusconi come «il più grande scandalo della Repubblica». Accusato di avere un archivio segreto. Convocato dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, era stato indagato dalla Procura di Roma. Sospeso dalla polizia e successivamente destituito. Non era vero niente: negli anni a seguire i processi penali lo avrebbero visto definitivamente assolto e sarebbe stato reintegrato in polizia. Ma in quei mesi la vicenda occupava ogni giorno le prime pagine dei quotidiani. Lo conoscevo da qualche anno. Ne avevo scritto su alcuni settimanali per poi realizzarne un lungo ritratto su «L’Europeo». All’epoca dirigevo la collana di libri inchiesta «Yahoopolis» della casa editrice Aliberti. L’editore mi chiese così di scrivere un libro-intervista. Genchi non si capacitava della campagna d’odio imbastita nei suoi confronti. E voleva così non solo pubblicare gli atti dell’inchiesta che non gli avevano fatto terminare a Catanzaro, ma far conoscere a tutti il suo intero percorso professionale, che coincideva con le indagini sui veleni di Palermo e con quelle sulle stragi del 1992. Le sue mai concluse consulenze sulla strage di Capaci e su quella di via D’Amelio. Quando è uscito il libro Il caso Genchi c’è stato un diluvio di polemiche. Richieste di sequestro, cause civili e penali inoltrate da un gran numero di esponenti istituzionali. Da parte mia ho avuto tuttavia come la sensazione che, comunque la si vedesse, non fosse stato detto tutto sul suo lavoro.
Soprattutto per ciò che riguardava le indagini del 1992.
Ho cominciato così a riprendere in mano i contenuti dei due databank, che Genchi mi aveva consegnato insieme a gran parte del suo lavoro utile a stilarne una biografia. Raccontavano molto degli ultimi mesi del giudice, delle sue frequentazioni e delle sue amicizie: dettagli che, come le sue convinzioni su Cosa nostra, i suoi appunti e i suoi stessi verbali, erano stati interpretati in più modi, e mai presi alla lettera.
Ma, riguardandoli bene, studiandoli a fondo, i databank rivelavano anche altro.
Confrontandoli con l’agenda grigia di Paolo Borsellino – l’unica rinvenuta –, con gli eventi di quegli anni e con una lunga serie di atti processuali, ma anche con gli scritti e i verbali di Falcone, emergevano diversi nuovi misteri, a partire dalla genesi stessa della strage di Capaci e dal racconto che ne avevano fatto gli esecutori.

Qualcuno sapeva
Cos’accadde allora? È una domanda che continuo a pormi. Di certo, come si vedrà in questo libro, se vogliamo accettare l’idea che la strage di Capaci e quelle successive siano state esclusivamente opera di Cosa nostra, non dobbiamo solo ignorare le anomalie sui reperti informatici di Falcone e ciò che vi era scritto, non dobbiamo solo ritenere marginale ciò che accadde a Paolo Borsellino nei cinquantasette giorni in cui rimase ancora in vita, no.
Dobbiamo accettare anche che più di qualcuno sia stato in grado di leggere il futuro e trasformarsi in un infallibile veggente. Uno su tutti il pentito dei due mondi, Tommaso Buscetta, che, lontano da tantissimi anni dall’Italia e sotto protezione negli Stati Uniti, riuscì a prevedere gli attentati al nostro patrimonio artistico prima ancora che fossero ideati proprio dai suoi acerrimi nemici, con cui evidentemente non aveva contatti.
Un suo incontro con Falcone a Washington, un mese prima della morte del giudice, venne confermato da autorevolissimi esponenti istituzionali americani e italiani. Negli stessi giorni Falcone aveva annotato sull’agenda rinvenuta un viaggio negli Stati Uniti. Il viaggio fu smentito dal ministero e dalle autorità. Ma cosa avrebbe fatto in quei giorni nessuno lo disse mai.

Il libro I diari di Falcone di Edoardo Montolli, autore di diverse inchieste su fatti di cronaca e vicende politiche e giudiziarie in Italia, riguarda le verità nascoste dentro le agende elettroniche di Giovanni Falcone e recupera materiali che erano stati trascurati nelle inchieste della magistratura. Tra depistaggi, falsi testimoni e morti sospette, il libro traccia un quadro inedito sulla morte del giudice dimostrando come essa vada inserita all’interno di una più generale strategia di destabilizzazione che ha interessato il nostro Paese. Nel libro c’è anche una intervista inedita all’avvocato Salvatore Petronio che difese Salvatore Biondino, considerato il trait d’union tra Riina e il commando degli attentatori.

L’abito e il monaco

Lo screenshot del sito dell'Associazione Civilisti Italiani (associazionecivilistiitaliani.eu/soci/soci-effettivi/ 200-conte-giuseppe) che pubblica il curriculum di Giuseppe Conte. 22 maggio 2018. ANSA/ ASSOCIAZIONE CIVILISTI ITALIANI +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Ricapitolando, anche se non è di questo che mi interessa parlare: il New York times racconta che la New York University smentisce di avere registrato Giuseppe Conte (premier in pectore del governo Lega-Movimento 5 Stelle) tra i propri corsisti. In realtà alcuni professori hanno però ammesso di avere avuto rapporti con lui. Sembra più una leggerezza di dicitura che una vera e propria bugia.

Poi Cambridge (che compare nel curriculum di Conte) dice di non trovare il nome di Conte tra i propri archivi. Verrebbe da pensare che forse il “perfezionamento di studi” scritto da Giuseppe Conte nel proprio curriculum forse abbia un senso diverso da quello che comunemente si intende.

Sempre di “perfezionamento degli studi di Diritto” si parla nel curriculum riferendosi all’International Kultur Institut di Vienna. Peccato che sia una scuola di tedesco e che, come fanno sapere loro stessi, non abbia nulla a che vedere con il Diritto.

Poi Conte scrive di essere stato «designato» a far parte del Social Justice Group istituito presso l’Unione europea. Peccato che non esista nulla. Esisteva un collettivo nei primi anni 2000 con quel nome dal nome “Social Justice in European Private Law” e che aveva pubblicato un Manifesto che Conte, come molti altri, aveva semplicemente firmato, come si firmano le petizioni online. Martijn Hesselink, capo dei professori che ha coordinato la stesura del documento, ha detto al Post che Conte «non è stato membro del Social Justice Group che ha scritto, firmato e pubblicato il manifesto».

Conte scrive di essere «consulente legale della Camera di commercio, dell’industria e dell’artigianato di Roma»: ha svolto una consulenza, una sola, nel 2008.

Conte dice di essere membro della “Association Henri Capitant des amis de la culture juridique française”: per iscriversi basta pagare una quota. Non ha mai avuto nessun tipo di incarico.

Conte sostiene di avere fondato lo studio legale Alpa (“Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare”, si legge sul curriculum) e dallo studio fanno sapere che è un semplice collaboratore.

Dalla Duquesne University di Pittsburgh una fonte contattata dal Messaggero, ha fatto sapere che «Giuseppe Conte non è presente nell’archivio come studente dell’università, non ha quindi mai frequentato alcun corso ufficiale. Potrebbe avere condotto le sue ricerche in modo indipendente».

Conte aveva scritto nel suo curriculum di aver «svolto attività di ricerca presso la Duquesne University di Pittsburgh (PA – USA)» nel 1992. Anche l’University of Malta, contattata dal Messaggero, ha confermato che «non c’è traccia che Giuseppe Conte abbia mai fatto parte del corpo docenti permanente dell’università».

Giuseppe Conte, tra l’altro, è stato uno dei sostenitori del metodo Stamina che ha portato alla condanna di Davide Vannoni, promotore di un trattamento sanitario che si è dimostrato senza nessuna base scientifica. Non è stato solo il legale difensore di una famiglia che chiedeva di poter accedere alle fantomatiche cure ma è stato anche indicato anche promotore del comitato che chiedeva di riconoscere il metodo Vannoni.

Ma non è questo che ci interessa. Interessa forse di più l’abitudine (pessima, molto italiana) di gonfiare (o taroccare) un curriculum per imbellettare l’abito che fa il monaco e intanto sciorinare l’appartenza al popolo, la meritocrazia, pensando che l’investitura a presidente del Consiglio non scateni le normali indagini giornalistiche (che invece diventano attacchi dei poteri forti) e senza prendersi la briga di spiegare, semplicemente.

Buon mercoledì.

Sesso amaro. In un libro la lotta delle donne dell’Udi per la 194

Lecce, manifestazione dell'usi

«Ho trentasei anni, sono sposata con cinque figli. Ho fatto nove aborti procurati, e tre me li sono fatti da sola con l’aiuto di mio marito. Tre volte sono andata in ospedale, dove mi hanno fatto il raschiamento; una volta sono andata all’ospedale che ero in coma. Sei volte sono andata ad abortire nel Meridione perché si spendeva meno. Se uno mi chiede perché lo facevo, rispondo che nessuno mi ha mai detto cosa fare per prevenire una gravidanza».
A parlare è una casalinga di Ferrara, poi è la volta di un’insegnante di Conegliano Veneto: «Una mia collega di trentacinque anni ha fatto undici aborti perché se usasse gli anticoncezionali il marito non sopporterebbe di stare con lei, gli sembrerebbe di stare con una prostituta».

Sono solo alcune delle drammatiche storie di donne raccolte nel libro Sesso amaro. Trentamila donne rispondono su maternità sessualità aborto dall’Unione Donne in Italia. La prima edizione è del gennaio 1977. Un anno, e qualche mese dopo, sarà approvata la legge 194 del 22 maggio 1978, comunemente conosciuta come la legge sull’aborto. Rileggerlo oggi, quel libriccino di 200 pagine scarse ma così importante per la mole e il significato delle testimonianze raccolte in quasi duemila incontri, è fare un tuffo in un passato che pare lontanissimo nelle conoscenze ormai comuni sulla sessualità, sulla maternità e in definitiva sulla fondamentale libertà di scelta delle donne di diventare o meno madri. La sua lettura permette di fotografare e conoscere la realtà di allora, di appena 40 anni fa, scandita da prevaricazioni, ignoranza, solitudine e sofferenze delle donne. E di capire perché fosse così importante e necessaria una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza.

«La legge 194 è la conclusione di un lungo cammino, iniziato negli anni Sessanta, scandito dalle battaglie di tante donne che aspiravano ad una società più giusta e paritaria per la donna riconosciuta in quanto soggetto libero di scegliere – commenta Vittoria Tola, fino a pochi mesi fa responsabile nazionale dell’Udi, dove ha iniziato a militare nel 1974, anno del referendum sul divorzio -. Erano anni di discussioni feroci anche tra noi, portatrici di esperienze e culture diverse. Quello che ci accomunava era il desiderio di cambiare una società patriarcale dove le donne erano considerate degli oggetti cui veniva imposta la sessualità maschile che spesso sfociava in tante, troppe, maternità indesiderate». Due testimonianze, sempre tratte da Sesso amaro, illustrano bene la situazione del tempo: «Ho sessant’anni e ho avuto cinque figli perché mio marito ne voleva molti. Spesso mi alzavo presto alla mattina per evitare di avere rapporti». E ancora: «Ho avuto tre figli e ho abortito due volte. Abortire mi faceva molta paura ma non potevo farne a meno e mio marito lo sapeva, anzi era lui a spingermi. Quando facevamo all’amore gli dicevo sempre di stare attento. Mi era venuta addirittura la “corridoite”. Sapete cos’è? Non era altro che un andare e venire per il corridoio aspettando che mio marito si addormentasse».

È infatti solo del 1971 la sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittimo l’articolo 553 del codice penale che vietava la propaganda sugli anticoncezionali, ritenuti un reato «contro l’integrità e la sanità della stirpe». Dello stesso anno è anche il primo progetto di legge, a firma socialista, per disciplinare la delicatissima materia dell’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg). Ma a porre per la prima volta la questione sotto i riflettori fu un’inchiesta del 1961 curata dal settimanale dell’Udi, Noi Donne, che calcolava che ogni 100 concepimenti erano almeno 50 le gravidanze artificialmente interrotte, molte di più dei dati ufficiali. Nel frattempo il pontefice di allora, Paolo VI, invitava a «non diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita».

«Nel 1965 Noi Donne esce con un grande titolo provocatorio: “Quanti ne vogliamo? Quando li vogliamo?” – precisa Tola -. Il tema della maternità consapevole e dell’autodeterminazione erano temi sempre più sentiti, anche se dovevamo lottare contro la dura opposizione cattolica e delle forze politiche che a questa si rifacevano. Un primo passaggio importante è stata la riforma del Diritto di famiglia del 1974, ma la svolta decisiva è arrivata nel 1975 con una sentenza della Suprema corte che affermava il principio della superiorità della vita e della salute della donna su quella del nascituro». Ad aprile dello stesso anno, viene approvata la legge che istituisce i consultori familiari che hanno tra gli scopi la divulgazione dei mezzi contraccettivi.

Sempre nel 1975, farà scalpore l’arresto di tre radicali – tra cui Emma Bonino – dopo essersi autodenunciati per aver praticato degli aborti. Sull’onda delle manifestazioni e delle proteste, della rivoluzione culturale e sessuale che stava coinvolgendo la società italiana, la campagna abortista viene portata avanti e nei tre anni successivi si susseguono discussioni parlamentari, fitte assemblee dei movimenti femministi e proposte di referendum su quelli che diventeranno i nodi centrali del dibattito: aborto sì o aborto no? E di chi è l’ultima parola? Per il Pci la decisione finale spetta ad una commissione composta da due medici e un’assistente sociale; i liberali invece propongono solo una parziale legalizzazione dell’interruzione di gravidanza, e solo nei casi di necessità grave ed obiettiva; mentre per la Dc l’aborto resta un reato prevedendo solo in determinate circostanze la possibilità di concedere alla donna un’attenuante. Dal fronte opposto, il Partito radicale ne chiede la completa liberalizzazione, avanzando l’idea di “aborto libero” che però non convince i gruppi femministi che reclamano l’assistenza medica statale per la donna. È infatti solo del dicembre 1978 l’istituzione del servizio sanitario nazionale.

«La 194 ha realizzato un compromesso sottilissimo ma ragionevole, ed essenzialmente ha accolto le proposte delle donne e dell’UDI: l’aborto è legale e l’ultima parola è sempre e solo della donna – commenta ancora Tola – Inoltre, aspetto importantissimo, è stato previsto che la donna possa rivolgersi a strutture pubbliche, e che l’Ivg sia un intervento pubblico, per scongiurare il pericolo che l’aborto diventasse un diritto solo per chi disponeva di mezzi economici adeguati. Il nostro obiettivo era infatti sconfiggere l’aborto clandestino per sconfiggere l’aborto». E il tempo ha dato ragione alle donne di allora, le Ivg sono drasticamente diminuite e le donne hanno smesso di morire d’aborto. «Come sappiamo oggi l’attuazione effettiva della 194 è messa in pericolo dall’altissimo numero degli obiettori di coscienza e dalla riduzione drastica dei consultori e degli operatori che vi lavorano – conclude Tola – In una società nella quale prevalgono le opinioni a discapito delle informazioni, c’è insomma ancora molto da fare».

Quanto è avara l’Unione europea con la ricerca: i fondi sono lo 0,8% del totale mondiale

epa06743702 European Commission President Jean-Claude Juncker waits for the start of a round table meeting at an informal European Union (EU) summit with Western Balkans countries at the National Palace of Culture in Sofia, Bulgaria, 17 May 2018. EU leaders will discuss a European future for the Western Balkans, and the response to President Trump's policies on trade and Iran. EPA/DIMITAR DILKOFF / POOL

Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, ha già fatto marcia indietro. Per il nono programma quadro della ricerca, denominato Horizon Europe valido per il periodo 2021-2027, Bruxelles chiede agli Stati membri di approvare un budget di 100 miliardi di euro. Un discreto aumento, del 30 per cento, rispetto all’ottavo programma quadro (anni dal 2014 al 2020), denominato Horizon 2020, che ha un budget di 77 miliardi di euro. Ma molto meno di quanto Juncker aveva all’inizio sperato. La sua proposta iniziale era stata di raddoppiare il budget per la ricerca, portandolo a 160 miliardi di euro. «Se arriviamo a questa cifra – aveva detto – entro il 2040 avremo creato 650mila posti di lavoro qualificato in più e aumentato il Prodotto interno lordo dell’Unione dello 0,5%». Questa proposta aveva ottenuto a marzo il sostegno di 13 grandi organizzazioni scientifiche e universitarie, tra cui la European university association (Eua), che a sua volta rappresenta 800 istituzioni dell’Unione.
Jean-Claude Juncker, consapevole delle difficoltà, aveva ventilato anche un piano meno ambizioso: portare il budget di Horizon Europe a 120 miliardi di euro. «Il che significherà comunque – sosteneva – un aumento di 420mila posti di lavoro qualificato in più e un aumento del Pil dell’Unione dello 0,3% entro il 2040».
Ma anche questa proposta meno ambiziosa è stata, di fatto, bocciata. La Commissione è stata costretta – dai veti dei vari Paesi – a ridurre le ambizioni di spesa ad appena 100 miliardi. E poiché questi soldi saranno spalmati su un periodo di sette anni, significa che Bruxelles investirà in ricerca una cifra media annua di 14,3 miliardi di euro. Poco più di una goccia non solo nel mare mondiale degli investimenti in ricerca, ma anche nel mare locale dei Paesi dell’Unione.

Le cifre parlano da sole. Il mondo intero investirà nel 2018 qualcosa come 1.825 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Gli investimenti più importanti saranno a opera degli Stati Uniti, con 461 miliardi di euro, e della Cina, con 396 miliardi di euro. I 14 miliardi che Bruxelles spenderà a partire dal 2021 sono lo 0,8% del totale mondiale: poco più che nulla. Ma rappresentano anche il 3,0% degli investimenti Usa e il 3,5% di quelli della Cina.
Certo, gli investimenti totali in ricerca dei 28 Paesi dell’Unione europea (includiamo ancora il Regno Unito) ammontano a 335 miliardi di euro. Ma questo è il punto critico: gli investimenti decisi a Bruxelles sono appena il 4,2% della spesa complessiva in ricerca nell’Unione. Una quota marginale. Che non contribuisce affatto a realizzare il sogno che era stato di Antonio Ruberti: la creazione di «un’area comune della ricerca», premessa indispensabile per mettere l’Europa in grado di competere con i giganti della società e dell’economia della conoscenza, non solo gli Stati Uniti e la Cina, ma anche il Giappone, la Corea del sud e una costellazione di altri Paesi, la gran parte dei quali localizzati nel sud-est asiatico.

Ci sono due aspetti, uno quantitativo e l’altro qualitativo che minano alla base la possibilità per l’Europa di essere gigante tra i giganti. Negli anni 90 del secolo scorso, l’allora presidente della Commissione europea, il francese Jacques Delors, lanciò un progetto ambizioso: fare dell’Europa l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza. Il progetto fu approvato dal Consiglio dei ministri europeo nell’anno 2000 a Lisbona con un’indicazione precisa: dovremo essere i primi entro il 2010. E, due anni dopo, nel 2002, a Barcellona fu deciso anche come: portando gli investimenti in ricerca al 3,0% del Pil. Questo obiettivo quantitativo è stato più volte mancato.
Da un quarto di secolo l’Unione investe in ricerca stabilmente meno del 2,0% del suo Pil, contro il 2,8% degli Usa e, ormai, il 2,1% della Cina o il 3,3% del Giappone. L’Europa non si è mossa di un centimetro e ormai non tiene più il passo degli altri.
Il secondo elemento, qualitativo, di debolezza dell’Europa è proprio la quota marginale degli investimenti decisi a Bruxelles. Il 96% della spesa è decisa in 28 diverse capitali, secondo criteri diversi e spesso divergenti. L’esatto contrario di quanto avviene a Washington o a Pechino o a Tokio. In definitiva, l’Europa non ha una sua organica e incisiva politica della ricerca. Ciò non impedisce alla Germania e agli altri Paesi dell’area teutonica che dal versante settentrionale delle Alpi alla Scandinavia di fare bene. Ma tutti gli altri, chi più chi meno, fanno fatica a entrare da protagonisti nell’economia fondata sulla conoscenza. Il budget proposto dalla Commissione, persino nella sua forma più pingue e rapidamente abortita proposta da Jean-Claude Juncker, non è minimamente sufficiente a colmare né il gap quantitativo né quello qualitativo dell’Europa.

Ma a chi andranno questi 14 miliardi di euro per anno? Non lo sappiamo, naturalmente. Perché si tratta, per lo più, di finanziamenti a progetti che prescindono (o, almeno, dovrebbero prescindere) considerazioni di tipo geografico. Insomma, saranno premiati i progetti migliori senza tener conto della provenienza dei proponenti.
Tuttavia due considerazioni possono essere fatte. Una quota parte, certo, andrà alla ricerca di base. Ma questa quota, ancora difficile da definire, sembra essere sempre più piccola rispetto al passato e, comunque, rispetto a quello che molti considerano il necessario. Si sta imponendo in Europa – anche in Europa – l’idea che la ricerca debba produrre risultati immediatamente spendibili sul mercato. Ne consegue che la gran parte degli investimenti e in quota crescente andrà alla ricerca applicata e all’innovazione tecnologica. Dimenticando che il motore primo della produzione di nuova conoscenza è la ricerca curiosity-driven, quella che soddisfa la curiosità dei ricercatori senza la pressione di applicazioni immediate.

Per quanto riguarda i Paesi di provenienza dei ricercatori che vinceranno i progetti di Horizon Europe non possiamo che rifarci alla serie storica, non potendoli prevedere a priori. Per il programma attualmente in corso, Horizon 2020, l’Italia ha vinto progetti intorno al 9% del totale. Una percentuale abbastanza lontana dalla quota con cui l’Italia partecipa al budget europeo, che è del 14%. Sembrerebbe, dunque, che la scienza italiana è perdente.
Tuttavia bisogna tenere in conto che i ricercatori italiani sono all’incirca il 7% del totale europeo. Se hanno ottenuto il 9% delle risorse significa che, singolarmente, sono stati più bravi della media dei colleghi europei. È il nostro paradosso, i ricercatori italiani sono pochi ma buoni.
Non solo, data la scarsità di risorse nazionali, i ricercatori italiani giocano più degli altri la carta europea. Tentano anche quando, forse, non potrebbero. E, infatti, il tasso di successo di un progetto italiano presentato in Europa non supera il 7,5%. Tutti fanno meglio. Il tasso di successo più alto è quello tedesco (15,3%, il doppio di quello italiano). Ma meglio di noi fanno anche, nell’ordine, francesi, olandesi, inglesi e spagnoli. Anche in questo caso la spiegazione è relativamente semplice. Non solo gli italiani tentano (sono costretti a tentare) di più, scontando un maggior tasso di insuccesso. Ma si muovono in maniera non sempre coordinata. D’altra parte il nostro rapporto con Bruxelles è, non solo nel campo della ricerca, strutturalmente debole e frammentato.In definitiva, l’aumento del 30% del budget della ricerca non sarà sufficiente a modificare il peso relativo dell’Unione nel mondo, né a creare l’area comune vagheggiata da Ruberti. Ma potrebbe essere una buona opportunità per i ricercatori italiani, soprattutto se il Paese sarà presente nei centri decisionali dell’Unione con maggiore forza, sistematicità e organizzazione.

La battaglia culturale contro le mutilazioni genitali per salvare migliaia di donne in Italia

È una pratica definita illegale in tanti Paesi, ormai. La mutilazione genitale femminile è bandita dalle convenzioni internazionali e tutti gli Stati europei hanno adottato politiche per contrastarla insieme a disposizioni penali, tra cui il principio di extraterritorialità del reato, vigente anche in Italia. Eppure i principi normativi, sebbene fondamentali, non bastano.

Intanto, perché i casi riportati dai tribunali italiani sono esigui rispetto all’ampiezza (stimata) del fenomeno. Poi, perché è in aumento l’esposizione al rischio delle bambine che, in Europa, ne coinvolge 180mila di cui oltre settemila in Italia, dove si stimano trentacinquemila vittime. E, non ultimo, perché «bisogna spiegare che le mutilazioni genitali femminili non sono solo, per quanto gravissima, una violazione del corpo della donna ma sono anche una violazione dei diritti umani», dice a Left, Marwa Mahmoud, la responsabile educazione interculturale Mondinsieme del Comune di Reggio Emilia e membro dell’Action group di Fondazione L’albero della vita. E, «a mio avviso – continua – sono una vera e propria discriminazione di genere poiché vanno ad agire sul corpo della donna in termini di aspettative sociali».

Condannare la pratica è d’obbligo «ma non con un j’accuse: l’approccio più efficace è far capire loro che intervenire sul corpo di una donna non spetta a un altro essere umano, attraverso la costruzione di una consapevolezza che le liberi dai meccanismi di quelle aspettative (da non deludere)», aggiunge Marwa Mahmoud. Perché, precisa, «per le donne provenienti da Paesi con questa tradizione, non è subire violenza, è solo una prassi che viene perpetuata, un’iniziazione all’età adulta praticata per il raggiungimento del loro benessere: ci ritrovano una positività, è culturalmente accettata». Ed è per questo che «il tema va affrontato in un quadro più generale, più costruttivo e propositivo, orientandolo verso la consapevolezza dell’esistenza dell’identità delle donne, delle pari opportunità e dei diritti di tutte», chiosa Marwa Mahmoud.

A qualsiasi cultura appartengano. Perché «sebbene si tenda a classificare l’escissione come una pratica legata alla religione, in realtà è proprio di origine tradizionale», spiega la Desk officier Europa di Fondazione L’albero della vita, Daria Crimella. Che prosegue: «Bisogna lavorare – così come si è proceduto con il progetto Changing attitude fostering dialogue to prevent Fmg (Chat), presentato il 16 maggio scorso al Senato, nel corso del convegno “Mutilazioni genitali femminili: il fenomeno in Italia e in Europa”. Un momento di confronto tra istituzioni, società civile e imprese, organizzato da Fondazione L’albero della vita – in seno alle comunità a tradizione escissoria per agire il cambiamento internamente, con un coinvolgimento a cascata, ingaggiando anche il settore privato che funge da grancassa di risonanza e promuovendo il co-sviluppo come ponte tra i Paesi europei e quelli di origine (che hanno fatto grandi passi avanti per combattere le mutilazioni genitali femminili), tramite le ambasciate e i consolati in quanto strumenti di sensibilizzazione istituzionali».

A conferma delle dimensioni allarmanti del fenomeno in Europa, c’è da segnalare l’intervento del Parlamento europeo che, nelle direttive relative alla richiesta d’asilo, ha apportato delle modifiche, nell’ottica di un approccio di genere, secondo le quali le vittime di mutilazioni genitali femminili possono fare domanda d’asilo, intendendo la pratica come una vera e propria forma di persecuzione. Datata 2013, la revisione (con la specificità di genere) del quadro normativo sull’asilo nell’Unione europea è ancora poco conosciuta. E poco applicata.

Eletto dal popolo

Giuseppe Conte in una immagine del 01 marzo 2018 in occasione della presentazione della squadra di governo del M5S a Roma. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Movimento 5 Stelle e Lega Nord hanno corso alle ultime elezioni da avversari. Se le sono date di santa ragione, anche. E se due partiti se le danno si santa ragione, inevitabilmente, significa che in quel momento sono convinti di avere differenze irredimibili di programma e, in questo caso, di valori etici. I leghisti dicevano descrivevano i grillini come impreparati, fanfaroni, non credibili; i grillini descrivevano i leghisti come ladri, servi di Berlusconi, pericolosi e molto altro.

Non solo: il Movimento 5 Stelle ha sempre detto di non volere nemmeno immaginare un accordo con i partiti. La diversità del Movimento stava proprio nel ritenere tutti uguali gli altri, inconciliabili con i valori del Movimento. La Lega, dall’altra parte, rivendicava l’appartenenza alla coalizione di centrodestra (ricordate? Salvini voleva esserne il leader, fin dalla campagna elettorale). In sostanza si sono presentati agli elettori così.

Poi: la contestazione fatta al Partito democratico nel corso degli ultimi governi (con tutte quelle che invece nel merito si sarebbero potute fare) fu di avere messo alla presidenza del consiglio Matteo Renzi che alle elezioni non si era nemmeno presentato come semplice parlamentare. Dissero (sia Salvini che di Maio) che un governo non uscito dalle urne è una forzatura del presidente della Repubblica. Inaccettabile, dicevano.

Ancora: tra le diverse contestazioni fatte al governo Renzi ci fu quella di essere avvenuto quando gli equilibri politici erano ormai cambiati. In sostanza l’accusa era di essersi presentati alle elezioni da alleati con la sinistra e poi avere cambiato gli equilibri.

Bene. Facciamo un patto. Quello che sta accadendo ora (e non si dica del contratto di governo perché ogni governo nel momento in cui chiede la fiducia al Parlamento ovviamente illustra un programma, senza bisogno della metafora berlusconiana del contratto) è politica. Mettiamoci d’accordo: o quelli di prima erano pessimi e quindi sono pessimi anche questi, oppure semplicemente la politica e le mediazioni funzionano così, come stabilito nei termini della Costituzione. Almeno questo, prima di partire.

Buon martedì.

Come e perché la vita umana inizia alla nascita

La legge 194, decriminalizzando e disciplinando le modalità di accesso all’aborto, è stata una grande conquista per l’identità delle donne. Con la sua approvazione nel 1978 venne riconosciuta la libertà di autodeterminarsi al di fuori del controllo del “pater familias”, sia esso il padre o il marito, della Chiesa e dello Stato. Fino ad allora erano costrette a praticare l’interruzione nella clandestinità con gravi conseguenze per la loro salute, per il rischio di vita, con ripercussioni legali e condanne morali. Come recita la legge, prevale «la volontà della donna e il suo diritto alla vita ed alla salute sia fisica che psichica perché già persona rispetto all’embrione che persona deve ancora diventare». L’aborto è permesso nei primi 90 giorni di gravidanza: esso è concesso fino al quarto e quinto mese di gestazione solo per finalità terapeutiche, come gravi malformazioni fetali e pericolo per la salute della madre.

Stefano Rodotà, citando Barbara Dunen, ricordava che il corpo della donna è stato storicamente oggetto di potere, «un luogo pubblico» di cui ci si sarebbe potuto impadronire, soprattutto da parte dell’uomo, che in qualità di marito, avendo elaborato una complessa simbologia anche giuridica, la sottoponeva al suo potere e ai doveri matrimoniali. In Italia da non molto tempo ci siamo liberati di una violenta discriminazione politica, ad opera dello Stato, che escludeva il genere femminile dal voto. Un’ingiusta visione giuridica colpiva solo la donna con una sanzione penale se commetteva adulterio, mentre l’uomo in circostanze analoghe ne era esente. Recentemente è avvenuta una lenta opera di liberazione che ha fatto cadere una serie di vincoli legali come la proibizione della propaganda anticoncezionale perché ritenuta anticostituzionale, la depenalizzazione dell’aborto e la legge sul divorzio, dispositivi del diritto che penalizzavano soprattutto le donne e la libertà di decidere della propria vita e del proprio corpo.

Gli studi statistici ci informano che in questi ultimi anni gli aborti in Italia sono andati progressivamente a diminuire configurando una maggiore consapevolezza per l’uso dei farmaci anticoncezionali nonostante l’assenza di informazione da parte dei ministeri della Salute e della Pubblica istruzione. È comunque recente la battaglia condotta dal ginecologo Silvio Viale (ex presidente del comitato nazionale dei Radicali italiani) sulla liberalizzazione anche in Italia della pillola Ru486 per l’interruzione farmacologica della gravidanza che avrebbe reso quest’ultima meno invasiva e punitiva. Purtroppo per la somministrazione della Ru486 è stato deciso l’obbligo del ricovero ospedaliero, vincolo non presente in altri Paesi: lo scopo del legislatore è di rendere difficile la procedura per scoraggiarne l’utilizzo. Da poco, finalmente, è commercializzata liberamente ElleOne, una pillola anticoncezionale del giorno dopo che può essere assunta anche a distanza di 5 giorni da un rapporto: per acquistarla in farmacia non è necessaria la prescrizione medica. La ricerca scientifica ha permesso una contraccezione sempre più sicura e meno invasiva e tecniche di fecondazione medicalmente assistita che consentono la libertà di decidere, se e come avere figli e in quale periodo della vita. La liberazione dal vincolo esclusivo della procreazione rende possibile la realizzazione di qualità identitarie per millenni negate. La scienza ha riscattato il corpo della donna da antiche discriminazioni e servitù ma non è stata seguita da un equivalente cambiamento culturale.

Nella sua forma originaria, la regolamentazione della legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita del 2004 è stata stupidamente contraddittoria e ha avuto come scopo quello di esercitare veri e propri soprusi in più articoli: essa ha violato non solo la Costituzione – come hanno stabilito negli anni fino a smantellarla quasi del tutto diverse sentenze della Consulta – ma anche i diritti umani, ad esempio imponendo alla donna di farsi impiantare gli embrioni creati su sua richiesta senza la diagnosi pre-impianto (come rilevato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012). In difesa della incoerenza del decreto legislativo venne utilizzato in maniera terroristica il termine “eugenetica” che storicamente ha riguardato i progetti di pianificazione sociale delle nascite e non ha niente a che vedere con queste forme avanzate di diagnosi e cura.

Dal 1978 molti sono gli ostacoli che hanno reso difficile e spesso umiliante la messa in pratica della legge per l’obiezione di un’alta percentuale di operatori nelle strutture pubbliche. La stabilità delle battaglie vinte non è così scontata perché contemporaneamente il potere essenzialmente maschile attraverso la manipolazione delle norme giuridiche cerca di riprendersi tutto quello che era sfuggito al suo controllo proponendoci una nuova restaurazione.

D’altra parte “il diritto” non può neanche essere a servizio di una ideologia, di una professione di fede o di credenze che non possono essere tradotte in parole giuridiche e imposte a tutti.

L’alleanza millenaria e perversa della razionalità della cultura greca-romana con l’illuminismo e il pensiero religioso del cristianesimo (fede e ragione) ha escluso la donna non solo dal concetto di persona titolare di diritti ma ha annullato con essa una componente specifica ed essenziale della realtà umana: il pensiero irrazionale e non cosciente.

L’ideologia cattolica, che ha reso difficile in Italia l’attuazione della legge 194, considera l’aborto alla stregua di un omicidio opprimendo le donne con un senso di colpa che può accompagnarle tutta la vita. Il rapporto sessuale viene considerato finalizzato alla sola procreazione, evento che non appartiene alla sfera dell’umano, ma del divino. Lo zigote già nella sua costituzione sarebbe persona in base ad un pregiudizio ideologico. L’identità umana sarebbe tale solo in base al suo genoma, che invece è solo un punto di partenza, una potenzialità per la costruzione della biologia umana, ma non è esso stesso “persona”. Dal punto di vista strettamente biologico le sequenze nucleotidiche del Dna dello zigote o della blastocisti sono necessarie ma non sufficienti a definire una singolarità umana biologica che in utero si modifica in base agli stimoli biologici epigenetici. Può un embrione senza una corteccia cerebrale formata essere considerato “persona” e quindi soggetto di diritto, senza far ricorso, come vorrebbero i cattolici, all’idea di anima che scende dal cielo e dà vita ad una materia biologica altrimenti inerte? Si può essere liberi di credere che lo Spirito santo si insedi in una cellula ma non si può scambiare questa credenza per un’evidenza scientifica. Solo intorno alla 23esima settimana sono presenti le connessioni tra organi di senso e corteccia che rendono possibile la capacità di reagire ad uno stimolo esterno e quindi la possibilità di vita in caso di nascita prematura. La nascita umana, scoperta dallo scienziato Massimo Fagioli, è un evento trasformativo, una cesura tra stato fetale e neonatale. Il feto ha solo una specificità biologica e somatica poiché il cervello si struttura morfologicamente ma non è presente attività mentale. La realtà psichica emerge dalla materia biologica per effetto della stimolazione ambientale in particolar modo della luce che attiva la sostanza cerebrale attraverso processi cosiddetti “epigenetici” che consentono la lettura di geni, specifiche sequenze di Dna, silenti nel feto. Sia il pensiero religioso che quello illuminista-positivista negano la nascita evento originario e trasformativo della biologia umana e con esso la realtà psichica fatta di immagini, affetti, fantasia.

Si viene in tal modo a negare anche la peculiarità della sessualità uomo-donna che emerge con l’adolescenza: con il cambiamento fisico compare una trasformazione psichica che realizza un’immagine del diverso da sé ricreando il primo anno di vita senza coscienza e parola. L’adolescenza è un evento importante che coinvolge mente e corpo: non sempre, per la giovane età, alla creatività fisica e psichica del rapporto può seguire una gravidanza con un bambino. È fondamentale, per lo sviluppo sano degli adolescenti, la comprensione e la realizzazione della sessualità non scissa dalle immagini e dagli affetti. L’informazione sulla contraccezione dovrebbe iniziare molto presto nelle scuole: il pensiero cattolico che subordina la sessualità alla sola procreazione, crea inutili sensi di colpa e attacca la creatività del rapporto uomo-donna, viene negata la dialettica che si istaura con la diversità dell’altro e con la sua immagine e con essa la possibilità di comprendere la verità dell’essere umano.

L’articolo della pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti è stato pubblicato su Left dell’11 maggio 2018


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