Home Blog Pagina 735

Se l’architettura diventa più sociale

«Il nostro cliente è la Terra: luce, sole, ombra, la forza di gravità sono gli elementi con cui l’architettura si relaziona. Su queste risorse gratuite e sulle qualità ad esse legate concentreremo la nostra attenzione. Invitiamo tutti i partecipanti a rivelare il proprio freespace, così che insieme si possa mostrare la capacità dell’architettura di collegarsi al tempo, al luogo, alle persone». Questo in sintesi il contenuto di Freespace, il manifesto programmatico della prossima Biennale di architettura che apre i battenti il 26 maggio e resterà in scena fino al 25 novembre.

La sedicesima edizione è curata dalle due progettiste Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici dello studio Grafton architects di Dublino che ha firmato a Milano la realizzazione del nuovo edificio dell’Università Bocconi e nella terra d’origine numerose opere di rilievo, frutto di oltre quaranta anni di sodalizio professionale. Il taglio impresso alla manifestazione è quello di un Forum della durata di sei mesi in cui le idee sull’architettura si possano aprire al mondo, focalizzandosi su temi che sollecitino e aprano riflessioni sulla generosità e sull’incontro con gli esseri umani nella convinzione che tutti hanno il diritto di beneficiare dell’architettura.

Il manifesto riporta alcuni interventi concreti a chiarimento di questi propositi: il Museo di arte moderna di Lina Bo Bardi a San Paolo, che sopraeleva il volume dal suolo non per vezzo personale ma per permettere l’osservazione della città da un punto privilegiato; la panca all’ingresso della casa Can Lis di Maiorca a firma di Jorn Utzon, con una seduta modellata sul corpo umano; o le sedute di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, concepite come uno spazio pubblico.

«È proprio la parte di umanità che manca nell’architettura quella che noi cerchiamo», dichiarano le curatrici, le quali…

L’articolo di Matteo Sintini prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Pazienza senza limiti, perché il fumetto italiano non è tutto un manga-manga

Pazienza, trent’anni senza. Senza Andrea. Il 23 maggio avrebbe compiuto 62 anni, il prossimo 16 giugno saranno trent’anni dalla sua scomparsa. Ma se la pazienza ha un limite, giusto per citarlo, Pazienza no. E la mostra inaugurata il 25 maggio al Mattatoio di Roma, nell’ambito di Arf!, svela due inediti del disegnatore, poeta, narratore grazie al quale il fumetto italiano non è tutto un “manga-manga” ma arte sequenziale capace di leggere quello che succede. Michele suo fratello, una vita a curarne l’archivio con Mariella, l’altra sorella, ne ricorda ancora il «coraggio sconfinato a mettersi in piazza, e a mettere in piazza gli altri». Per questo fu soprattutto una rockstar, personaggio unico nel suo genere. «Andrea si è espresso in molte forme – racconta Mariella – anche i suoi quadri erano di denuncia, ma si fermavano nelle stanze dei pochi che se li potevano permettere. A un certo punto volle privilegiare il fumetto proprio per comunicare al maggior numero di persone possibili. Senza mai porsi il problema se fosse un’arte minore». ripete Mariella soddisfatta di una mostra che lo cala di nuovo nel contesto dei fumetti, il medium che scelse per comunicare con la più ampia quantità di persone. Un filo che non si è mai spezzato.

Insomma, a un certo punto della mostra, c’è un Zanardi condottiero in sella al puledro nero che agita la lancia. Tutt’intorno anime in pena e teschi da girone infernale. Otto tele, due metri e quaranta per due metri e quaranta, a colori. Il dipinto è spuntato mentre Stefano ‘S3Kenò Piccoli, e gli altri “arfers” Mauro Uzzeo & Alino allestivano la personale che apre a Roma il weekend di Arf!, il IV Festival di storie, segni e disegni (25-27 maggio), che la produce insieme al Comicon di Napoli. «Stavano uscendo le prime notizie della mostra quando ci ha telefonato Matteo Garrone dicendo di avere un Pazienza inedito – racconta Uzzeo – eravamo increduli. Lo aveva ereditato dal padre e ora era nella cameretta della figlia Rose». Ma il quadro non aveva firma. Strano, perché Pazienza firmava dappertutto e in un’infinità di varianti. Finché un ritaglio di stampa ha messo fine al piccolo giallo. Si tratta di un’opera venuta fuori nella “48 ore di Zanardi”, evento compreso nella settimana del festival di Ottovolante, il supplemento satirico di Paese sera, quotidiano molto popolare e di sinistra di quel tempo, uno dei primi a ospitare le strisce a fumetti e poi a intraprendere la via della satira. Il festival si tenne al Luneur di Roma a cavallo tra luglio e agosto del 1983. Andrea Pazienza lo dipinse in due sere, continuamente interrotto da fans e da bambini che passavano di lì, in parte dipinse arrampicato su una scaletta, in parte seduto, nella posizione del loto. Poi, di quel suo prode cavaliere non se ne seppe più nulla. Fino a poche settimane fa, saltato fuori grazie al regista di Gomorra e Dogman.

La mostra è un viaggio nel tempo lungo 120 opere per raccontare l’eclettismo di Pazienza attraverso il fumetto: tutto Zanardi, da Giallo scolastico a Verde matematico, Pacco: e poi le vignette umoristiche, Tormenta e le caricature disneyane, La leggenda di Italiano Liberatore, lo spassoso Pertini, fino agli ultimi giorni di Pompeo. E il ritratto disegnato nell’86 alla morte dell’amico Stefano Tamburini per la copertina di Frigidaire, che in quel momento il direttore Vincenzo Sparagna preferì non pubblicare.

ARF!, che quest’anno cresce con un padiglione in più, ospita mostre anche su Alessandro Barbucci, Jordi Berner, Daniel Zezelj e Francesco Guarnaccia. Lectio magistralis con lo stesso Bernet, Altan ed Enrico Breccia.

«Mosca liberi il regista ucraino Oleg Sentsov». E Kiev pensa a uno scambio di prigionieri con Vyshinsky

L’appello di Human rights watch arriva ora, tre settimane prima dell’inizio dei Mondiali di calcio a Mosca: liberate il regista ucraino Oleg Sentsov prima del fischio d’inizio delle partite. Nel 2014 ci sono state le Olimpiadi invernali a Sochi e «solo poche settimane prima dei giochi, il Cremlino ha liberato improvvisamente e inaspettatamente alcuni prigionieri di altissimo profilo: l’ex tycoon del petrolio Mikhail Khodorkovsky, gli attivisti di Greenpeace e due membri delle Pussy riot”, scrive l’ong Hrw. Lo stesso può accadere ora, all’alba della Coppa del mondo 2018 per il regista ucraino?

Notizie del regista arrivano – nel frattempo – dall’inospitale cella siberiana in Yakutia. Da dieci giorni Sentsov non tocca cibo. Rimane in prigione dall’annessione della Crimea nel 2014, con una pena di vent’anni da scontare per “preparazione di atti di sabotaggio e terrorismo” nella penisola, ma si dice vittima di un processo politico. Ora ha annunciato l’inizio dello sciopero della fame «per tutti gli altri»: alla famiglia ha detto infatti di essere pronto «ad andare fino in fondo», non per la sua libertà personale, ma per quella dei 64 prigionieri ucraini che tuttora rimangono nelle celle russe. Sua cugina ha riferito all’Indipendent che Sentsov ha detto: «Sono felice se morirò durante la Coppa del mondo, così attirerò l’attenzione sui prigionieri politici ucraini».

Lo stesso appello arriva dall’Europa. Anche Egidijus Vareikis, relatore dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, ha chiesto che l’artista venga rilasciato: «Ha cominciato lo sciopero della fame dieci giorni fa, chiedo che venga immediatamente rilasciato per ragioni umanitarie». Già Pedro Almodovar, Wim Wenders, Ken Loach ne hanno chiesto la liberazione in questi anni. Adesso «anche Angela Merkel si è occupata del caso. Ora ci aspettiamo che il presidente francese Macron porti la questione sul tavolo al forum di San Pietroburgo dove è atteso» ha detto Maria Tomak, coordinatrice del progetto Media initiative for human rights di Kiev. L’avvocato di Sentsov, Dimitry Dinze, è stato chiaro: «Mondiali o non Mondiali, ho paura che Oleg finirà morto in una prigione russa».

Se Mosca applica la linea dura, Kiev non usa quella morbida. Anzi. Il 15 maggio i servizi segreti ucraini hanno fatto irruzione negli uffici dell’agenzia giornalistica Ria novosti Ucraina e hanno arrestato il suo direttore, il giornalista Kirill Vyshinsky, accusandolo di “reportage sovversivo” e “tradimento”. Ora Vyshinsky, giornalista con doppia cittadinanza, russa e ucraina, si trova in carcere a Kherson. Solo un giorno prima del suo arresto, è stato reso noto dopo, era entrato in vigore un decreto firmato dal presidente Petro Poroshenko per vietare l’accesso ai giornalisti delle agenzie statali russe nel Paese.

Se Hrw si rivolge alle autorità della Capitale russa, il Cpj, Comitato protezione giornalisti, fa appello alla Capitale ucraina: «Chiediamo alle autorità di Kiev dall’astenersi dal bandire le fonti di informazione, con copertura favorevole o sfavorevole, combattere la propaganda con la censura è non-democratico e comunque inefficace. Chiediamo all’ucraina di tornare indietro sul divieto emanato contro le agenzie dei media russi», ha detto la responsabile Cpj Nina Ognianova.

Dopo gli appelli per la liberazione del regista russo, sono cominciati quelli delle ong per la liberazione del giornalista russo-ucraino. Non è escluso uno scambio prigionieri: Mariana Betsa, portavoce del ministero degli Esteri ucraino, ha detto che si sta considerando di aprire la cella di Vyshinsky per liberarlo, se anche per Sentsov verrà fatto lo stesso in Siberia.

Perché la Casa internazionale delle donne andrebbe difesa (anche) dagli uomini

È un episodio singolo ma è anche il paradigma di una deriva. Che Virginia Raggi, con l’appoggio del suo consiglio comunale, voglia chiudere la Casa internazionale della donne a Roma facendo leva sull’affitto (esoso) non interamente pagato è roba che dovrebbe interessare tutti coloro che hanno a cuore diritti, cultura e l’ecologia sociale di una città.

Non funziona nemmeno l’articolato equilibrismo della sindaca che dichiara di «non voler chiudere la Casa delle Donne» ma semplicemente «farla tornare nelle mani dell’amministrazione comunale». La frase, pur funzionale dal punto di vista della propaganda e della difesa politica, non ha nessun senso: la Casa nasce come spazio autonomo e ha la sua storia (e la sua forza) proprio nell’indipendenza di pensiero e di azione rispetto alla politica circostante: la Casa non può tornare nelle mani dell’amministrazione semplicemente perché non ci è mai stata e perché proprio nella sua distanza dalla politica ha trovato la forza di farsi rifugio e accoglienza per molte donne che nel corso degli anni hanno dovuto affrontare benpensanti, democristianismi, bigotti e tutto il resto.

Preoccupa ancora di più che la politica (in questo caso di tratta di Roma ma il discorso è molto più ampio e pariteticamente molto più trasversale) si metta a fare una sommaria relazione sull’attività pluriennale della Casa definendo l’attività fallimentare per gli ammanchi economici nei confronti della pubblica amministrazione: la Casa internazionale delle donne (così come capita per molte realtà associazionistiche) ha sostituito lo Stato lì dove lo Stato non ha avuto il coraggio (o la voglia, o il guadagno in termini di consenso) di arrivare. Se dovessimo stilare un bilancio totale le attività di formazione, di costruzione di coscienza civica, di informazione sui diritti, di consultorio e di appoggio credo che dovrebbe essere il comune di Roma a risultare terribilmente creditore.

Ma la battaglia della Casa internazionale delle donne concede a noi uomini un’altra occasione: difendere quello spazio senza volerselo mangiare e senza intestarsi una lotta. Interessarsi dei diritti degli altri: i diritti, del resto, sono quasi sempre quelli degli altri, come diceva Pasolini.

Perché oggi tocca a loro ma domani sarà un altro luogo, di diritti e di cultura, ad essere pesato per il bilancio piuttosto che per l’attività ed è bene che questi capiscano il prima possibile che il business dei diritti non funziona, non ha mai funzionato, se non per riempire la bocca di qualche becera uscita elettorale.

Buon venerdì.

Non c’è postino per te

Il postino ha smesso di suonare, se non due, massimo tre volte la settimana, per effetto diretto dell’ultima ‘riorganizzazione’ di Poste Italiane. Nel nuovo piano industriale, l’azienda ha deciso di allargare all’intera penisola il vecchio progetto sperimentale di consegna a giorni alterni di lettere, cartoline, quotidiani e periodici, bollette. E se la corrispondenza ‘classica’ ormai si è ridotta, le bollette e le tasse comunali, come quella sui rifiuti, continuano ad arrivare per posta. Anche perché non sono tanti quelli che preferiscono farsi addebitare on-line i costi. Primo risultato: caos nei centri di smistamento, e proteste dei sindaci, degli utenti e delle associazioni, specialmente nei paesi più piccoli e nelle zone più lontane dai capoluoghi. Secondo risultato: venerdì 25 maggio i postini incrociano le braccia per “rispedire al mittente la svendita del servizio, e le ristrutturazioni che aumentano i carichi di lavoro gli infortuni e peggiorano la salute e la sicurezza dei lavoratori”. La giornata di mobilitazione promossa dai Cobas Poste ha raccolto consensi ampi e trasversali. Non c’è postino per te.

Se può essere di minima consolazione, la posta non ordinaria, dalle raccomandate ai pacchi, sarà ancora consegnata quotidianamente. Insomma le multe stradali e il milione di cose in vendita sulle piattaforme dell’e-commerce non devono aspettare il loro turno. Quanto al resto, però, il piano industriale di Poste Italiane è chiaro: il servizio tradizionale è poco remunerativo, quindi vanno tagliati i costi. Gli affari sono affari.

Il problema è che ad essere tagliato non sarà solo il servizio, ma anche i postini. A riprova, nei cinque anni di applicazione del piano industriale (Deliver 2022), sono previsti 25mila addetti in uscita, a fronte di sole 10mila assunzioni, perlopiù per i settori finanziari e assicurativi. In altre parole 15mila lavoratori in meno, con prepensionamenti e accordi volontari per la mobilità. Insomma dagli attuali 138mila dipendenti, nel 2022 il personale scenderà a quota 123mila. Inoltre 4.500 attuali portalettere saranno riassegnati a un ruolo commerciale, in parole povere diventeranno addetti allo sportello.

Il management aziendale pensava che lo scoglio maggiore sarebbero stati i rapporti con le organizzazioni sindacali, e così si è attrezzato per raggiungere un accordo con i sindacati confederali di categoria. Non avevano però fatto i conti né con la combattiva reazione dei sindacati di base – Cobas in testa – e in parallelo con la levata di scudi delle amministrazioni comunali, che si sono mobilitate. Con prese di posizione su giornali e tv locali, basate su una semplice ma efficace considerazione: “La progressiva dematerializzazione delle comunicazioni che l’avvento del digitale porta con sé, non significa che si debba dematerializzare anche il servizio di recapito di ciò che circola in cartaceo”.

Non solo, c’è anche chi ha pensato di ricorrere alle carte bollate. Secondo i sindaci, la consegna della posta deve essere considerata un servizio pubblico, e quindi non ne può essere interrotta la continuità. Parola dunque ai giudici amministrativi, che in passato – vedi le sentenze del Consiglio di Stato in materia – non sono mai stato teneri di fronte a riorganizzazioni del genere.

Dal canto loro, i postini sono da mesi in fibrillazione. In Toscana la rivoluzione nella consegna era già iniziata, in via sperimentale, nelle province di Arezzo di Prato, con non pochi mugugni delle popolazioni interessate. Ora si sta allargando alle province di Firenze, Lucca, Pistoia, Livorno e Massa Carrara. “I postini non hanno avuto la possibilità di spiegare il loro punto di vista su una riorganizzazione così importante – spiega Edoardo Todaro dei Cobas Poste – non sono state fatte assemblee né incontri specifici, quindi la nostra contrarietà è sia sul merito della riorganizzazione che sul metodo usato”. Nell’area fiorentina i Cobas hanno organizzato una raccolta firme che per ora ha coinvolto 150 portalettere, per poi arrivare alla giornata di sciopero. “Certo non siamo di fronte a licenziamenti – specifica Todaro – ma questa è la settima riorganizzazione in dieci anni”. Riorganizzazione che si ripercuote sulla vita dei postini: “I portalettere di solito lavoravano al mattino, mentre adesso i turni saranno anche di pomeriggio, per la consegna dei pacchi. Questo significa dover riorganizzare anche la propria vita privata, con badanti e baby sitter, perché alcuni di noi entreranno al lavoro alle 10, altri alle 13, con turni fino alle 20. E ci sarà molto da fare il sabato, per consegnare i pacchi nel fine settimana, come richiesto dai clienti. Per giunta abbiamo già la certezza che, con la riorganizzazione, i contratti a tempo determinato per i postini non saranno riconfermati”.

Storico referendum sull’aborto in Irlanda, Google e Facebook “uniti” al fronte del Sì

Il 25 maggio in Irlanda si vota per decidere se legalizzare la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza. Oramai da oltre due settimane, Google ha sospeso sul motore di ricerca e su Youtube ogni annuncio a pagamento da parte dei comitati che si fronteggiano. Le decisione non è l’unica presa da un gigante di Internet riguardo il voto irlandese. Anche Facebook ha annunciato che avrebbe vietato tutti gli annunci online relativi al referendum, ma solo se provenienti da fonti straniere. Niente annunci anche su Twitter, ma questo fin dall’inizio della campagna referendaria. Come si vede dunque, anche la decisione di Facebook influisce sulle capacità degli utenti delle piattaforma di informarsi in vista del voto. Tuttavia è innegabile che la decisione di Mountain view avrà un effetto politico più diretto, incidendo sulle capacità di una delle due parti di promuovere la propria posizione e privando il fronte del No all’aborto di un elemento chiave della strategia comunicativa.

L’origine della decisione potrebbe essere economica. Nelle settimane precedenti la decisione di Google, il fronte del No aveva speso molto più denaro del Sì in generale, e in particolare per quel che riguarda gli annunci a pagamento sui social media e sul motore di ricerca, causando qualche polemica. Il gruppo “Together for Yes” (insieme per il sì) che si batte per abolire l’emendamento della Costituzione irlandese che vieta l’aborto, ha confermato che nelle scorse settimane aveva protestato con Facebook e Google sugli annunci online del fronte del No perché violavano gli standard delle due aziende. Una portavoce di Together for Yes ha affermato che i contatti si erano verificati “al massimo una o due volte alla settimana”. Uno dei leader di Together for Yes Ailbhe Smyth ha detto che la mossa di Google “crea una parità di condizioni tra tutti i lati concorrenti, che potranno adesso ora cercare di convincere l’elettorato irlandese con la forza delle loro argomentazioni e il potere della testimonianza personale, non con la profondità delle loro tasche. Questo referendum sarà vinto sui fatti e da ora, quando gli elettori indecisi cercano online, vedranno le risposte più pertinenti alle loro domande – non quelle che qualcuno paga perché vengano trovate”.

Fonti vicine al fronte del No confermano che la decisione di Google ha eliminato spot online per almeno 40.000 euro, già prenotati. Il No ha spiega anche che aveva intenzione di aumentare la spesa in annunci con l’avvicinarsi del voto, in particolare nei giorni immediatamente precedenti il referendum per convincere gli indecisi. Tutto questo aveva prodotto un effetto sui sondaggi. Il Sì all’aborto rimane in vantaggio in tutti i rilevamenti, ma il margine si è ridotto nei giorni scorsi all’avvicinarsi del voto. Tuttavia, c’è un crescente allarme tra gli attivisti del Sì e i loro sostenitori nei media, secondo cui la spesa online da parte del No sarebbe l’origine della crescita nei sondaggi e potrebbe portare a una vittoria degli antiabortisti il 25 maggio. L’Irish Times ha commentato in un editoriale che, dal momento che nelle grandi aziende di Internet si è perfettamente consapevoli della cifra spesa dal No, qualcuno di questi potrebbe aver spinto Google e Facebook a temere di essere ritenuti responsabili di una eventuale vittoria del No. “Entrambe le società hanno alti dirigenti a Dublino che erano soliti lavorare nel governo e ricevere consigli da consulenti di affari pubblici – conclude l’editoriale -. Sebbene senza una spiegazione completa e onesta da parte delle aziende, è impossibile dire con certezza che cosa ha causato la decisione”.

Il motore di ricerca ha rifiutato di commentare in alcun modo, nonostante i molti media irlandesi che abbiano chiesto spiegazioni dopo l’annuncio: “In seguito ai nostri sforzi per l’integrità delle elezioni a livello globale, abbiamo deciso di sospemdere tutti gli annunci relativi al referendum irlandese sull’ottavo emendamento”.

Una dichiarazione di tutti e tre i gruppi di campagne per il No attacca Google: “Sono preoccupati che la parte del No vincerà – si legge nel comunicato -. È molto chiaro che il governo, gran parte dei media e il mondo delle multinazionali hanno stabilito che si debba fare tutto ciò che deve garantire la vittoria del Sì. Quella online era l’unica piattaforma disponibile per la campagna No per parlare direttamente con gli elettori. Questa piattaforma viene ora minata, al fine di impedire al pubblico di ascoltare il messaggio di una parte”.

Vedremo a fine spoglio quale sarà stato l’effetto sul voto della decisione di Google, ma non può non far riflettere il fatto che la decisione di un’azienda privata possa avere un effetto così grande sull’esito di una elezione. È molto probabile infatti che sia stata effettivamente la differenza di spesa a  causare la decisione del motore di ricerca. Tuttavia è opinabile che tale decisione più che preservare l’integrità delle elezioni, possa causare l’esatto contrario. Se uno dei due comitati ha una maggiore capacità di spesa, anche impedirgli di raggiungere un maggior numero di elettori è un modo di incidere sull’esito del voto.

Ventotene non resti un’utopia

www.perleuropadiventotene.eu

L’Europa manca di leadership. E manca di volontà politica. Eppure è sempre più necessaria, non solo per la pace – secondo l’idea dei suoi costruttori – ma anche per la possibilità di dare ossigeno alla democrazia, alle promesse di giustizia sociale che la cittadinanza democratica fa. Per comprendere appieno la contraddizione tra la debolezza della volontà politica dei leader europei e il bisogno di una politica europea dobbiamo tornare ai fondamenti, e mettere a confronto questa Unione europea con le ambizioni dei suoi fondatori.

L’Europa ridisegnata dalla crisi finanziaria iniziata nel 2008 è a metà strada tra un trattato e un’unione; centrata soprattutto sui vincoli per i singoli Paesi senza che ci sia uno scopo preciso riguardo quel che potrà seguire al rispetto di quei vincoli. Se il prezzo è restare in Europa, questa prospettiva deve essere arricchita di un orizzonte che non può essere fatto solo di vincoli. Se i vincoli sono fini a se stessi, la loro legittimità decade e i governi degli Stati-membri non hanno tutti i torti a essere critici. Salvare l’euro deve essere allo scopo di dare ossigeno a una politica progettuale, non può essere solo un mezzo per consentire gli scambi economici e la libera circolazione delle merci. L’Unione europea non può essere solo un centro commerciale, uno spazio unico per diversi venditori e compratori, facile da usare anche se non necessariamente conveniente.

Nessuno sa oggi come sarà l’Europa di domani e che peso avranno le reazioni nazionalpopuliste crescenti da Est (Ungheria e Polonia) a Ovest (l’Austria e l’Italia). L’allargamento dell’Europa che Romano Prodi ha guidato era inspirato dall’idea di facilitare la transizione democratica dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, di portare il modello occidentale a oriente. Oggi assistiamo al processo contrario, poiché è l’Est – il modello populista e nazionalista – che sta conquistando l’Ovest. Dunque, è opportuno chiedersi (ora che anche l’Italia si appresta a varare un governo che si volge con più favore verso Est) se i Paesi europei vogliono un’Europa politica, e soprattutto come la vogliono, poiché è chiaro che anche i nazionalisti xenofobi sanno che è nel loro interesse stare nell’Unione: il problema è che essi hanno un’idea di Europa che deve preoccupare i democratici.

La battaglia ideologica si svolgerà quindi proprio…

L’articolo di Nadia Urbinati prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Bruciare i rifiuti è antieconomico e pericoloso. Se anche il Tar boccia l’inceneritore di Firenze

Anche il Partito democratico, probabilmente, inizia a comprendere che incenerire i rifiuti è una pratica costosa, inutile e dannosa. Lo si deduce dalle due proposte di legge depositate in Regione Toscana, per introdurre l’economia sostenibile tra i principi fondanti dello Statuto regionale, che riguarda anche la gestione dei rifiuti. Ma, nel frattempo, l’amministrazione comunale fiorentina non si sbilancia sul tema dell’inceneritore che dovrebbe sorgere presso Case Passerini, a nord di Firenze: l’assessore all’Ambiente Alessia Bettini ribadisce che il Comune si pronuncerà solo quando la Regione presenterà un piano di gestione dei rifiuti alternativo, con la relativa analisi dei costi.

Cercherò di suggerire al Pd fiorentino elementi di riflessione sugli inceneritori, che vadano oltre alle valutazioni meramente economiche, considerando gli impatti sanitari e ambientali.

L’altolà del Tar su Sblocca Italia e piano inceneritori
In questi anni in Palazzo Vecchio la maggioranza è rimasta sorda, anche davanti alle numerose evidenze scientifiche, rispetto alle probabili ricadute per il territorio, l’allevamento, l’agricoltura e la popolazione. Anzi, per contro, aveva accolto con gioia il cosiddetto Sblocca Italia, con cui il governo pensava di imporre la costruzione di nuovi inceneritori su tutto il territorio nazionale.

Il pronunciamento del Tar del Lazio, lo scorso 26 aprile, che ha accolto il ricorso del Forum ambientalista e delle Mamme no inceneritore, curato dall’avvocato Claudio Tamburini, storico rappresentante dei Comitati della Piana, apre nuovi scenari. Viene, infatti, sospeso il giudizio contro il Decreto del presidente del Consiglio dell’agosto 2014, che individuava la capacità complessiva di trattamento degli inceneritori, in attuazione dell’articolo 35 dello Sblocca Italia. Il Tar, inoltre, rimanda alla Corte di Giustizia europea la decisione in merito al mancato rispetto dei principi di tutela ambientale.

Presidio delle Mamme no inceneritore, presso la Procura della Corte dei conti, Firenze, 24 maggio 2018. Clicca sulla foto per vedere il video della manifestazione

Una sentenza che va inquadrata anche in base alle ultime considerazioni sia ambientali, che di carattere economico della Commissione europea (si veda la comunicazione ufficiale del 21 gennaio 2017 “The role of waste-to-energy in the circular economy”), che suggerisce ai Paesi che come l’Italia hanno molti inceneritori di: adottare una tassazione sull’incenerimento; terminare i sussidi agli inceneritori; mettere in atto una moratoria sulla costruzione di nuovi inceneritori; spegnere progressivamente quelli esistenti. Vi è un forte mandato alla Banca europea per gli investimenti (Bei) ai Paesi membri di rivedere i rispettivi finanziamenti: ridurre le quote destinate all’incenerimento e aumentare quelle per i più alti livelli della gerarchia di gestione dei rifiuti (riduzione, riutilizzo e recupero, riciclo), in coerenza col Pacchetto dell’economia circolare del 2 dicembre 2015.

L’impatto ambientale, e le emissioni di sostanze cancerogene
Per inquadrare le conseguenze della combustione dei rifiuti va ricordato che circa un terzo in peso dei rifiuti in entrata si ritrova a fine ciclo in forma di ceneri, ma «niente si crea né si distrugge, tutto si trasforma», così la parte della materia che non si ritrova in uscita viene emessa nel corso del processo.

Le emissioni anche dei nuovi impianti d’incenerimento, sono composte da sostanze cancerogene, come le diossine, il cadmio, il particolato ultrasottile, che non hanno una vera soglia di sicurezza e hanno un effetto nocivo anche a livelli minimi di esposizione. Sono persistenti, non biodegradabili, bioaccumulabili (diossine, furani, PCB, metalli pesanti) e determinano l’accumulo di sostanze tossiche negli esseri viventi e nella catena alimentare. Infatti, per il nuovo inceneritore fiorentino sarebbe previsto un monitoraggio per le ricadute sulla popolazione, l’allevamento e le coltivazioni.

Nonostante questo s’ignora la “finestra espositiva” cioè il momento in cui la sostanza agisce, che ne determina la pericolosità, da qui la particolare vulnerabilità della gravidanza, delle prime fasi dello sviluppo fetale e la prima fase extrauterina, cruciali per determinare lo stato complessivo di salute da adulti, con effetti sugli gli interferenti endocrini (Ie), che sono una delle nuove emergenze sanitarie, visto che le sostanze inquinanti, emesse anche dagli inceneritori, come le diossine a basse dosi, certi metalli pesanti come il cadmio, gli Ipa, sono capaci di interagire con il nostro sistema endocrino alterandone le funzioni. In Toscana, inoltre, il PM 2,5 è sempre sopra il limite guida Oms da 9 anni. E l’impatto dell’inceneritore di Case Passerini non aiuterebbe certo a migliorare la situazione.

«Entro i limiti di legge» non vuol dire sicuro per la salute
Purtroppo con la direttiva europea n. 50 del 2008 recepita dal decreto legislativo 155 del 2010 l’inquinamento risulta spesso «entro i limiti di legge», ma i limiti health based, quelli che salvaguardano la salute pubblica, sono quelli dell’Oms e rappresentano la soglia al di sopra della quale cominciano a manifestarsi effetti negativi per la salute umana,

Inquinare entro i “limiti di legge” non tutela la salute pubblica, come evidenzia dottore Gianluca Garetti, Vicepresidente nazionale di Medicina democratica, con i suoi numerosi articoli pubblicati da perUnaltracittà. A tutela della salute pubblica si dovrebbe avere il coraggio politico di una moratoria dell’uso dei limiti del decreto 155.

I valori guida dell’Oms, hanno evidenziato che in tutte le grandi città italiane, Firenze compresa, la quantità di polveri sottili è maggiore rispetto a quella suggerita: questo ha comportato l’apertura di una procedura di infrazione (la numero 2043 del 2015) da parte della Comunità europea per il mancato rispetto dei limiti di Pm10 e No2.

È indispensabile una revisione delle linee guida per il particolato. Difatti, il Consiglio europeo ha previsto nuovi limiti alle emissioni nazionali con previsione di riduzione dei massimi consentiti in due step (a partire dal 2020 e dal 2030) per il PM2,5 ed i principali precursori del particolato secondario (ossidi di azoto, ossidi di zolfo, ammoniaca), che dovranno essere adottati a breve dagli stati membri. Se si rispettassero i limiti guida dell’Oms, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, le morti premature si ridurrebbero di circa un terzo.

Bruciare i rifiuti è antieconomico
Si può concludere che la pratica di incenerire i rifiuti è dannosa, ma va aggiunto che è anche anti economica. Secondo i dati della Epa a parità di materiale l’energia risparmiata con il riciclo è da due a sei volte superiore a quella recuperata con l’incenerimento. Inoltre, una volta costruiti, devono essere alimentati per decine di anni con grandissime quantità di rifiuti, impedendo riduzione, riuso e riciclo dei materiali.

Gli inceneritori sono finanziati ogni anno da tutti noi con la bolletta elettrica e questo trasforma l’incenerimento in un ottimo investimento per i gestori, ma non certo per la salute e l’occupazione. Tali impienti, inoltre, non eliminano il problema delle discariche: nonostante la diminuzione di volume dei rifiuti prodotti, il destino delle ceneri e di altri rifiuti tossici prodotti da un inceneritore è comunque lo smaltimento in discarica per rifiuti speciali. Infine, sotto l’aspetto occupazionale la costruzione e l’esercizio di un impianto determina un livello occupazionale inferiore al personale impiegato nelle industrie del riciclaggio dei materiali.

+++ULTIMORA+++
Nelle prime ore del pomeriggio del 24 maggio, il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar. Il tribunale amministrativo regionale della Toscana, alla fine del 2016 (si tratta di un pronunciamento diverso rispetto a quello del Tar del Lazio, di cui si rende conto nell’articolo), aveva annullato l’autorizzazione per la costruzione del termovalorizzatore di Case Passerini, confermando che il nulla osta sarebbe potuto arrivare solo in caso di rispetto del progetto iniziale. Il quale, lo ricordiamo, comprendeva la realizzazione di un parco nella Piana fiorentina, a titolo di compensazione.

Miriam Amato è consigliera comunale di Firenze di Potere al Popolo

L’enclave che accoglie i migranti nella Bosnia chiusa in se stessa

Migrants pack their belongings and their tents, during the evacuation of a makeshift camp in a park across the City Hall, in Sarajevo, on May 18, 2018, in order to relocate them in southern Bosnia. - Numbers of migrants who are passing through Bosnia during past few months, on their way towards the European Union, is rapidly raising. Until recently, Bosnia and its mountainous terrain were avoided by migrants travelling from northern Africa, Middle East or Asia, who, despite the closure of EU borders in March 2016, continued to pass through the Balkans. But, since late 2017 Bosnia is facing the passage of hundreds of migrants, becoming a leg of a new "Balkans route". (Photo by ELVIS BARUKCIC / AFP) (Photo credit should read ELVIS BARUKCIC/AFP/Getty Images)

«È cominciato spontaneamente, abbiamo cominciato a portargli cibo e sono arrivati in 500» ha detto Rasim Pajezetovic, un imprenditore di Velika Kladusa, Bosnia. Lui, come molti altri abitanti dei paesi a ridosso del confine settentrionale, tra Bosnia e Croazia, ha cominciato volontariamente ad aiutare i rifugiati. I bosniaci e i migliaia in arrivo dalle polveriere di Africa e Medio Oriente in comune hanno poco, ma una cosa potente li lega: sanno cosa sia la guerra.

Accade però che ai locali balcanici, ex rifugiati loro stessi della guerra che scoppiò in Bosnia nel 1992, manchino fondi per aiutare i migranti. A volte «succede che davvero non abbiamo niente con cui nutrirli», ha detto Pajezetovic alla agenzia stampa Reuters, stringendo una pentola di brodo di cavolo. Manca cibo e mancano le istituzioni, che non hanno offerto alcun tipo di aiuto. Il sindaco di Velika ha provato a fare quel che poteva: invece che nel parco della cittadina, ha offerto ai rifugiati di dormire in un campo di tende accanto, dove i bosniaci portano, quando possono, cibo, vestiti, medicine.

«Devo arrivare in Germania perché la mia famiglia è lì». Lo ha detto Omar, 19 anni, nato in Iraq, ma sono in molti a ripeterlo. «Sono stato rispedito indietro dalla Croazia già sei volte», dice il migrante, rimasto bloccato già per due anni in Grecia, insieme a suo fratello. Più del 40 per cento dei rifugiati che ha provato a raggiungere l’Europa del nord attraverso il Paese, è rimasto bloccato in Bosnia.

Nel 2017 solo 755 migranti hanno scelto la Bosnia come Paese di transito. Nei parchi della Capitale o in altri paesi dove aspettano un passaggio verso ovest, gli aspiranti richiedenti asilo nei primi mesi del 2018 sono già circa 4.500. Arrivano da Siria, Turchia, Algeria, Afghanistan. «Il rischio che corriamo è una crisi umanitaria in miniatura, questa situazione non va risolta il prossimo mese, ma la prossima settimana» ha detto Peter Van Der Auweraert, portavoce per i Balcani dell’ovest dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), secondo cui il flusso di nuovi arrivi raggiunge le 350-400 persone a settimana.

Ma per Adnan Tatarevic, dell’ong Pomozi, che vuol dire “aiuto”, parliamo di cifre molto più alte: «Ci aspettiamo 50mila arrivi per la fine dell’anno». Nonostante le pressioni sul governo delle associazioni che aiutano i rifugiati, le autorità non hanno trovato una soluzione: c’è un solo centro d’accoglienza nello Stato e ha solo 200 posti letto. Secondo il ministro della Sicurezza Dragan Mektic, nel centro sono arrivate – nelle prime settimane di maggio – dalle 80 alle 150 persone al giorno

Preoccupata dall’aumento della migrazione del Paese, Sarajevo non ha adottato soluzioni per far fronte all’emergenza, ma ha semplicemente aumentato i controlli alle sue frontiere per bloccare il flusso di questa nuova rotta balcanica. Lo ha annunciato a inizio mese il premier Denis Zvizdic, ampliando i poteri della polizia che ora sarà schierata alla frontiera. Nonostante l’ultimo appello della ong Human rights watch, secondo cui la Bosnia sta «fallendo nel proteggere i diritti dei richiedenti asilo, che dormono per strada senza cibo, tetto, assistenza medica», nient’altro è stato fatto.

 

«Confermare la collocazione europea»: ciao ciao sovranisti salvinisti

Prime Minister designate Giuseppe Conte addresses the media after a meeting with Italian President Sergio Mattarella at the Quirinal Palace, Rome, Italy, 23 May 2018.ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Uno degli scotti da pagare nello spararle grosse in campagna elettorale è che poi, soprattutto in caso di vittoria, arriva la resa dei conti e diventa tutto terribilmente difficile. Provate a ripensare ai politici che si sono avviati spediti a governare sull’onda di un’immagine convincente per poi schiantarsi miseramente. Solo Berlusconi, forse, è riuscito a durare abbastanza a lungo da essere considerato un’anomalia. Lui e Andreotti. Sulle affinità elettorali (più che elettive) tra i due ci sono due belle pubblicazioni da leggere: la sentenza Andreotti (non il bigino di Vespa) e quella Dell’Utri.

Così succede che ora che Giuseppe Conte si prepara a essere presidente del consiglio sono bastate quattro parole quattro (tre più un articolo determinativo) per spegnere gli intestini che Matteo Salvini si è divertito a stuzzicare famelicamente in campagna elettorale in cambio di un pugno di voti: Conte ha esordito sottolineando la “necessità di confermare la collocazione europea“. Il turbosovranismo leghista in salsa elettorale è già svanito. Pluff.

In Europa si va a chiedere di cambiare le regole d’ingaggio (e sarebbe ora) ma la politica internazionale è qualcosa di più complesso di un cliccatissimo post su Facebook. Il governo deve ancora partire ma l’uscita dall’Euro e il tripudio degli aspiranti Farage è già spento prima di iniziare.

E i prossimi mesi saranno così: un equilibrio difficile tra ciò che si è promesso e ciò che si riuscirà davvero a mantenere. Con una differenza che però è sostanziale: se è vero che con Di Maio il Movimento 5 Stelle già da tempo ha limato le proprie posizioni cercando una quadratura del cerchio dall’altra parte Salvini ha giocato a fare l’incendiario senza mai pensare al piano b. E ogni volta che dovrà scendere a compromessi ritirerà fuori il democristianesimo di Di Maio accendendo senza remore il conflitto interno. Ha appena sciolto la coalizione con cui si è presentato alle elezioni. Ricordate?

Buon giovedì.

(A proposito, consiglio non richiesto all’opposizione che vuole costituirsi parte civile: augurare a Conte di fallire significa augurare al Paese di fallire. Non è una grande idea. Così, per dire. Proposte, piuttosto. Proposte.)