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La proposta: un welfare europeo uguale per tutti

BRUSSELS, BELGIUM - MARCH 21: Traffic passes a piece of street art on the side of a building in central Brussels which reads 'The Future is Europe' on March 21, 2018 in Brussels, Belgium. European Union leaders meet for two-day European Council summit tomorrow, with the agenda to include discussion on President Donald Trump's announcement on tariffs for steel and aluminium imports. (Photo by Jack Taylor/Getty Images)

A mente fredda, passate le elezioni, occorre interrogarsi sul sentimento anti-europeista che aleggia anche in una parte della sinistra. Non viene messa in discussione solo la politica delle istituzioni continentali, ma l’intera architettura europea. L’Europa sconterebbe un peccato originale irredimibile, essendo stata generata da interessi economici. L’Europa sarebbe un ostacolo insuperabile alle auspicate politiche di welfare. Taluni sognano, quindi, un ritorno alle frontiere ed agli Stati nazionali, in una corsa all’inseguimento delle destre su un terreno congeniale a queste, ma molto sdrucciolevole per le sinistre. Ci si deve allora chiedere se abbia senso contrastare il processo di integrazione europeo, proprio in un’ottica di estensione dei diritti sociali.

È senz’altro vero che il motore dell’integrazione europea, oggi, è principalmente economico. Dobbiamo però confidare nella eterogenesi dei fini. Storicamente, l’unità politica è quasi sempre finalizzata alla creazione di un mercato comune. La storia ci insegna che al formarsi di aggregati economici più ampi, segue un’aggregazione politica. Una volta però creato il mercato comune, la storia non si arresta al comando di nessuno. Questo abbiamo imparato, e ha imparato chi credeva di poterla portare nella propria direzione.

Se l’unione…

 

Gli avvocati Pietro Adami e Cesare Antetomaso fanno parte dei Giuristi democratici 

L’articolo di Pietro Adami e Cesare Antetomaso prosegue su Left in edicola


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L’illusione pericolosa della sovranità nazionale

the Lega Nord leder, Matteo Salvini, leaves the parliamentary groups of the Chamber of Deputies on April 26, 2018 in Rome, Italy (Photo by Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images)

Il nascente governo “giallo verde” (con evidenti venature nere) che esordisce in Italia è composto da forze che, con modalità differenti, si sono affermate anche in virtù delle loro parole d’ordine sovraniste. Ci si può domandare quanto abbia senso, in un contesto in cui le interdipendenze globali, non solo economiche, determinano molto più delle politiche dei singoli Stati, parlare di ritorno allo Stato nazione, a forme di protezionismo e di chiusura delle frontiere. Eppure fra le ragioni del successo elettorale di due forze che si sono presentate come antisistema, ha pesato molto il fallimento della Ue. Inevitabile dopo dieci anni di crisi affrontati in maniera dissennata in tutto il continente, tanto dalle forze socialdemocratiche che da quelle liberali (che spesso hanno operato insieme). La Lega, che nei decenni passati, aveva come riferimento soprattutto i ceti popolari e della piccola imprenditoria del Nord a cui proponeva il sogno secessionista mentre votava senza problemi tutte le normative di stampo liberista, a livello locale, nazionale ed europeo, si sta lentamente trasformando in una forza nazionale, che si autorappresenta come capace di difendere “gli italiani”, tanto da fantomatiche “invasioni” dei migranti quanto dagli euroburocrati. Leggendo e ascoltando le dichiarazioni che si vanno succedendo in questa delicata fase politica, si trovano…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola

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Il canto popolare che ha fatto la storia

Giovanna Marini

Per chi come me è cresciuto negli anni Ottanta quando il “movimento” era rifluito, e in giro non si cantava più, sono stati i dischi a far conoscere, e amare, il canto sociale e il canto popolare. Il mio primo album in assoluto fu un cd di Caterina Bueno allegato a questa rivista quando si chiamava Avvenimenti; subito dopo conobbi le due collane che hanno fatto la storia della musica popolare del canto sociale italiano: la collana folk della Fonit Cetra e i Dischi del Sole. I Dischi del Sole erano stati fondati all’interno delle edizioni Avanti!, e il primo disco fu Bella ciao, nel 1965.

Negli anni Novanta il catalogo dei Dischi del Sole venne acquisito dall’etichetta Ala Bianca, che adesso, dopo averlo reso disponibile in digitale, ristampa dodici album storici. Sono dodici scrigni preziosi di memorie e di canzoni pronte all’uso. Sì, perché è l’uso ciò che le contraddistingue: tanto il canto sociale che il canto popolare esistono in relazione a una funzione, entro un contesto che li produce e gli dà senso. Perciò non si può che accogliere con gioia la riapparizione di Addio Lugano bella, la straordinaria raccolta di canti anarchici, Ci ragiono e canto (lo spettacolo di Dario Fo), La veglia di Caterina Bueno, Fiaba grande di Ivan Della Mea, I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini. E proprio con Giovanna – con la quale ebbi la fortuna di condividere il palco per il cinquantesimo anniversario del Nuovo canzoniere italiano – ho fatto una chiacchierata a proposito di questo evento discografico.

Hai detto una volta che la testimonianza più grande che lascia l’esperienza dei Dischi del Sole è quella dell’amore e della passione per le cose che facevate: il vostro scopo non era di vendere dischi, ma di far memoria. Ivan Della Mea diceva la stessa cosa, da un punto di vista più “materialistico”: le condizioni materiali di produzione erano quello che erano, con le ristrettezze economiche, i pochi denari, il “buona la prima” in fase di registrazione…
Sì, certamente era sempre una cosa fortunosa. Non avevamo affatto l’abitudine di curare i dischi con sovraincisioni, postproduzione, come si fa per i dischi da vendere. Per noi quello era materiale da archiviare, da ricordo.

Mentre invece la tradizione musicale popolare negli Stati Uniti aveva una considerazione diversa: tu fosti lì a metà degli anni Sessanta, e ai tuoi occhi risaltò bene la differenza.
Sì, negli Stati Uniti è molto differente, basta paragonare i Dischi del Sole con la storica etichetta Folkways, che aveva grandi distribuzione e vendita. Fare canzoni e dischi solo per passione in America non esiste. C’è la passione, ma prima c’è la marcia del capitale. Io ero lì a metà degli anni Sessanta, e vedevo bene la differenza. Negli Stati Uniti non si potevano fare dischi come, che so, Il cavaliere crudele, che in un anno vendette 25 copie. Valeva anche per Woody Guthrie: prima di tutto, è un prodotto che deve vendere. Per noi non era così, i Dischi del Sole sono prima di tutto il frutto della nostra passione e del nostro amore.

Nei Dischi del Sole c’erano sia canzoni popolari (l’attività di ricerca e di riproposta, come si diceva) sia canzoni d’autore. Il comun denominatore era che si trattava di canzoni d’uso. Tanto è vero che a volte non si percepiva dove finisse la canzone popolare e iniziasse quella d’autore.
Sì, è vero. Canzoni che ho scritto poi sono diventate popolari, le cantano pensando che siano popolari… “Una morte di Gesù”, ad esempio, oppure “Addio addio amore”.

Vuoi raccontarcela nel dettaglio la storia di “Addio addio amore”? È una storia davvero esemplare dello spirito dell’epoca.
Sarà stato il ’60, era prima che iniziassi a fare ricerca, andavamo al mare di Ostia con Bruno Trentin e la sua famiglia, lì sentii cantare una canzone che mi piacque molto. Passò del tempo, dimenticai la melodia, e mi rimase in testa un arpeggio in minore, una successione di quattro note. Andando a Spoleto per fare lo spettacolo Bella ciao io, non avendo canzoni popolari da cantare ne scrissi due in macchina mentre Teresa Bulciolu guidava, annotandomi qualche parola e qualche nota. A Spoleto la cantai questa, mettendo insieme le poche parole che mi ricordavo della canzone di Ostia con quelle di un vecchio canto abruzzese dove si menzionavano l’oliva e la ginestra. Ed è venuto fuori “Addio addio amore”. Poi quando abbiamo fatto il disco di Bella ciao, per i Dischi del Sole, Gianni Bosio mi chiese se ero iscritta alla Siae, e io dissi di no, senza sapere che avendo fatto il conservatorio lo ero. Così nel disco risultò come canzone popolare. Peraltro non la pensavo come una “composizione”: venivo da una famiglia di musicisti dove queste erano giusto quattro note, se avessi detto a mia madre che l’avevo composta mi avrebbe risposto “Non farmi ridere! Si compongono le fughe, i preludi! Mica quattro note che ti vengono in mente!”. Questa era la mia idea… Fatto sta che un giorno incontrai alla Siae Mimmo Modugno, che era dispiaciuto perché non sapeva che quella canzone l’avevo scritta io, così lui, pensandola canzone popolare, l’aveva presa e ci aveva scritto sopra “Amara terra mia”, che divenne un grande successo.

Hai detto che nel canto popolare, quello che fa da discrimine è il come lo si prende e l’uso che se ne fa. Del resto il canto popolare ha costitutivamente a che fare con la reinvenzione continua della tradizione, con la variazione, col ritornello… E dunque: come bisogna prenderlo?
Ti faccio un esempio. Noi abbiamo fatto una ricerca sui monti del Pollino in Calabria, una zona molto isolata, dove ricerca non era stata fatta. Non avevo mai sentito cantare così, delle grida altissime con una specie di scala discendente e un basso continuo, una forma di discanto, che il vescovo non voleva si cantasse durante la processione perché lo trovava un canto pagano. È questo il canto contadino che mi appassiona, il canto pastorale fatto solo su due tre suoni codificati, scelti, rituali, da cui si è sviluppata la musica classica. Oppure il canto sardo per falso bordone, che ho trovato a Bosa, canti di pastori, fatti per emozionare, che stanno dentro quel contesto: come fai a riproporli estraendoli da quel contesto, fuori da quei Paesi arroccati sulle rocce da cui si vede il mare, se magari hai una faccia slavata da borghese, che non dice niente? Ci vuole un grande studio, per farlo, un grande lavoro. Questo è il canto di cui si discute se proporlo o non riproporlo. Altra cosa è la forma canzone, di grandi autori come Alfredo Bandelli o Ivan Della Mea, che loro sembravano nati con Puccini dentro, con Mascagni, con l’opera, quella era la loro estrazione; o anche col varietà e il vaudeville come Pietrangeli.

Però tu hai fatto tanti dischi di canzoni, e in particolare uno come I treni per Reggio Calabria, che per me è il capolavoro assoluto, una pietra miliare della musica italiana, e quelle sono canzoni una più bella dell’altra.
Sono canzoni, sì, però a impronta classica. Carpitella mi diceva che in certi pezzi ci sentiva Bach e Rossini: io quello ho in testa… Tutti abbiamo in testa qualcosa che poi ci esce fuori.

Un’altra cosa che caratterizzava in maniera forte il gruppo che ruotava attorno ai Dischi del Sole è l’estrazione sociale. C’erano persone che venivano dalla borghesia, di alta cultura, come te, Pietrangeli, Della Mea, e quelli che venivano da ambiente contadino, come la Daffini, la Balistreri, il gruppo di Piadena.
Sì, c’era una divisione di classe sociale, ma ci sentivamo tutti sullo stesso piano. Anzi, c’era una sorta di venerazione per chi era portatore di una tradizione contadina.

Anche Caterina Bueno veniva da una famiglia borghese.
Sì, aveva due genitori molto colti, ma lei si sentiva molto meglio nelle sue cantine frequentate da contadini e operai che non nei circoli intellettuali. Faceva ricerca anche perché nei luoghi contadini e proletari si sentiva più accolta, più amata.

 

Lo scrittore e musicista Marco Rovelli è l’autore dell’album Bella una serpe con le spoglie d’oro, dedicato a Caterina Bueno, in cui ha ripreso i canti popolari toscani d’amore, di lavoro e di protesta.

L’intervista di Marco Rovelli a Giovanna Marini è tratta da Left n. 21 del 25 maggio 2018


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I manovali della disuguaglianza

Matteo Salvini e Luigi Di Maio al tavolo della trattativa sul contratto di governo e sul nome del premier che guider‡ l'esecutivo in una fermo immagine di un video diffuso dal Movimento Cinqua Stelle. Roma, 17 maggio 2018. ANSA/ FRAME VIDE M5S +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Sono molte le fratture che attraversano la società italiana. La prima e più profonda è quella che emerge dalle diseguaglianze socio-economiche, in una società che premia e distribuisce reddito e ricchezza a una minoranza, quella più ricca. Fratture che attraversano il Paese, riversandosi su molti aspetti della vita quotidiana, dalla sanità ai trasporti, e lo dividono sempre di più. A Messina, la diffusione del trasporto locale non copre i 2mila posti-km per abitante mentre a Milano supera i 15mila. Non va meglio sul fronte della sanità e dei servizi di welfare garantiti ai cittadini.

Diseguaglianze, un tema che ritorna e rimbomba ma che stenta ad entrare nell’agenda politica, se non in senso regressivo come dimostra il contratto di governo siglato da Lega e Movimento cinque stelle. Mentre il welfare si contrae con effetti maggiori sulle zone più depresse del Paese, l’impoverimento della maggioranza della popolazione risulta chiara dai dati sul mondo del lavoro. Della nuova occupazione dipendente, tra il 2016 e il 2017, solo il 20% è a tempo indeterminato.

Mentre il lavoro precario si consolida, al suo interno avanzano le forme più rapaci come il lavoro in somministrazione che nell’ultimo anno aumenta del 23.5%. Contratti e posizioni lavorative sempre più povere per rispondere a un assetto produttivo in ritirata: l’occupazione aumenta quasi esclusivamente nel settore dei servizi a bassa produttività: alberghi, ristorazione e servizi alle imprese (tra cui la logistica), ma anche in quei settori in cui l’arretramento del welfare pubblico scarica sui cittadini la necessità di farsi carico dell’assistenza e di cura alle persone. L’esistenza di un forte divario tra il periodo pre crisi e gli anni recenti è evidente dal monte ore lavorate, che langue di circa un miliardo di ore rispetto al 2008.

Tuttavia, la parziale ripresa rispecchia la ristrutturazione del sistema: nel….

L’analisi di Marta Fana e Simone Fana prosegue su Left in edicola


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La rottura costituente di Lisbona 2018

epa05853862 An undated handout photo made available by the European Commision's Audiovisual Services shows a chalk drawing of a map of Europe before the 01 May 2004 enlargement wave, in Brussels, Belgium, 01 March 2004. Ten countries simultaneously joined the European Union (EU) officially on 01 May 2004, the biggest single expansion in EU history to date. The 60th anniversary of the signing of the Treaty of Rome is marked on 25 March 2017. The treaty was signed on 25 March 1957 by Belgium, France, Italy, Luxembourg, the Netherlands and West Germany to form the European Economic Community (ECC). It continues to be one of the most important ones in the history of the European Union (EU). EPA/Alain Schroeder / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Il 24 maggio, il Parlamento europeo a Bruxelles rende note le motivazioni della sentenza del Tribunale permanente dei popoli su Turchia e popolo curdo. Già a conclusione della scorsa sessione a Parigi, Philippe Texier, presidente del Tribunale, ha annunciato un punto fondamentale di conclusione: anche secondo il Tribunale permanente dei popoli, la Turchia è responsabile della continua violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo curdo.

Perché parlo di questa sentenza a proposito del futuro del progetto europeo? Perché ci aiuta a capire molto del presente della Ue e di un futuro possibile per lo spazio europeo. Pochi mesi fa l’Ue ha erogato la seconda tranche di finanziamenti alla Turchia per bloccare il flusso di rifugiati. Fondi erogati, in cambio della difesa delle frontiere, a un regime repressivo, autoritario, e appunto responsabile della continua violenza contro il popolo curdo. Dall’altro lato, abbiamo un popolo resistente, la cui storia recente ci parla di co-rappresentanza, di con-federalismo democratico, di lotta per l’autodeterminazione non coincidente con la rivendicazione della forma-Stato.

Se l’Ue neoliberista e neo-autoritaria dialoga con Erdogan, un progetto europeo alternativo al neoliberismo potrebbe, invece…

L’articolo dell’europarlamentare Eleonora Forenza prosegue su Left in edicola


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L’aborto non è più reato in Irlanda. Valanga di sì. Più del 70 % a favore

da Belfast – L’Irlanda volta decisamente pagina. Oltre il 70 per cento della popolazione, donne in testa, ha detto sì all’abrogazione dell’ ottavo emendamento, una delle leggi più restrittive in Europa in materia di aborto, dando così via libera a una nuova legge più rispettosa dei diritti delle donne. E’ un momento storico per l’Isola. Il Yes, Ta, in gaelico , come appariva sulle schede, cancella una legge approvata nel 1983, sulla spinta dei fondamentalisti cattolici ma anche protestanti, che di fatto anteponeva la vita del feto a quella della madre. di un’intera nazione. Tirano un respiro di sollievo le migliaia di donne costrette a sbarcare a Londra per abortire. Il terribile destino di centinaia di madri che per decenni venivano brutalmente segregate nelle Madgalene Laundries, gestite da suore, a lavorare come schiave per espiare il terribile peccato di aver concepito un figlio fuori dal matrimonio, sembra un incubo ormai lontano. Nessuna morirà come Savita, la donna indiana cui nel 2015 era stato rifiutato l’aborto terapeutico dai medici cattolici dell’Ospedale di Galway.

Una grande vittoria all’indomani di una campagna combattuta senza esclusione di colpi, e che aveva visto schierarsi anche il primo ministro Leo Varadkar sul fronte del Sì’.Una campagna che ha visto scendere in campo l’Orange Ordre of Ireland, protestanti di stampo massonico, una volta tanto in accordo con i reazionari cattolici.

“Una vittoria dei diritti umani”, come dichiara Amnesty International Ireland. Ricordiamo come in tempi recenti l’Irlanda, sia stata rimproverata dalla Suprema Corte Europea perché l” Ottavo Emendamento rappresentava una “ palese violazione dei diritti delle donne”

Il Fronte antiabortista nel frattempo si prepara a dare battaglia anche in Parlamento.”Spero che le persone rifletteranno sulle conseguenze di un simile risultato che dice chiaramente che la vita dei non nati non ha nessun valore. ” ha dichiarato seccamente Cora Sherlock del Comitato Pro Life.

Nel frattempo festa grande per le strade e le piazze di Dublino per i movimenti femministi, gli attivisti di Repeal The Eigth, il fronte che si è battuto per il yes e che ha visto l’adesione del Labour Ireland e ampia parte dello stesso Sinn Fein.

“ We made history”, dicono le attiviste di Rosa Ireland. “ Dedichiamo la nostra vittoria a Savita” dice Eleanor Willoughby , penso che la nuova legge dovrebbe intitolarsi Savita Act, in suo onore “

In Irlanda del Nord, invece il problema è lontano dall’essere risolto. Perché’ anche se il paese è sotto la giurisdizione di Londra, l’aborto rimane ancora un reato .

“ Caro Jeremy, per favore, fa che Il 1967 act (la legge che prevede l’aborto libero in Gran Bretagna) sia esteso anche all’Irlanda del Nord. Credi alle donne!” Cosi hanno scritto le attiviste di Rosa, in una lettera aperta al leader del Labour in visita a Belfast nei giorni scorsi. E la battaglia continua.

In Irlanda trionfano i “sì” alla legalizzazione dell’aborto

epa06764237 Flowers and messages left on a mural in Dublin, Ireland, 26 May 2018, depicting Indian woman Savita Halappanavar who died as a result of pregnancy complications while living in Ireland, and has become the face of the 'Yes' campaign in the legalisation of abortion in Ireland. Irish people went to the polls 25 May to decide if abortion can be legislatied for thus removing the protection of the unborn from the Irish Constitution. EPA/AIDAN CRAWLEY

È una svolta storica, quella che sta vivendo in queste ore l’Irlanda, all’indomani del referendum sull’aborto. Già i primi exit poll, usciti la sera del 25 maggio, indicavano una schiacciante vittoria dei Si – 68% delle preferenze contro il 32% dei contrari – ossia dei voti a favore dell’abrogazione dell’ottavo emendamento della Costituzione. Un emendamento, introdotto nel 1983, che metteva sullo stesso piano “diritto alla vita del nascituro” e il “diritto alla vita della madre”, e di fatto rendeva illegale l’aborto in quasi tutte le circostanze, salvo casi eccezionali di pericolo certo per la vita della madre, come previsto da una legge del 2013. Costringendo le madri che potevano permetterselo a viaggi all’estero (principalmente in Gran Bretagna) per interrompere la gravidanza, una scelta punita nel Paese con pene fino a 14 anni di carcere.

Nella sera del 26 maggio arriveranno i dati definitivi del conteggio dei voti, iniziato stamani, ma gli antiabortisti hanno già ammesso la sconfitta: il riconoscimento della debàcle arriva da John McGuirk, portavoce del movimento contro l’aborto Save The 8th.

Ora toccherà al parlamento legiferare, e regolamentare la possibilità di interruzione volontaria di gravidanza. Diverse le proposte sul tavolo. Tra le ipotesi, quella che il governo proponga di fissare a 12 settimane il limite per abortire, esteso a 24 in caso di malformazioni del feto incompatibili con la vita, oppure in caso di rischi seri per la salute della madre.

L’affluenza alle urne si è attestata intorno al 70%. Il voto arriva a tre anni di distanza dal referendum che nel Paese ha dato il via libera ai matrimoni gay. Il primo ministro irlandese, Leo Varadkar, favorevole al Si, ha twittato: «Sembra che faremo la storia».

Nella campagna referendaria, sono intervenuti anche i colossi del web Google e Facebook, con la loro scelta di sospendere o limitare gli annunci pubblicitari dei comitati che si contrapponevano, una scelta che di fatto ha favorito il “Si”, come ha raccontato per Left Damiano Vezzosi.

Ai quarant’anni di crociate contro la legge 194 in Italia, abbiamo dedicato il numero 19 di Left dell’11 maggio 2018


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Guerra in Yemen, nel gran bazar delle armi ai sauditi c’è anche Londra

LONDON, ENGLAND - MARCH 18: Amnesty International activists march with homemade replica missiles bearing the message 'Made in Britain, destroying lives in Yemen' across Westminster Bridge towards Downing Street during a protest over UK arms sales to Saudi Arabia on March 18, 2016 in London, England. The missiles are replicas of the 500lb 'Paveway-IV' weapon which are currently used by Saudi Arabia's UK supplied Eurofighter Typhoon war planes. (Photo by Chris Ratcliffe/Getty Images)

Un supermarket globale degli armamenti. Ecco cosa c’è sotto la commessa di 4mila bombe esportate in Arabia Saudita dall’Italia tra il 2013 e il 2017. Un affare da 63 milioni di euro per la Rwm Italia, società del colosso tedesco Rheinmetall che ha prodotto gli armamenti in Sardegna, a Domusnovas, in qualità di subappaltatrice dell’azienda inglese Raytheon systems limited. La Germania e l’Italia non sono dunque gli unici Paesi europei coinvolti nella fornitura di bombe partite dalla Sardegna. Ma c’è un terzo protagonista finora rimasto nell’ombra: la Gran Bretagna.

Controllata dalla multinazionale statunitense Raytheon company attraverso la holding britannica Raytheon United kingdom limited, la Raytheon systems intrattiene un rapporto contrattuale diretto con il ministero della Difesa saudita. Non è dato sapere se l’accordo tra la società inglese e i sauditi includa ulteriori sistemi d’arma. Si sa invece che Rwm si aggiudica la commessa delle 3950 Mk 83 attraverso un’offerta presentata alla Raytheon systems, che accetta e stipula un contratto di subfornitura con la società italiana nel novembre del 2012. Da quel momento la Rwm ha avuto 57 mesi di tempo per completare la fornitura degli ordigni.

Sono questi gli elementi svelati dall’inchiesta sulle esportazioni di armi dalla Sardegna – finora inedita – avviata dalla Procura di Cagliari in seguito a quattro esposti sulla presunta violazione della legge 185/90 sul commercio degli armamenti. Il procedimento contro ignoti che ne è seguito ha ricostruito l’attività di esportazione della Rwm Italia fino all’archiviazione del maggio del 2017 disposta dal Tribunale cagliaritano su richiesta degli inquirenti: le forniture di bombe destinate all’Arabia Saudita sono risultate regolarmente autorizzate.

Anche perché non…

 

Inchiesta transnazionale finanziata da Journalismfund.eu

L’inchiesta di Lorenzo Bagnoli, Laura Silvia Battaglia, Piero Loi e Sonja Peterandel prosegue su Left in edicola


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Il Labour e i sindacati: un esempio per la sinistra

Britain's main opposition Labour Party leader Jeremy Corbyn speaks during a rally organised by the Trades Union Congress (TUC) calling for a new deal for working people in central London on May 12, 2018. - The TUC called for a national demonstration on May 12 to demand an end to the government's austerity policies and better rights for all in the workplace. (Photo by Alex Cavendish/NurPhoto via Getty Images)

Insieme al Partito socialista portoghese al governo del Paese con il suo segretario Antonio Costa, il Partito laburista del Regno Unito è l’unico partito socialista d’Europa a godere di una ottima salute sia a livello elettorale che, soprattutto, a livello di militanza e partecipazione attiva da parte degli iscritti. Sotto la guida di Jeremy Corbyn, infatti, il Labour è passato da un numero di iscritti consolidato intorno alle 200mila unità dagli inizi degli anni 2000, agli oltre 550mila iscritti del 2018, più di tutti gli altri partiti del Regno Unito messi insieme.

Quali sono le ragioni di questa straordinaria vitalità di un partito che, fino al 2015, sembrava destinato a fare la fine di tutti i suoi epigoni continentali, diretti verso quella che è stata definita la “destinazione Pasok”, facendo riferimento alla scomparsa, dalle urne e dalla società, del partito socialista greco, una volta potentissimo e popolarissimo? E soprattutto, ci sono delle buone pratiche che si possono “importare” da quel modello? A parere di chi scrive l’elemento fondamentale che sta alla base della rinascita laburista è il rinvigorito legame, in realtà mai spezzato, tra partito e sindacati.

Per analizzare questo punto è necessaria una breve parentesi storica utile a contestualizzare. Il Labour, caso credo unico nel panorama dei grandi partiti socialisti europei, nasce per la volontà dei sindacati e della classe operaia di avere una propria rappresentanza parlamentare. Nel percorso di emancipazione del movimento operaio, dunque, la nascita del grande partito di riferimento della classe lavoratrice arriva dopo e grazie alle grandi organizzazioni sindacali. Un processo se vogliamo inverso a quello, per esempio, svoltosi in Italia dove la nascita del Partito socialista e del Partito comunista precede di decenni la formazione di un grande sindacato di riferimento che, nella formula classica, era una “cinghia di trasmissione del partito” e non una…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola


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I diritti delle donne nel mirino dei fondamentalisti

A nun holds a placard reading 'More births minus abortions' during the annual 'March for Life' in Rome, on 10 May 2015, to protest against abortion and euthanasia and to proclaim the universal value of the right to life.(Photo by Giuseppe Ciccia/NurPhoto)

Nessuno tocchi la Convenzione di Istanbul. Il grido delle associazioni a tutela dei diritti delle donne si leva alto in tutta Europa. Come denunciato dalla rete Wave (Women against violence Europe), il segretario generale del Consiglio d’Europa, il norvegese Thorbjørn Jagland, ha ricevuto pesanti pressioni da oltre 300 organizzazioni europee appartenenti alla destra ultracattolica attraverso una lettera, che Left ha potuto visionare, contenente «raccomandazioni concrete», relative alla necessità di «avviare una revisione della Convenzione» sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Un “invito” firmato da 333 organizzazioni provenienti da 9 Paesi dell’Est Europa, che se accolto potrebbe minare i principi politici e giuridici della Convenzione stessa approvata dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e ratificata dall’Italia il 19 giugno 2013.

«Si tratta di un durissimo attacco ai diritti delle donne: la Convenzione è uno strumento giuridico fondamentale nel contrasto alla violenza» osserva Lella Palladino, presidente di D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), e aggiunge: «L’offensiva è rivolta contro il principio politico fondamentale secondo cui il persistere della violenza sulle donne è connesso alla loro discriminazione. Queste violenze, con tutta evidenza, sono conseguenza di una determinato contesto sociale e culturale per cui le donne non godono degli stessi diritti degli uomini. Ma questa lettura non sta bene alla destra e al cattolicesimo più fondamentalista». Non è un caso che nella missiva si insista sulla «possibilità per i governi di apporre delle riserve sulle parti ideologiche e controverse» della Convenzione, e che a firmare la lettera siano state associazioni di Paesi come Lituania, Slovacchia e Ucraina, dove l’avanzata di movimenti neofascisti è molto forte, e dove è altrettanto evidente il connubio con associazioni di matrice cattolica e “pro life”. E poco importa a costoro che la Convenzione sia stata pensata e sia nata con il preciso obiettivo di porre un argine agli omicidi e alle violenze di cui le donne europee sono vittime. Crimini che come è noto avvengono soprattutto in ambito familiare o di conoscenza diretta. Stando agli ultimi dati Eurostat (pubblicati nel 2017 e relativi al 2015) in area Ue si sono verificati 1.482 femminicidi e circa 215mila reati a sfondo “sessuale”, di cui 80mila stupri. Numeri peraltro sottostimati considerando che, su 28 Stati membri, soltanto 15 (compresa l’Italia) forniscono i dati. Ecco la ragione per cui la Convenzione di Istanbul oggi svolge un ruolo pressoché fondamentale. «L’Europa è sicuramente più civile da quando si è dotata della Convenzione», spiega ancora Lella Palladino: «Proprio perché è vincolante, ci ha dato la possibilità di pretendere leggi e diritti».

Ed è per questo che il 23 aprile è stata inviata una lettera da Wave, firmata da ben 1.166 ong di 42 Paesi membri del Consiglio d’Europa, in cui le organizzazioni esprimono «shock» e «preoccupazione» di fronte all’attacco lanciato «contro il riconoscimento universale della discriminazione e della diseguaglianza di genere come cause e conseguenze della violenza contro donne e ragazze». Nella galassia delle associazioni contrarie ai principi stabiliti dalla Convenzione è possibile trovare di tutto. Dalla associazione scientifico-culturale dei Carpazi orientali a quella degli insegnanti romeni, per passare ai comitati che raccolgono veterani, ex militari e quadri militari in riserva. Senza dimenticare la Convention del Danubio orientale e le associazioni di soccorritori di montagna e di protezione animale. Lo zoccolo duro è costituito da ong che ruotano attorno ai movimenti “pro life”. Come la Life network foundation Malta che nel 2017 ha raccolto i suoi aderenti al convegno “Pillola del giorno dopo: aborto attraverso la porta sul retro?”, con tanto di lectio magistralis di Bruno Mozzanega, ricercatore universitario e obiettore convinto, presidente della Sipre (Società italiana procreazione responsabile). Costui tra le tante fake news dispensate alla platea ha affermato che la World health organization (Oms) fornirebbe dati falsi proprio sulla efficacia della pillola anticoncezionale d’emergenza del giorno dopo. Tra gli altri firmatari, spicca il Vertice della gioventù lituano pro patria, una «organizzazione cittadina che unisce l’autocoscienza cristiana e nazionale con diverse opinioni politiche», prima tra tutte «l’identità nazionale», si legge nella presentazione dei soggetti firmatari. Non va meglio in Ucraina, dove troviamo Sobornist, associazione che si definisce «pubblica scientifica», che mira alla «formazione dei principi ideologici del patriottismo e dell’autocoscienza nazionale». Dalla Slovacchia, invece, viene Slovakia christiana, in passato contigua al partito nazionalista di Andrej Danko, noto per le sue posizioni xenofobe e fortemente identitarie.

Per sostenere l’azione del Consiglio d’Europa contro questi nuovi crociati, D.i.Re ha lanciato una mobilitazione e ha spinto 235 associazioni italiane a sottoscrivere l’appello della rete Wave. Tra i firmatari segnaliamo numerosi centri antiviolenza e case rifugio, oltre alla Casa internazionale delle Donne, l’Arci, Action Aid, Fiom, Cgil e Non una di meno. Il problema, tuttavia, resta ed è concreto. Anche in Italia. «C’è una sorta di terrorismo emotivo e psicologico in atto contro le donne, che un attimo dopo le elezioni del 4 marzo è diventato ancora più forte» spiega Palladino. «La destra che ha vinto parla al ventre molle della società italiana». E questo avviene anche dalle aule istituzionali. È capitato l’11 aprile a Palazzo Madama, dove si è tenuto il convegno “Le gravi conseguenze dell’aborto sul piano fisico e psichico”, organizzato da ProVita. All’incontro ha partecipato una nutrita schiera di senatori di Fratelli d’Italia e Lega, da Isabella Rauti al capogruppo del Carroccio proprio al Senato, Gian Marco Centinaio. «Noi siamo molto preoccupate per il fatto che il prossimo sarà un governo che ci metterà in difficoltà e metterà in discussione i passi fatti», riflette Palladino che si dice molto scettica anche riguardo il Movimento 5 stelle: «Da quando si è costituito, i suoi vertici hanno sempre detto che per loro l’antifascismo non è un valore. Il problema è che hanno uno sguardo neutro: così è difficile avere un’idea di cosa sia l’ottica di genere». E i passi da fare, nella realizzazione concreta di quanto previsto dalla Convenzione, sono ancora tanti. «L’Italia ha approvato questa legge senza averne capito il portato».

L’articolo di Carmine Gazzanni è tratto da Left n. 19 del 11 maggio 2018


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