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Nel Messico che va verso le elezioni non si ferma la strage di giornalisti

Che vuol dire fare il giornalista in Messico? Morire. Il coro di denuncia della stampa sudamericana è unanime dopo l’ennesimo omicidio di un reporter avvenuto sei giorni fa. E primo imputato è il governo di Nieto accusato di far poco o nulla per fermare la strage che avviene per mano di cartelli criminali che vedono nei giornalisti un intralcio alle loro lucrose attività illecite. In questo clima rovente, segnato da una profonda crisi di democrazia legata all’attacco frontale al mondo dell’informazione “scomoda”, il Messico si avvia alle elezioni del 1 luglio. Una tornata elettorale che stando ai sondaggi potrebbe riportare la sinistra alla guida del grande Paese centroamericano.
Ma ecco una breve rassegna stampa relativa all’omicidio di Juan Carlos Huerta, fondatore della radio Sin reservas, avvenuto il 15 maggio a un anno esatto da quello di Javier Valdez Cardenas. I colleghi chiedono che sia fatta luce su questa ennesima morte di un reporter. Huerta è il quarto giornalista a morire nel 2018 in Messico. Negli ultimi sei anni 43 reporter hanno perso la vita e dal 1992 le vittime della libertà di stampa sono salite a 134. Cosa ricorderemo di questa data tra un anno? E tra dieci anni? L’edizione messicana di El Pais ha scritto che «il 15 maggio sarà per sempre un fecha negra, giorno nero per il giornalismo messicano».
Gli omicidi di Huerta e quello, un anno prima, di Valdez, sono stati definiti dalle autorità delle vere e proprie esecuzioni. I killer conoscevano benissimo chi stavano colpendo. E che i due giornalisti fossero un simbolo della libertà di stampa è un fatto reale. Valdez nel 2003 aveva fondato Riodoce per raccontare dei crimini dei cartelli di droga, della corruzione dei politici di Sinaloa e nel settembre del 2009 contro gli uffici del quotidiano erano state lanciate granate intimidatorie.
Ma questo ennesimo omicidio che ha per vittima un giornalista, allarga il campo delle polemiche: sotto accusa è l’azione stessa del governo che è troppo blanda contro la criminalità organizzata.
In Messico nel 2017 sono stati registrati 29.168 casi di omicidio, quasi tutti legati al traffico di droga. Secondo gli esperti, nel 2018 si supereranno i 30mila. Nel Paese il 90 per cento dei crimini rimane impunito. «L’impunità continua a incentivare l’azione dei killer» ha detto Jan Albert Hootsen, rappresentante del CPJ, Comitee to protect Journalist. Nell’ultimo report di Reporters without borders, nell’indice di libertà dei media, il Messico è al 147esimo posto; con più di dieci reporter uccisi nel 2017, RSF paragona lo stato del presidente Nieto a quello di Assad. Il Messico è secondo solo alla Siria per il numero di giornalisti uccisi nel 2017.
«Noi continuiamo a chiedere giustizia», ha detto un collega di Valdez, ma dalla sua morte, cioè da un anno, non c’è stata alcuna inversione di tendenza.
Dopo l’assassinio di Huerta, Gerardo Priego, direttore di una Ong che si batte contro i rapimenti, ex candidato al governatorato di Tabacco ed ex membro di una commissione speciale per investigare crimini commessi contro i giornalisti, ha lanciato pesanti accuse: «i criminali fanno il lavoro sporco del governo, è più conveniente per il governo che a silenziare i giornalisti siano i criminali piuttosto che i politici».
Ricordiamo che quando è stato premiato con l’International Freedom Award nel 2017 per il suo lavoro al CPJ, Valdez è stato descritto come «un uomo coraggioso, un uomo che fa quello che ti può far arrivare un proiettile in testa in ogni momento in Messico: riporta notizie». Su quel podio il reporter parlò della sua patria: «i giovani ricorderanno questo come un periodo di guerra, a Sinaloa è un peligro, un pericolo essere vivo, quello che vivono i giornalisti, lo vive tutto il Paese».
Su twitter rimane quello che è oggi la memoria di Valdez, il suo coraggio, quasi il suo epitaffio, scritto dopo l’omicidio a Chihuahua di un’altra giornalista, la collega Miroslava Breach: «che ci uccidano, se questa è la condanna a morte per reportear este infierno, per raccontare questo inferno. No al silenzio».

“Libertà immediata per Amal Fathy”. Centinaia di adesioni allo sciopero della fame iniziato dalla madre di Giulio Regeni

Ilaria, Guido, Marco, Michela, Giuliana, Raffaella, Daniela, Luisa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, aumenta il numero delle adesioni al digiuno a staffetta – iniziato da Paola Deffendi, mamma di Giulio Regeni e dal suo legale Alessandra Ballerini – per chiedere la liberazione immediata di Amal Fathy, moglie di uno dei consulenti egiziani della famiglia Regeni.

Amal è una donna che lotta quotidianamente per i diritti umani. L’11 maggio scorso, alle 2:30 del mattino gli agenti delle forze di sicurezza dello Stato egiziano l’hanno prelevata dalla sua casa, con suo figlio di 3 anni e suo marito Mohamed Lotfy, il fondatore della Commissione egiziana per i diritti e la libertà (Ecrf), per condurli in una stazione di polizia.

Mohamed e il bambino sono stati rilasciati, Amal no. Lei è stata accusata di aver compiuto atti di minaccia alla sicurezza dello Stato in due occasioni, ricevendo pertanto due ordini di detenzione preventiva di 15 giorni ciascuno. La sua colpa? Avrebbe pubblicato un video su Facebook criticando lo Stato per non aver sanzionato adeguatamente il reato di molestie sessuali, ha fatto sapere un altro consulente egiziano della famiglia Regeni, Ahmad Abdallah.

«Siamo molto in apprensione per la sorte dei nostri difensori al Cairo, tutti loro stanno pagando un prezzo altissimo in termini di libertà e sicurezza a causa della loro eroica ed irriducibile battaglia legale nel cercare e pretendere al nostro fianco verità per Giulio» si legge in una nota dell’avv. Ballerini. Una verità alla quale si sta cercando di arrivare da oltre due anni. Tuttavia, sottolinea a Left il portavoce italiano di Amnesty International, Riccardo Noury, «la verità su Giulio la conosciamo dal primo giorno, quella che manca è una verità giudiziaria».

In centinaia si sono mossi per sostenere Amal, non solo per farle arrivare un supporto morale, ma anche per attirare l’attenzione dello Stato affinché qualcosa cambi. «In Egitto c’è un clima di repressione fortissimo. Una donna che prende la parola, viene vista male. Dopo l’incarcerazione di Amal è nata una campagna offensiva contro di lei» racconta Noury. In un Paese dove la libertà di parola viene negata, dove una donna che lotta per i diritti delle altre donne viene arrestata c’è molto che non va in termini di democrazia. Allora bisogna lottare per Amal e alzare la voce. Bisogna rendere le donne libere. A quel punto possiamo lottare anche per tutti i Giulio d’Egitto.

Nella Russia di Putin disuguaglianze sociali come ai tempi dello zar

In una recente pubblicazione di Thomas Piketty, di cui ho avuto occasione di parlare anche nelle pagine di Left, risulta che la Russia di Eltsin e Putin abbia raggiunto il livello di diseguaglianza sociale simile a quella che c’era prima della rivoluzione russa del 1905. Ma nella ricerca di Piketty c’è un’altro dato che sorprende: il tasso più basso diseguaglianza in Russia si raggiunse nel periodo brezneviano.

Brežnev ascese alla carica di segretario del Pcus nel 1964 e vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1982. La sua reggenza ai vertici dello stato sovietico è stato denominato il periodo della zastoj ovvero della stagnazione. Stagnazione che va intesa però non semplicemente in senso economico. In realtà – al netto dei dati gonfiati dei piani quinquennali – l’economia sovietica crebbe significativamente anche negli anni settanta. La Cia riteneva la società sovietica stabile. La stagnazione ebbe caratteri sociali e culturali. Appena giunto al potere Brežnev sembrò voler proseguire sulla strada intrapresa da Kruscev del “disgelo” favorendo il pluralismo economico e sociale. Ma ben presto fu tirato il freno: la libertà di critica all’interno del partito fu messa al bando, i dissidenti finirono nei manicomi, la musica pop-rock fu denunciata sulla stampa come un fenomeno “borghese”. Nelle scuole venne imposta la lettura della trilogia autobiografica di Brežnev, Stalin venne parzialmente riabilitato in chiave ipernazionalistica.

Ma a scalpitare furono soprattutto il mondo della cultura e i giovani. Gli operai erano perlopiù tranquilli: i salari non erano alti ma nei negozi (specialmente nelle grandi città) si trovava quasi tutto, i ritmi di lavoro erano bassi e l’assenteismo generalizzato. Poi c’erano i benefit: colonie estive gratuite per tutti i bambini e un paio di settimane sul Mar Nero per le famiglie. Alle giovani coppie che si sposavano veniva garantito in linea di massima un alloggio di due camere con servizi (anche se il fenomeno della coabitazione continuò ad esistere fino alla fine dell’Urss). I problemi si concentravano soprattutto nella scarsa qualità dei prodotti dell’industria leggera e in taluni casi in una loro mancanza assoluta (defizit) che alimentava un risparmio forzato dei cittadini. Tanto per capirci: i jeans e calze di nylon che in Urss non venivano prodotti o importati si trovavano solo al mercato nero al prezzo di interi salari mensili.

I privilegi della burocrazia e dei lavoratori altamente professionalizzati erano conosciuti da tutti ma non mostrati con sfacciataggine. I papaveri di partito e i funzionari di alto rango (činovniki) riposavano in dacie con la sauna privata lontani da occhi indiscreti e potevano accedere a magazzini speciali dove potevano acquistare a prezzi stracciati cibi e alcoolici del mondo capitalista. Brežnev aveva il pallino delle auto, ne collezionò parecchie e probabilmente alla sua tavola non mancò mai il caviale nero. Kosygin amava gli abiti inglesi in fresco lana all’ultima moda… Tuttavia di questo e non altro si trattava e le ricchezze della nomenklatura sovietica non possono essere paragonate neppure lontanamente ai patrimoni di oligarchi quali Abramovic o Potanin della Russia di oggi. La ridotta diseguaglianza, basata su un compromesso sociale tra burocrazia e operai, funzionò in Urss ma rese il paese sempre più inerte e passivo. Innovazione e partecipazione non vennero favorite nelle aziende e in mancanza di meccanismi regolatori di mercato la società sovietica si ripiego sempre più su stessa. Quando poi il prezzo mondiale del petrolio calò non poterono più essere finanziate le importazioni di tecnologia e prodotti agricoli; il fardello del complesso militar-industriale divenne insopportabile. Ma qui siamo già a ieri, o all’atro ieri, alla perestrojka e al crollo dell’Urss.

Forse, allora, una delle riflessioni che è mancata alla sinistra negli ultimi decenni, proprio sulla base di quella vicenda, è stato il rapporto tra mercato e distribuzione delle ricchezze e delle risorse, del rapporto tra qualità della crescita economica e uguaglianza. Il ritardo su questo terreno è diventato enorme, è vero, ma chi non comincia non sarà mai neppure a metà dell’opera. E non permetterà di fare un bilancio veritiero sull’epoca sovietica.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Berlusconi, il padre e la vestale offerta al drago

Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, durante il comizio elettorale nell'ultimo giorno di campagna per le regionali valdostane, Aosta, 18 maggio 2018. ANSA/THIERRY PRONESTI

La scena l’avete vista un po’ dappertutto: Berlusconi finisce il suo comizio ad Aosta, il coordinatore locale di Forza Italia lascia entrare una giovane ragazza che porge al leader proprietario di Forza Italia un quadro realizzato da una pittrice locale e un tipico cavallino in ceramica. Berlusconi, come tutti gli uomini che hanno bisogno di affidarsi al pene per ispirare simpatia a tutti i peni presenti, sapendo di andare sul sicuro giocandosela lì in basso, indica la ragazza e declama: «Preferisco lei!». Qui c’è la gaffe, dicono i giornali. E tutti a indicare Berlusconi, come se di berluschini così non ne incontrassimo tutti i giorni qualcuno.

Il focus forse invece andrebbe puntato sul coordinatore di Forza Italia che, bello tronfio, svela di essere il padre e dice a Berlusconi: «Sei un buongustaio». Un buongustaio, l’acquolina in bocca, il boccone prelibato, la donna da mangiare, la donna come regalo, la donna come souvenir locale, l’apprezzamento pubblico della preda. La figlia. Sta parlando della figlia. Di sua figlia.

«È un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere… Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà…», aveva scritto Veronica Lario nell’aprile del 2009. E non è cambiato niente. Niente. Berlusconi è il re che deve essere sollazzato con la pancia sempre piena e per sfamarlo i suoi servi sono pronti a tutto. Non è solo questione di rispetto per le donne: qui c’è anche tutto il rispetto che gli uomini non hanno per se stessi, disposti a strisciare pur di strappare un segno di approvazione, venduti e pronti a vendere tutto pur di farsi notare.

Ecco, forse il problema non è solo il Grande Fratello, no. Forse è il mondo fuori, quello che Berlusconi ha concimato per anni, che fa ancora più schifo. O no?

Buon lunedì.

Giorgio Galli: “Flagello” è la parola perfetta per descrivere il neoliberismo

«Me ne andai da Panorama quando a Rizzoli subentrò Mondadori», racconta, visibilmente emozionato, il 90enne politologo e storico Giorgio Galli, nel bel mezzo della presentazione del saggio dell’economista Andrea Ventura, Il flagello del neoliberismo – Alla ricerca di una nuova socialità‘ (L’Asino d’oro ed., 2018). Erano gli anni Settanta e Galli, estimatore di Antonio Gramsci e Riccardo Lombardi, era uno degli opinionisti di punta del settimanale. Di preciso accadde al termine di una lectio magistralis sulla contrapposizione storica tra la teoria marxista e la teoria neoclassica, il neoliberismo – «Flagello è la parola perfetta per descriverlo», sottolinea più volte il politologo, quando si passa «alla ricerca di una nuova società».

Con Galli e Ventura alla libreria Odradek di Milano c’è anche l’economista Ernesto Longobardi di fronte a un pubblico attento e coinvolto. La conversazione con l’autore ruota intorno al quesito su come uscire, appunto, dal «flagello del neoliberismo» che ha, ovunque in Europa, prodotto diseguaglianze economiche e sociali, impoverimento, non solo materiale, delle persone e crollo di ogni possibile speranza per il futuro, in particolare per giovani e millenials.

Da storico Galli ricostruisce i passaggi chiave del ‘900, quando si fecero le riforme che cambiarono le condizioni di vita della gente: il Welfare state, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, la scuola dell’obbligo, la sanità universale, il divorzio, l’aborto, e sulla successiva involuzione, a partire dai primi anni del duemila, quando a dominare è stata ‘la terza via’ neoliberista, molto interessata al facile e veloce guadagno e per nulla alla qualità della vita delle persone. E qui è stato immediato il riferimento alla teoria della nascita di Massimo Fagioli e alla sua «idea straordinaria» di fare la distinzione tra «bisogni ed esigenze» delle persone, un’idea che attraversa il libro di Ventura che pertanto per approfondire vi invitiamo a leggere.

«La sinistra italiana nella grande maggioranza – prosegue Galli -, per aver identificato la Russia con il marxismo e il socialismo quando ha visto crollare l’Urss ha creduto che fosse crollato anche questo grande prodotto culturale, il marxismo, che avrebbe permesso di capire il capitalismo globalizzato delle multinazionali che governano il mondo». Globalizzazione che, inesistente prima del 1994 nei dizionari, comparve dal nulla proprio in quel momento e per una ragione: rendere inevitabile, anzi benigno, il progetto di egemonia culturale dell’Occidente, il neoliberismo, che dato come il futuro successivo al crollo dell’Urss, è oggi sull’orlo del collasso. Un fallimento che coincide con l’avanzata dei populisti. Come dire, dalla padella nella brace. Come se ne esce?

«Riprendere la critica al capitalismo è necessario, non è però sufficiente. L’obiettivo è far sintesi, trovare un punto d’incontro tra di noi. Cioè tra la mia tesi – secondo cui il mondo è governato da 500 multinazionali, con al vertice le 5 più potenti che controllano l’informatica e quindi l’informazione – e quella sostenuta da Ventura che a partire dalla distinzione tra bisogni e esigenze (che in Marx non c’è), indica su quali basi, oltre la morale religiosa e le teorie del passato, possa trovare fondamento la necessità storica di un nuovo patto sociale per lo sviluppo e il benessere di tutti».

Il business nascosto della sanità integrativa

OSPEDALE SAN RAFFAELE STATUA GIOVANNI PAOLO II

Hanno cominciato i metalmeccanici e questo è pazzesco, perché tra i firmatari di quel contratto c’è anche la Fiom che consideravamo tutti come un’avanguardia nella difesa dei diritti dei lavoratori» denuncia, fuori dai denti, il medico e attivista Vittorio Agnoletto. «Il pericolo è che venga seppellito nei fatti il Servizio sanitario nazionale (Ssn)» rincara la dose Luca Benci, giurista esperto in diritto sanitario, autore di Tutela la salute (Imprimatur, 2017), lanciando un vero e proprio allarme. La minaccia a cui fanno riferimento è un fenomeno in forte crescita, caratterizzata da nomi all’apparenza tutt’altro che spaventosi: viene detta sanità integrativa, o welfare contrattuale. Si tratta di fondi di assistenza sanitaria per i lavoratori che hanno bisogno di cure, garantendo l’accesso a terapie e servizi – in teoria – non «passati dalla mutua», che si possono fruire anche in strutture private convenzionate.

Non sono polizze opzionali, bensì assicurazioni obbligatorie stipulate per contratto da tutti gli occupati di un particolare settore. Questi strumenti infatti, sempre più spesso, vengono inseriti direttamente in numerosi accordi collettivi nazionali, a spese dei datori di lavoro. La Cgil, in un documento del 2017 stilato dall’Area contrattazione e welfare, ne ha censiti circa 40, per una platea di sei milioni di lavoratori iscritti. «Dopo il caso dei metalmeccanici di due anni fa, adesso i fondi sanitari sono stati aggiunti praticamente in tutti gli accordi in fase di rinnovo», spiega Benci. Dalle Poste al commercio, dal turismo ai chimici. Strumenti del genere sono chiamati anche «secondo pilastro del welfare» (dando per scontato che il primo sia quello pubblico), ormai uno dei mantra dei giornali economici house organ del neoliberismo, e vengono presentati come la soluzione al dramma delle liste d’attesa infinite. «Alleggerisce il peso sugli ospedali pubblici e rende l’accesso alle cure più efficiente», si dice, giustificando l’esistenza dei fondi.

E allora, perché tanta preoccupazione per un sistema che sembra tutto sommato agevolare la vita quotidiana di milioni di italiani? Per capirlo, è necessario rimuovere la patina di propaganda che avvolge questi dispositivi, e tuffarsi nelle loro contraddizioni. «Prendiamo il caso degli operai metalmeccanici: si parla di fondi sanitari integrativi», chiarisce Benci. «Ma in realtà, informandosi sulle caratteristiche del fondo in questione chiamato MetaSalute, più che di sanità integrativa si scopre la presenza di tanta sanità sostitutiva. Se uno cerca quali sono le cure offerte, difatti, c’è ad esempio il ricovero, poi il parto cesareo e la procreazione medicalmente assistita: tutte prestazioni già coperte dal Ssn!».

«Possiamo dunque dedurre che tali fondi assicurativi siano concorrenti rispetto alla sanità pubblica. Non forniscono infatti solo odontoiatria, per dire, realtà martoriata e messa in un angolo dal Ssn. Stiamo parlando di trapianti, eco color doppler, tutto», gli fa eco Agnoletto. Sulla carta, però, questi fondi non escludono la libera scelta di rivolgersi alle strutture pubbliche, di pagare il ticket, e poi richiedere il rimborso. Ma perché aspettare fino – talvolta – a qualche mese per farsi rendere una cifra che viene direttamente anticipata dai fondi se ci si rivolge al privato convenzionato (il quale, per giunta, ha tempi di erogazione dei servizi generalmente più brevi)?

«La stessa Fiom, che ha presentato questi strumenti come una conquista portata a casa al momento della firma dell’accordo, li difende a spada tratta – spiega Agnoletto -. Sostiene che siano una cosa positiva per lavoratori e famiglie, e ribadisce l’impegno a fare in modo che i fondi indirizzino i pazienti verso le strutture pubbliche. Ma la situazione, al momento, è esattamente opposta. Nel programma che conduco (37.2, su Radio popolare, ndr) abbiamo ricevuto in diretta la testimonianza di un operaio, che in buona sostanza diceva: “Io dovevo fare delle visite, potevo farle nel pubblico, ma avrei dovuto attendere tre mesi per il rimborso, mentre nel privato non dovevo sborsare nulla; scusate, ma ho scelto il privato”». Fino a qui, dunque, sono chiari gli interessi per i big della sanità privata italiana, che in questo modo mettono in tasca un gigantesco portafoglio di clienti, che assai difficilmente (per usare un eufemismo) si sarebbero riusciti a procurare, in modo autonomo, sul mercato. Invece, per lavoratori ed imprese, come stanno realmente le cose?

«I sindacati si sono trovati stretti sull’offerta di trasferire 100 (una cifra del tutto simbolica, ndr) di aumento salariale in termini di welfare contrattuale, piuttosto che in termini di retribuzione», puntualizza con cura Marco Geddes da Filicaia, oncologo ed ex vice presidente del Consiglio superiore della sanità. «Ma in questo modo – prosegue -, i vantaggi più consistenti sono per i datori di lavoro, perché se avessero dovuto aggiungere quei 100 in busta paga, a quella cifra avrebbero dovuto sommare la quota per le trattenute, i contributi per la pensione, ecc. Mentre dall’altro lato, per il lavoratore, l’agevolazione è soltanto apparente. Perché se quei soldi li ricevesse nella forma di un semplice aumento, oltre ad avere 100 in più in tasca, otterrebbe maggiori oneri riflessi che si sarebbero poi riversati nella liquidazione e nella pensione». «Senza considerare inoltre – insiste il medico, autore de La salute sostenibile (Pensiero scientifico editore, 2018) – che di questo 100 versati al fondo, una buona parte finisce speso per l’intermediazione amministrativa di questi fondi, e poi che il mancato aumento salariale si traduce in un minor gettito fiscale. Risultato? Il dipendente vedrà la sanità pubblica restringersi ulteriormente».

Le carte in mano ai giocatori della partita, a questo punto, sono scoperte. «È chiaro – riprende Benci – che, col definanziamento del Ssn, non si riesca a fornire adeguate risposte di salute. Chi paga (di fatto, col prezzo di un mancato aumento, ndr) un fondo sanitario trova sì una alternativa nel privato, ma in tal modo egli paga due volte, perché continuerà con la fiscalità generale a sostenere il diritto a ricevere cure prestate dalle strutture pubbliche». E in tutto questo lo Stato, oltre a fare tagli, come si muove? Per averne una idea, è necessario aggiungere un elemento. A fianco di questi fondi sanitari, negoziati a livello nazionale, esiste una lunga fila di enti, casse e società di mutuo soccorso. Sono circa 300 in tutto, stando alle stime dell’anagrafe del ministero della Salute, comunicate l’anno scorso alla Cgil. Una parte dei quali figli di una contrattazione di secondo livello, cioè quella fatta in azienda. Per la quale, l’erario, riserva un «trattamento di cortesia».

«Io ho coniato un termine, lo chiamo welfare contrattuale a partecipazione statale – ironizza amaramente Franco Martini, segretario confederale della Cgil -, perché questi strumenti godono dal 2008 di una detassazione e, più recentemente, dal 2016 di una decontribuzione». All’interno del più antico sindacato italiano, si percepisce una diffusa consapevolezza dei rischi di questo trasferimento soft di utenti verso il privato. Consapevolezza che non porta però ad una inversione di rotta, visto che Cgil, Cisl e Uil stanno continuando a firmare contratti che prevedono questi strumenti. «È vero, le prestazioni previste dai singoli fondi, hanno iniziato ad invadere l’ambito dei livelli essenziali di assistenza», ammette Martini. «Noi su questo non siamo molto d’accordo».

Ma, prosegue, «è chiaro che il welfare contrattuale e la sanità integrativa non li puoi più fermare, ormai esiste una spesa privata per la salute che è notevolissima». Per questo, il sindacalista rilancia l’urgenza di mettere in pratica almeno alcuni correttivi: «Chiedere il rifinanziamento del fondo sanitario nazionale, una battaglia tutta da rimettere in piedi», dopodiché, aggiunge, «convenzionare il “secondo pilastro” col pubblico» e poi fare attenzione alle prestazioni assicurate, perché «lampada abbronzante e buono per la benzina, per fare alcuni esempi, non sono welfare contrattuale, sono benefit, e non possono essere sostenuti dallo Stato».

Correttivi, questi, che il sindacato propone nella speranza di scongiurare ciò che considera come «il rischio più grande». Ossia che la popolazione italiana si spacchi ancora di più, tra pazienti coperti dalle assicurazioni e gli altri, precari o lavoratori che non hanno polizze in contratto, sempre meno tutelati. «Il pericolo – chiosa Martini – è che se non governiamo questo processo, allarghiamo le disuguaglianze tra chi potrà difendersi e chi non potrà difendersi dalla crisi». Nel frattempo, la sanità integrativa va a gonfie vele. E la sensazione è il pericolo in questione sia già realtà. Se i confederali, finalmente, avessero voglia di opporsi con serietà e coraggio a questo business, dovrebbero sbrigarsi.

L’inchiesta di Leonardo Filippi è tratta da Left n. 19 dell’11 maggio 2018


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Che fine ha fatto Liberi e uguali?

Delegati durante la votazione all'Assemblea Nazionale di Liberi e Uguali, Hotel Ergife, Roma, 7 gennaio 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Se si fosse votato a luglio, probabilmente, staremmo qui a scrivere della disintegrazione di Leu. Così sembrava proprio ai diretti interessati mentre discutevano, senza trovare una quadra, su quale posizione assumere nell’eventualità di un governo del presidente. Poi la notizia del dialogo Di Maio-Salvini ha permesso di lanciare un’assemblea nazionale per il 26 maggio. Ma qualcuno la vorrebbe costituente e altri aperta il più possibile. La differenza formale implica una diversa visione degli approdi. Leu deve sciogliere il nodo se essere sinistra, il quarto polo, o centrosinistra ossia il campo progressista.

Insomma, il solito nodo del rapporto col Pd – da cui però non giungono segnali – che è appesantito dai dubbi su come posizionarsi di fronte a un governo giallo-verde. Chi è pronto a un’opposizione da sinistra, chi a fare asse col Pd, chi a valutare «senza sconti, ma senza pregiudizi», come Stefano Fassina, deputato in quota Sinistra italiana ma su posizioni “no euro”. E c’è anche lo scoglio del simbolo: potrà essere utilizzato solo con l’unanimità dei promotori.

Dopo aver superato a malapena l’asticella del quorum, per due mesi nessuno aveva più sentito parlare di Liberi e uguali. Sul sito ufficiale, il volto del capo politico, Pietro Grasso, e un comunicato di quaranta giorni fa di solidarietà a Lula. Stefano Di Traglia, ex portavoce di Bersani aggiunge ai dilemmi l’elemento di una leadership troppo associata all’estabilishment e a una fase negativa.

Intanto…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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Cannes, Palma d’oro ai ladri dal cuore tenero di Hirokazu Kore-Eda

Shoplifters

Il film giapponese Shoplifters diretto da Hirokazu Kore-eda ha vinto la Palma d’Oro alla 71a edizione del Festival di Cannes. Con un’opera insolita e toccante che mette al centro una famiglia anticonvenzionale (una famiglia di taccheggiatori che adottano un orfano) trattata con grande sensibilità. Questo il verdetto della giuria internazionale, presieduta dall’attrice Cate Blanchett.
Da segnalare in particolare il Grand Prix della Giuria  andato a Spike Lee per BlacKkKlansman, film ambientato negli anni Settanta ma con un forte sguardo sul presente: è una pellicola di denuncia sul razzismo che lancia diverse frecciate contro l’attuale amministrazione di Donald Trump.

Premio della Giuria a Caphernaum, diretto dalla libanese Nadine Labaki, favorito in prima battuta, ma che ha fatto molto discutere per il modo confuso e poco autentico con cui tratta un tema delicatissimo come quello dell’infanzia negata in situazioni di migrazione criminalizzata, immaginando un calvario cristologico.

Premio per il miglior regista è stato assegnato al polacco Pawel Pawlikowski per  Cold War, u storia d’amore in bianco e nero che, nonostante tutto, attraversa gli anni della Guerra Fredda.

Premio Speciale, una novità di questa edizione del Festival di Cannes,  è andato a un decano del cinema: a Jean-Luc Godard (che festeggia 87 anni) per il suo Le livre d’images . E ancora premio per la migliore attrice a Samal Yeslyamova per Ayka, diretto dal kazako Sergey Dvortsevoy. Il riconoscimento per la migliore opera prima, Caméra d’Or, va al belga Girl, diretto da Lukas Dhont, presentato nella sezione Un certain regard. Il premio Fipresci della critica internazionale va al coreano Burning di Lee Chang-dong.
Successo per il cinema italiano che ottiene due premi: il migliore attore è Marcello Fonte per Dogman, diretto da Matteo Garrone, mentre il premio per la migliore sceneggiatura va  a Alice Rohrwacher per Lazzaro felice, ex aequo con l’iraniano 3 Faces, scritto da Nader Saeivar e dal grande regista iraniano Jafar Panahi.

Alba Rohrwacher compare invece nell’opera di Zanasi che imbastisce una melensa storia confessionale: un manipolo di corrotti burocrati inizia un progetto di chiara speculazione edilizia, Lucia è chiamata dalla madre di Dio a “parlare con gli uomini” per impedire l’edificazione di tale nefandezza ma di una chiesa in suo onore.

«Il mio Faruk, ucciso due volte a Sarajevo»

epa03173440 A litte girl places flowers among some of the 11,541 red chairs displayed in the main street of Sarajevo, Bosnia, 06 April 2012. One for each victim, 11,541 empty red chairs were set up in the Bosnian capital Sarajevo for the 20th anniversary of the siege of Sarajevo and the start of the Bosnian war in 1992. EPA/FEHIM DEMIR

Di fianco alla stufa, il tempo scorre lieve. Il tintinnare del cucchiaino nella porcellana si spegne dolcemente in un sapore suadente di crnj čaj, tè nero, mentre fuori il freddo mostra i denti di un febbraio bosniaco rigido ma ancora senza neve. Che anno sarà stato? Il 2004, forse il 2005. Fino a pochi istanti prima ho ascoltato storie imperiali e socialiste, asburgiche e jugoslave, ambientate tra la Dalmazia, Sarajevo e Vienna, con puntate a Praga e a Trieste e chissà dove altro in quell’Europa fors’anche romantica ma oramai del tutto decaduta. Estinta. Ho ascoltato storie di famiglia visualizzandole come in un film, un Via col vento balcanico dal finale sempre e comunque tragico. Con il calore in bocca a sciogliere membra e parole, istintivamente fisso qualcosa nel muro dirimpetto a me in questo salone arredato col gusto di Elisabetta di Baviera, già imperatrice d’Austria-Ungheria. Una toppa nel muro. Una piccola toppa rappezzata bene, eppure ancora visibile.

«Il mio Faruk era lì, seduto davanti a me, come ora lo sei tu», mi dice d’un tratto Kanita-Ita Fočak, guardandomi sorridente da dietro la montatura agile e colorata degli occhiali da vista. Lei, architetto e anima storica e culturale della sua Sarajevo, il 10 maggio 1992, all’inizio del secondo mese dell’assedio più lungo della storia bellica europea del Novecento (1.445 giorni), era seduta in quello stesso salone accanto al suo Faruk. In quel preciso punto. «Quel giorno ci furono tante esplosioni e molti spari – ricorda -. Mio marito sarebbe voluto andare a vedere come stesse una sua cugina, che viveva non lontana da noi, ma riuscii a dissuaderlo. Ci rifugiammo col nostro bimbo di tre anni, Faris, in un microscopico ricovero di due metri quadrati che lui stesso aveva ricavato sotto alle scale. Quando i bombardamenti diminuirono, trovammo il coraggio di salire su in salone».

Stavano lì, guardando…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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In giro per il mondo da sei milioni di anni

TOPSHOT - Rohingya Muslim refugees walk down a hillside in the Kutupalong refugee camp in Cox's Bazar on November 26, 2017. Rohingya refugees who return to Myanmar from Bangladesh following a repatriation agreement will initially live in temporary shelters or camps, Dhaka said November 25, a day after the UN raised concern for their safety when they go back. The United Nations says more than 620,000 Rohingya have fled to Bangladesh since August and now live in squalor in the world's largest refugee camp after a military crackdown in Myanmar that the UN and Washington have said clearly constitutes "ethnic cleansing". / AFP PHOTO / Ed JONES (Photo credit should read ED JONES/AFP/Getty Images)

Nel repertorio delle parole usate a vanvera nel 21esimo secolo, un posto di rilievo spetta a “radici”: le radici che ciascuno avrebbe in un posto (e un posto solo) e da cui deriverebbero diritti diversi, più ridotti o addirittura inesistenti per chi da quel posto avesse avuto la cattiva idea di allontanarsi, migrando. Eppure basta abbassare gli occhi: là sotto non abbiamo radici, ma gambe: con le quali, come noto, si va in giro. Siamo sempre stati molto mobili noi umani, a partire più o meno da sei milioni di anni fa, quando i nostri antenati sono scesi dagli alberi, segnando un distacco netto con gli altri primati, cioè le altre scimmie.

La stazione eretta, lo sviluppo del cervello e tanti prodotti della sua attività fra cui il linguaggio, sono conseguenze di questa prima migrazione, in senso verticale. Ci sono 250 specie di primati, e siamo gli unici che per camminare si servono solo degli arti inferiori, che negli altri sono semplicemente posteriori. In questo modo gli arti superiori, braccia e mani, liberi da impegni per la locomozione, hanno cominciato a fare altre cose, ad afferrare oggetti, e poi a farne utensili. La nostra genealogia comprende creature parecchio diverse da noi; definire il momento esatto in cui siamo diventati propriamente umani è difficile, forse impossibile. Si comincia a parlare del genere Homo quando troviamo le prove archeologiche che qualcuno sapeva fare una cosa che neanche lo scimpanzé più intelligente è mai riuscito a fare: servirsi di un attrezzo per costruire un altro attrezzo. È successo poco meno di due milioni e mezzo di anni fa; la creatura che scheggiava sassi con altri sassi in modo da produrre attrezzi appuntiti o taglienti è stata battezzata Homo habilis.

Tante altre migrazioni sono seguite, in senso orizzontale nello spazio geografico, documentate nei fossili, nei reperti archeologici e nel Dna. Per quattro milioni di anni i nostri antenati, prima australopiteci, poi membri del genere Homo, sono…

 

Il genetista dell’Università di Ferrara Guido Barbujani, interviene al festival èStoria di Gorizia il 19 maggio, ore 17

L’articolo di Guido Barbujani prosegue su Left in edicola


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