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Laica e pragmatica, viaggio nella sinistra del Bloco

TO GO WITH A AFP STORY BY OLIVIER DEVOS - Portuguese radical left-wing party Bloco de Esquerda's candidate for the general elections and member of the Portuguese parliament, Marina Mortagua (C) stands with other party members during the painting of a mural painting in support of the resettlement of refugees in Portugal, in Lisbon on September 14, 2015. Her gaze is frank, her tone direct, Mariana Mortagua, rising star of the Portuguese radical left struggling to take off in the polls, wants to embody in the parliamentary elections of October 4, "the voice of those who do not recognize themselves" in the traditional parties. AFP PHOTO / PATRICIA DE MELO MOREIRA (Photo credit should read PATRICIA DE MELO MOREIRA/AFP/Getty Images)

Il Bloco de esquerda (Be) è probabilmente una delle formazioni della sinistra continentale più interessanti e complesse da capire. Questo perché è difficile da catalogare negli schemi classici: post-materialista o materialista, sovranista o europeista, opposizione radicale o dialogante, elitista o dal basso. Max Weber, nel breve pamphlet che riporta la sua conferenza all’Università di Monaco del 1919 La politica come professione, distingue due modi di intendere l’azione e la strategia politica: etica della convinzione ed etica della responsabilità. Nel primo caso a contare sono solo le idee, una visione deontologica secondo la quale i principi non sono negoziabili, nel secondo caso invece contano sì i principi, ma anche la mediazione e gli obiettivi che è possibile raggiungere in un determinato contesto.

Un passo indietro. Il Bloco nasce nel 1999 dall’unione di vari partiti della costellazione della sinistra non legata al Partido comunista português (Pcp) e al Partido socialista (Ps). Nel corso di questi due decenni la convivenza tra le varie anime non sempre è stata facile, tuttavia l’idea che lo stare insieme fosse più importante della prevaricazione di un’identità sull’altra ha fatto sì che, almeno fino ad ora, i conflitti non portassero mai o a scissioni traumatiche e o definitive. Un corpo vitale, una sorta di spugna all’interno della quale si muovono molte cose: movimenti, associazioni, il partito ovviamente e – sia permesso di usare qui questa parola – i suoi dirigenti.

Già, perché una politica dal basso non sempre è…

L’articolo di Goffredo Adinolfi prosegue su Left in edicola


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Laici e non credenti a Roma sono discriminati. La protesta della Uaar: impossibile celebrare funerali aconfessionali

A Roma esistono solo tre sale adatte allo svolgimento di funerali laici cerimonie funebri. Per questo motivo, il Circolo Uaar della Capitale, a firma del coordinatore Roberto Sabatini, ha scritto una lettera aperta ai presidenti dei Municipi affinché predispongano nei territori da loro amministrati locali idonei «allo svolgimento di cerimonie funebri non confessionali, ossia estranee a qualsiasi tipo di culto religioso».

Secondo l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, mettere a disposizione dei cittadini sale di questo tipo «è da considerarsi un diritto costituzionale ed un indicatore di civiltà, a prescindere dalla numerosità dei potenziali fruitori; ma considerando che, come del resto è avvenuto per i matrimoni civili, una percentuale consistente e crescente della popolazione di questa città desidera e intende avvalersi di prassi e strutture non religiose, l’individuazione e l’allestimento di questo tipo di locali è ormai improcrastinabile».

Ad oggi, il comune più esteso e più popoloso d’Italia (nonché il quarto dell’Unione europea), prosegue Uaar Roma, «dispone di sole tre strutture (di cui quella del Cimitero Flaminio non sempre disponibile) dedicate al commiato laico, tra l’altro ubicate lontano dai quartieri dove hanno vissuto le persone che, morendo, sono salutate dai loro cari e dai loro conoscenti sul territorio». Una situazione difficile che «costringe molte famiglie a reprimere le loro convinzioni profonde e le stesse volontà dei loro congiunti defunti e ad organizzare cerimonie di addio nei luoghi di culto più tradizionali, poiché i soli ad essere presenti e funzionali ovunque. La possibilità di avere, sui tanti territori municipali in cui la Capitale si articola, adeguate sale del Commiato laico, attenuerebbe l’attuale discriminazione che direttamente e indirettamente si esercita sulla minoranza non confessionale e renderebbe tutti davvero “più uguali” di fronte alle leggi e alle istituzioni dello Stato di cui fa comunque parte».

Piano City Milano, quando la musica disegna una nuova città

Va in scena a Milano dal 18 al 20 maggio Piano City, giunto alla sua settima edizione consecutiva, che si propone di portare la musica del pianoforte nei luoghi più disparati della città: case private, cortili, stazioni della metropolitana, tram, musei, piazze, giardini e decine di locali per oltre 400 eventi fra concerti, lezioni ed happenings, tutti gratuiti previa prenotazione da effettuarsi online tramite la pagina facebook Piano City Milano o sul sito.

Cettina Donato e Stefania Tallini il 19 maggio in concerto

La manifestazione è impreziosita da uno o più grandi nomi internazionali e quest’anno è la volta della pianista azera Aziza Mustafa Zadeh (nella foto), che ha saputo fondere i ritmi jazz con influenze classiche e di avanguardia, mescolandole alle sonorità del Paese natìo dando origine a una fusion molto particolare, in scena il 18 alla Galleria d’Arte Moderna.Sabato 19 maggio alle ore 20 a piazza Gae Aulenti sarà in scena il “4Hands Duo”, nuovo progetto musicale nato dall’incontro di due nomi di spicco del jazz italiano: le pianiste, arrangiatrici e compositrici Stefania Tallini e Cettina Donato. Un dialogo originale tra due musiciste di altissimo livello.

Alla Galleria d’Arte moderna il 20 maggio ci sarà Vinicio Capossela, che ritorna dopo l’inaugurazione della rassegna nel 2012. Da segnalare gli avvenimenti musicali all’alba all’idroscalo con Pol Solonar e ai Bagni misteriosi, luogo da poco restituito alla città, con il talento di Andrea Vizzini.

La novità di questa edizione sono i concerti notturni ospitati nella splendida cornice della Palazzina liberty, mentre altre si terranno in location inedite come l’archivio di stato, l’orto botanico di Città studi e il memoriale della Shoah. A cento anni dalla scomparsa di Debussy la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dedicherà sabato 19 una rassegna al compositore. La manifestazione ha previsto in fase organizzativa la possibilità di iscrizione online aperta ai pianisti, a chi propone spazi per ospitare concerti o propone sia pianisti che spazi per ospitarli. Il format ha avuto tanto successo da essere già attivo a Napoli dal 2013 e verrà inaugurato in autunno a Palermo.

> Il programma completo

Migranti uccisi e gettati in fosse comuni in Gambia: l’ex presidente Jammeh sotto accusa

epa000462165 President of the Republic of Gambia Alhaji Dr. Yahya A.J.J. Jammeh passes honor guard after his arrival inside the Malacanang Palace in Manila, Tuesday 21 June 2005. Gambia President assures the Philippines that it will support the country's bid for observer status in the Organization of Islamic Conference when it convenes in Yemen for its regular ministerial meeting next week, the Department of Foreign Affairs (DFA) said Monday. EPA/MIKE ALQUINTO

Se la fortuna, l’orizzonte e le onde li avessero assistiti, le loro speranze si sarebbero realizzate e avrebbero raggiunto le coste spagnole. Guardavano il mare che li separava dall’Europa nel 2005, ormai molti anni fa, 50 africani. Erano migranti ma forse non si saprà mai esattamente da quali villaggi e Paesi erano arrivati fin lì, su quella spiaggia. Sono stati uccisi da una squadra d’assalto – i Junglers – che li ha scambiati per mercenari che volevano rovesciare il governo del Paese: il Gambia.

Questa storia ritorna alla luce adesso perché le organizzazioni dei diritti umani stanno cercando di far aprire un’inchiesta e il 16 maggio hanno reso note delle prove e testimonianze su quel massacro. I Junglers prendevano ordini dall’uomo più potente della nazione, il presidente Yahya Jammeh.

Tra i migranti fermati sulla spiaggia nel 2005 in 44 arrivavano dal Ghana, altri dalla Nigeria, altri dall’Africa dell’Ovest. Insieme alla squadra della morte dei Junglers c’erano ufficiali di alto rango del Paese – l’ispettore generale della polizia, il capo dell’agenzia di intelligence del Gambia, il capo dello staff della difesa e quello della guardia nazionale. Dopo averli torturati, una settimana dopo, i Junglers hanno ucciso i migranti al confine con il Senegal, nei pressi di Kanilai. Ora cominciano ad essere disseppelliti dalle fosse comuni.

Trial International e Human Rights Watch adesso accusano l’ex presidente Jammeh di aver dato l’ordine di ucciderli. Le ong hanno intervistato 30 ex ufficiali del presidente, 11 dei quali direttamente coinvolti nelle esecuzioni, dice il report HRW.

Ma a raccontare questa storia per la prima volta a HRW è stato Martin Kyere, ghanese, unico e solo sopravvissuto del massacro. Prima detenuto nella stazione di polizia, portato poi nella foresta per essere torturato e ucciso, Kyere si è rocambolescamente liberato ed è riuscito a scappare.

«I migranti africani non sono stati uccisi da delinquenti, ma da una squadra della morte paramilitare che prendeva ordini dal presidente Jammeh, hanno distrutto elementi chiave per evitare che gli investigatori internazionali conoscessero la verità» ha detto Reed Brody, consulente HRW. Jammeh ha regnato con la violenza brutale per 22 anni dalla capitale Banjul, ricorrendo ad abusi dei diritti umani, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, detenzione arbitraria.

Ora «cerchiamo di farlo estradare in Ghana per processarlo per i suoi crimini» ha detto Brody. Jammeh ha perso le elezioni presidenziali nel 2016 contro Adama Barrow e dal 2017 vive in esilio in Guinea equatoriale. È dallo stesso anno che HRW e altre ong per i diritti umani tentano di assicurarlo alla giustizia.

 

Migranti e omosessuali pari sono

Ci siamo noi e poi ci sono loro. Il messaggio razzista e un po’ fascista arriva direttamente dal magnifico rettore (volutamente minuscolo) di Verona Nicola Sartor che decide di cedere alle proteste di Forza nuova (sì, Forza nuova) e annulla una giornata di studio sulle migrazioni Lgbti dal titolo “Richiedenti asilo. Orientamento sessuale e identità di genere”. Gay e per di più “negri” e per di più “clandestini” deve essere sembrato troppo all’illuminato rettore. Ebbene, leggete cosa è stato in grado di scrivere:

«Ho dovuto disporre la sospensione della giornata di studio “Richiedenti asilo. Orientamento sessuale e identità di genere” prevista per il 25 maggio prossimo, rinviando l’approfondimento dei suoi contenuti scientifici a data da destinarsi.

L’evento è uscito dall’ambito scientifico per diventare terreno di contrasto e soprattutto di ricerca di visibilità per diversi attivisti di varia estrazione.

L’Università non può prestarsi a strumentalizzazioni da parte di soggetti estranei al mondo scientifico che si scontrano su temi politicamente ed eticamente controversi come quelli delle migrazioni e dell’orientamento sessuale delle persone».

La controversia sull’orientamento sessuale delle persone dentro un’università ci mancava. Sommarla come niente fosse alle migrazione, tutto dentro un calderone di spaventosa diversità è un capolavoro di scemenza.

Siamo pronti per l’Italia del futuro, direi.

Buon venerdì.

Uno spicchio d’Europa tinto di rosso

LISBON, PORTUGAL - APRIL 25: Bloco de Esquerda party members walk through Avenida da Liberdade to celebrate the 43rd Anniversary of The Carnation Revolution on April 25, 2017 in Lisbon, Portugal. Thousands of Lisbon citizens took to the streets to celebrate the 43rd Anniversary Of The Carnation Revolution, when the Armed Forces rebelled and overthrew the regime of the Estado Novo. The revolution started as a military coup organized by the Armed Forces Movement (MFA) composed of military officers who opposed the regime, but the movement was soon coupled with an unanticipated and popular campaign of civil resistance. This movement led to the fall of the dictatorship and the withdrawal of Portugal from its African colonies and East Timor. (Photo by Horacio Villalobos/Corbis via Getty Images)

Sembra ieri, forse perché la stampa internazionale ha scoperto il fenomeno lentamente, ma il governo portoghese a guida socialista minoritaria e con l’appoggio esterno dell’arcipelago di comunisti, verdi e Bloco de esquerda (partito nato nel 1999 dalla fusione di diversi movimenti che da tempo non s’identificavano nel Pcp) è ormai giunto in fase di bilanci. Quando s’insediò – novembre 2015 -, i bookmaker gli davano pochi mesi di vita. Lo chiamavano geringonça, ossia “bagnarola”, “trabiccolo”, ma anche (a tradurlo nel gergo politico nostrano) “inciucio”. L’accordo tra il partito degli spendaccioni, quei socialisti che nel 2011 avevano sfiorato la bancarotta, e la sinistra radicale, che voleva uscire dall’Euro e dalla Nato, avrebbe messo gli investitori in fuga e i partner europei in allarme. Non sarebbe andato lontano.

Invece è andata diversamente. Il Pil (2,7% nel 2017) non era così alto dal 2000, un deficit così basso non si era mai visto in tutta la storia democratica del Paese e la disoccupazione è scesa intorno all’8%. Stupore internazionale: da sinistra si poteva governare. Persino gli anticapitalisti più cattivi dimostravano di saper stare al tavolo del tè senza drizzare il mignolo. Il 14 aprile scorso l’Economist titolava: “Piccolo miracolo sull’Atlantico”, ed era solo l’ultimo di una lunga serie di elogi provenienti da più parti al governo di António Costa. Ma l’articolo, letto in dettaglio, diceva qualcos’altro. Diceva che la sinistra portoghese gode di buona salute perché in fondo non è poi così di sinistra («it is not especially left-wing»).

Il fatto è che il governo Costa è il passo avanti dopo i soliti due indietro. Per capirlo, urge un breve riepilogo. Già l’ultima fase del secondo governo socialista di José Sócrates stava varando una prima austerità, e quel governo cadde proprio su un pacchetto di pesanti tagli. Poi venne la destra e…

L’articolo di Marcello Sacco prosegue su Left in edicola


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L’eccezione lusitana

Plenary Session in Strasbourg. Week 14.

Per sfuggire alla profonda crisi in cui versa il Bel paese sono molti gli italiani che studiano modi per trasferirsi dove il costo della vita è più basso e la qualità della vita potenzialmente migliore. In particolare sono pensionati e giovani che vogliano studiare o mettere su una propria attività. Fra le mete più gettonate c’è il Portogallo. Perché negli ultimi anni, anche grazie a una fortunata congiuntura economica, è andato incontro ad una rapida crescita ma anche e soprattutto perché con il governo di sinistra insediatosi nel 2015, il Paese si è modernizzato aprendosi a nuove prospettive. L’alleanza di governo guidata dal socialista António Costa ha detto no all’austerity, cercando di riqualificare i servizi pubblici, di salvaguardare salari e pensioni andando incontro a una fase di crescita. Il Programa de estabilidade 2018-2022 presentato da Mario Centeno, ministro delle Finanze lusitano e presidente dell’Eurogruppo, segnala un debito alto, ma anche una crescita annuale stimata sopra il 2% mentre l’occupazione è salita del 3,2%.

Un quadro piuttosto sorprendente in un Paese che fino a non molti anni fa ha subito l’oppressione della dittatura clericofascista di Salazar: un regime da sacrestia, come denunciava Saramago, che chiuse il Paese in una bolla isolazionista e impose l’idea che il popolo dovesse vivere in modo povero e frugale ostacolando ogni forma di progresso paventato come forma di corruzione.

Ma il Portogallo – va ricordato – ha anche vissuto un importante momento di rottura, incruenta, come la Rivoluzione dei garofani del 1974. E forse, azzardiamo, anche perché ha conosciuto un forte rifiuto del passato fascista (senza una transizione-amnesia come quella imposta in Spagna) oggi una nuova sinistra può rinascere. In ogni caso, anche tralasciando affascinanti ipotesi di ricerca, i fatti politici concretamente accaduti negli ultimi tre anni in Portogallo ci appaiono assai interessanti.

Invece di rincorrere le destre sul loro terreno come ha fatto il centrosinistra in Italia, invece di sposare le politiche neoliberiste della cosiddetta “terza via” blairiana, António Costa ha guardato a sinistra, cercando alleanze con il Bloco de esquerda (Be) e con il Partido communista português (Pcp). Un’alleanza del tutto inedita nella giovane storia della democrazia che conta solo una quarantina d’anni. Un accordo che ha chiesto un lungo lavoro di mediazione, pur tra luci e ombre. Per capire cosa c’è dietro l’eccezione lusitana rispetto al quadro della crisi delle socialdemocrazie europee abbiamo chiesto a colleghi giornalisti e a studiosi che vivono e lavorano in Portogallo e conoscono quella realtà dall’interno di aiutarci a tracciare un bilancio di questi primi due anni e mezzo di governo Costa. Ma anche di aiutarci a leggere la prospettiva aperta dal Bloco in chiave europea, visto che una delle sue più stimate esponenti, Marisa Matias, è parlamentare Ue attiva nella Gue/Ngl.

Nato nel 1999, dal 2015 il Bloco ha preso parte all’accordo di governo con socialisti, comunisti e verdi, raccogliendo molti consensi fra i più giovani. Da notare anche che il partito è guidato da tre donne che hanno messo al centro i diritti sociali e civili. Detto tutto questo, non intendiamo con questa storia di copertina promuovere astrattamente il Portogallo a modello.

Aver imboccato e percorso la strada della mediazione ha prodotto grossi risultati ma ha avuto anche un prezzo, come raccontano gli approfondimenti che qui proponiamo. Tuttavia abbiamo pensato che potesse essere molto utile, offrire strumenti di lettura per comprendere l’eccezione lusitana, con l’intento di aprire una discussione a sinistra.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Spunta a Varsavia una nuova Podemos

Gdansk, Poland 1st, May 2016 The RAZEM (Together) political party rally in Gdansk in occasion of International Labor Day. RAZEM activists demanded better working conditions and a decent wage. The RAZEM party leader Adrian Zandberg takes part in the rally (Photo by Michal Fludra/NurPhoto via Getty Images)

Hanno scelto di chiamarsi Razem che in polacco significa Insieme. Senza nessun richiamo al passato né alla sinistra classica. Messo in soffitta il rosso, il colore prescelto è il viola. I sondaggi attestano questo partito al 6 per cento, ma in Polonia c’è chi azzarda che rappresenti l’unica alternativa valida al governo autoritario e populista di Jaroslaw Kaczyński. È un’interessante novità, soprattutto a livello culturale e teorico, nel panorama europeo. È la Podemos polacca.

«Diamo voce ai disillusi e a chi si schiera contro l’establishment» ripetono nei comizi. Attenti agli ultimi della società, hanno ottenuto consensi in primis tra i giovani, le donne e i precari (nel mondo del lavoro ha ottenuto un buon 10 per cento). Costruiscono la sinistra, senza nominarla. Questo è il loro segreto. «Siamo una forza populista, nel senso che ci facciamo portavoce delle legittime domande del popolo: più democrazia e giustizia sociale», dicono.

Razem nasce nel 2015 da un collettivo studentesco, da ex Giovani socialisti e da attivisti Verdi che, a pochi mesi dalle elezioni nazionali, mandano una lettera aperta a movimenti e società civile: si invoca la nascita di un soggetto nuovo che ridia speranza alla gente. Giungono duemila firme in pochi giorni, tutte persone estranee a mobilitazioni organizzate. Toccano le corde giuste: è un appello di insoddisfazione nei confronti dell’establishment e, anche, contro una sinistra ormai…

L’articolo di Giacomo Russo Spena prosegue su Left in edicola


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Minori in affido, una vita con la valigia in mano

«Sono una madre cui hanno sequestrato i figli da oltre due anni». Veronica (nome di fantasia) vive in Emilia Romagna. È un’impiegata. Una vita come tante se non fosse che le hanno portato via i suoi due bambini. «Dal dicembre 2015 – racconta – me li hanno strappati senza alcun valido motivo. Una decisione arbitraria dell’assistente sociale. E la cosa che mi fa più rabbia è che ora il padre può vederli tranquillamente, mentre a me è reso impossibile». È il gennaio 2013 quando Veronica viene picchiata dal marito davanti alla figlia che allora aveva solo sette anni. Ne nasce un processo che si conclude con la condanna per lesioni personali.

«Il reato – si legge nelle motivazioni della sentenza – risulta ancora più grave in quanto compiuto per futili motivi all’interno delle mura domestiche, nei confronti della madre dei propri figli ed alla presenza di una minore». Il Tribunale decide quindi per l’affidamento “esclusivo” dei due bambini a Veronica. Il padre potrà vederli, certo, ma solo alla presenza dei servizi sociali. Inspiegabilmente, però, la situazione si ribalta. L’assistente sociale decide di applicare l’articolo 403 del codice civile: allontanamento forzato dai genitori, anche senza la pronuncia di un giudice. Il tutto con la seguente motivazione: «La situazione famigliare presenta caratteristiche che fanno presupporre elementi di forte pregiudizio». Fine.

«C’era stata una lite con mia figlia sul cibo: lei non voleva mangiare e avevamo litigato. Ma nulla di più di quanto non accada in ogni rapporto madre-figlia», spiega Veronica. Senza dimenticare, evidenzia il suo legale, l’avvocato Erminia Donnarumma che da anni si occupa di affidi e delle storture del sistema minorile, che «per un allontanamento devono sussistere gravi motivi, mentre qui si parla di supposizioni». Eppure nessuno interviene: i due bambini finiscono in affido alla prozia e il padre, nonostante una condanna in via definitiva, va a trovarli senza bisogno di preavvisi, portandoli anche con sé in vacanza. La madre, invece, rimane inascoltata per oltre un anno. Addirittura, racconta Donnarumma, il servizio sociale in un primo momento ha inviato la relazione al tribunale sbagliato e ci sono voluti nove mesi per correggere l’errore. E oggi? Veronica vede la figlia più grande una volta al mese per un’ora, dopo non averla potuta incontrare per 15 mesi di seguito. Il figlio più piccolo, invece, poco tempo fa è stato ricoverato in ospedale, ma lei l’ha saputo 24 ore dopo. A differenza del padre che è stato immediatamente avvisato. Sono migliaia in Italia i minori allontanati dalle proprie famiglie d’origine. Non sempre per motivi validi. Il varo della legge 173/2015 ancora non ha prodotto tutti gli effetti sperati, al punto che ancora oggi non esiste un dato ufficiale sul numero dei minori «fuori famiglia».

Manca una visione complessiva del fenomeno. «Il ministero del Lavoro e delle politiche sociali non è in condizione di fornire un dato nazionale globale», si legge nell’ultima relazione della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza: oltre cento pagine in cui si denunciano la mancanza di fondi, l’assenza di controlli e un meccanismo, quello tra servizi sociali e Tribunali per i minorenni, che troppo spesso non riesce a rispondere adeguatamente alle esigenze dei ragazzi e delle famiglie. Gli ultimi dati disponibili sono del 2010: allora erano circa 30mila i bambini «fuori dalla famiglia di origine». Numeri dietro cui si celano storie concrete, conflitti, battaglie contro i mulini a vento. Come quella di Pietro la cui figlia aveva otto mesi quando venne assegnata a una struttura e poi data in affidamento. Una decisione contro cui si è opposto con tutte le forze fino a quando la Cassazione ha dichiarato la bambina non adottabile quando ormai di anni ne aveva 12. Era maggio 2013.

«I servizi sociali avrebbero dovuto favorire gli incontri tra me e mia figlia, come prevede la legge. Ma da allora ho potuto vederla soltanto due volte» racconta. Ha provato a scriverle delle lettere: «Molte sono state cestinate. Perché le firmavo “il tuo papà”». Lungaggini, dunque. E storture. Tutto a causa di un meccanismo non controllato e spesso arbitrario in mano agli assistenti sociali che possono allontanare i minori dalle famiglie anche senza autorizzazione dei tribunali. Ma questo, specifica la legge, dovrebbe essere una extrema ratio: si decide per l’allontanamento solo in caso di un pericolo «grave, concreto e provato in caso di permanenza del bambino nell’ambito della propria famiglia». Come però rivelato dalla stessa commissione Infanzia, l’allontanamento viene disposto «senza una motivazione specifica sulla impossibilità di dare seguito in modo efficace a tutti gli interventi di sostegno in favore della famiglia e del minore». Risultato: «Nel 100% dei casi la motivazione dell’allontanamento si rinviene in valutazioni assolutamente generiche», ha denunciato in Commissione Francesco Morcavallo, oggi avvocato dopo essere stato magistrato presso il tribunale dei minori di Bologna. E, nella maggior parte dei casi, la ragione ruota attorno alla formula della «inadeguatezza genitoriale», una valutazione, hanno denunciato gli esperti, «discrezionale e arbitraria».

Ma non è tutto: «Sull’infanzia c’è un giro di soldi che neanche ce lo immaginiamo: dalla magistratura all’avvocatura, fino alle case farmaceutiche», dice a Left la senatrice uscente Eleonora Bechis, che si è occupata a lungo della questione. «Parliamo in totale di un giro che supera il miliardo», ribatte un’associazione che preferisce restare anonima vista la delicatezza dell’argomento. Qualche esempio? «Alcune strutture – denuncia ancora la commissione parlamentare – per ricevere finanziamenti, indicano alla fondazione privata finanziatrice la durata prevedibile, esprimendola in anni, anche se non è dato sapere sulla base di quale criterio, e sostituendosi al giudice», che dovrebbe essere l’unico a decidere il periodo dell’allontanamento. I dubbi aumentano se si considera che nonostante la legge fissi un tempo massimo di due anni, la permanenza in istituto dei minori nel 42% dei casi va oltre 48 mesi e nel 22% dei casi dura da 24 a 48 mesi. Se non di più. Alessandra vive a Zocca, in provincia di Modena: «Nel 2000 mi sono stati tolti i miei bambini, all’epoca avevano due anni lei, 14 mesi lui». I servizi sociali arrivano a casa di Alessandra dopo una segnalazione ma per verificare le condizioni di salute del nonno dei bimbi. Alla fine, però, vengono portati via loro due a causa di una «fragilità in ambito genitoriale». Da lì comincia un’odissea interminabile.

«Mi hanno detto che ero un’ubriacona e una drogata per levarmi i miei bambini». Ma dai controlli fatti in seguito dal SerT e dal Centro di igiene mentale non risulta: Alessandra non è dipendente da droghe o alcol. I figli però sono ormai andati: da un affidamento a un altro, vittime – come emergerà poi – anche di violenze. «Venivano lasciati per giorni senza cibo», racconta Alessandra. Infine la beffa. «Nel 2009 i due bambini vengono affidati all’Azienda di servizi alla persona (Asp) del Comune» – raccontano dallo studio legale Donnarumma, che segue anche il caso di Alessandra. Il punto è che l’Asp di Zocca era stata sciolta il 31 dicembre 2006. Il Tribunale ha affidato due bambini a un ente che non esisteva più da anni».

L’inchiesta di Carmine Gazzanni è stata pubblicata su Left del 18 maggio 2018


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Il caso Bianzino va riaperto, nuove carte evidenziano errori e depistaggi

Ha ventiquattr’anni Rudra Bianzino e da dieci cerca di capire perché suo padre è morto in una cella, anche se il caso è stato archiviato nel 2009. Rudra è il figlio di Aldo, arrestato il 12 ottobre 2007 e trovato morto alle 8 del mattino due giorni dopo. Aveva 43 anni e viveva a Pietralunga nell’Alta Valtiberina. Left ha potuto leggere le carte con cui Rudra è tornato a chiedere al Tribunale di Perugia nuove perizie e la riapertura di un caso finora derubricato a omissione di soccorso costata nove mesi di condanna a un agente di polizia penitenziaria.

Rudra è uno dei nomi di Shiva. I suoi s’erano conosciuti in una notte di canti e balli sul Trasimeno. Me lo raccontò Roberta Radici, la madre di Rudra, scomparsa anche lei un anno dopo, arrestata con Aldo quel venerdì mattina quando sulla collina arrivarono i poliziotti in borghese e il finanziere con il cane. Erano le sette e mezza. S’erano portati i panini, sarebbe stata una perquisizione minuziosa. Col piede di porco sollevarono perfino le assi di legno del pavimento e profanarono la tomba di un cagnolino avvelenato dal morso di una vipera. Finché i segugi fiutarono una quarantina di piante. Il verbale recitava: “piante di hashish”, come dire “alberi di marmellata”. Era solo “canapone”, cannabis indiana poco pregiata, quasi tutte inutili piante maschio.

Alto, magro, barba e occhialini, Aldo era arrivato in Umbria dal Piemonte ma passando per l’India come altri della sua generazione credendo che si potesse vivere in pace facendo l’ebanista e suonando il corno rituale di Babaji. Cercava l’India, Aldo, ma lo ha trovato la Fini-Giovanardi che non fa distinzione tra canapone ed eroina, tra autocoltivazione e narcomafie, proprio quando Perugia, più a valle, è una piazza di spaccio cruciale, da record di morti per overdose.

Le nuove carte smontano la versione ufficiale. «Abbiamo scoperto che le lesioni epatiche risalgono a due ore prima della morte – dice a Left, Cinzia Corbelli, uno dei legali di parte civile – e sono sovrapponibili a quelle cerebrali». L’archiviazione si basa, invece, su una perizia che attribuiva le lesioni al fegato a maldestre manovre rianimatorie e faceva risalire la morte a un’insufficienza cardio-respiratoria dovuta a una massiva emorragia subaracnoidea causata da un aneurisma cerebrale. Eppure il preliminare di relazione di consulenza tecnica medico legale, il 17 ottobre di dieci anni fa, segnalava “evidenti lesioni viscerali di natura traumatica”, diceva di due costole rotte e della milza spappolata. «Ma allora perché non ci sono lesioni allo sterno? E perché nell’immediatezza si disse di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari, quelle che non lasciano segni esterni ma spappolano gli organi interni? – si chiede Rudra parlando con Left – quello che mi fa più rabbia, che è inaccettabile, è che mi sono dovuto sobbarcare quello che avrebbe dovuto fare lo Stato per provare a capire cosa sia successo dentro le mura di un carcere».

Le telecamere a circuito chiuso, puntate su quella cella numero 20 della sezione 2/B, non fornirono alcun elemento e i testimoni, subito trasferiti per “ragioni di sicurezza”, avevano detto che Aldo chiese aiuto. «Fatti i cazzi tuoi – si sarebbe sentito rispondere – aspetta domani». Il giorno 13 era stato due volte in infermeria ma fu annotata una sola delle visite. E per un’ora fu portato all’ufficio comando. Roberta Radici cercò di ricostruire quello che era successo. Era stata rilasciata il mattino dopo. Il viceispettore capo del carcere sembrava preoccupatissimo di sapere come stesse Bianzino, se soffrisse di cuore, se già avesse avuto svenimenti. «Lo possiamo ancora salvare». Ma era una beffa, suo marito era già morto. «Ma quando lo potrò rivedere?», «Signora, martedì dopo l’autopsia». E’ così che venne a sapere della morte di Aldo.

Dopo il blitz, Rudra era stato lasciato nella cascina solo, a 14 anni, con una nonna di 91. Tutto quello che gli restava era quella perizia imprecisa ma che offriva ancora la possibilità di “datazione” delle lesioni sui reperti conservati un po’ a Padova, un po’ a Perugia. Così Luigi Gaetti, anatomopatologo mantovano, già vicepresidente dell’Antimafia quando era senatore dei cinquestelle, ha potuto appurare che le lesioni a fegato e cervello sono «sovrapponibili» e risalgono a due ore prima della morte. «Diverse le criticità emerse nell’analisi delle perizie – scrive – ripetute date sbagliate, incongruità dei numero dei preparati, errori (veniali) del campionamento dei vetrini, foto macro poco chiare, ricorrere a discutibili analisi sulle modalità rianimatorie per non prendere in considerazione ciò che il sapere scientifico aveva già dimostrato; tutti elementi che denotano una certa superficialità…».

Lo conferma Antonio Scalzo, medico legale a Cosenza, per il quale il decesso è frutto di “lesioni traumatiche determinate da terzi in carcere”, che è anche dovuto all’omissione di soccorso, che ci fu una palese violazione delle linee guida per il campionamento del fegato e «la contingenza gravissima» dell’«ingenuo smarrimento di materiale probatorio», oltre alle «evidenti contraddizioni» negli elaborati dei periti, «che non trovano conforto in alcuna legge di copertura». In sintesi, le «conclusioni discutibili (per usare un eufemismo!)» dei consulenti tecnici del pm, avrebbero «ostacolato la ricostruzione».

Perché l’aneurisma non l’ha mai visto nessuno, può succedere, ma manca una porzione del cervello. Sparita. «E secondo noi proprio lì sarebbero state evidenziabili le lesioni traumatiche», scrivono i consulenti di Rudra. Anche il sangue “spremuto” dal fegato non è stato riscontrato all’altezza degli archi costali ma al livello pelvico. Come se fosse stato rianimato un uomo in piedi piuttosto che steso a terra. Ma comunque le probabilità di lesioni riconducibili a una manovra di rianimazione, effettuata da una dottoressa «di corporatura estremamente esile», oscillano tra lo 0 e il 2% e riguardano solo persone obese o donne incinte.

«La lesione TRAUMATICA (il maiuscolo è di Scalzo, ndr) a carico del fegato» fu «senz’altro causata in vita e con azione contundente in diretta», «almeno due ore prima del decesso». «Un colpo violento impresso dal basso verso l’alto». Non mancano altri misteri come i buchi nelle videoregistrazioni o le «innumerevoli contraddizioni che hanno costellato l’esame testimoniale degli stessi agenti». E’ proprio quello che dovrebbe appurare un processo per rispondere alla domanda di Rudra: «Chi ha ucciso mio padre?».