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Ritorno. L’aliyah degli ebrei, i profughi palestinesi

Sono trascorsi settant’anni da un evento che ha trasformato il Medio oriente e il mondo intero, la fondazione dello Stato di Israele e la Nakba, la catastrofe del popolo palestinese.
Nel libro Israele, tra mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, in uscita per Alegre ed. il 17 maggio 2018, di cui anticipiamo un estratto, i due corrispondenti de il manifesto Michele Giorgio e Chiara Cruciati, ripercorrono la storia e l’attualità dell’idea di Israele, ricostruendo la genesi del movimento sionista e le sue conseguenze sulla popolazione palestinese.
Gli autori mettono a fuoco alcuni concetti ideologici fondanti lo Stato ebraico e le politiche concrete che ne sono conseguite in questi decenni. Un puzzle composto di frammenti diversi, ognuno dei quali fornisce un angolo di visuale sul progetto sionista e la sua attuale realizzazione: l’uso della terra e del lavoro, dei concetti di cittadinanza e nazionalità, la proprietà e la sua confisca, il concetto di ritorno, lo Stato unico, il sionismo e il neosionismo.
In questi settant’anni si è passati da un sionismo “socialista”, fondato sul mito della conquista del­la terra e del lavoro, a un nazionalismo religioso, con inevitabile spostamento a destra della società israeliana. Oggi preva­le la narrazione sionista della storia della Palestina, che rimuove costantemente che nella terra promessa del racconto biblico dove i sio­nisti intendevano fondare uno Stato c’era un altro popolo, che sentiva quella terra come propria per il semplice fatto che ci viveva da secoli e secoli. Ed è questa l’origine della contraddizione irrisolta tra il mito di un focolare ebraico dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento.

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«Lo Stato di Israele è stato creato sulla Nakba, non si può parlare dell’esistenza dello Stato di Israele come è oggi senza la Nakba. È la precondizione alla fondazione dello Stato di Israele come Stato ebraico. E ancora oggi non esisterebbe senza preservare la Nakba»1.

«Il tentativo di realizzare e mantenere una maggioranza ebraica in Palestina è l’obiettivo fondamentale del sionismo. È il principale strumento di impedimento del diritto al ritorno e di negazione della Nakba»2.

La maggioranza ebraica, l’espulsione della popolazione indigena: sono questi i due elementi che hanno plasmato e reso concreto il progetto sionista di creazione di uno Stato ebraico. Il nodo è qui, nel duplice concetto di ritorno – uno legalizzato, l’altro negato – che le due narrative producono e riproducono. Un circolo vizioso nel quale l’esistenza e la realizzazione del primo (il ritorno nell’ideologia sionista) sono sia la causa che l’effetto del mancato espletamento del secondo (il ritorno palestinese, così come definito dal diritto internazionale e radicato nel discorso di liberazione nazionale).

Il concetto di ritorno è colonna del progetto ideologico sionista perché suo principale strumento. La suggestiva e originaria narrazione del “popolo senza terra per una terra senza popolo” ha alla base il necessario trasferimento e la conseguente stabilizzazione dei migranti ebrei dal mondo nella Grande Israele, immagine biblica tuttora utilizzata dalla diplomazia israeliana dei più recenti governi per giustificare un progetto di matrice coloniale.

Una volta formulate le proprie basi concettuali, il movimento sionista si è trovato di fronte a una serie di potenziali ostacoli da superare per realizzare a pieno il sogno di un focolare ebraico in Palestina: l’acquisizione della terra e delle proprietà esistenti, l’eliminazione (o, come avvenuto, la radicale limitazione) della popolazione indigena e la sua sostituzione con la popolazione desiderata. Ovvero, facilitare l’immigrazione ebraica nel neonato Stato di Israele attraverso un mix di suggestioni religiose e strumenti pratici.

A modellarsi è il concetto di “ritorno” ebraico, che va ben oltre – sul piano prettamente semantico ma anche su quello puramente ideologico – quello di immigrazione. L’ebreo che il sionismo aspira a condurre in Israele non sta emigrando in uno Stato a lui estraneo, ma sta ritornando nella nazione a cui naturalmente appartiene.

Su questa base politico-ideologica si fonda la cosiddetta “legge del ritorno”, tra le prime approvate dal neonato parlamento israeliano: pubblicata nel 1950, conferendo il diritto a compiere l’aliyah (la salita, ovvero il ritorno) a ogni ebreo, da qualsiasi parte del mondo provenga, afferma che «ogni ebreo ha il diritto di stabilirsi in questo paese».

L’inserimento di tale concetto di ritorno, esclusivo ed escludente su base religiosa, ha istituzionalizzato strumenti già esistenti e ampiamente operativi. A partire dall’Agenzia ebraica, fondata dal movimento sionista durante il Mandato britannico della Palestina, nel 1923, a rappresentanza degli ebrei già presenti e, dal 1929 in poi, con lo scopo dichiarato di facilitare l’immigrazione ebraica in territorio palestinese sia attraverso l’acquisizione di terre che nella formulazione di precise politiche che agevolassero i trasferimenti.

Ente semi-statale, ha operato alla costruzione del futuro Stato in simbiosi e stretta collaborazione – come un’unica macchina – con gli altri enti nati in quegli anni, dal sindacato Histadrut al Jewish National Fund: prendendo possesso di beni immobili, formando unità paramilitari (le Haganah, nucleo fondante il futuro esercito israeliano), costruendo ospedali e scuole. Fino a essere dichiarata, il 14 maggio 1948, governo provvisorio dello Stato di Israele guidato da David Ben Gurion. Conclusa quella prima fase transitoria, l’Agenzia ebraica si è dedicata alla ricerca di nuovi potenziali migranti – attraverso l’apertura di filiali in tutto il mondo – e all’inserimento economico, sociale e “culturale” dei nuovi arrivati. Dal 1967 in poi, dall’inizio dell’occupazione militare di Gerusalemme est, Gaza e Cisgiordania, ha destinato parte delle risorse umane e finanziarie alla gestione e facilitazione delle attività di espansione coloniale. […]

L’espulsione del 1948 e la ongoing Nakba

Per garantire l’esistenza di uno Stato ebraico non era sufficiente l’immigrazione della popolazione desiderata. Questa doveva completamente sostituirsi alla popolazione indigena e preesistente, quella palestinese, che nel 1948 contava oltre un milione abitanti di diverse affiliazioni religiose (musulmana, cristiana, ebrea le principali).

La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, è la concretizzazione della “rimozione” dell’ostacolo: l’espulsione dell’80% della popolazione palestinese, oltre un milione di persone, verso i futuri territori occupati e fuori dai confini della Palestina storica, verso Egitto, Libano, Siria, Giordania, Iraq, e la distruzione di oltre 500 villaggi arabi. […]

Ma perché l’assenza fosse permanente Israele aveva bisogno di compiere un passo in più: mantenere “viva” la Nakba attraverso il divieto al ritorno, stavolta quello della popolazione non desiderata. Lubnah Shomali, direttrice esecutiva dell’ong palestinese Badil, spiega: «Nella legislazione israeliana sono due le leggi che impediscono il diritto al ritorno palestinese. La legge del ritorno che lo riconosce solo a chi è ebreo, caratterizzandosi dunque come normativa discriminatoria perché compie una distinzione sulla base della religione; e la legge per la prevenzione dell’infiltrazione. Quest’ultima, risalente al 1954 e oggi utilizzata dal governo Netanyahu per cacciare i richiedenti asilo africani, è stata implementata subito dopo la fine della guerra, nel 1948, quando migliaia di palestinesi provarono a tornare, convinti di poterlo fare. Il loro tentativo di rientrare a casa imbarazzò profondamente Israele che ha dunque introdotto in una legge, e dunque “legalizzato”, lo strumento per impedire che i rifugiati palestinesi ponessero fine immediata all’obiettivo sionista di una patria per ebrei. Non si è trattato dunque solo di espulsione, ma del successivo mantenimento di tale status attraverso l’impedimento fisico a esercitare il ritorno: la legge infatti stabilisce che chiunque entri in Israele illegalmente sarà trattato come infiltrato e bloccato. Come? O ucciso sul posto (migliaia di palestinesi sono morti così dopo il 1948) o arrestato e detenuto in una prigione israeliana o deportato. Si è così generata una realtà unica: la Nakba è divenuto un processo attivo e continuato nel tempo e non riferito a un periodo specifico e limitato».

Ma proprio perché negato il ritorno è colonna portante del movimento di liberazione nazionale e della narrativa palestinese. Sviscerato dalla politica, narrato in innumerevoli opere d’arte, da romanzi, poesie, canzoni, dipinti, fumetti, il ritorno è anima dei palestinesi in quanto popolo della diaspora. Il trauma vissuto nel 1948 con la scomparsa fisica dell’80% della propria società; la distruzione (avvenuta in pochi mesi) dell’intera struttura sociale, culturale ed economica; gli anni difficili di ricostruzione della propria identità nazionale; hanno segnato e segnano ancora oggi il modo di definizione di se stessi come individui e come collettività.

1 Sergio Yahni (ricercatore dell’Alternative tnformation center), in Practicalities of Return ii, Badil, 2015

2 Manar Makhoul (ricercatore di Badil), in Practicalities of Return ii, Badil, 2015

Chissà che un giorno non salga un po’ di coraggio su Israele

A leggere i titoli dei quotidiani italiani viene subito un moto di voltastomaco: nel giorno in cui Israele compie i suoi settant’anni, cinquanta palestinesi morti ammazzati rimangono per terra insieme ai pezzi di migliaia di feriti. Trump ufficializza l’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme e questi decidono di festeggiare bevendo sangue, mangiandosi cadaveri e godendo del pregiudizio internazionale di chi ancora ha il coraggio di raccontarli come una democrazia illuminata.

Verrebbe da chiedersi cosa dovrebbe accadere perché anche qui in Italia si possa puntare il dito contro le derive sanguinarie di Tel Aviv che continua ad essere raccontata come una capitale davvero democratica, davvero occidentale e davvero digeribile.

«La politica israeliana ha spazzato via ogni possibilità di uno Stato Palestinese. Mi domando se non bisogna anche smettere di ripetere ipocritamente la formula “Due Popoli, Due Stati”. Lo Stato Palestinese non c’è più, è stato occupato, colonizzato. I territori palestinesi sono ormai come riserve indiane. Il vero problema che si pone è quello dei diritti umani e civili della popolazione. Uno Stato Palestinese non c’è più, c’è solo uno scenario sudafricano, in cui i palestinesi vivono una forma di apartheid. L’Europa pare non voler capire che questa situazione rappresenta una minaccia diretta: l’odio che Israele e Usa attirano verso tutto l’Occidente potrà portare a nuove reclute per il terrorismo, a nuove ondate di rifugiati, e saremo noi europei a pagare il prezzo di questa ferita aperta»: le parole, condivisibili da scolpire nelle dieci tavole dell’ennesimo eccidio in nome di un qualche dio sono di Massimo D’Alema. Sì, avete letto bene. M a s s i m o D’ A l e m a. Se D’Alema è l’unico a dire quello che la giustizia si aspetterebbe di ascoltare significa che forse c’è un problema.

È lo stesso problema che spinge certi quotidiani nazionali a titolare “scontri” per raccontare dello sterminio iperarmato di uno Stato contro ribelli inermi. È lo stesso problema di qualche vate antimafia che insiste nel non vedere le violenze di Netanyahu illudendosi di vederlo veramente leader.

Chissà se un giorno anche qui dalle nostre parti si avrà il polso di riconoscere che lo Stato che rappresenta quel popolo così storicamente oppresso oggi è diventato il simbolo di un’oppressione che insiste nel volersi condonare per ciò che ha subito senza prendersi la responsabilità di ciò che fa subire ad altri. Chissà quanto tempo servirà per riconoscere le vittime diventate aguzzini. Chissà quando si smetterà di torgliersi il cappello di fronte a Israele.

Buon giovedì.

Nasce ResistenzApp, per studiare la storia partigiana anche da smartphone

In uno degli ultimi capitoli de Il sentiero dei nidi di ragno, il commissario Kim così spiega al comandante Ferriera il senso profondo della lotta partigiana: «Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo». Lo scorso 25 aprile un quotidiano nazionale ha titolato: “Liberateci dalla Liberazione”, sostenendo che, in ultima analisi, gli italiani non ne conoscono o apprezzano più il senso. Nello stesso giorno l’Istituto nazionale Ferrucci Parri di Milano, la rete che riunisce gli Istituti per la storia della Resistenza, ha lanciato il progetto ResistenzApp, un’applicazione gratuita che descrive e georeferenzia i principali eventi della guerra di Liberazione, offendo una galleria di personaggi e di spunti tematici, accompagnati da immagini e materiali audio e video.

Nonostante le istanze revisionistiche del periodo fondamentale e fondante la nostra storia democratica si può sostenere che la Resistenza continua a resistere, e a regalare spunti di riflessione attuali e cogenti. Sfruttamento, ignoranza, oppressione, ingiustizia non sembrano affatto aver perso di significato.

«La dimensione attuale ci fa guardare a quel periodo con domande diverse, ma permane il valore ultimo dell’interrogarsi individualmente sul senso di giustizia e dell’etica personale di fronte alla necessità di operare una scelta. È la Resistenza degli uomini e delle donne in quanto individui, con le loro fragilità, i loro dubbi e anche le loro contraddizioni, per andare oltre la retorica dell’eroe e riscoprire al contrario delle persone che hanno avuto il coraggio di schierarsi – spiega Toni Rovatti, storica dell’Università di Bologna e coordinatrice del progetto assieme a Marcello Flores e Mirco Carrattieri -. L’applicazione offre un affresco sulla Resistenza, ne restituisce le diversità e la complessità, sia dal punto di vista dei periodi storici sia della pluralità dei personaggi e degli eventi».

Il progetto, al quale hanno partecipato molti dei più importanti storici italiani e finanziato dalla presidenza del Consiglio dei ministri in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione del 2015, nasce con il duplice obiettivo di evitare la classica liturgia della memoria, utilizzando uno strumento agile e di uso comune, e di evidenziare aspetti meno conosciuti, e finora poco indagati, di quel periodo storico e delle storie degli uomini e delle donne che hanno fatto la Resistenza. «È uno strumento che guarda alle nuove generazioni e al contempo offre una serie di banche dati per gli addetti ai lavori riflettendo le acquisizioni della storiografia degli ultimi venti anni in modo sintetico ma puntuale», precisa Rovatti.

La Resistenza difatti non è solo quella armata dei partigiani: «Abbiamo cercato di mettere a valore la pluralità della Resistenza – aggiunge ancora -. C’è quella armata, certo, ma anche quella civile, delle donne e degli intellettuali, e degli internati militari italiani, i soldati catturati dai tedeschi e diventati prigionieri di guerra dopo l’8 settembre e deportati in Germania, dove vengono utilizzati come lavoratori forzati. Questa vicenda, a lungo sottovalutata, rappresenta invece una prima e significativa forma di “resistenza senz’armi”, tanto più importante considerato il numero dei militari coinvolti».

Altri aspetti troppo a lungo sottaciuti, e che tornano alla luce scorrendo tra le innumerevoli voci dell’applicazione, sono quelli relativi alla Resistenza al meridione e delle donne. Un caso emblematico è la storia di Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, la prima sindaca donna eletta della storia repubblicana, a San Sosti in provincia di Cosenza nel marzo 1946, che con uno dei suoi primissimi provvedimenti istituirà il comitato comunale di assistenza, un organismo di vitale importanza di fronte alla povertà dilagante e alla diffusa disoccupazione. Accanto a figure femminili irrinunciabili come quelle di Ada Prospero Gobetti e Renata Viganò prendono vita quindi «personaggi meno conosciuti, dalle operaie alle benestanti, che hanno operato una scelta indubbiamente difficile ma alla quale ben presto si abituano perché con la guerra e il conflitto saltano i canoni della normalità», sottolinea ancora la studiosa.

Al progetto non hanno lavorato solo gli storici. Nella sezione audio prendono vita, e voce, i documenti, gli scritti, e i ritratti di una vasta galleria di donne e uomini resistenti, letti dai due attori teatrali della compagnia bolognese Archivio zeta, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti. «Le storie che leggiamo non sono romanzate, sono i documenti originali, in alcuni casi autobiografici come le lettere scritte ai familiari durante la prigionia, in altri ritratti vergati da amici o parenti», precisa Sangiovanni, che ha dato voce alle protagoniste femminili. «Porre l’accento sulla complessità e persino le contraddizioni dei partigiani attraverso i loro scritti – prosegue – ha un significato particolare, ovvero quello di non banalizzare il tema della memoria e di comprendere il senso profondo della scelta di queste donne e uomini che decisero di stare dalla parte dei più deboli, degli emarginati e degli oppressi di allora. E per questo sono così straordinariamente attuali».

La chiamano “discriminazione invisibile” e ogni anno in India uccide 239mila bambine

Una immagine rilasciata dall'ufficio stampa della ONG Save the childreen mostra Lucky, with his breakfast beside the rubbish dump which runs alongside his neighbourhood, Sanjay Colony, delhi, India. Ogni anno 6,9 milioni di bambini muoiono prima di compiere i 5 anni, per malattie prevenibili e curabili, come la malaria, la diarrea o la polmonite: 51 ogni mille nuovi nati, 1 ogni 5 secondi, quasi 19 mila ogni giorno. Il 99% di queste morti avviene nei paesi in via di sviluppo e piu' di un bambino su 3 muore a causa della malnutrizione. Lo sottolinea Save the Children, che oggi ha presentato il rapporto ''With-out. Fame e sprechi: il paradosso della scarsita' nell'abbondanza'' e ha lanciato a Roma la campagna ''Every one'' per fermare le ''morti assurde'' dei bambini nel mondo e ''raggiungere con interventi di salute e nutrizione milioni di bambini e donne nei paesi poveri''. ANSA/SAVE CHILDREN- HO- EDITORIAL USE ONLY

In India tutti conoscono il nome della bambina che ha cambiato il Paese. Quello che è successo ad Asifa Bano, 8 anni, ha cambiato la storia della nazione (v.Left qui). A Kathua a gennaio scorso la bambina è stata violentata e poi uccisa con una pietra dopo uno stupro di gruppo. Da allora giustizia per lei è stata chiesta da un lato all’altro della nazione, in ogni strada e piazza in cui si ricordava urlando il suo nome.

Dopo la vicenda di Asifa, il mese scorso il premier Narendra Modi ha introdotto la pena di morte per chi violenta bambini sotto i dodici anni, in un Paese dove è stato calcolato che siano 50 le violenze commesse ogni giorno su minori, – soprattutto di sesso femminile -, e i casi denunciati nel 2016 sono stati 19mila.

In India una bambina può morire di violenza, ma anche di disinteresse. È mortale anche se, apparentemente, non immediatamente percepibile. Gli esperti l’hanno chiamata “discriminazione invisibile”. Uccide 239mila bambine ogni anno, 2.4 milioni in un decennio. Accade nel Paese alle ragazze, solo perché sono ragazze.

I dati sulla mortalità femminile indiana sono stati appena raccolti nel report della Lancet Global Health. Le cifre analizzate riguardano solo la discriminazione post-natale. Molte delle morti avvengono per negligenza: le bambine ricevono meno cure mediche, educazione, nutrizione dei coetanei maschi.

«La discriminazione di genere contro le ragazze non è riservata solo ai feti, ma anche alle bambine partorite. E l’equità di genere non riguarda solo il diritto all’educazione, alla rappresentazione politica, all’impiego lavorativo» dice Christophe Guilmoto, co-ricercatore dello studio. In primis “riguarda anche, in definitiva, la sopravvivenza: salute, vaccini, nutrimento.

L’altissimo tasso di mortalità infantile femminile è diffuso nel 90% del Paese, soprattutto nelle regioni rurali, dal Bihar, al Rajasthan, all’Uttar Pradesh. In 29 dei 35 Stati indiani analizzati, l’eccesso di mortalità femminile è stato registrato in bambine sotto i cinque anni. «Il 22% della mortalità complessiva tra le donne è legato al loro genere» conferma l’IIASA, International Institute for Applied Sistems Analysis.

 

Di Maio e Salvini si inventano il VAR di governo: una moviola per contare i (loro) falli

Matteo Salvini e Luigi Di Maio in una foto combo, Roma 11 maggio 2018 ANSA/ LAMI CARCONI/ANTIMIANI

L’Huffington Post pubblica una bozza del contratto di governo (qui) e chissà perché non c’è niente che possa stupire. Che due forze di governo (ma davvero?) fatichino a ritrovarsi su un programma diverso dopo una propaganda tutta strepiti e urlacci non stupisce nessuno. Rassicura piuttosto (visto i protagonisti in campo) la risibile superficialità di un contratto che pare il foglio manoscritto di un pacchista a domicilio, uno di quelli che promette materassi insuperabili a prezzi da gioielleria.

Il punto forte, diciamolo, è il comitato di conciliazione (parallelo al Consiglio dei ministri, una sorta di governo ombra composto però dagli stessi membri di governo) che dovrebbe risolvere le eventuali discordanze tra le due forze politiche. Semplificando: siccome ci mettiamo d’accordo ma siamo sicuri di non riuscire ad andare d’accordo decidiamo un giudice terzo che siamo noi per risolvere le controversie al di fuori degli organi politici stabiliti dalla Costituzione. Non basta la piattaforma online, non servono i gazebi da piazzisti, ciò che conta è avere una via d’uscita per dirimere le beghe in modo che si vedano il meno possibile.

Non va male però. Avrebbero potuto inventarsi un blog del tipo www.eoracomeneusciamo.it oppure un comitato di saggi formato da Scanzi e Calderoli, invece, bontà loro, si sono limitati a un consiglio di non ministri che consigli i ministri per riportarli a ragionevoli modi. Una sorta di moviola per rivedere al rallentatore tutti gli scazzi e decidere chi ha compiuto il fallo per primo o se c’è stata un’eccessiva reazione.

Hanno inventato la moviola per rivedere le proprie azioni. Geni. E insistono nel simularsi indaffarati cercando in giro un Presidente del Consiglio disposto a fargli da cameriere. Avanti così.

Buon mercoledì.

La corruzione e il fallimento delle politiche confessionali consegnano l’Iraq a Moqtada al-Sadr

Sorpresa alle elezioni irachene: a vincere le parlamentari è stata l’alleanza Sairoun (“Coloro che marciano”) guidata dal religioso sciita Moqtada al-Sadr che conquista 54 seggi sui 329 totali del Parlamento iracheno. Secondo partito (47 seggi) è la coalizione Fatah (“Conquista”), il raggruppamento delle milizie sciite filo-iraniane guidata da al-Amiri. Molto male il premier uscente al-Abadi che con la lista Nasr (“Vittoria”) manderà in parlamento solo 42 deputati. Peggio di lui ha fatto però il suo predecessore Nouri al-Maliki, considerato da molti in Iraq come il principale responsabile delle divisioni interne e dell’acceso settarismo tra sunniti e sciiti. Nel Kurdistan iracheno, invece, il maggiore partito è il Kdp di Barzani con 25 seggi seguito dal Puk di Talabani (15). Terzo il partito di opposizione Gorran (6) che ha però già denunciato irregolarità.

Fortissimo l’astensionismo: solo il 44,5% degli aventi diritto è andato a votare. Una percentuale bassa in qualche modo prevedibile visto che molti iracheni non si sentono affatto rappresentati da un ceto politico corrotto e incapace di risolvere i problemi che attanagliano da anni la popolazione.

La prima riflessione su queste elezioni è che a uscire sconfitta dalle urne è stata proprio la leadership post Saddam che ha spaccato il Paese su linee confessionali, alimentando lo scontro tra sciiti, sunniti e curdi. Gli iracheni che sono andati a votare non a caso hanno preferito chi ha offerto (almeno a parole per ora) un’alternativa anti-confessionale (Sadr) o chi è stato in prima linea contro l’autoproclamato Stato Islamico (Is). Proprio su Sadr, tra i principali protagonisti della resistenza sciita all’occupazione Usa, sono ora puntati gli occhi degli osservatori locali e internazionali: negli ultimi anni il religioso sciita si è voluto mostrare leader nazionale rassicurante vicino alle fasce più diseredate della popolazione irachena e, a differenza di al-Maliki e delle milizie sciite, ha mostrato come al-Abadi una certa ostilità anti-iraniana (lo scorso anno è arrivato addirittura a visitare il principe saudita sunnita Mohammed bin Salman). Proprio l’attenzione verso le classi più emarginate della società e il richiamo costante contro ogni forma di settarismo sono stati i due principali motivi che hanno spinto il religioso ad allearsi con gli “atei” marxisti rappresentati dal Partito Comunista iracheno e a formare Sairoun.

Secondo altri analisti, tuttavia, è possibile pure che le milizie sciite, arrivate seconde alle elezioni e legate a doppio filo con l’Iran, tentino di allearsi con al-Maliki per formare il nuovo governo.

Per approfondire: “Non bastano le elezioni a ricucire l’Iraq ferito”, a pag. 32 di Left in edicola


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Cucchi, un carabiniere testimone: «I miei colleghi tentarono di incastrare la polizia penitenziaria»

«È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato. Il maresciallo Roberto Mandolini me lo disse portandosi la mano sulla fronte e precipitandosi a parlare con il comandante Enrico Mastronardi della stazione di Tor Vergata. Seppi da quella che è poi diventata la mia compagna, Maria Rosati, e che assistette al colloquio perché faceva da autista di Mastronardi, che stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei capì il nome Cucchi ma all’epoca non era ancora una vicenda nota perché non era morto». È iniziata così la testimonianza oggi in prima corte d’Assise dell’appuntato dei carabinieri Riccardo Casamassima, l’uomo che denunciando i suoi colleghi militari ha fatto riaprire il caso Cucchi, il geometra di 31 anni deceduto all’ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. Nel processo bis sono imputati cinque carabinieri accusati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia. «Qualche giorno dopo incontrai il figlio di Mastronardi, Sabatino con il quale ebbi uno scambio confidenziale – ha continuato, rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò, Casamassima, che all’epoca dei fatti prestava servizio alla stazione di Tor Vergata e ora è in servizio all’VIII Reggimento –  anche lui si portò la mano sulla testa e parlando della morte di Cucchi disse che non aveva mai visto una persona così messa male. Lo aveva visto la notte dell’arresto quando il ragazzo venne portato a Tor Sapienza».

Un’udienza cruciale che fa seguito a quella in cui altri due carabinieri hanno ammesso l’esistenza di verbali manomessi per minimizzare le condizioni di salute di Cucchi, gravemente compromesse proprio dal pestaggio che sta venendo fuori da questa udienza.

Casamassima ha detto di aver deciso di parlare dopo quattro anni e mezzo, «perché all’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali, e, provando vergogna per ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di rendere testimonianza, temendo ritorsioni che poi si sono verificate. Quando è uscito il mio nome sui giornali, i superiori hanno cominciato ad avviare contro di me procedimenti disciplinari, tutti pretestuosi. Con Mandolini (accusato di falso e calunnia, ndr.) mi sono incrociato una mattina nell’ottobre del 2016: gli dissi solo di andare a parlare col pm e a dire quello che sapeva – ha concluso Casamassima – gli dissi che la Procura stava andando avanti e che aveva in mano una serie di elementi importanti. Lui mi rispose dicendomi che il pm ce l’aveva a morte con lui».

Questo il commento di  Ilaria Cucchi, a margine  della testimonianza di Casamassima:  E’ inaccettabile che qualcuno abbia fin dall’inizio cercato di coprire quanto è accaduto. Tanti, troppi anni fa vidi Roberto Mandolini nel primo processo per la morte di Stefano, il processo sbagliato. Raccontò che la sera dell’arresto di Stefano lui era stata ” piacevole”, lui era stato simpatico. Ora ascolto tutta un’altra storia dopo che per anni io e la mia famiglia abbiamo rincorso la verità. Ritengo Mandolini il principale responsabile  morale di questi anni di attesa detta verità. Sono provata – ha concluso Ilaria Cucchi- ho la pelle d’oca ma finalmente ho la speranza che emerga che noi sapevamo, anche se lui diceva che era stata una serata piacevole”

Le signore del fantastico che ci mettono in guardia sui rischi del domani

Prima che la catastrofe abbia inizio, un uomo affetta carote nella cucina di una tipica casa americana sotto gli occhi di sua moglie e della suocera. La seconda, una femminista ormai anziana, commenta: «Tu non hai idea di quante donne siano morte perché arrivassimo a vedere questo». È una scena de Il racconto dell’ancella, fiction Tv tratta dall’omonimo romanzo dell’autrice canadese, oltre che attivista e femminista, Margaret Atwood (classe 1939). Nello Stato distopico di Galaad, incastonato fra Usa e Canada, un colpo di stato integralista cristiano ha instaurato un regime totalitario con lo scopo di porre rimedio al male che affligge la Terra: la sterilità femminile. A narrare la vicenda attraverso un misterioso diario ritrovato fra le rovine della dittatura ormai decaduta è una delle “ancelle”, ovvero le poche donne ancora fertili e perciò rese schiave degli ufficiali del regime, i Comandanti, che hanno con loro rapporti sessuali finalizzati esclusivamente alla procreazione. La vita delle ancelle e delle donne in generale, ridotta a una sopravvivenza in stato di segregazione di grado variabile in funzione di gerarchie di matrice biblica, non ha altro valore.

Di questa, e di altre storie fantascientifiche di ieri e di oggi con protagoniste donne e scritte da donne, hanno parlato al Salone internazionale del libro di Torino cinque scrittrici italiane: Maria Serena Sapegno, Giusi Marchetta, Veronica Raimo e Simona Vinci, con la moderazione di Loredana Lipperini. Ciascuna di loro ha scelto un’altra scrittrice, eleggendola a “signora del fantastico”. A torto ritenuto un genere a predominio maschile, e a dispetto di chi pretende di spiegarne l’essenza in termini di ricerca letteraria a esclusivo sfondo scientifico di stampo positivista, la fantascienza è in realtà dominio dell’irrazionale per eccellenza, dell’immaginazione spinta ben oltre il limite del reale e di ciò che è sperimentalmente verificabile. Non sorprende quindi che molti dei più recenti premi internazionali di letteratura fantascientifica siano stati assegnati a donne.

Ma la mano femminile all’interno di questo genere di scrittura non inizia certo a muoversi solo nel nostro secolo. Anzi, a ben vedere la fantascienza nasce femmina (e forse femminista), visto che quello che viene considerato come il primo romanzo fantascientifico dell’epoca moderna è Frankenstein di Mary Shelley. Nella ribellione all’anaffettività del suo creatore, il ghiaccio polare in cui il Mostro si rifugia alla fine della storia, si cela la rivolta dell’autrice contro la fredda razionalità dell’ambiente in cui visse. Il romanzo divenne così rappresentazione della rivolta alla figura paterna, l’anarchico illuminista William Godwin, da parte di una giovane donna nata con il marchio dell’aver “ucciso la propria madre” (la filosofa Mary Wollstonecraft, anticipatrice del femminismo, morta di febbre puerperale qualche giorno dopo averla partorita), e che visse nel segno del lutto: oltre alla madre, perse infatti il marito e due dei tre figli, e infine morì di malattia a soli 54 anni. Il romanzo, disse l’autrice, era nato da un sogno che aveva fatto, quindi da un’immagine inconscia che dalle profondità del suo vissuto è cresciuta nei secoli fino a diventare uno dei miti più potenti della storia della letteratura, ben al di là della semplice ricerca illuminista sulle rischiose conseguenze di una scienza che travalichi i limiti della morale.

L’essenza più autentica della fantascienza insomma, il genere che “parla del futuro per raccontare il presente”, come accade anche nel romanzo di Atwood. Non è un caso se, pur scritto nel lontano 1985, Il racconto dell’ancella è stato trasposto in versione televisiva solo trent’anni più tardi, quando le stesse libertà per le quali il femminismo ha combattuto sono di nuovo a rischio: viene da pensare, ad esempio, all’attacco frontale di questi giorni alla legge 194 attraverso irrealistiche e antiscientifiche sentenze di moralismo intransigente, molto simili a quelle immaginate nella distopia di Galaad. E così, come anche nel caso de Le Sirene di Laura Pugno, “allevate” in vasca per essere sfruttate, a essere violento non è il racconto in sé, ma la realtà che esso descrive con lo scopo di ammonire sulle possibili conseguenze di quotidiani comportamenti, di decisioni politiche che via via rosicchiano, negano, polverizzano le precedenti realizzazioni di identità umana e sociale delle donne.

Il regime autoritario di Galaad, nel romanzo di Atwood, non è sorto in un solo giorno, ma è stato pianificato e realizzato gradualmente e con lucida efficienza maschile, e se la protagonista ha ancora il privilegio della memoria di un passato diverso, le prossime generazioni di donne «non potranno voler recuperare qualcosa che non hanno mai conosciuto». È il femminismo fantascientifico come cultura della vigilanza sull’eredità che rappresenta il patrimonio di realizzazioni acquisite, contro gli attacchi che da più parti possono provenire.

È di qualche settimana fa la pubblicazione de Le visionarie, antologia “trans-storica” curata da Jeff e Ann VanderMeer e composta da ventinove racconti che «tratteggiano i contorni di un mondo di volta in volta futuristico, inquietante, onirico o semplicemente strano», come scrive l’editore, Nero editions. Racconti scritti da donne «che hanno fatto la storia e il presente della narrativa fantastica» (finalmente non solo anglosassoni) e tradotti in italiano da altrettante scrittrici o giornaliste coordinate da Claudia Durastanti e Veronica Raimo. Una fra tutte, Ursula K. Le Guin, recentemente scomparsa, fautrice di una fantascienza profondamente umanista, laica, libertaria, scrittrice capace di rivendicare con orgoglio la propria appartenenza al genere, senza il timore di sfidare la cosiddetta “narrativa realista” al prezzo della rinuncia a successi commerciali tanto facili quanto nocivi alla qualità della creazione letteraria.

Non riesce invece ad affrancarsi da una visione cupa e alienata dell’esistenza il filone di autrici di stampo più nettamente dell’orrore, come la contemporanea argentina Mariana Enriquez, nonostante il timbro spesso ironico, o che si collocano in un gotico d’antan come la “maestra dell’orrore” (la definizione è di Stephen King) Shirley Jackson, la cui prosa prende ancora una volta le mosse da una reazione di rifiuto all’autoritarismo familiare, in questo caso negli Usa degli anni 50. Passata alla storia per il racconto La lotteria, alla sua epoca Jackson raggiunse la fama per le cronache “casalinghe”, le cui protagoniste sono sempre in contrasto con la figura materna. Quando fu ricoverata in ospedale per parto e all’accettazione dichiarò che la sua professione era «scrittrice», si sentì rispondere «okay, scriviamo casalinga». Parole che, a quanto sembra, furono pronunciate da un’impiegata donna. A quel tempo si poteva accettare, sebbene a fatica, che una donna si ribellasse; ma che lo facesse scrivendo, e scrivendo letteratura dell’immaginario, era davvero troppo. Oggi le cose sono ben diverse. «Molte scrittrici sono morte, perché accadesse questo» viene da dire a noi, parafrasando la suocera dell’ancella.

Riconfermato, nel frattempo, il tandem Bray – Lagioia alla guida del Salone torinese, che quest’anno ha raggiunto numeri da record. Ben 144.386 ingressi, superando i dati dell’edizione 2017

Il giorno dopo la strage Gaza piange una neonata avvelenata dai gas israeliani

epa06735933 Palestinian demonstrators seek cover during a protest against the US Embassy move to Jerusalem and ahead of the 70th anniversary of Nakba, at Qalandya checkpoint near the West Bank City of Ramallah, 14 May 2018. According to media reports, at least 41 Palestinians were killed and more than 1800 wounded during clashes in Gaza-Israeli border during clashes against the US embassy move to Jerusalem as well as marking Nakba Day. Palestinians are marking the Nakba Day, or the day of the disaster, when more than 700 thousand Palestinians were forcefully expelled from their villages during the war that led to the creation of the state of Israel on 15 May 1948. Protesters call for the right of Palestinians to return to their homeland. EPA/ALAA BADARNEH

Palestina, lotta e lutto. Tra le ultime vittime c’è Laila Anwar Al Ghandour. Aveva otto mesi e, secondo il ministro della salute di Gaza, ad ucciderla è stato il gas inalato ieri, 14 maggio, durante le proteste al confine tra Gaza e Israele. La Spoon River palestinese 2018 si allunga ora dopo ora. Ad oggi si parla di 60 vittime. Gaza il giorno dopo ha il viso rigato dal pianto.

Il 14 maggio è stato il giorno più sanguinoso a Gaza dalla guerra del 2014. È la nuova nakba, “la nuova catastrofe”. È il giorno in cui si ricorda quella del 1948, come accade ogni anno da allora, – per onorare la memoria di chi è stato cacciato dalla propria casa e villaggi nell’anno di fondazione dello Stato di Israele -. Il giorno dopo, 15 maggio, è scattato lo sciopero generale per i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme est con tre giornate di lutto. E le famiglie si preparano ad affrontare la cerimonia dei funerali nell’enclave palestinese. Per Khaled Batch, capo della base del comitato organizzatore della protesta, il 15 maggio è il giorno per piangere intorno ai feretri. Non ha parlato di altre marce previste nei pressi del confine.

Mentre a Gerusalemme apre l’ambasciata degli Stati Uniti, a Gaza muoiono sessanta persone in meno di 24 ore. Mentre Ivanka Trump partecipava all’inaugurazione della nuova, lussuosa, scintillante sede diplomatica americana, circondata da personalità politiche e dello spettacolo, i palestinesi perdevano la vita sotto una pioggia di gas lacrimogeni, nel fumo nero delle bombe carta, mentre fischiavano proiettili. “È un great day” per Israele, un grande giorno per Israele, come l’ha definito Donald Trump su Twitter. Il premier Benjamin Netanyahu, addossando la colpa ad Hamas, ha ribadito che non è responsabile il suo esercito, perché «ogni Paese ha l’obbligo di difendere i suoi confini». Ha fatto eco al primo ministro israeliano il genero di Trump, Jared Kushner: «le violenze del mese scorso e di oggi, sono parte del problema, non della soluzione». Mentre parlavano sul podio bianco, a pochi chilometri dal confine, nella polvere e nel fuoco, i palestinesi facevano i conti con il giorno più sanguinoso da molti anni.

Ieri in 58 sono morti, 2700 sono rimasti feriti da lacrimogeni, proiettili e bombe incendiarie che l’Idf, l’esercito israeliano, ha sparato da punti diversi a ridosso della recinzione che divide i due confini. Ieri è avvenuto “un genocidio”. Il presidente turco Tayyip Erdogan ha minacciato di ritirare i suoi ambasciatori da Usa e Israele. Per lo stesso motivo, – «una violenta aggressione compiuta dalle forze armate di Israele» – , il Sud Africa ha richiamato i suoi diplomatici da Israele. Anzi, oggi, 15 maggio, manifestazioni di proteste contro l’attacco a Gaza si sono tenute a Cape Town promosse da attivisti dei diritti umani di cui fanno parte anche ebrei sudafricani.

Nelle ultime settimane sono cominciate le manifestazioni della lunga marcia del ritorno. Dal 30 marzo scorso, giorno di inizio, fino ad oggi, 15 maggio, per il momento sono 107 i palestinesi che hanno perso la vita, in 12mila sono rimasti feriti. Per quello che è accaduto il 14 maggio Zeid Ra’ad Hussein, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha detto che «chi è responsabile di una così orribile violazione dei diritti umani» deve essere tenuto in considerazione e che «la comunità internazionale deve garantire giustizia alle vittime». A 70 anni esatti dalla nascita dello Stato d’Israele, forse a Gaza nessuno ci crede.

Oggi, 15 maggio, a Roma, ore 17,30, presidio per la Palestina a piazza Montecitorio, promossa dalla Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese.

 

Giulio Sapelli, poema triste

Il professore all'Uiversita' di Milano Giulio Sapelli in occasione della presentazione del suo libro "Oltre il capitalismo", Milano, 14 Maggio 2018 ANSA / MATTEO BAZZI

Se l’avesse scritto Roberto Bolaño quella notte di Sapelli sarebbe stata la trasposizione di Auxilio Lacouture, la poetessa uruguaiana che rimase chiusa nascosta nei cessi dell’università di Città del Messico durante tutta l’occupazione militare del 1968, come raccontato nel romanzo I detective selvaggi.

Io me lo immagino, Giulio Sapelli, con tutto l’amore che ha per se stesso come capita a noi, così terribilmente deboli quando ci capita di raccontarci agli altri. «Una delle voci più originali e fuori dal coro tra gli economisti italiani», scrive Sapelli di Sapelli presentandosi sul suo sito, come parlano di sé in terza persona certi professori incassati nei propri completi con troppe spalline, quelli che si schiacciano i capelli di lato prima di parlare per affilarsi e sembrare più appuntiti.

Mi immagino «l’intellettuale poliedrico» Sapelli (sì, si autodefinisce anche così) che riceve la telefonata nella sua abitazione che profuma di carta (e di quella polvere che si lascia perché sta così bene con la letteratura) in cui gli si chiede di incontrare i due partiti che provano a brigare un governo. Lo vedo che sceglie il vestito buono, che si passa la mano sul mento per verificarne la liscezza e che durante il tragitto si allena ad essere autorevole e convincente, schiarendosi la voce nell’umido romano.

Lo vedo mentre stringe le mani sentendo il profumo della scelta, lo sento discutere del programma di governo pregustando la dolce chiamata a “servire la patria”, dire no grazie io non prendo niente ho già bevuto il caffè perché i professori smettono presto la litania della cena e del dopo cena predisposti a indaffararsi subito di nuovo e mi immagino il sorriso mentre rincasa. Se dovessi osare, intravedo uno di quei saltelli a schioccare i tacchi, anche solo immaginato nella testa, come moto di gioia e soddisfazione.

Una notte da presidente del consiglio è un sabato del villaggio che cade di capodanno. Chissà che acquolina gocciola in bocca in una notte così. E invece Giulio Sapelli, ieri, ha saputo che di Sapelli non è mai interessato a nessuno lì sopra. Ha letto l’agenzia di stampa che deve essergli risuonata come un epitaffio: «Mai pensato a Sapelli» dicono di lui i protagonisti della politica romana.

Chissà che malinconia. Forse avrà frainteso. Avrà sbagliato una frase di quelle che aveva maledettamente soppesato preparandosi all’incontro. O forse era solo un pourparler preso troppo sul serio. Chissà che tedio Sapelli, di quello che capita per delusione a chi prende sul serio cose e persone da non prendere troppo sul serio.

Buon martedì.