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Migranti, l’accordo Italia-Libia finisce davanti alla Corte costituzionale

Un momento dell'operazione durante la quale la Guardia costiera libica di Zawia ha intercettato la scorsa notte un'imbarcazione con 464 migranti a bordo, riportandoli sulla terraferma. Quello di Zawia è il distaccamento che risulta finora più attivo nel contrasto al traffico di migranti. ANSA/ Ufficio stampa Guardia costiera di Zawia +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Era il 2 febbraio 2017 quando – alla vigilia di un importante vertice europeo a Malta in cui si sarebbe discusso anche di emergenza immigrazione – il Primo ministro Paolo Gentiloni siglava a Roma l’accordo col presidente del Governo di unità nazionale libico Fayez al-Serraj: un memorandum in cui l’Italia si impegnava nei confronti della Libia a fornire strumentazioni e sostegno militare, strategico e tecnologico, oltre a fondi per lo sviluppo, per bloccare le partenze dei migranti in fuga. Un accordo con un Paese, è bene ricordarlo, che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e nelle cui carceri i migranti sono quotidianamente oggetto di violenze e soprusi.

Un impegno preso, inoltre, senza che fosse stato consultato il Parlamento. Per questo un gruppo di politici, supportati da un team di giuristi della Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso a distanza di un anno di usare gli strumenti della legge per fare annullare quel patto. «Non sottoponendo la legge di ratifica dell’accordo alla Camera e al Senato, il governo ha violato le prerogative parlamentari, tutelate dall’articolo 80 della Costituzione, che prevede che per i trattati internazionali che hanno contenuto politico e prevedono oneri finanziari sia obbligatorio il passaggio parlamentare». Con queste parole Andrea Maestri, avvocato e deputato di Sinistra italiana-Possibile, annuncia a Left la presentazione alla Corte costituzionale del ricorso per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. A presentarlo, insieme a Maestri, i candidati con Liberi e uguali alle prossime elezioni Giuseppe Civati, Giulio Marcon e Beatrice Brignone.

Secondo i ricorrenti, il governo avrebbe impedito il legittimo esercizio del potere costituzionalmente garantito dalla Costituzione al Parlamento stesso. «La lesione delle nostre prerogative – spiega Maestri – è facile da individuare, perché io in particolare nei confronti dei ministri Minniti e Alfano ho presentato diverse interrogazioni su questo tema, me ne sono occupato tantissimo, però di fatto non vi è stata possibilità di discutere uno degli atti più importanti di politica migratoria e politica estera di questo governo come appunto l’accordo con la Libia, perciò il vulnus rispetto alla Costituzione è evidentissimo. Direi che si tratta di una questione grave dal punto di vista politico, ma anche costituzionale e oserei dire democratico».

Una questione grave, insomma, che non è capitata per caso. «È evidente che c’è un filo rosso sangue che tiene legate le iniziative del governo italiano, sia in Libia che in Niger (il riferimento è alla missione italiana approvata a dicembrendr) che è la volontà di gestire i flussi migratori esternalizzando i confini, delegando il lavoro sporco ad esempio alle milizie libiche e alle tribù tripolitane e del sud del Paese che lo scorso aprile hanno stretto un patto con Minniti, quel “patto di sangue” così definito all’epoca dai capi tribù, come raccontato dal ministro stesso».

A votare la missione militare italiana in Libia di agosto, di supporto alla guardia costiera del Paese nordafricano, furono però anche esponenti di Mdp, ora all’interno di Leu, la stessa lista di Maestri: «La posizione di Liberi e uguali su politica estera, politiche della migrazione, diritti umani – ribadisce il deputato – è assolutamente univoca, al di là delle scelte che magari Mdp ha fatto in passato. Credo che oggi nessuno fra i colleghi di Mdp avrebbe difficoltà a condividere pienamente la linea che abbiamo tracciato attraverso questa azione di denuncia».

Respingiamoli! Sono tutti sulla stessa barca (ma proprio tutti)

Ecco una selezione dei commenti pubblicati sulla nostra bacheca Facebook, in seguito alla uscita della cover di Left n.8 – RESPINGIAMOLI. Buona lettura.

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Roberto Escobar Ecco il programma politico-economico della Bonino, che non solo non è di sinistra, ma è talmente di destra da essere “sinistro”.

«Il debito pubblico italiano (…) è diventato una zavorra insostenibile per l’economia del paese. Per affrontare il problema proponiamo il congelamento della spesa pubblica in termini nominali per la durata della prossima legislatura insieme a una rimodulazione delle tasse con taglio delle aliquote sui redditi di persone e imprese e riduzione della spesa fiscale: in tal modo si realizzerebbe una redistribuzione di risorse dal pubblico al privato (…) Congelare la spesa nominale significa fissarne un limite invalicabile per cinque anni, il che comporta una riduzione della spesa stessa misurata sul PIL se inflazione e crescita economica sono positive. Occorre quindi tagliare uscite correnti e agevolazioni fiscali per compensare l’aumento inerziale dei costi delle pensioni, intervenendo sulla spesa corrente sulla base delle linee guida degli ex commissari alla spending review». (Fonte)

Tradotto: i ricchi se la spassano, i poveri perdono quel che resta di stato sociale.

Maurizio Acerbo Emma Bonino è un’esponente della destra economica neoliberista. Non è mica un’offesa.

Guido Scollo Ho del pudore a giudicare la politica perseguita dalla Bonino,tutta imperniata sulla difesa dei diritti civili,dei rifugiati,dei richiedenti asilo,delle donne e così via. Ciò non di meno l’assenza nei suoi programmi del tema delle diseguaglianze economico-sociali e delle sue cause,ci obbliga a verificare se tutti i suoi propositi sono disinteressati o assoggettati al tentativo di rattoppare questo stanco ma tuttora imperante neoliberismo.

Maurizio Brotini Emma Bonino rappresenta la destra liberista sul piano delle misure economico-sociali. Sia per il taglio del sistema di protezioni sociali sia per l’assoluta centralità dell’impresa. Non casualmente gode del massimo appoggio di Confindustria, memore anche delle sue storiche e ribadite convinzioni e battaglie contro le organizzazioni sindacali ed i diritti dei lavoratori e le lavoratrici. Chiedetele la posizione sulla Fornero, il Jobs Act, art. 18 e servizio sanitario nazionale universale pubblico e gratuito.

Michele Prospero “Tra coloro che non se la sentono di votare Pd, c’è chi (persino tra gli eredi di Togliatti) pensa alla lista +Europa, considerandola una offerta più accettabile. La indubbia coerenza politico-culturale di Bonino, non deve occultare il programma della lista: liberale nei diritti e liberista nell’economia. La filosofia è racchiusa in un elogio degli effetti virtuosi della concorrenza per la ricchezza e opportunità”.

Rita de Petra Scusate se intervengo, mi pare che non si discuta il fatto che i radicali abbiano fatto battaglie di civiltà ma farei sommessamente osservare che se le hanno vinte forse in queste battaglie c’erano anche altri; io ricordo quella sul divorzio e beh l’ho fatta anch’io e mai stata radicale. Ma in questo caso ce lo vogliamo ricordare che lei era commissaria europea col governo Berlusconi? e ditemi chi l’ha fatta la Bossi Fini? i radicali hanno forse disdegnato di governare con le destre? si rendono conto che la situazione attuale della distruzione del lavoro, della scuola asservita all’industria, della Sanità regalata ai privati, dei milioni di poveri che non possono più curasi è il frutto di una politica liberista? e loro sono liberisti! Abbiamo a cuore i migranti, ma non pensate che questo sia una parte del problema e non tutto? la Bonino vuole un’Europa che ci chiedi il respingimento e poi fa la buona perchè sembra schierarsi dalla loro parte , cura il sintomo e non la malattia, scusate. A me pare che lei con la sinistra e con un’idea di sinistra che si batte per i diritti non abbia nulla a che vedere. sarà anche una paladina dei migranti, ma se non cambiamo la nostra situazione economica cosa possiamo offrire se non l’elemosina a chi arriva da noi? e se non mettiamo mano all’Europa, a questa Europa che lei ha contribuito a costruire e che ora non mette in discussione, ho l’impressione che lei con il suo partitino rifarà una bella alleanza col PD e poi con Berlusconi e noi continueremo a discettare sulle sue buone qualità. buona giornata!

Roberto Escobar Che Emma Bonino si sia impegnata e si impegni per i diritti civili e per i diritti umani è fuori di dubbio. Ed è fuori di dubbio che molti altri e altre lo abbiano fatto e lo facciano (Laura Boldrini è fra questi, da decenni). C’è però una contraddizione “radicale”. La povertà e le guerre che spingono milioni di esseri umani ad abbandonare i loro paesi per salvarsi dalla morte, anche da quella per fame, sono sempre più il prodotto dell’ideologia e della pratica del neoliberismo, ossia di quella stessa pratica e ideologia che Emma Bonino da sempre fa sue. Che sia in buona fede è certo, che sbagli tragicamente lo è ancora di più.

Franco Beccari Emma Bonino, la guerrafondaia ultra liberista che cerca voti utili a sinistra, non solo ha sostenuto gli interventi militari in Kosovo, Afghanistan, Iraq e Libia (per non parlare delle sue dichiarazioni pro Israele dopo “Operazione Piombo Fuso” a Gaza), ma nel suo attuale programma addirittura descrive i bombardamenti di Belgrado nel 1999 come “bombardamenti dissuasivi”. Oltre 2.500 civili uccisi, tra i quali 89 bambini, oltre 12.500 feriti. 2.300 attacchi aerei che hanno distrutto 148 edifici, 62 ponti, danneggiato 300 scuole, ospedali e istituzioni statali, così come 176 monumenti di interesse culturale e artistico. Poi, ora che è in campagna elettorale, cerca la lacrimuccia per i bambini morti in Siria. “Bombardamenti dissuasivi”. Me lo segno. 

Simone Fana La Bonino con le sue ricette di politica economica alimenta la guerra tra poveri. La sua difesa dei rifugiati e’ funzionale a segmentare e dividere I lavoratori e lavoratrici tra loro. D’altronde per una che considera necessaria una politica di taglio alla spesa pubblica (ancora!!) cioè di riduzione del welfare, sanità, pensioni e scuola, e’ abbastanza evidente che la sua difesa e’ funzionale a garantire l’esistenza di cittadini di serie A (titolari di diritti sociali, politici e civili) e cittadini di serie B (esercito industriale di riserva). Riflettiamo un attimo. Congelamento spesa pubblica significa crescita bassa e diseguale, quello che avviene oggi. Senza investimenti pubblici il Paese non riparte, ormai lo dice anche il Fmi non I bolscevichi di Kronstadt, quindi in una prospettiva di crescita del lavoro povero e della povertà come probabile in un ciclo economico che rischia di arrestarsi dopo aver avuto una congiuntura positiva, congelamento della spesa = tagli a sanità, pensioni, scuola, università. Non voglio credere che si pensi che la ricetta del governo e cioè la crescita si stimola riducendo i salari dei lavoratori e delle lavoratrici abbia prodotto dei frutti. Non lo voglio neanche pensare che possa davvero resistere cosi duramente alla realtà.

Simona Baldanzi Dire che Emma Bonino é per il neoliberismo diventa una specie di bestemmia? Per quale motivo? Su quella barca ci sale da sola difendendo le politiche liberiste, sostenendo le missioni di guerra che poi schiacciano i profughi, difendendo le politiche di austerity e tagli al welfare dell’Europa ecc. Non c’è niente di personale, non ci sono offese, non significa dimenticare le battaglie civili dei radicali, ma anzi evidenziarne le contraddizioni e porre l’attenzione alla chiara volontà di salire su quella barca e di sentirsi pure a proprio agio.

Stefano Iannaccone L’idea del voto utile contro le destre, scegliendo un partito che ha fatto politiche di destra sull’immigrazione, non mi convince. Emma Bonino merita rispetto, ma non si può assumere come esempio di coerenza. Né come esponente di sinistra.

Luciano Belli Paci Non ho mai capito la fascinazione di una parte dell’opinione pubblica di sinistra per la Bonino. Il personaggio è modesto, non per nulla ha fatto per decenni da spalla al santone logorroico. Sul piano politico è del tutto evidente che, se si determinasse quel bipartitismo che la Bonino auspica, lei starebbe sempre con la destra thatcheriana e reaganiana, contrapposta a qualunque sinistra socialista e antiliberista. La sua posizione sui migranti a me pare del tutto coerente: per i “liberali” come lei il lavoro è una merce come le altre, sicché deve essere garantita la libera circolazione dei lavoratori in un mercato che si presume perfetto. Non è una questione umanitaria e men che meno una questione sociale. Del resto, per la sua ideologia la società non esiste, esistono solo gli individui. Che molti elettori stiano pensando di votare la lista Bonino per punire la deriva destrorsa del Pd è un fatto che la dice lunga sul collasso della cultura politica in questo nostro sfortunato Paese.

Roberto Musacchio Io penso che in questi 30 anni stiamo conoscendo un fenomeno col quale si fa ancora fatica a fare i conti: il divorzio tra capitalismo e democrazia. Questa è la contraddizione in cui sta anche Bonino. Appoggiare il neoliberismo e l’austerità e pensare che ciò possa convivere con i diritti dei migranti e delle persone in genere mi sembra privo di senso reale. Il sistema che si è andato affermando spinge pesantemente verso la guerra tra gli ultimi. E la UE è in totale contraddizione con l’idea di una Europa democratica, ne è nemica. Avendo qualche anno mi colpisce che mentre c’è chi a sinistra sta finalmente ponendo il nesso stretto tra libertà individuali e sociali al contrario Bonino non colga ciò che, per dirla con Popper, falsifica il suo discorso. Devo dire anche che gli accordi politicistici che ha realizzato mi sembrano il contrario della riforma della politica che sarebbe necessaria. Accordi che riproducono il quadro che ha determinato leggi pessime e impedito quelle buone.

Persio Tincani Nessuno nega che lei sia stata (o sia ancora, non lo so) a favore dell’estensione dei diritti di libertà, che chiamiamo diritti civili proprio perché la loro estensione è ritenuta un segno di civiltà. Tuttavia, se abbiamo il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza non è certo stato per il 3% che ci hanno messo i radicali, ma perché la grande maggioranza dei cittadini li ha voluti. Per fare solo un piccolo esempio, la Dc, ai tempi, invitava a votare Sì al referendum sul divorzio, ma gli stessi elettori della Dc non diedero ascolto a Fanfani e, in gran parte, votarono No. Inoltre, e questo è per me il punto più grave, i diritti di libertà non sono diritti gratuiti, né diritti che si realizzano per il solo fatto che per legge siano istituiti. Senza i diritti sociali, senza il welfare che Bonino vede come il fumo negli occhi, si risolvono nel diritto di morire di fame. E questo lo notava Hayek, un liberista, non un marxista. Infine, la vulgata di propaganda che vuole che alla deregolamentazione dei mercati segua il mondo del benessere per tutti, è semplicemente una falsità. Basta pensare a come lavorano adesso i giovani, quelli che hanno questi meravigliosi contratti frutto della (semplifico) deregolamentazione e quali reali prospettive di vita e di benessere abbiano. O alla facilità con la quale si liquida con “beh, è il mercato che è cambiato” il fatto che una fabbrica venga chiusa per essere spostata dove il lavoro costa meno o dove le regole sono meno onerose per i proprietari, con quel che ne segue in termini di reddito, ricchezza e prospettive dei lavoratori, che finiscono in mezzo a una strada. Era un filosofo marxista quello che diceva che se la teoria non corrisponde al mondo reale, allora tanto peggio per il mondo reale. Non mi pare che sia diverso da quello che dicono i profeti della deregolamentazione, Bonino tra questi.

Francesco Somaini A Bonino credo si possa senz’altro rimproverare la relativa disinvoltura con cui si è talora accostata anche ad opzioni politiche in aperto contrasto con molte delle sue battaglie civili e di libertà. Ma, a parte questo, mi pare che il suo attuale sostegno entusiasta alle politiche rigoriste di quest’Europa (l’Europa così com’è, e non come si vorrebbe che fosse) implichi di fatto un’adesione del tutto acritica all’ideologia mercatista che sottende quelle politiche. Non si tratta certo di essere dei fan dello spreco fine a se stesso. Ma è abbastanza evidente che dietro la cultura del rigore esasperato vi è in realtà un’ideologia facilmente riconoscibile. E un’ideologia che si fonda sull’assunto che tutto ciò che è pubblico è male e sbagliato, e che non si dovrebbe nemmeno pensare a governare, regolare e disciplinare i mercati (riequilibrandone le storture), mentre questi dovrebbero piuttosto essere lasciati liberi di regolarsi da sé. Ma questo approccio liberista, che si potrebbe efficacemente riassumere nella celebre formula della “libera volpe in libero pollaio”, è in realtà molto lontano, e direi quasi incompatibile con quella cultura liberale e libertaria cui Bonino si è in altre circostanze ispirata. Perché il punto è che se la libertà non è di tutti, ma solo di pochi, e se non si coniuga con l’eguaglianza, cioè l’eguaglianza per tutti delle opportunità, dei diritti e delle garanzie, allora quella libertà non è più libertà, ma privilegio. E la cultura del privilegio è una cultura di Destra bell’e buona. C’è poco da dire, mi pare.

Federico Oliveri La Bonino è una figura complessa: certamente sul fronte dei diritti civili, e dei diritti umani, compresi dei migranti, ha proposte anche interessanti; ma sul fronte economico-sociale, propone una politica di austerità che neanche il governo Monti. Mi sembra espressione di una borghesia libertaria ma duramente liberista. D’altra parte, sono stati i radicali a proporre nel 2000 un referendum per abolire l’articolo 18, e per abolire il 25% di quota proporzionale dell’allora Mattarellum in nome del maggioritario puro. Per questo, sì, anche lei merita di essere respinta, se vogliamo sopravvivere alla crisi. Elsa Fornero, causa di enormi sofferenze sociali con le sue riforme del lavoro e pensionistiche, oltre che con il congelamento delle pensioni accompagnate dalle famose lacrime, voterà per Emma Bonino. Credo non serva aggiungere altro.

Adriana Miniati Anche secondo me Emma Bonino si può definirla ultraliberista da sempre , libertaria quanto basta ma non in modo continuativo, ( io sono una ex sessantottina) ; una liberale in politica con l aggravante dello zelo liberista…. Per di più le è sempre piaciuto il potere e le sue scelte suddette la hanno sempre collocata nel cosiddetto ” ceto dominante” di cui ha sempre colto e rappresentato umori e tendenze e poi scelte politiche non virtuali. Anche in politica estera sa scegliere sempre bene fra i vincitori certi di tutti gli scontri epocali …..fra Israele e Palestina il suo cuore gronda per lo strapotente e prepotente Israele …… Insomma la maggioranza di noi l’hanno vista bene nella barca di Vauro.

Left Ricordiamo bene quanto e come la Bonino ha criticato il decreto e la legge Minniti. Tuttavia è altrettanto indiscutibile che il neoliberismo è alla radice delle migrazioni forzate. Pertanto ci riteniamo in pieno diritto di criticare il programma politico di matrice neoliberista di +Europa e la scelta di coalizzarsi con il partito che ha partorito la legge Minniti.

Migranti dal Messico nelle celle “frigorifero” Usa: la denuncia di Human Rights Watch

Nei fermo immagine brillano le coperte argentate, intorno a figure sottili e nere, dal capo sempre chino. Nelle foto dall’alto si vedono corpi stanchi, piegati, appoggiati al muro. Sono famiglie intere, – ma più spesso solo donne e bambini -, in stato di detenzione, esseri umani rinchiusi in pochi metri quadrati di cemento e sporcizia, alla frontiera a stelle e strisce d’America. Per gli agenti della sicurezza del confine americano questa è solo una routine. Loro quelle celle glaciali le chiamano “hieleras”, freezers.

I “freezer” sono nei centri di detenzione dove trascorrono notti e giorni i migranti che vengono ammanettati ed arrestati perché hanno provato ad attraversare il confine messicano. Dormono sul pavimento, non hanno diritto a lavarsi, non possono usare i loro beni prima che vengano spostati in altre strutture governative di detenzione. È quanto testimoniato da almeno 100 casi esaminati dall’organizzazione per i diritti umani HRW, Human Rights Watch, negli ultimi tre anni. «I migranti detenuti hanno il diritto di essere trattati con dignità e umanità, i minori, non accompagnati o con i membri delle loro famiglie, vanno salvaguardati secondo la legge internazionale e quella americana» ha scritto HRW nel suo ultimo report, intitolato “Nel freezer: condizioni abusive per donne e bambini nelle celle di detenzione destinate ai migranti in America” con quelle immagini che vengono dalle celle d’immigrazione a Douglas, in Arizona.

Freddo e violenze sessuali. In altre celle inospitali, sono state molestate delle donne, dice una lettera sottoscritta da 45 membri del Congresso americano, indirizzata al dipartimento della Sicurezza interna, la Homeland security, che si occupa della gestione della migrazione. Il luogo è diverso, siamo nella contea di Williamson, nel Texas. Il membro della Camera dei rappresentanti Lloyd Doggett, dopo aver raccolto le denunce di alcune migranti, ha scritto che gli «abusi sessuali da parte delle guardie sulle vittime sono inaccettabili».

Eddie Canalas, della STHRC, South Texas Human Right Center, riprende il report di HRW denunciando “il terribile stato di polizia per i migranti in questo paese”. La sua organizzazione fornisce acqua a chi tenta l’attraversamento del confine Messico-Usa, quando il rischio di morte per disidratazione è alto, soprattutto d’estate. Secondo l’Organizzazione internazionale della migrazione 412 migranti sono morti così,  nel 2017, 392 nel 2016.

La faticosa traversata prima. Il duro stato di detenzione dopo. Le difficili condizioni, la separazione dei genitori dai loro figli. Questi sono tutti deterrenti usati per scoraggiare la migrazione verso gli Stati Uniti, per instillare paura nei migranti, che diventano sempre «più vulnerabili, più escludibili», in quella parte d’America dove non solo non c’è spazio per i diritti umani, dice Canalas, «non c’è spazio per l’umanità».

Gli sfruttati dei musei e degli archivi

Il settore della cultura è da anni costretto a combattere una lotta difficile e travagliata: quella contro le forme di lavoro atipico, precario o coperto dalla maschera del volontariato, sempre più spesso adoperate col fine di soppiantare il lavoro stabile e regolare. In particolare, la diffusione del ricorso al volontariato come attività in grado di rimpiazzare il lavoro pagato è ormai diventata una deriva dalla storia pluridecennale, e che dalle professioni culturali rischia d’estendersi ad altri ambiti. Per opporre un argine a questa tendenza, gli attivisti della campagna Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali hanno presentato la scorsa settimana alla sala stampa della Camera, una proposta di legge per la regolamentazione del volontariato culturale. «Questo uso anomalo del volontariato», afferma Leonardo Bison, archeologo e attivista di Mi riconosci, «sembra quasi un espediente per abituarci all’idea del lavoro gratuito. Vige, purtroppo, il luogo comune che se si ama tanto una cosa, non sia necessario essere pagati per farla: è un concetto aberrante. Così, negli ultimi anni, è stata condotta una grande operazione legislativa per sdoganare questa cattiva prassi». Un’operazione che vide i suoi albori nel 1993, quando l’allora ministro dei Beni culturali Alberto Ronchey varò una legge, tuttora in vigore, che introduceva la possibilità, per il ministero, di stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato «per assicurare l’apertura quotidiana, con orari prolungati, di musei, biblioteche e archivi di Stato».

Sei anni più tardi, con Giovanna Melandri, il ministero stabilì un protocollo d’intesa per definire un modello di convenzione per disciplinare la partecipazione dei volontari ad attività come l’ampliamento della gamma dei servizi culturali, la promozione delle mostre, lo sviluppo delle attività didattiche. Il resto, invece, è storia recente: nel 2014, il ministro Dario Franceschini, in occasione del summit europeo della cultura che si tenne alla Venaria Reale, auspicò l’impiego di giovani volontari in attività di tutela del patrimonio: una proposta grave, dal momento che la tutela presuppone specifiche competenze e professionalità, maturate in anni di studio e d’esperienza, da retribuire in maniera adeguata. «E se andiamo a mettere in competizione il volontariato con il lavoro», continua Bison, «otteniamo due effetti negativi: l’abbassamento degli stipendi e il deterioramento della qualità del lavoro. Il volontariato non può fare concorrenza al lavoro: deve tornare a essere una risorsa sociale come lo è sempre stata fino a poco tempo fa». La legge quadro del 1991, norma di riferimento della materia, definisce infatti il volontariato come un’attività «prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Ma non sono mancati casi in cui questo spirito è stato disatteso. Uno dei più eclatanti fu quello di Expo 2015: proprio nel gennaio di tre anni fa si concludeva la massiccia campagna di selezione di volontari che avrebbero prestato servizio a Milano. Alla fine furono coinvolti settemila volontari, impiegati per un massimo di due settimane ciascuno e inviati a svolgere funzioni d’accoglienza e orientamento: di fatto, a lavorare per più di cinque ore al giorno in cambio d’un pasto quotidiano e del rimborso per le spese di trasferta.

Il modello di Expo 2015 fu destinato a far scuola. Agli inizi del 2017, il ministero dei Beni culturali pubblicò un bando di selezione per 1.050 volontari da impiegare in progetti di servizio civile nazionale presso musei, archivi e biblioteche: non ci volle granché a comprendere che i ragazzi tra i diciotto e i ventinove anni selezionati sarebbero serviti per coprire le mancanze d’un ministero che annaspa nella cronica carenza di personale specializzato. In soli sei anni, dal 2010 al 2016, l’organico del Mibact s’è ridotto di circa cinquemila unità, e il concorso del 2016 per l’assunzione di cinquecento nuovi funzionari non ha rappresentato che un misero palliativo contro l’inesorabile innalzamento dell’età media dei dipendenti e il loro progressivo pensionamento: in compenso, s’è esteso l’utilizzo del lavoro mascherato da volontariato. «La nostra proposta di legge», spiega Bison, «arriva dopo una lunga elaborazione e dopo tante campagne di sensibilizzazione. Ci siamo resi conto che proprio il ricorso scriteriato al volontariato è il principale problema che affligge il lavoro nei beni culturali: da qui l’esigenza di una proposta di legge moderata e di civiltà, da mettere davanti alle forze politiche». La proposta presentata da Mi riconosci intende agire sulla legge Ronchey, sul Codice dei beni culturali e sul regolamento delle carriere del personale nelle biblioteche, con pochi punti, ma precisi e dettagliati. Il primo prevede che i volontari non debbano più essere impiegati per assicurare l’apertura delle strutture del ministero, bensì «per coadiuvare il personale dell’amministrazione dei beni culturali e ambientali» che opera al loro interno.

Altri obiettivi sono la cancellazione della misura che consente d’integrare il personale del Mibact con quello delle organizzazioni di volontariato, e l’inserimento d’una disposizione che impedisca agli istituti di servirsi d’un numero di volontari superiore rispetto a quello dei dipendenti assunti con regolare contratto. Ancora, la proposta di legge prevede d’introdurre una regola che vieti al personale volontario d’occuparsi di conservazione, promozione, valorizzazione, catalogazione, studio e attività educative. Verrebbero poi introdotte misure per impedire l’equiparazione del volontariato al lavoro regolare. «Gli ostacoli che dovremo affrontare saranno molti – conclude Bison -. Tuttavia, siamo determinati. Ci sono parlamentari che appoggiano la nostra proposta. E non c’interessa che la proposta venga semplicemente portata in  Parlamento: sappiamo già che accadrà. Vogliamo che diventi legge. E chiederemo alla politica di sostenerla».

«Caro Salvini la ringrazio: ora i miei figli vivono nel terrore»

Il segretario della Lega, Matteo Salvini, sul palco allestito in piazza Duomo, 24 febbraio 2018. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Caro Salvini, sono una mamma adottiva di due splendidi bambini africani. Volevo ringraziarla perché sta regalando ai miei figli dei momenti di terrore davvero fuori dal comune. Mia figlia di 7 anni prima di andare a letto mi chiede: “ma se vince quello che parla male di noi mi rimandano in Africa?”. E piange disperata. Mio figlio invece, prende l’autobus per andare agli allenamenti di calcio quasi tutti i giorni e da circa un paio di mesi mi racconta di insulti che è costretto a subire da suoi gentili simpatizzanti. Dire ad un bambino di 12 anni, che oltretutto veste una divisa sportiva: sporco n…., n….. di mer…, torna a casa tua, venite qui rubare e ammazzare le nostre donne ……. credo che sia la palese dimostrazione di come questo paese, grazie a persone come lei, stia lentamente scivolando nel baratro. Nei suoi ipocriti slogan “ prima gli italiani “ c’è tutta l’ignoranza di colui che non ha ancora capito che l’italiano è colui che ama l’Italia non che ci è nato! Come io sono mamma perché amo i miei figli e non perché li ho partoriti. Faccia la guerra a coloro che ci hanno ridotto al collasso. Benpensanti italici che hanno impoverito di cultura e di valori questo bellissimo paese facendo guerre contro i poveri, gli immigrati, i gay, i rifugiati ….. tutto per una sola bieca motivazione. Distogliere l’attenzione dalle malefatte (e non uso termini peggiori perché sono una Signora) che imperterriti continuate a perpetuare a chi in questo paese ci crede davvero .

La lettera l’ha scritta Gabriella Nobile sul suo profilo Facebook. Gabriella è mamma di due bambini che ha adottato, provenienti dal Congo e dall’Etiopia, di sette e dodici anni. Non servono altri commenti perché tutto quello che c’è da dire è tutto scritto ma sono curiose le reazioni. Salvini risponde dicendo: “Basterebbe che la mamma spiegasse ai suoi figli che io allontanerò dall’Italia delinquenti, clandestini e spacciatori, non certo i bambini”, fingendo (è lo stile della sua campagna elettorale) di non capire che il terrore che ha fomentato gli è rimbalzato in faccia già da un bel pezzo. Facebook invece ha censurato il post perché conteneva la parola “negri”.

Dall’Italia, 2018, è tutto.

Buon mercoledì.

Anche Dublino cede sul fronte dell’aborto

epa05554602 Demonstrators gather and hold banners to protest for the repeal of the Eighth Amendment to the Constitution in Ireland, Brussels, Belgium, 24 September 2016. Eighth Amendment to the Constitution is the law against abortion in Ireland. Abortion was decriminalized in Belgium in 1990. EPA/STEPHANIE LECOCQ

Quattordici anni di carcere è la pena inflitta in Irlanda alle donne che abortiscono. Accade in un Paese dell’Europa occidentale dove l’influenza della Chiesa cattolica nelle politiche dello Stato e nella vita privata dei cittadini, è ancora molto pesante. Un Paese dove il 90 per cento delle scuole primarie è gestito dal clero. E dove il divorzio è stato approvato solo nel 1996. Un Paese dove il diritto all’aborto è ristretto a pochissimi casi, quali l’imminente pericolo di vita. E non sempre.

Esiste infatti nella Costituzione irlandese, una legge, l’ottavo emendamento, che stabilisce che il feto fin dal momento del concepimento ha gli stessi diritti della madre. Nonostante tutto, anche qui le cose stanno lentamente cambiando. Dopo il referendum del 2015 che ha approvato le unioni gay, se ne profila un altro per l’abrogazione dell’ottavo emendamento. È previsto alla fine di maggio e lo ha annunciato il 29 gennaio il primo ministro Leo Varadkar. Il referendum cade, guarda caso, a due mesi dalla visita del Papa, annunciata ma non ancora confermata per la fine di agosto. Nonostante le organizzazioni cattoliche irlandesi siano già da tempo sul piede di guerra, nonostante la durissima opposizione delle forze conservatrici, fin dal primo momento, la prospettiva di una consultazione popolare sul tema aborto, ha comunque incontrato il parere favorevole del primo ministro che ha dichiarato che «l’ottavo emendamento è troppo restrittivo e non tutela i diritti delle donne». Si voterà non solo per abolire l’ottavo emendamento ma anche per approvare la nuova legge che prevede l’interruzione della gravidanza alla 12esima settimana.

In Irlanda non si è ancora spenta l’eco della morte di Savita, la donna indiana che nel 2013 è morta di setticemia perché i sanitari si sono rifiutati di praticarle l’intervento di rimozione del feto ormai senza vita. «Siamo in un Stato cattolico» è stata la risposta dei medici alle disperate richieste della donna e del marito. «In questo Paese, ogni donna in gravidanza perde automaticamente i suoi diritti umani», così ha dichiarato senza mezzi termini, Lupe, una donna che ha rischiato di morire perché costretta a vagare da un ospedale all’altro, con dentro l’utero un feto già morto, prima di essere salvata in extremis.

La morte di Savita ha aperto la strada al consolidamento di un fronte abrogazionista denominato Repeal the Eight, guidato da Amnesty international che ha portato il caso Irlanda all’attenzione della Corte europea per i diritti umani. Un fronte piuttosto ampio a cui hanno aderito numerose organizzazioni per la tutela dei diritti delle donne. «Ci battiamo non solo per il diritto all’aborto entro la dodicesima settimana, ma perché sia garantito un accesso su basi più ampie, anche oltre questo limite», dice Linda Kavanagh, portavoce dell’Abortion rights campaign.

Ogni anno migliaia di donne irlandesi sbarcano nel Regno Unito, dove dal 1967, la legge consente l’aborto entro 24 settimane. Secondo una statistica del dipartimento della Sanità britannico si calcola che lo scorso anno, ben 3265 donne siano volate in Inghilterra e in Galles per abortire. «Il mio Paese è lieto di scaricare le sue responsabilità prima sulle spalle delle donne per poi esportarle all’estero», commenta amaramente Emma Wilson, costretta a rivolgersi a una clinica inglese, perché il feto presentava gravissime malformazioni.
Niall Behan della Irish Family planning association, parla di vera e propria «coercizione riproduttiva» ai danni delle donne irlandesi. «Ogni giorno raccolgo le voci delle donne che arrivano da ogni parte d’Irlanda. La maggior parte ha tra i 20 e i 30 anni. Sono abbandonate dallo Stato e costrette a cercare assistenza in un altro Paese, pagando alti costi fisici, emotivi e finanziari».

Non è certamente più rosea la situazione dell’Irlanda del Nord che pur facendo parte del Regno Unito, non gode degli stessi diritti in materia di interruzione di gravidanza. A dettare legge in questo caso, sono gli ultraconservatori protestanti del Democratic unionist party, il partito di maggioranza, per non parlare delle organizzazioni antiabortiste presbiteriane, come Precious life, responsabili di vere e proprie crociate culminanti in cortei con esibizioni di feti di plastica e repertorio di insulti contro le donne che abortiscono. Un primo tentativo di estendere la legge sull’aborto anche all’Irlanda del Nord, fu bloccato nel 2008 in Parlamento dalla conservatrice Harriet Harman. Anche qui, giochi politici sono stati consumati sulla pelle delle donne. Pare infatti che il governo inglese di allora abbia garantito la non estensione della legge sull’aborto in Irlanda del Nord in cambio del supporto del Democratic unionist party alle politiche di Westminster. L’aborto divide anche gli indipendentisti del Sinn Fein, partito di ispirazione cattolica ma che sta rivedendo le sue posizioni in materia, prevedendo l’interruzione di gravidanza in caso di gravi malattie, incesto, stupro e malattie mentali. Intanto le donne dell’Irlanda del Nord continuano a volare verso le cliniche inglesi, quando tutto va bene. E senza nemmeno la prospettiva di uno straccio di referendum.

L’articolo di Giulia Caruso è tratto da Left n.7 del 16 febbraio 2018


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Slovacchia, Jan Kuciak, il giornalista ucciso con la sua fidanzata, cosa aveva scoperto?

Una immagine di Jan Kuciak tratta da suo profilo Facebook. FACEBOOK JAN KUCIAK +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Un colpo al cuore a Jan Kuciak, giornalista, 27 anni. Un colpo alla testa a Martina Kusnirova, la sua ragazza, 27 anni. Forse è accaduto giovedì scorso, forse durante il weekend appena trascorso, dicono gli investigatori. Il reporter slovacco è stato ritrovato morto a casa sua, insieme alla sua compagna, due giorni fa. Un duplice omicidio a Velka Mach, 60 chilometri da Bratislava, capitale di quella Slovacchia membro Ue ma Paese bastione del “gruppo di Visegrad”, che insieme a Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, non accetta di ripartire le quote di rifugiati come chiede Bruxelles. Il Paese del nazionalista Robert Fico, primo ministro del partito “Smer-socialna demokracia”, Direzione- socialdemocrazia.

Per il capo della polizia slovacca Tibor Gaspar l’omicidio “è legato alle attività investigative di Jan”. Su Aktuality.sk Jan scriveva soprattutto di casi di evasione fiscale. L’ultimo grande caso di cui si era occupato era quello di frode legato al Five star residence a Bratislava; uno dei suoi articoli sulla questione nel 2017 aveva scatenato proteste di piazza e manifestazioni, in cui si chiedevano le dimissioni di Robert Kalinak, ministro dell’Interno alleato di Fico e legato all’imprenditore Ladislav Basternak, che però ha sempre negato coinvolgimenti. Nello stesso anno, lo scorso ottobre, Jan aveva denunciato le minacce di morte subite da uno dei cinque imprenditori coinvolti nella frode immobiliare, ma le forze dell’ordine non avevano mosso un dito. Lui invece aveva continuato a scrivere.

Bruxelles chiede chiarezza. «Va fatta giustizia, shock per la morte di un giornalista nell’Unione Europea, nessuna democrazia sopravvive senza stampa libera» ha scritto il primo vicepresidente della commissione Ue Frans Timmermans su Twitter. Antonio Tajani, vicepresidente Commissione Ue, ha detto che «l’Unione non può accettare che un giornalista venga ucciso per aver fatto il suo lavoro, chiedo alle autorità slovacche di avviare un’indagine approfondita con il supporto internazionale, il Parlamento Europeo non si fermerà finché non sarà fatta giustizia».

Giustizia, verità, luce sulla vicenda. L’imprenditore Basternak era già stato accusato dalla Naka, l’agenzia nazionale anticrimine, a marzo 2017, per aver evaso le tasse sulle abitazioni di lusso di sua proprietà. In una di queste risiede un celebre inquilino, che ha definito adesso la morte del reporter «un attacco senza precedenti alla libertà di stampa e alla democrazia in Slovacchia» e ha promesso un milione di euro a chi fornirà informazioni per risolvere il caso. La sua professione è primo ministro, il suo nome Robert Fico.

A cosa assomiglia la propaganda di Goebbels, oggi?

Fu uno dei più importanti gerarchi nazisti, un genio della comunicazione, dicevano che finì per meritarsi il ministero della Propaganda. Oggi dici Joseph Paul Goebbels e subito tutti pensano che sia un metodo lontano, un tempo passato. E invece no.

I suoi Principi (Goebbels’ Principles of Propaganda di Leonard W. Doob, pubblicati in Public opinion and propaganda; A book of readings edito da The society for the psychological study of social issues) vanno letti, stampati, meditati, raccontati. Leggeteli con calma e poi pensate se vi ricordano qualcosa. E ricordate che è un ricordo nero, nerissimo.

1. Principio della semplificazione e del nemico unico.
È necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali.

2. Principio del metodo del contagio.
Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

3. Principio della trasposizione.
Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre.

4. Principio dell’esagerazione e del travisamento.
Trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave.

5. Principio della volgarizzazione.
Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.

6. Principio di orchestrazione.
La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: «Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità».

7. Principio del continuo rinnovamento.
Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse.

8. Principio della verosimiglianza.
Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

9. Principio del silenziamento.
Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario.

10. Principio della trasfusione.
Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi.

11. Principio dell’unanimità.
Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

Buon martedì.

Ungheria, la sorprendente sconfitta all’elezione locale che imbarazza Orbàn

epa06485827 Hungarian Prime Minister Viktor Orban at a press conference after a meeting with Austrian Chancellor Sebastian Kurz (not seen) in Vienna, Austria, 30 January 2018. Orban is on a visit to Austria to meet with main politicians from the ruling parties' coalition. EPA/LISI NIESNER

Ieri in Ungheria la prima roccaforte nazionalista del partito Fidesz è caduta. Una sorpresa insieme alla vittoria da un lato, non semplicemente una sconfitta dall’altro. A poche settimane dalle urne parlamentari ungheresi, alle elezioni locali ad Hodmezovasarhely, dove il partito del premier Viktor Orbán governava ininterrottamente da vent’anni, ha vinto l’opposizione.

Meno di 50mila abitanti, nei pressi dei confini rumeno e serbo, baluardo di un fedele alleato del Primo ministro, Janos Lazar, Hodmezovasarhely è una città «che chiede libertà, democrazia, rispetto della legge, un’economia basata sul mercato, impegno verso l’Europa. Una nuova era comincia oggi, ci siamo alzati in piedi in questa città per dimostrare che vogliamo toglierci di torno quei bulli che tormentano la classe intera» ha detto ai giornalisti Peter Marki-Zay, politico indipendente, appena dopo aver saputo di aver vinto con il 57,5% dei voti, contro il 41,5% del candidato favorito del partito di Orbán, Zoltan Hegedus.

Qui nel 2014 Fidesz aveva raccolto il 61% dei voti. Quattro anni dopo, alle elezioni di ieri, Marki-Zay è riuscito a coagulare lo spettro scisso dell’opposizione del sud dell’Ungheria, in un paesino diventato emblema dell’umore nazionale per gli analisti politici di Budapest: «Questa vittoria insegna molte lezioni. Non è in pericolo il probabile trionfo di Fidesz, ma cambierà sicuramente l’umore del paese nelle ultime settimane prima delle urne».

Manca poco più di un mese alle nuove elezioni, che si terranno l’8 aprile,  e Viktor Orbán, che nel 2010 e 2014 ha raggiunto gli schiaccianti due terzi della maggioranza parlamentare, vincerà per la terza volta l’otto aprile, ma sono i numeri della sua prossima, futura maggioranza a preoccuparlo adesso. Le dinamiche dei quell’opposizione che il premier stesso ha definito poche settimane fa «senza speranza» stanno cambiando.

«Fidesz è ancora il partito favorito alle elezioni parlamentari, ma l’opposizione ha appena ricevuto un impulso inaspettato. È stata una perdita umiliante per Fidesz e un raggio di speranza per l’opposizione che può sconfiggere Orbán ad aprile, se i partiti cominciano a coordinarsi nei distretti elettorali seguendo il modello Hodmezovasarhely» ha detto Attila Tibor Nagy, dal Meltanyossag politikaelemzo kozpont, Centro di analisi politica di Budapest. «Questo risultato ha un significato psicologico» ha detto Robert Laszlo, di Political Capital. «Dimostra che Fidesz si può sconfiggere perfino in posti come questo».

Buongiorno Mosca

epa06556978 Russian President Vladimir Putin (L) attends a wreath-laying ceremony at the Tomb of the Unknown Soldier memorial in Moscow, Russia, 23 February 2018. Russia marks today a Day of the Fatherland Defender. EPA/SERGEI CHIRIKOV

Il Cavalier Berlusconi, ci ha deliziato (si fa per dire) con una intervista a Otto e mezzo di Lilli Gruber. Per sostenere la bontà della flat tax (aliquota unica) ha citato anche l’esempio della Russia dove esiste effettivamente una flat al 13%. Essa fu introdotta nel 2001 dall’allora ministro delle finanze Alexey Kudrin. Berlusconi ha sostenuto che i risultati economici ottenuti dalla Russia sarebbero dovuti a questo sistema di tassazione che avrebbe «risolto i problemi di evasione e elusione fiscale». Affermazioni fatte con la solita sicumera di cui l’ex presidente del Milan ci ha da sempre abituato. L’unico problema dell’economia russa per leader di Forza Italia! Sarebbe legato all’eccessiva corruzione, «un prodotto del passato comunista». Ma è davvero così?

Vediamo nel dettaglio. In primo luogo la flat in Russia fu introdotta assieme a una tassazione alla fonte sulle esportazioni del 40-45% delle aziende del settore energetico. Sono queste aziende che forniscono gran parte del gettito russo che alimenta la spesa pubblica. La Russia crebbe economicamente a un ritmo sostenuto del 6% medio tra il 2001 e il 2011. Risultati importanti sicuramente, ma che furono il prodotto in primo luogo dall’alto prezzo del petrolio che in quella fase oscillò per lunghi periodi tra i 100 e i 150 dollari al barile. A partire dal 2011 la crescita economica iniziò a stagnare e addirittura secondo Kudrin l’effetto dei rialzi del prezzo del greggio iniziò ad essere sempre più ridotto. Nel biennio 2015-2016, l’economia russa entrò in recessione perdendo il 5% del Pil in due anni mentre il valore del rublo perdeva il 100% del suo valore sui mercati valutari. Non abbiamo qui dati molto recenti per quanto riguarda l’evasione fiscale in Russia ma secondo l’ufficio statale di statistica nel 2016 l’evasione fiscale aveva raggiunto i 102 miliardi di rubli (mentre il Pil era di circa 8.600 miliardi di rubli) ed era aumentata rispetto all’anno precedente del 25,9% e di due volte rispetto al 2014. Risulta evidente che con l’incedere della stagnazione economica l’evasione torna ad aumentare rapidamente indipendentemente dall’esistenza della flat tax. Inoltre, come è noto, la Russia è il paese che ha il record di fuga di capitali al mondo: nei paradisi fiscali finiscono circa 50 miliardi di dollari all’anno.

Quando Putin ascese alla presidenza nel 2001 sostenne che la Russia avrebbe avuto bisogno di una crescita del 8% di crescita del pil per 15 anni per raggiungere il paese più povero dell’Europa Occidentale. A distanza di 15 anni l’obbiettivo non è stato raggiunto. Il Pil russo pro capite a parità di potere d’acquisto è inferiore di circa il 15% di quello del Portogallo, il 75% in meno di quello italiano e oltre del 100% di quello francese.
Il sistema fiscale russo funziona talmente bene che seppur in campagna elettorale il ministro delle Finanze russe Anton Siluanov ha dichiarato a Soci il 15 febbraio scorso che «stiamo pensando a rivedere il sistema fiscale russo… abbiamo bisogno di maggior gettito» al fine di garantire maggiori investimenti e rinnovare le infrastrutture. La flat tax finirà nel cestino anche in Russia dopo non aver raggiunto nessuno degli obiettivi per cui era stata lanciata nel 2011.

Berlusconi è da sempre abituato a raccontare un’Italia che non esiste. Per una volta, ha raccontato una favola diversa: quella di una Russia che non esiste.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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