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La libertà da sola non è libertà

La nostra copertina della scorsa settimana ha suscitato le reazioni stizzite, a volte anche aggressive, di molti che ci contestavano la scelta di mettere la Bonino su una barca per essere respinta insieme a Renzi e alla destra. Ci è stato detto che ci siamo sbagliati perché la Bonino non è una persona di destra e quindi non va accomunata ad altri che sono di destra.

In effetti in quella vignetta di Vauro la comunanza di chi sta sulla barca non è tanto l’essere di destra ma il NON non proporre un programma di sinistra in questa campagna elettorale. Il fatto che la Bonino abbia fatto e faccia battaglie per i diritti civili non la qualifica come “di sinistra”. Perché non è questa la caratteristica essenziale dell’essere di sinistra. Anche perché lei stessa in qualche modo rinnega le sue battaglie nel momento in cui elogia il papa, che non ha affatto modificato le posizioni della Chiesa a proposito di aborto o di diritti civili. I Radicali sono liberali. Lo sono sempre stati dalla loro nascita che è avvenuta come scissione “a sinistra” dal Partito liberale italiano (Pli).

Il liberalismo in sé non è né di sinistra né di destra. Perché il liberalismo ha tantissime sfumature con movimenti politici che lo interpretano a destra o a sinistra. È come se fosse un involucro che va riempito di contenuto. Il liberalismo afferma che l’uomo è libero perché nasce libero. In realtà questo è falso. L’essere umano nasce inetto. Non ha autonomia, ha necessità di un altro essere umano che lo assista, che gli procuri ciò che gli è necessario per non morire di freddo e di fame. È più libero un vitello, che pochi minuti dopo la nascita già si regge in piedi e può camminare. È immediatamente “libero” di muoversi.

L’essere umano no. Nasce inetto e rimane tale per molto tempo. Cammina, ed in modo incerto, solo dopo un anno di vita. E ci vogliono diversi anni prima che sia in grado di procurarsi ciò che è necessario per la sopravvivenza. Ciò di cui non può fare a meno nei primi anni, ed in particolare nel primo anno, è il rapporto con gli altri esseri umani. Ciò che caratterizza gli esseri umani dalla nascita, in maniera assolutamente diversa dagli animali, è ciò che compare alla nascita come qualcosa di completamente nuovo.

La creazione della realtà psichica come reazione della sostanza cerebrale (la retina) alla luce che la colpisce per la prima volta. In questa dinamica c’è un’uguaglianza assoluta: la reazione allo stimolo luminoso è ciò che crea la realtà psichica ed è un processo uguale per tutti gli esseri umani. In altre parole se non c’è reazione allo stimolo luminoso non c’è realtà psichica e quindi non c’è essere umano. Se c’è essere umano c’è stata quella reazione e quella dinamica.

La reazione è prima biologica e, istantaneamente dopo, psichica. Perché è la reazione che crea il pensiero. La reazione, scoperta da Massimo Fagioli nel 1971 e chiamata fantasia di sparizione ed illustrata nel suo primo libro Istinto di morte e conoscenza. Il neonato avrà rapporto con la madre. Alla fine di ogni rapporto farà una separazione che va intesa come l’elaborazione del rapporto vissuto.

Sono le separazioni che faranno, creeranno, la libertà dell’essere umano. L’elaborazione del rapporto vissuto è ciò che farà il contenuto della libertà. È un pensiero su se stesso e sugli altri, derivato dal rapporto che si è vissuto. Se il rapporto sarà stato soddisfacente, allora la propria libertà sarà anche quella degli altri. Perché al fondo la libertà avrà l’idea di una uguaglianza fondamentale che poi è quella della nascita. Se al contrario il rapporto sarà stato deludente, allora la propria libertà sarà per sparizione dell’altro. Sparizione dell’altro che corrisponde sempre ad una sparizione di proprie realtà interne. Allora la propria libertà ci potrà essere solo a scapito dell’altro. Mi scusi il lettore se mi sono avventurato in questo complicato discorso. Mi era necessario per dire che affermare come principio politico la libertà, sic et simpliciter, non è sufficiente. Va stabilito qual è il contenuto di quella libertà che si afferma.

Altrimenti si rischia di cadere nella libertà sessantottina del vietato vietare, per cui qualunque libertà è possibile, senza condizioni. E viene il sospetto che tante battaglie per i diritti civili dei radicali, pur giustissime e condivisibili, siano da intendere in questo modo.

Il diritto all’aborto sarebbe l’affermazione della libertà della donna ad uccidere il feto e non l’affermazione che il feto non è (ancora) un essere umano perché non è nato (e quindi non ha realtà psichica) e che quindi che nell’aborto non si compie nessun omicidio.

È una differenza apparentemente piccola. Ma per noi fondamentale.
Perché per noi di Left il contenuto della libertà non può che essere la realtà umana.
Ed è ciò che pensiamo possa essere l’unica idea di libertà possibile a sinistra.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Morto Stalin si fa un Putin

Visitors look at paintings of Russian president Vladimir Putin at the "SUPERPUTIN" exhibition at the UMAM museum in Moscow, Russia, Thursday, Dec. 7, 2017. The 65-year old Russian leader, who has ruled the country since 2000, announced on Wednesday that he would seek his fourth term in office in March. Putin's 80-percent approval ratings make his victory all but certain. (AP Photo/Pavel Golovkin)

La commedia satirica del regista scozzese Armando Iannucci Morto Stalin se ne fa un altro, la cui uscita a Mosca era prevista per il 25 gennaio, è finita sotto la ghigliottina della censura del ministero della Cultura. La pellicola, in cui si narra la lotta per la successione al dittatore georgiano nel 1953, secondo il capo del dicastero della cultura Vladimir Medinsky, avrebbe carattere “estremistico”. Il ministero ha quindi informato Volga – la casa distributrice – del ritiro delle copie pronte a essere consegnate alle sale. L’intervento censorio del governo era stato caldeggiato in precedenza da una lettera aperta di cineasti russi (tra cui Nikita Michalkov) in cui si afferma che la pellicola non è solo «un’opera… con una sceneggiatura falsa e scadente, ma diffamatoria della storia del nostro Paese». Secondo gli estensori «l’uscita del film alla vigilia della celebrazione del 75esimo anniversario della battaglia di Stalingrado sarebbe un insulto per tutti coloro che sono morti…».

Si tratta solo dell’ultimo clamoroso caso del recupero della figura di Stalin che sta crescendo in Russia. Da un sondaggio della società Levada di Mosca della scorsa primavera, è risultato che il dittatore georgiano è il personaggio più popolare in Russia, tallonato a breve distanza da Vladimir Putin. «Un fenomeno complesso – ci dice Alexander Buzgalin, professore dell’Università Lomanosov di Mosca – che ha solo in parte a che vedere con la nostalgia per l’Urss».

I motivi sarebbero secondo il professore piuttosto da ricercare…

L’articolo di Yurii Colombo prosegue su Left in edicola


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Gli algerini d’Italia e l’arte della resistenza. Una mostra a Napoli

Apre il 2 marzo 2018 e rimane aperta fino al 26 marzo presso Castel dell’Ovo a Napoli, la mostra “Algeria terra infinita – Nomadismo di pensiero e di cuore” con gli artisti Khaled Abdallah, Brahim Achir, Ahmed Bekhokha, Nadjia Chekoufi, Amor Dekhis, Abdelkader Houamel, Mohamed Rouhani, Smail Zizi, Artisti algerini d’Italia e Anna Shamira Minozzi unica italiana della mostra.

La storia degli artisti algerini d’Italia affonda le radici nella lotta di liberazione algerina e nella costruzione dell’Algeria indipendente. L’artista Abdelkader Houamel, a 17 anni raggiunge le fila del Fronte di liberazione nazionale (Fln), in una mano l’arma per la liberazione del paese e nell’altra il pennello d’artista. Il Fln – che aveva adottato, caso unico nei Paesi arabi, un metodo di lotta non solo con armi ma anche con l’arte, il calcio, il teatro, il cinema, ecc. – lo trasferisce a Tunisi nel 1960, dove gli organizza una mostra inaugurata anche da Franz Fanon. Nel 1961 l’Fln manda Houamel a studiare e a perfezionare la sua arte presso l’Accademia di Belle arti di Roma. Apprezzato, fra altri, da Guttuso, da allora Houamel vive fra Italia e Algeria.

Negli anni ’70, la giovane Algeria manda un folto gruppo di ragazzi a studiare arte, design e architettura in Italia, precisamente Firenze. Alcuni, finiti gli studi, tornano nel paese, altri vivono da allora in Italia. Altri ancora arrivano negli anni ’80 come Khaled Abdallah, allievo di Emilio Vedova a Venezia, con la ferma intenzione di studiare arte, aggiungendosi a questo interessante gruppo di artisti algerini d’Italia. Come anche il caso di Zizi Smail, il quale dopo gli studi ad Algeri, sceglie Carrara per specializzarsi in marmo. Scelto come migliore scultore, nel ’92, realizza a Bangkok (Thailandia) il più grande Budda in giada. Come l’operaio Mohamed Rouhani che stupisce tutti con una mostra nel ferrarese alcuni anni fa. Così Brahim Achir, Ahmed Bekhokha, Nadjia Chekoufi, Amor Dekhis, quest’ultimo anche premiato scrittore in lingua italiana, vivono la loro arte fra l’Italia, l’Algeria, diverse capitali europee e città americane, fedeli alle radici antiche e nuove.

La mostra “Algeria Terra Infinita – Nomadismo di pensiero e di cuore” è a cura di Giuseppe Ussani d’Escobar, ed è organizzata dall’Ambasciata di Algeria in Italia e da Sphaerica in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli e con il Patrocinio del Comune di Napoli.

Elezioni in Russia, tra insulti e bicchieri d’acqua in faccia, sette candidati sfidano Putin

epa06564200 Russian presidential candidate from liberal opposition Ksenia Sobchak (C) walks with the other participants, during a demonstration devoted to memory of killed opposition politician Boris Nemtsov in Moscow, Russia, 25 February 2018. Boris Nemtsov was killed by Chechen hitmen 27 February 2015 on a bridge in front of the Kremlin. EPA/MAXIM SHIPENKOV

Risse, urla e parolacce. È storia, ma anche farsa. La campagna elettorale di Russia è iniziata. Le “vybory”, le elezioni si terranno nella gelida domenica del 18 marzo, temperatura sotto lo zero. Tutte le tv e radio, da Mosca a Vladivostock, sono sintonizzate sugli stessi canali per il dibattito elettorale di chi aspira alla presidenza del Paese più grande del mondo, nonostante tutti i cittadini, candidati compresi, sanno già chi vincerà. Sette candidati che si sfidano tra di loro, eccetto l’ottavo: Vladimir Putin.

Mentre il presidente russo ha usato l’annuale discorso sullo stato della nazione per annunciare che la Russia ha sviluppato una nuova serie di armi nucleari “invincibili”, ecco una breve carrellata sui personaggi e i contenuti del dibattito in corso. “Dittatura brutale” è una delle promesse della sua campagna elettorale. Si lamenta dell’alto costo della vodka oggi, più volte ha accusato la Nato di pianificare un’invasione del territorio russo per “rubare l’acqua potabile”. Ha chiamato due giorni fa la candidata alle presidenziali Ksenia Sobchak “prostituta, idiota senza cervello” durante il primo incontro televisivo della campagna elettorale e lei gli ha tirato contro un bicchiere d’acqua fredda. Proprio quello che ha fatto lui, Vladimir Zirinovskij, nel 1995, quando, testa a testa con Boris Nemtsov, allora governatore di Nizhny Novgorod, afferrò il bicchiere di aranciata per bagnarlo. E poi tentare di picchiarlo, davanti alle telecamere. Per lui questa è la sesta volta: Zirinovskij si è candidato sempre alla presidenza, ad ogni tornata presidenziale della Federazione nata dal collasso dell’Unione Sovietica negli anni Novanta. E non ha vinto mai.

Quando la Sobchak, del partito Iniziativa Civile, ha ricordato a Zirinovskij che Leonid Slutsky, un membro del suo partito, l’LPDR, Partito liberal democratico russo, è sotto processo per molestie sessuali, lui ha ribattuto se quelle erano “notizie che aveva avuto di prima mano”. La Sobchak ha continuato, in piedi al tavolo del Pervij Kanal, a chiedere perché «la Russia prosegue con una politica estera aggressiva, perché dimentica di essere un Paese europeo», e Vyacheslav Smirnov, famoso analista politico televisivo, l’ha paragonata a “un agente del dipartimento americano”, perché l’unica candidata donna ha criticato l’intervento di Putin in Siria ed Ucraina.

Fuori e dentro la Russia. Pavel Grudinin, candidato del partito comunista, il KPRF, delfino del vecchio Zhuganov, vuole invece far uscire la Russia dall’Organizzazione mondiale del Commercio. È lo zar delle fragole, che produce nella fabbrica più grande di tutto il Paese, che ha battezzato in onore del comunista nel mausoleo della Piazza Rossa, Lenin. Oltre al dibattito elettorale, Grudinin è impegnato a respingere accuse: secondo la stampa è un “comunista milionario”, in banca avrebbe 7,5 miliardi di rubli, cioè oltre 100 milioni di euro.

Grudinin non è abbastanza comunista per un altro, giovane candidato alle presidenziali, Maksim Surajkin, che nel 2012 ha fondato il suo Kommunisty Rossii, un ennesimo partito comunista russo. Se Grudinin nega la sua ricchezza, non lo fa l’oligarca Boris Titov, del Partija Rosta, il “partito della crescita”, nato dalle macerie del Pravoe Delo, Causa giusta, o anche “causa di destra”. Se Titov parla agli imprenditori, Serghej Baburin parla ai nazionalisti e ai religiosi per il partito Ros, l’Unione dei popoli russi, che mira a riunire in federazione Russia, Ucraina e Bielorussia.

Risiko, risse, fragole e mele. Rimane l’ultimo, Grigorij Javlinskij, del partito ecologista della mela, questo vuol dire “Jabloko”, e proprio come il resto degli avversari politici, Javlinskij sa che non verrà mai eletto. I sette candidati che si sfidano nei dibattiti tv lo faranno per due settimane e non incontreranno mai l’ottavo, l’unico che corre da indipendente alle elezioni, l’unico che ha rifiutato di fare campagna elettorale, Vladimir Putin.

Ne dovremmo licenziare molti, di insegnanti, se leggessimo quello che scrivono

«Ringrazio Dio ogni giorno per avermi fatto fascista», ha scritto una maestra di Rivarossa che insegnava in alcune scuole elementari del Cavanese, in Piemonte. Si chiama Alessandra Pettorusso ed era in servizio l’anno scorso presso la direzione didattica di Castellamonte quando è stata segnalata alla Polizia postale e all’Ufficio scolastico regionale. Aveva il contratto in scadenza e il suo contratto si è concluso con la fine dell’anno scolastico, ha spiegato il dirigente scolastico. Lei si è difesa dicendo che era solo «una ricerca sociologica». Già.

Poi c’è Manfredo Bianchi, che ha pensato bene di portare la bandiera di Salò in cima al monte Sagro, sulle Alpi apuane, e condividere la foto su Facebook, ovviamente insegnante: «Se tutti i fascisti e gli antifascisti fossero stati come lui, allora l’Italia sarebbe un posto migliore» ha detto di lui il consigliere di centrodestra di Carrara.

Oppure c’è Marco Ricchi, che nel suo profilo Facebook (aperto e pubblico) sei mesi fa salutava i suoi studenti dell’Itis Galilei di Arezzo: «Una scuola fantastica della quale porterò sempre un bellissimo ricordo. Ed un bellissimo ricordo saranno tutte le meravigliose ragazze e i meravigliosi ragazzi con cui ho lavorato o che semplicemente ho avuto il piacere e lonore (scritto così, nda) di conoscere», scrive. Peccato scriva cose come:

«Se fossimo nello stato confederato dell’Alabama, quei negri, nel giro di qualche mese, friggerebbero sulla sedia elettrica……..»;

«Si parla di immigrazione all’infinito senza trovare una soluzione ragionevole, per noi e per loro. E invece è tanto semplice risolvere la questione» (aggiungendo la canzone “Faccetta nera”);

Mostra fiero il proprio tatuaggio fascista scrivendo: «Cosa mi succederà onorevole Fiano: il carcere a vita o l’amputazione del braccio?!»;

inneggia al Ku klux klan e via così. Sotto i suoi post ogni tanto qualche suo studente commenta: «Grande prof!»

Ce ne sono decine. Centinaia. Vi do una notizia: gli odiatori seriali di cui sentite tanto parlare in giro stanno sui social ma hanno una vita vera, un lavoro e spesso sono dipendenti pubblici. Eppure sembra d’improvviso che l’unica insegnante di cui parlare sia Lavinia Flavia Cassaro (che secondo la ricostruzione de La Stampa e i video che circolano avrebbe offeso le forze dell’ordine) come se fosse il capro espiatorio di tutti i mali. E, attenzione, qui non si tratta di difendere nessuno, ma di chiedere uguaglianza di trattamento (giornalistico e giudiziario) per tutti. Perché il giochetto di rendere un fatto particolare sintomo generale è un trucchetto infingardo, vigliacco e tipico della propaganda fascista (eccola qui).

Poi, magari, un giorno, la smettiamo di fare politica sfogliando le pagine di cronaca provando a fare altro che appiattirsi subalterni alla narrazione fallace. Magari con uno sguardo ampio. Magari.

Buon venerdì.

Lettera aperta per il 4 marzo. E guardando oltre

Italian film director Massimiliano Bruno poses during a Red Carpet before the 'Globo d'Oro' (Golden Globe) film awards ceremony at the Villa Medici in Rome, Italy, 14 June 2017. The Globo d'oro is an Italian film award given annually by the journalists of the foreign press accredited in Italy. ANSA/CLAUDIO ONORATI

Caro futuro e incerto Governo,
ho come l’impressione che bisognerebbe cominciare a chiamare le cose con il loro nome. Mi aiuti?

Uno che uccide e fa a pezzi una diciottenne dobbiamo chiamarlo «nigeriano» o «assassino»? Uno che a Macerata spara dei colpi contro degli extracomunitari in un bar va chiamato «neofascista» o «delinquente»? Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiamare gli «esasperati», «malati di mente»?

Mi piacerebbe vederci chiaro in questo mondo dove siamo divisi in categorie etniche, fisiche e politiche. E allora si semplifica facendo danni irreparabili nell’educazione dei nostri figli, e così: gli italiani rubano, gli egiziani fanno la pizza, i marocchini vendono parei sulle spiagge, gli americani fanno la guerra, e i romani non hanno voglia di lavorare, i napoletani sono Gomorra, i siciliani sono mafiosi e le rumene sono prostitute. Preconcetti razzisti che stanno nella testa sia delle classi più povere che in quella dei benpensanti che criticano mangiando tartine da un attico con una vista meravigliosa.

Perché manipolare e confondere è stato lo sport scelto dalla nostra cultura negli ultimi 2000 anni. Mi sono chiesto come mai nelle nostre teste non riusciamo a vivere serenamente il “diverso da noi”. Perché ne abbiamo paura, perché siamo diffidenti e diventiamo violenti nei loro confronti? Perché ci agitiamo se abbiamo davanti uno che la pensa diversamente? Chiamiamo «negro» chi ha la pelle più scura della nostra e usiamo epiteti ancora più gravi nei confronti di omosessuali, persone di un altro partito o addirittura tifosi di un’altra squadra di calcio? Culattone perverso, comunista schifoso, laziale infame.

E allora ho capito che la risposta sta nelle nostre culture, nelle nostre religioni.

Se è vero che le principali vittime di omicidi efferati sono le donne, cominciamo a ripensare la nostra storia. Magari, perché no, nella prossima Bibbia, Eva non nascerà più da una costola di Adamo e le sarà permesso di mangiare la mela, quella della conoscenza, così noi non saremo più peccatori e nasceremo perfetti, senza bisogno di passare la vita a espiare o compiere atti che ci confermino di essere dei peccatori.

Ecco, caro futuro e incerto Governo, questo mi aspetto da te. La conferma di una cosa in cui credo profondamente: che ognuno di noi nasce sano come un pesce, pulito e con tutte le possibilità del mondo. Solo in seguito la maggior parte di noi si ammala. Il contatto con la madre, col padre e poi con la scuola e il mondo esterno ci cambia, spesso in maniera decisiva. Quindi, Governo, la nostra sanità dipende anche dalla tua condotta. Proponi una Italia senza bugie, dove la parola libertà non significhi fare e dire quello che ci pare ma essere liberi di essere noi stessi senza però ledere la sensibilità degli altri. Una Italia dove dovremmo essere tutti uguali nei diritti ma diversi nel modo di esprimerci.

Massimiliano Bruno è sceneggiatore, commediografo, attore, regista teatrale e cinematografico

L’editoriale di Massimiliano Bruno è tratto da Left in edicola


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Che fine ha fatto il lavoro

Presidio dei lavoratori Embraco davanti all'azienda a Riva Presso Chieri Torino, 20 febbraio 2018 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

C’è chi lamenta che di lavoro in questa campagna elettorale si è parlato poco, in assoluto e relativamente al peso che questa questione ha nella società. Lo lamentano, rivolgendosi ai candidati, anche molti giornalisti nei loro programmi televisivi, gli stessi che al lavoro non dedicano spazio. È necessaria dunque un’analisi che abbia come primo obiettivo quello di rispondere alla domanda: le proposte in campo vanno nella direzione di ribaltare l’impoverimento dei lavoratori? Per rispondere con contezza non è possibile guardare solo alla sezione “lavoro” ma interessare tutto il programma economico. Eppure, è possibile sostenere che il buongiorno si vede dal mattino.

La coalizione di centro destra – Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia – basa tutto sull’introduzione della flat tax, cioè l’aliquota unica sulle imposte sia per le famiglie sia per le imprese. È la formulazione fortemente regressiva del concetto di austerità espansiva per cui i cittadini con più soldi in tasca potranno spendere di più e quindi creare occupazione, via consumi di beni e servizi. Peccato però che il risultato della flat tax è quello di far risparmiare solo i ricchi che non saranno più chiamati a contribuire in modo progressivo al gettito fiscale.

Inoltre, sostenere che la flat tax liberi i cittadini che di conseguenza potranno spendere di più nasconde un grande inganno: se diminuisce il gettito attraverso cui lo Stato finanzia la spesa sociale (sanità, scuole, asili, trasporto locale, ecc) allora ognuno dovrà fare da sé e lo potranno fare sempre e solo quelli che se lo possono permettere. Inoltre, la spesa per soddisfare diritti fondamentali prima serviti dal welfare pubblico andrà a sostituire quella per altri beni, la cui domanda diminuirà. Infine, i risparmi di tasse dei ricchi si traducono molto meno in consumi di beni e servizi rispetto ai meno ricchi, ma molto di più in attività speculative, quelle tese ad accrescere reddito e rendite. Insomma, non è assolutamente vero che gli imprenditori assumeranno di più.

Si aggiunge per Fdi la volontà di accompagnare la flat tax a una «super deduzione del costo del lavoro per le imprese ad alta intensità di manodopera» (cioè la quasi totalità delle imprese italiane). Aumentano i profitti d’impresa risparmiando sia in termini di fiscalità generale sia in termini di contribuzione. Non viene specificato inoltre se tale schema di incentivi debba poi essere coperto dallo Stato (il cui intervento si vuole limitare fortemente) oppure se il taglio dei contributi sarà direttamente un taglio alle pensioni future tout court. La stragrande maggioranza dei lavoratori non beneficerà in alcun modo dal programma del centro destra.

Passiamo al programma del Pd…

L’analisi di Marta Fana prosegue su Left in edicola


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Antirazzismo, diritti umani e Costituzione (podcast). Intervista a Antonello Ciervo e Gaetano Azzariti

A partire dalla firma del decreto Minniti-Orlando sulla immigrazione, abbiamo assistito ad una progressiva perdita di diritti per i richiedenti asilo, per i quali è stata resa più difficile la possibilità di ottenere rifugio e protezione in Italia. Il decreto fu emanato a febbraio 2017 (a novembre gli abbiamo dedicato una lunga copertina, “Razzismo di stato”). Ora, a distanza di un anno, abbiamo chiesto all’avvocato dell’Asgi Antonello Ciervo di tracciare un primo bilancio critico sullo stato di attuazione della legge, a partire dalla articolo puubblicato su Left “Fuggi dalla guerra? Peggio per te”.

Ma esiste anche un altro tipo di diritti, i diritti inviolabili dell’uomo di cui si parla nella Costituzione all’articolo 2, diritti che sono stati messi in discussione da un altro articolo, l’81, quello che introduce il pareggio di bilancio, modificato e votato da tutti nel 2012 sotto il governo Monti. Il simbolo – possiamo dire – delle politiche di austerità. Che ora, una legge di iniziativa popolare, vorrebbe modificare. Ne parliamo con Gaetano Azzariti, costituzionalista e professore, che abbiamo intervistato nel numero 8 di Left.

Antonello Ciervo: L’esempio che faccio per spiegare d’impatto la riforma del rito in materia di protezione internazionale apportata dal decreto Minniti Orlando è l’esempio delle sanzioni amministrative. Cioè: se io prendo una multa, ho la possibilità di fare un processo con doppio grado di giudizio e ricorso in Cassazione, ho diritto ad essere ascoltato dal giudice, di far acquisire dal giudice tutta una serie di documenti, testimonianze, posso essere io stesso interrogato dal giudice. E il giudice non si può opporre a questo, a meno che non ritenga queste prove superflue e ininfluenti. È chiaro che tutto questo è un giusto processo che viene applicato nel caso – ad esempio – di una multa stradale, che può ammontare a 90 euro. Mentre, nel caso del nuovo rito in materia di protezione internazionale, siamo di fronte alla abrogazione pressoché totale di tutta una serie di garanzie minime a tutela dei diritti dei richiedenti asilo, e della struttura basica di quello che dovrebbe essere un giusto processo in uno Stato democratico. Ecco, se tutto questo è stato fatto per un nobile motivo, quello di accelerare i tempi della giustizia e snellire le pratica, in realtà tutto questo non serve assolutamente a nulla, perché, come ci ha da poco detto l’Associazione nazionale dei…

Gaetano Azzariti: è un disperato tentativo di riportare con i piedi per terra un dibattito politico alla vigilia delle elezioni, dibattito che mi sembra molto fumoso e campato in aria. Noi assistiamo a vuote parole, a promesse senza fondamento, senza coperture finanziarie. È una politica di rilancio molto “politicistica”, nell’accezione peggiore. Vane promesse. I problemi reali sono altri, e più o meno lo sanno tutti, al di là dei fumi della propaganda di questo momento. Uno dei problemi fondamentali è legato alle regole che permettono di realizzare, non dico le promesse, ma programmi politici seri e condivisi. Ora, la questione che poniamo è la scelta, a nostro modo di vedere avventata e inutile, che fu fatta nel 2012 e che impose come è noto una politica economica neoliberista, di equilibri di bilancio, sacrificando i diritti fondamentali che la nostra Costituzione ritiene siano i diritti fondamentali indisponibili a qualsiasi politica economica. Noi vogliamo ricordare che ci sono delle priorità e che, tra i diritti fondamentali e gli equilibri di bilancio, i primi devono prevalere sui secondi, come…

Le interviste proseguono su Left on air, il podcast di approfondimento del numero 8 di Left – RESPINGIAMOLI

Bernie Sanders è tornato. E stavolta lotta contro la guerra in Yemen

La “guerra” di Bernie vuole portare pace in Yemen. Il senatore del Vermont è tornato. «Gli americani sono “unaware”, ignari di quello che sta succedendo laggiù», a Sana’a. In quella che le Nazioni Unite hanno dichiarato come una delle più grandi crisi umanitarie del mondo in corso, sono già 10mila i morti, 40mila i feriti, 3 milioni gli sfollati. Nel Paese tre quarti della popolazione di 22 milioni di persone ha bisogno urgente di assistenza umanitaria.

Un gruppo bipartisan di senatori americani ha presentato una bozza di risoluzione per mettere fine al supporto americano fornito quotidianamente alla coalizione saudita, che bombarda in Yemen i ribelli sciiti dal 2015. Bisogna tirarsi fuori di lì: una catastrofe di migliaia di morti e feriti, di fame ed epidemie, uno dei “posti peggiori al mondo in cui essere un bambino oggi”, secondo l’Unicef.

Insieme a Sanders ci sono il repubblicano Mike Lee e il democratico Chris Murphy. Il War Powers Act a cui si appellano e fanno riferimento nel documento sottoscritto insieme, risale ad una legge del 1973, l’era in cui la gioventù americana moriva in Vietnam, e dà al Congresso l’autorità di votare per ritirare le truppe se il «conflitto non è stato autorizzato». A differenza di altre guerre, il coinvolgimento militare americano in Yemen non è mai stato approvato dal Congresso a Washington o veramente dibattuto dall’opinione pubblica americana, che è “ignara”, secondo Sanders, del coinvolgimento del suo esercito a fianco della coalizione saudita.

«Poiché il Congresso non ha dichiarato guerra, né autorizzato l’uso della forza militare in questo conflitto, noi crediamo che il coinvolgimento americano in Yemen sia incostituzionale e non autorizzato e che il supporto americano alla coalizione saudita debba avere fine» ha detto Sanders. Secondo la Costituzione americana, ha ricordato quello che tutti chiamano ancora Bernie, il Congresso è l’unica autorità che può dichiarare guerra. «Let’s make no mistakes about it, non facciamo errori a riguardo: è scritto nell’articolo uno, sezione otto della Costituzione, il Congresso – solo il Congresso- ha il potere di dichiarare guerra» ha detto in conferenza congiunta con l’avversario politico, il repubblicano Lee. «Non è una questione democratica o repubblicana», ha fatto eco Lee, «questo è un principio costituzionale, american lives are on the line, vite americane sono in gioco”.

Fa sapere l’ufficio del democratico che quello che Sanders sta proponendo sarebbe il «primo voto di sempre in Senato per far ritirare le forze armate da una guerra non autorizzata». Sanders ha per alleati un repubblicano, un altro democratico e la Costituzione. E forse il popolo americano. «Molti americani sono ignari che le persone in Yemen stanno soffrendo oggi per una devastante guerra civile dove c’è l’Arabia Saudita da un lato e i ribelli Huthi dall’altro. Gli americani stanno rendendo questa crisi peggiore. Questa è la bottom line, la linea di fondo».

Le donne cominciano ad essere vittime quando non hanno ascolto

Una foto tratta dal profilo facebook del carabiniere Luigi Capasso +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Tra le favolette che sarebbe il caso di smettere subito di raccontare c’è anche quella che “le donne non denunciano” che, per esperienza personale, mi ricorda le alienanti tavole rotonde in cui qualche prefetto dichiarava l’inesistenza del fenomeno mafioso “perché non ci sono denunce”.

Antonietta Gargiulo, la moglie del carabiniere Luigi Capasso che ieri ha ucciso le due figlie e ha tentato di uccidere la moglie, aveva depositato due esposti in cui raccontava la paura per quel marito “aggressivo e violento” che, come troppo spesso succede, non sopportava l’idea di una separazione da colei che riteneva una sua personale proprietà. Era andata anche dal suo capo, il comandante dei carabinieri di Velletri, per raccontare la difficile situazione. Dicono i comunicati ufficiali che «si è tentata la strada della ricomposizione bonaria», che la donna «temeva che l’uomo potesse perdere il lavoro» e che non erano emersi fatti penalmente rilevanti. Eppure Antonietta aveva anche cambiato la serratura del suo appartamento.

Forse sarebbe il caso di uscire una volta per tutte da questa narrazione medievale per cui la donna deve tornare a casa e cercare di fare pace, come se fossimo davvero in una di quelle fiction sui carabinieri che si vedono in prima serata: le donne cominciano a morire quando hanno la sensazione che le loro denunce non vengano prese sul serio. Al di là della vicenda di Latina (sarà il processo ad accertare le responsabilità, sempre che non ci sia troppa corporazione) sono frequenti i casi in cui le paure delle ex mogli e delle donne vessate sono sottovalutate da istituzioni colpevolmente superficiali. Forse sarebbe il caso di parlarne una volta per tutte.

Buon giovedì.