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Siria, il destino degli orfani di guerra. L’allarme dell’Unhcr: «Accoglieteli»

epaselect epa06583614 People walk along a convoy of Syrian Arab Red Crescent (SARC) trucks as they arrive in Douma, in Eastern Ghouta, Syria, 05 March 2018. Aid supplies reach the besieged community in Eastern Ghouta for the first time in weeks and after months of bombardment. The convoy contained food aid but many medical supplies were blocked by the Syrian regime. EPA/Mohammed Badra

La guerra continua mentre finisce. Finisce per alcuni con una morte ancora quotidiana, per altri con un inaspettato ritorno. Mentre la Siria affronta la sua ultima dissoluzione letale e avanza l’operazione turca “ramo d’ulivo” ad Afrin e provincia contro i curdi, l’assedio di Ghouta est affama e uccide centinaia di civili. come rende noto l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus). Altri ne muoiono per le bombe che cadono su Damasco. Nei territori tornati sotto controllo, invece, alcuni dei figli dei militanti dell’Isis, ormai sconfitto nelle sue vecchie roccaforti, tornano a casa. Secondo gli ultimi dati, ci sono 5mila persone, tra bambini e familiari dei terroristi, ora tra gli orfanotrofi e i campi profughi nel territorio tra Siria e Iraq.

Dopo le macerie siriane dove il loro destino si è incrinato, pochi Daeshis, – come li chiamano, cioè i familiari dei miliziani del Daesh, lo Stato Islamico -, devono ricominciare una nuova vita. Alcuni sono apolidi, figli delle vedove o delle mogli di quelli che chiamavano “i leoni del Califfato”: si calcola che circa 5mila bambini siano nati dai matrimoni dei foreign fighters con donne del luogo o straniere che si sono unite al regno di Al Bagdhadi che non esiste più.

Alla fine dell’anno scorso le Nazioni Unite si sono espresse: «l’Unhcr è preoccupata per il destino dei bambini e il rischio di apolidia» e ha fatto pressione affinché venissero «registrate le nascite dei bambini a cui va assicurata una nazionalità. È vitale per permettere a queste giovani vittime di guerra, che hanno già assistito a tanto dolore, di risiedere legalmente in un Paese, con un senso di identità e per la società a cui appartengono, per andare a scuola, sviluppare il loro potenziale, per un futuro costruttivo e di pace».

Sul destino di questi bambini si accende il dibattito. Hans Georg Maasen, a capo dell’intelligence tedesca, ha messo in guardia su eventuali rischi. La Francia ne ha rimpatriati 66, che hanno ricominciato una nuova vita con delle famiglie adottive o con parenti alla lontana, mentre alcuni, già più che adolescenti, sono finiti in prigione. Nel Regno Unito il dibattito è ancora aperto, 800 jihadisti erano inglesi e se non sono morti durante il conflitto, tenteranno di tornare indietro, nella vecchia patria, forse per commettere nuovi attentati. Sui bambini però ancora nessuna decisione ufficiale è stata presa. Un rapporto di Frontex solleva il problema ancora della sicurezza di fronte all’arrivo di donne e bambini provenienti dalle zone di guerra.

Se l’Europa non va di fretta nel riaverli indietro e la questione della gestione del loro ritorno rimane aperta, c’è un Paese che più degli altri, li fa tornare a casa. Non tanto Mosca, quanto Grozny, capitale della Cecenia, vuole che i bambini musulmani vengano salvati. È una questione che anima il dibattito pubblico. Dalla Federazione russa oltre 2500 musulmani – soprattutto da Cecenia e Daghestan – sono partiti per unirsi alle file dell’Isis e molti hanno costretto mogli e figli, spesso contro la loro volontà, a seguirli. Dai 70 ai 120: sono i bambini ceceni che vivono ancora in Siria, secondo Kadyrov. Ogni bambino che torna a casa in Cecenia è una vittoria del leader da pubblicizzare in tv agli occhi dei suoi cittadini. Sono 400 i minori di origine russa tra Siria e Iraq, secondo Anna Kuznetsova, commissario dei diritti dei bambini, e sono un’eredità non reclamata che il Califfato si è lasciato indietro mentre retrocedeva dalle posizioni conquistate. In Russia finora sono tornati 71 bambini e 26 donne dallo scorso agosto: “cos’altro dovremmo fare, aspettare che qualcuno di nuovo li recluti?” ha detto Ziyad Sabsabi, senatore russo che gestisce il programma dei rimpatri. “I bambini hanno visto cose orribili, ma se cambiano ambiente, con i loro nonni, cambieranno subito anche loro”.

Eppure c’è tutto l’odore, della marea nera

"Qui ci abita un antifascista": è la scritta che compare sugli adesivi, stampati con caratteri utilizzati da formazioni dell'estrema destra, che sono stati attaccati la scorsa notte all'ingresso delle abitazioni di diversi attivisti pavesi impegnati contro fascismo e razzismo. Sugli adesivi compare il simbolo della rete antifascista barrato, come per i segnali di divieto. Pavia, 3 marzo 2018. ANSA

Non so davvero chi abbia deciso che per avere il diritto di preoccuparsi della marea nera che si è alzata negli ultimi mesi in Italia (tra neofascismi, neorazzismi e neonazismi vari) dobbiamo aspettare che Forza Nuova o CasaPound abbiano i numeri per governare il Paese. Di sicuro i risultati delle ultime elezioni sono serviti (com’era prevedibile) per additare ancora una volta come semplici allarmisti coloro che sentono spirare un brutto vento in un Paese in cui sempre di più ci si sente in diritto di essere pubblicamente nostalgici di Mussolini e dei suoi compari anche con un certo vanto.

A quanto pare non sono nemmeno servite le mappe delle aggressioni fasciste in Italia, non sono bastate le pallottole di Macerata, non bastano gli adesivi sulle porte degli antifascisti, non basta nemmeno il nero ucciso ieri a Firenze. Pericolo scampato, dicono tutti, e dovrebbe andarci bene così.

Eppure i numeri dicono che Forza Nuova e CasaPound sono passati dai 147.598 voti del 2013 ai 430.337 (giustamente, come scrive Stefano Catone, possiamo considerarli voti di ispirazione fascista) mentre i voti di destra (ovvero quelli della Lega e di Forza Italia) dai 2.195.257 del 2013 ai 7.422.539 dei giorni nostri. Questi sono i numeri.

L’onda nera, poi, è nelle parole di candidati presidenti di Regione che parlano di “razza bianca” per strizzare l’occhiolino, nei salvinismi di chi parla di “pulizia” riferendosi a una razza, nelle parole di una Meloni che insiste con il binomio straniero = criminale e nell’impunità di chi oggi si sente in diritto di essere impunemente razzista sui social come al bar. Non è questione di partiti: la destra (anche) qui vince spingendo il piede sulle disperazioni e indicando “gli altri” come causa. Non è un caso che l’antifascismo per moltissimi sia un estremismo pari al fascismo.

Non è questo o quel partito, è un vento. Nero. E esultare per il fallimento di CasaPound non è una grande idea.

Buon martedì.

È la democrazia, bellezza

Ci sarà tutto il tempo per fare l’analisi della sconfitta a sinistra su cui, a sinistra, si è maestri da decenni, ma il risultato elettorale, letto di primo acchito, dice chiaro e tondo che Movimento 5 stelle e Lega sono i veri vincitori di queste elezioni. Il 31% dei primi e il 18% dei secondi dice chiaramente che la maggioranza degli italiani vuole un governo che non abbia nulla a che vedere con quelli degli ultimi anni e che un’intera classe dirigente ha definitivamente fallito. Il “que se ne vayan todos” risuona forte e chiaro e snobbarlo come “populismo” o ironizzarlo con gli “espatriamo!” di queste ore non aiuterà certo a riconnettersi con i cittadini.

Il Partito democratico crolla (ed è una storia già scritta) tra le macerie di un risibile appello al “voto utile” che non è apparso utile a nessuno. Renzi e i suoi dimezzano i consensi di pochi anni fa grazie a uno scostamento dalla realtà concimato dai salotti televisivi concentrati a parlare più dei politicismi piuttosto che di bisogni. Le “real issues” dei cittadini non hanno niente a che vedere con gli argomenti trattati. Peggio ancora ha fatto Liberi e uguali che, chissà perché, non è riuscito (o non ha voluto) segnare una netta discontinuità da un Pd moribondo e non ha avuto nessuna spinta propulsiva. Anche Potere al popolo segna un risultato appiattito sulle percentuali della Rifondazione comunista che ha vinto.

La sinistra non ha perso: ha straperso. Probabilmente il peggior risultato della sinistra italiana. E non saranno certo i pochi eletti (su liste costruite più “a misura di segretario” che per merito) ad avere la forza di ricostruire.

Il primo passo, ad esempio, sarebbe quello di rispettare la democrazia e prendere atto del voto. Se non si vuole cadere nell’errore di immaginare gli italiani come un branco di coglioni forse vale la pena prendere atto del voto e rilanciare con un’opposizione dura sui temi e sulle proposte. Parlarsi addosso è deleterio. Hanno vinto quegli altri: partire da qui.

Buon lunedì.

Domenico Gallo: Se anche la giustizia sottovaluta il fascismo

Questa sentenza si inserisce in un filone che tende a sottovalutare il pericolo dei rigurgiti fascisti e per questo non mi convince». A parlare è Domenico Gallo, magistrato della corte di Cassazione e giurista del Coordinamento nazionale per la democrazia costituzionale. Gallo si riferisce alla sentenza del 20 febbraio scorso con cui la Cassazione ha assolto due persone che, nel corso di una commemorazione organizzata da Fratelli d’Italia a Milano nel 2014, avevano fatto il saluto romano. I due erano stati denunciati per il reato di “concorso in una manifestazione fascista” ai sensi della legge Scelba del 1952, ma la corte ha ritenuto che il gesto non costituisse reato, in quanto si trattava di un semplice gesto commemorativo e sia da considerarsi «una libera manifestazione del pensiero».

Cosa ne pensa di questa decisione? è davvero così difficile perseguire azioni, gesti e manifestazioni di piazza, che si rifanno esplicitamente al partito fascista?
Il problema è giuridico: da un lato la Costituzione tutela la libertà d’espressione e d’opinione, anche se le opinioni espresse sono apertamente criminali. Dall’altro, la Carta limita il pericolo di una ricostituzione del partito fascista, ma non sempre è facile identificare i confini tra libertà d’espressione e pericolo fascista.

Non si crea un cortocircuito? La tolleranza assoluta della libertà d’espressione finisce col tollerare anche ideologie che negano la libertà d’espressione.
Il problema sono i confini della libertà d’espressione. La Corte costituzionale ha definito una linea di principio: i reati d’opinione, che sia una semplice istigazione a delinquere o un’apologia del fascismo, sono punibili solo se compiuti in modo tale da costituire un pericolo concreto. In caso contrario…

L’intervista di Daniele Ruzza al magistrato Domenico Gallo prosegue su Left in edicola


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«…Non esistono nascite nobili e nascite plebee…»

Il candidato alla Camera Perferdinando Casini scherza con Il leader del Pd Matteo Renzi ad un pranzo elettorale con i compagni di partito alla casa del Popolo "Corazza", Bologna, 19 Febbraio 2018. ANSA / GIORGIO BENVENUTI

Un’orrenda campagna elettorale. C’è in giro una pessima aria sia per i toni utilizzati che per i programmi sbandierati; una campagna fatta di “inciuci”, trasformismi, alleanze improbabili, promesse irraggiungibili e paure incontrollate. Il panorama che si staglia davanti al povero elettore, di giovane o di vecchia data, è davvero desolante. C’è chi fa a gara a chi la spara più grossa, chi continua a scindersi in formazioni sempre più piccole e chi invece si unisce in coalizioni del tutto improbabili; il tutto orchestrato con una legge elettorale che è fatta a posta per mettere gli amici nei posti giusti, per fare i forti con i forti e i deboli con i deboli, per rendere il sistema di voto assolutamente astruso. Negli ultimi tempi ci si sono messe anche le violenze e le aggressioni fisiche oltre quelle verbali, che campeggiano sui social e sui giornali, a rendere il clima ancora più triste e preoccupante.

La preoccupazione è il sentimento che sale quando si osserva la realtà politica e sociale non solo italica, ma anche europea e mondiale: con la crescita esponenziale dei movimenti xenofobi e di ultra destra; l’innalzamento della povertà e il peggioramento delle condizioni lavorative dei ceti medio-bassi; l’erosione dei diritti sociali; i revisionismi storici che sdoganano il fascismo e paventano il pericolo di un comunismo redivivo. Le persone stanno male e si odiano, politica e cultura alimentano odi e paure. Fin qui il circolo è vizioso e non ne usciamo. Occorre allora trovare il bandolo della matassa e orientarsi nel labirinto: occorre una luce, seppur flebile e piccola, anche una lucciola, che indichi l’uscita dal tunnel.

Proviamo allora a riavvolgere il nastro e a raccontare in modo diverso fatti e protagonisti di questo gelido febbraio che ci prepara a un incerto e tiepido marzo.

In questa orrenda campagna elettorale qualcosa si muove. Nel polo tripartito che si staglia sui cartelloni elettorali: fra centro-destra, centro-sinistra e Movimento 5 stelle qualcosa nasce, in modo sregolato, frammentato e confuso, ma a sinistra le due forze politiche di Liberi e uguali e Potere al popolo potrebbero finalmente raccogliere quei voti di delusi, arrabbiati, disperati che hanno assistito allo smantellamento assoluto e totale della sinistra messo in atto da Matteo Renzi dal 2013 a oggi. Che con lui la sinistra…

L’articolo di Elisabetta Amalfitano prosegue su Left in edicola


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Una nuova sinistra contro la logica del meno peggio

Gli unici con candidati tutti nuovi, mai entrati in Parlamento prima. Gli unici senza pluricandidature, in tutta Italia: nessuno è candidato in più collegi, o contemporaneamente all’uninominale e al proporzionale. Gli unici che esprimono in prevalenza donne, tra i capilista nel proporzionale, ovvero nelle posizioni eleggibili (vedo molte ottime donne in altre liste: peccato spesso in posizioni non eleggibili, guarda caso). Gli unici con a capo politico una donna, precaria e del Sud, e soprattutto molto brava. Gli unici senza paracadutati: tutte le candidature sono state discusse nelle assemblee locali, senza eccezione. E i candidati sono tutti espressione delle lotte e del lavoro su quel territorio.

Non sono quindi candidature di persone mai viste, che magari poi si scopre avevano qualche condanna che nessuno sapeva: sono persone conosciute, esperte, che la politica con la P maiuscola l’hanno già fatta, ma nel sociale, nelle lotte, col mutualismo, con progetti come le mammografie gratuite alle donne povere o il lavoro di sindacalizzazione dei migranti sfruttati nel lavoro nero. Con lo spettacolo davvero deprimente che ci viene offerto da tutte le altre liste, basterebbero e avanzerebbero queste cose per votare Potere al popolo.

Anche per un militante, ex istituzionale, ex dirigente, schizzinoso e pignolo uomo di sinistra come me, che in altri tempi avrebbe voluto ben altro per contentarsi. E infatti stavo per non votare niente, annullare la scheda per la prima volta in vita mia, qualora Potere al popolo non si fosse presentato. Sì perché questa volta, ogni logica del meno peggio, ogni grigio pragmatismo, non è solo inutile, ma rischia persino di essere dannosa. E lo dice uno che il pragmatismo e il “meno peggio” lo ha teorizzato e praticato, in altri momenti.

Comprendo quanto il mio giudizio sia duro, e mi dispiace perché alcuni militanti e amici non lo comprendono e se ne sentono a volte personalmente colpiti, ma è un giudizio di cui sono profondamente convinto, e che non esprimo da oggi. Magari alcuni non lo avevano preso sul serio, però lo esprimo da molto tempo, e soprattutto, non lo esprimo da solo, ma in nutritissima compagnia.

Eh sì, io penso sul serio che, se non rinasce qualcosa che sia veramente…

L’articolo di Mauro Romanelli prosegue su Left in edicola


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Se l’antirazzismo è considerato indecoroso

Zona antirazzista! Questa scritta, con stile originale, da writer esperto, è apparsa nel sottopasso di via Circondaria, a Firenze, dopo l’assassinio di Idy Diene.

«Ma qualcuno ha pensato bene di mandare una squadra di pittori censori per ricoprirla con una vernice grigia», denuncia Tommaso Grassi, capogruppo di Firenze riparte a sinistra che, con altri consiglieri comunali, ha presentato una interrogazione sull’accaduto.

Gli Angeli del bello (sic!), ovvero i difensori “solerti” del decoro urbano, hanno giudicato uno sfregio questa libera espressione di anti razzismo. Anche se non imbrattava palazzi antichi ma anzi rendeva guardabile quell’anonimo sottopassaggio ferroviario. Che concezione hanno della città gli Angeli del bello e il sindaco Dario Nardella? Viene da chiedersi. Pensano la città come una quinta linda e pinta? Come una inerte scenografia? Che cosa è il decoro per loro? Un ordine fascista? Un perbenismo violento che invita a chiudere gli occhi sull’assassinio di un pacifico cittadino ucciso per il colore della sua pelle? E qual è l’ideologia nascosta nell’idea di “sicurezza” che rischia di diventare pulizia etnica e di classe cacciando migranti e senza tetto dai centri storici?

Cercando risposte, nelle pagine che seguono torniamo a denunciare gli effetti del decreto Minniti, il cosiddetto daspo urbano.

Qui intanto vorremmo riprendere il filo della discussione pubblica sulla street art e su quelle particolarissime “cifre”, “tag”, “firme” che i writers “selvaggiamente” disseminano nei paesaggi urbani più degradati, imponendo un guizzo di colore e di reazione al grigiore quotidiano di aree marginalizzate.

Nata Oltreoceano come libera espressione delle minoranze nere e latino americane, che con quelle impronte e a ritmo di rap, rivendicano una presenza e una voce nella metropoli, l’arte del writing, negli anni Novanta si è diffusa anche in Italia, in particolare a Roma e a Milano, incontrando però una crescente repressione da parte di amministrazioni comunali di centrodestra, ma non solo. In nome del dio turismo Massimo Cacciari arrivò a multare i mendicanti quando era sindaco di Venezia perché “deturpavano il paesaggio”. In nome del dio denaro i cartelloni pubblicitari che ricoprivano il Duomo di Milano parevano cosa buona e giusta alla Curia. L’artista Bue 2530, invece, rischiò il carcere per aver dipinto San bue sui teli che ricoprivano le impalcature della chiesa di Santo Spirito a Firenze.

Queste e molte altre contraddizioni di una astratta idea del “bello” pubblico sono indagate da Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel libro Sporcare i muri, graffiti, decoro, proprietà privata (Derive e Approdi), che idealmente prosegue il lavoro del loro precedente Graffiti (Il Mulino). Qui il sociologo e la storica dell’arte intrecciano ancora una volta le proprie competenze per tentare una ricostruzione della nascita e dello sviluppo di questa arte di strada, collettiva, giovanile, spesso antagonista, alla ricerca di un rapporto originale con il territorio e con la sua storia. Da questo volume, piuttosto critico verso artistar come Banksy (che ha fatto dell’anonimato un brand), emerge un affascinante affresco di arte urbana impegnata a dare voce a chi non ce l’ha. Emerge il ritratto polifonico di street artists e writers che si oppongono all’atomizzazione della società e alla ghettizzazione di culture dissidenti. Il loro modo di fare arte smaschera l’ideologia neoliberista. Anche per questo viene attaccato da squadre anti graffiti, con perquisizioni, sequestri di computer e cellulari. Per questo viene ostracizzata dallo spazio pubblico attraverso l’inasprimento delle leggi. Non tutto è arte, beninteso. Il writing spesso è solo un gesto agit prop. Ma, come ben raccontano i due autori attraverso una ampia serie di interviste, trasmette un messaggio politico, regala immagini che spingono a reagire.

Rita De Petra, Potere al popolo: «Io, antifascista, voglio vivere in un Paese democratico e pacifista»

Mi chiamo Rita De Petra e sono candidata alla Camera da Potere al popolo nel collegio plurinominale Chieti-Pescara. La prima candidatura è stata nel 1970, alle regionali. Vent’anni, donna, studentessa, impegnata nei movimenti e il Pci mi candidò. Ingenua ma caparbia, qualche anno dopo opposi un drastico rifiuto all’impegno politico anteponendogli i miei piccoli figli e il grande partito, paladino della maternità, mi cancellò e mi insegnò come bruci sulla pelle l’annullamento: ferite profonde, curate approdando, insieme a tanti, nella più bella e più geniale ricerca sulla natura umana, l’Analisi collettiva. La seconda un mese fa: ero a Bologna per la nascita del mio primo nipotino, squilla il telefono: «Rita, l’assemblea di Potere al popolo propone la tua candidatura perché sei antifascista».

La voce della mia giovane amica tradisce emozione ed affetto, non posso rifiutare io, che con pochi altri, a novembre a San Salvo volevo sapere dell’assemblea di Roma di “Je so’ pazzo”. Ci vuole una bella dose di follia per sfidare un mondo politico ben corazzato, ci vuole l’entusiasmo dei vent’anni e la sicurezza dei grandi ideali. Ora la sfida l’abbiamo vinta. Abbiamo detto no alla rassegnazione, quella del “tanto non ce la potete fare”: le assemblee per eleggere i candidati? Ma non c’è tempo! Se fate le liste non raccogliete le firme! Se raccogliete le firme non superate il quorum e se superate il 3% con 10 rappresentanti in Parlamento chi vi si fila?

Sapete che vi dico? Mi sento “promossa sul campo”, eletta da due assemblee, come tutti noi, raccolte 50mila firme, il doppio, abbiamo già vinto: esistiamo. Possiamo portare sulle piazze, nelle assemblee, anche piccole, in tv quando ci chiamano, la voce di quelli che non hanno più voce, di quelli che sono senza lavoro o che, con qualche ora al mese fanno salire le statistiche degli occupati, che vorrebbero una casa, una famiglia, essere curati decentemente, una scuola che non ti faccia morire di alternanza ma che ti aiuti a crescere e ti dia la conoscenza, l’uguaglianza e la dignità. La voce delle donne che non tollerano più di vedere il proprio corpo ridotto a campo di battaglia da chi è contro l’aborto, la fecondazione assistita, la pillola del giorno dopo, l’eterologa e l’eutanasia. Da chi è contro le donne.

Cosa vogliamo? Vivere in uno Stato democratico e pacifico, che la Costituzione la attua, e in cui il potere appartiene al popolo. Vogliamo un lavoro e una vita dignitosi, senza la paura una mattina di trovare i cancelli inchiavardati e la fabbrica chiusa, che i padroni, dopo aver depredato e sfruttato tutto quel che c’era da depredare e da sfruttare, “delocalizzano”. Una vita piena di affetti e interessi e per favore non fateci lavorare tutte le domeniche e le feste comandate, perché anche se non ci crediamo, la cena con i figli e le amiche e gli amici vogliamo continuare a farla: ci piace stare con le persone che amiamo. Vogliamo un lavoro che non ci renda poveri. Scalfari ha detto che i poveri sono come gli animali, non hanno desideri, solo bisogni primari. Così oltre ad essere sfigati, a non poter pagare le bollette, a non avere una casa, a non andare in vacanza, o a teatro, i poveri non sarebbero umani, solo animali da aggiogare, buoni a tirare la carretta. No. Questo pensiero è aberrante e fascista e lo rifiutiamo.

Perché Potere al popolo? Perché mi commuovo quando incontro vecchi amici che mi dicono: sei candidata? Ti voto, se ci sei tu allora è sinistra! Si è la sinistra, nuova, democratica, antiliberista, che lotta con le persone e non fa ingoiare rospi a nessuno, ma parte dal basso, dai territori e li difende dalle multinazionali ingorde dell’acqua, quelle che sacrificano gli ulivi centenari delle Puglie per il gasdotto, che attaccano le bellezze di Sulmona per la centrale del gas, che trivellano il mare, che condannano Taranto a morire per cancro o per fame. Sono antifascista e per questo mi candido per Potere al popolo.

L’articolo di Rita De Petra è tratto da Left in edicola


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Felice Besostri, Liberi e uguali: «Ora diamo vita a un vero soggetto politico, andando oltre la lista»

Conferenza stampa avvocati Costituzionalisti che avevano impugnato la legge elettorale definita Porcellum. Avvocato Felice Besostri. Milano, giovedÏ 5 dicembre 2013. ANSA/STEFANO PORTA

Le elezioni politiche del prossimo 4 marzo, grazie anche alla pessima legge elettorale imposta da Renzi e Berlusconi, si prospettano come un appuntamento importante ma non decisivo. Molti analisti parlano di possibile pareggio fra le liste maggiori, di situazione bloccata dopo il voto, di un “governo di scopo” per rifare la legge elettorale e rivotare subito, di risultato per la sinistra di mera testimonianza e rappresentanza ecc. In un quadro del genere la sinistra non può stare alla coda degli eventi, né fare una “normale” campagna elettorale. Perché la situazione non è affatto normale. Al contrario è grave dal punto di vista economico, sociale e democratico. Il caso di Macerata è sconcertante: uccisione e scempio di una giovane donna, fascismo omicida e terrorista, risposta evanescente quando non irresponsabile dei partiti, istituzioni locali deboli e inefficaci, deficit anche nella pubblica sicurezza e nella tutela dell’ordine democratico.

Una situazione che impone una svolta. Un salto di qualità nella nostra campagna elettorale. Sono candidato di Liberi e uguali a Milano e in Liguria. Chiedo in primis al mio movimento di dare una scossa, un segnale forte. Non possiamo essere solo una lista elettorale. Non basta un buon programma e due o tre temi qualificanti. Dobbiamo caratterizzarci da subito come un soggetto politico, come una proposta di sinistra offerta al Paese nel suo complesso. Da subito. Dire che noi siamo quelli del lavoro, della giustizia, dell’eguaglianza, dei diritti sociali, umani, civili e costituzionali a cominciare dal diritto di scegliere i nostri rappresentanti nelle istituzioni e di associarsi liberamente in partiti politici. Non prendiamo solo impegni o facciamo promesse elettorali, vogliamo essere conseguenti, tanto più in futuro: organizzandoci, strutturandoci nei territori e nei posti di lavoro, dandoci procedure democratiche, aperte, trasparenti. Senza questo respiro politico le nostre liste rischiano la stessa fine di quelle presentante negli ultimi dieci anni, da Sinistra arcobaleno in poi.

Pietro Grasso ha mostrato la capacità di promuovere questa svolta. Una sua dichiarazione in piena campagna elettorale ha chiaramente indicato l’obbiettivo di «nuovo partito della sinistra». Io ci sto, raccolgo senz’altro l’invito. Sono infatti convinto che la statura di un leader si vede proprio dalla capacità di chiudere la forbice fra elezioni e politica, fra lista e partito, fra tattica e strategia. Il momento è adesso. Guai dare l’impressione di chiedere oggi i voti per un progetto politico che sarà a seconda dei risultati. Nessuna politica dei due tempi. Anche dal punto di vista elettorale. Solo se passa il messaggio che la vera alternativa alla destra e al vecchio centrosinistra siamo noi, i consensi verranno e saranno molti più di quelli che oggi i sondaggi ci attribuiscono.
Giuliano Ferrara ha scritto che Berlusconi e il suo «erede del Partito della nazione» sono d’accordo per «una forte, visibile, diffusa convergenza verso il centro». Ecco noi dobbiamo essere esattamente il contrario: una forte, visibile diffusa alternativa alla destra, al centrismo, ai populismi, alle politiche liberiste.

Per quanto mi riguarda ho dato alla mia campagna elettorale precisamente questo taglio. Un taglio costituente. Ho chiesto il voto per Liberi e uguali e insieme per una proposta politica compiuta. Su questa base: centralità del lavoro, pubblica istruzione gratuita, abolizione delle tasse universitarie, riforma della legge sulle pensioni, una politica estera di pace e solidarietà, diritti sociali e civili. Solo attuando la Costituzione si può infatti difenderla davvero. Ma per tutto questo occorre appunto anche un nuovo partito politico della sinistra italiana. Nessuna politica economica di giustizia e sviluppo può infatti seriamente affermarsi senza uno strumento politico adeguato ed è l’articolo 49 della nostra Costituzione a dirci che quello strumento è il partito politico. Ora proprio perché la svolta è impellente avanzo la proposta di costituire un’area socialista, laburista, libertaria e laica entro il nuovo partito richiesto da Grasso. Un partito che vogliamo del lavoro, della democrazia, dell’ambiente, dei diritti, della pace e dell’internazionalismo.

In passato la sinistra italiana comunista, socialista, azionista, laica e cattolica si è sempre accreditata come il “partito della Costituzione”. Quella che difendeva la Carta del ‘48 e ne promuoveva le realizzazioni socialmente e civilmente più avanzate. A settanta anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana intendiamo raccogliere lo spirito del referendum del 4 dicembre 2016: democrazia, partecipazione, difesa e sviluppo delle istituzioni e dei diritti che tutelano la nostra libertà e il nostro futuro. Liberi e uguali dovrà essere un attore costituente. Per parte nostra ci batteremo per una sinistra orgogliosa della sua identità, della sua autonomia, dei suoi valori ideali.

Il parere di Felice Besostri è tratto da Left in edicola


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Viola Carofalo: Siamo popolari non populisti

VIOLA CAROFALO POTERE AL POPOLO

Il 4 marzo «non ingoiare il rospo», scegli «pace, anti fascismo, anti razzismo», dice un buffo video di Popolo al popolo che prende in giro la logica del pragmatismo, della real politik, del voto utile, turandosi il naso. Gli attivisti di Potere al popolo usano un linguaggio decisamente insolito rispetto a quello astratto e devitalizzato a cui ci hanno abituato i politici negli ultimi anni. Ciò che colpisce è anche il modo, la passione che colora i loro discorsi su uguaglianza, libertà, diritti. Discutono molto di lavoro, di lotta alla precarietà, ma parlano anche di sogni, di costruzione di una sinistra nuova e solidale che ancora non c’è, provando a immaginare una società diversa da quella imposta dal pensiero unico liberista del dio mercato. I loro manifesti citano Shakespeare, Brecht, Chaplin, Joe Strummer e i Clash. Mentre la loro prassi politica è radicata in realtà di base, associazioni, comitati, centri sociali. Moltissimi al Sud, come l’ex Opg napoletano da cui è partito il tam tam che nel giro di due mesi ha attivato più di 150 assemblee in tutta Italia. Per capire meglio chi sono e come sia stato possibile arrivare a questo risultato abbiamo intervistato Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo. A partire da alcune parole chiave. La prima è antifascismo. Parola che innerva la Costituzione italiana. Galli Della Loggia sul Corsera ha scritto che è una parola ambigua. Il contrario di fascismo non sarebbe antifascismo, ma democrazia. Noi pensiamo invece che, oggi più che mai, abbia un contenuto forte di rifiuto della violenza praticata da CasaPound e da Forza nuova, ma anche di quella violenza nascosta nelle politiche securitarie del ministro Minniti.

Che cosa significa la parola antifascista per la portavoce di Potere al popolo e quali sono, per voi, le strategie politiche per contrastare il neofascismo?
C’è un provvedimento molto facile da mettere in pratica: mettere fuori legge le formazioni neo fasciste. E che lo siano, non lo dico io, lo dicono loro. Non è difficile trovarne traccia nelle loro rivendicazioni, nei loro discorsi. Penso a Roberto Fiore, capo di Forza nuova, che rivendica con orgoglio la propria appartenenza a Terza posizione, ovvero alla destra eversiva. Ma penso anche a Simone Di Stefano, il leader di CasaPound, che in piazza a Napoli ha detto: “Siamo fascisti e non ce ne vergogniamo”. Penso però che il problema, purtroppo, non sia solo lì. Queste formazioni neofasciste sono un problema, perché hanno seminato odio e violenza anche in questa campagna elettorale, ma è un problema anche la complessiva deriva a destra del Paese: ci sono forze politiche che hanno molto spazio e consenso che hanno fatto propri discorsi fascisti. Penso alla Lega nord ma anche ai provvedimenti presi dal ministro dell’Interno Minniti. Non uso il termine con leggerezza, né in senso lato per parlare genericamente di qualcosa di autoritario, ma con cognizione di causa.

 

Si riferisce al decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione?

Sì, ma anche al Daspo urbano che comporta l’espulsione dal centro città dei poveri, di chi è emarginato, di quelli che Minniti chiama – con un termine inaccettabile – «indecorosi». È qualcosa che ha a che fare con il fascismo nel senso più classico: l’idea che la povertà sia una vergogna e una colpa; chi è povero è colpevole e non deve disturbare lo sguardo di chi vive in condizioni diverse. Penso anche, come lei diceva, al provvedimento di Minniti che comporta l’eliminazione del secondo grado di appello per le persone richiedenti asilo. Anche in questo caso un diritto che per noi è scontato, ovvero la possibilità di appellarsi nel momento in cui si ricorre in giudizio, è stato cancellato per chi è straniero. Questa è una legge apertamente razzista. È doloroso ammetterlo, ma in qualche modo il fascismo e il razzismo sono entrati nel senso comune del Paese. Ribadisco: CasaPound o da Forza nuova vanno messe fuori legge, ma non possiamo far finta di non vedere che forze politiche di maggior peso e spessore in qualche modo si sono rese complici di questo discorso e l’hanno articolato in una maniera che se vogliamo è anche più subdola perché pesa sul futuro del Paese.

Rifiutare la violenza significa anche elaborare un pensiero diverso, dare una risposta sul piano culturale di pensiero?

Io credo che un intervento culturale in questo senso sia importantissimo, bisogna cambiare segno al discorso pubblico. Ma è importante anche rispondere in pratica, nel concreto, non bisogna lasciare spazio a questo discorso, e possiamo intervenire attraverso pratiche solidali. Faccio un esempio banale: nei giorni in cui ha nevicato ho proposto di aprire le sedi ai senza tetto. Sono iniziative che dicono qualcosa all’opinione pubblica, dicono che sono persone come noi, che non dobbiamo escluderli, né pensare che siano persone alle quali dobbiamo fare guerra, perché troppo spesso il povero, lo straniero viene additato come quello che ti toglie qualcosa in termini di diritti. Noi invece proponiamo un’attività solidale. Dunque, sicuramente va fatto un discorso culturale , un ragionamento pubblico che sia profondamente differente, in particolare rispetto al discorso razzista che va rifiutato in maniera molto chiara e molto netta, senza paura di perdere consenso. Tanti partiti hanno paura di perdere consenso facendo questo ma se noi lasciamo la solidarietà ad altri o addirittura lasciamo le periferie a CasaPound o a Forza nuova poi non ci possiamo lamentare.

Da tempo ormai il centrosinistra ha abbandonato il lavoro sul territorio. Voi siete in controtendenza anche su questo, fate un grosso lavoro locale, di relazione, improntato al mutualismo. In questo c’è una analogia con il modo di fare politica dei giovani di Momentum che sostengono Corbyn?

Sì, sono stati per noi un motivo di ispirazione. Credo che gli attivisti di Momentum abbiano trovato una chiave giusta: fare politica vuol dire anche stare in contatto diretto con gli altri. Noi usiamo molto internet, è come noi non ha soldi, ma sappiamo anche che la ricostruzione di un tessuto di sinistra non passa solo per il web. Non vogliamo soltanto farci conoscere per farci votare, ma più di tutto vogliamo ricostruire un tessuto della sinistra, perché è quello che manca. Ed è per questo che ci siamo lanciati in questa avventura di slancio, anche in maniera un po’ incosciente, perché pensiamo che esistano tante persone che credono in questi valori ma pensiamo anche che tante persone non abbiano la possibilità di fare rete, di potersi mettere in relazione. Fare campagna elettorale porta a porta, costruire assemblee territoriali in modo molto aperto, trasversale, per noi significa provare a ricostruire una collettività e veicolare un messaggio solidale, di equità sociale, di fiducia, anche per riattivare la partecipazione politica; altrimenti tutto comincia e finisce con le elezioni. A noi questo non interessa.

Agli italiani all’estero che non vi possono votare perché per ostacoli burocratici Potere al popolo non compare nelle liste, avete proposto di far adottare il loro voto a chi si astiene. Tanti sono studenti, giovani emigrati. Il vostro è un messaggio che punta a riavvicinare i giovani, i precari, i delusi da questa politica che soffre una grave crisi della rappresentanza?

Io stessa non sarei andata a votare, perché a novembre non mi riconoscevo in nessuna formazione in campo, non mi convinceva nessuna delle proposte, nessuno parlava di precarietà, di donne, di Sud, temi per me importanti. Anche di questi argomenti abbiamo parlato con chi in passato si è astenuto e con chi vota per la prima volta, rivolgendo loro un appello al voto. Non avendo soldi per commissionare sondaggi, siamo andati fuori dalle scuole superiori a parlare con i ragazzi per chiedergli cosa avrebbero votato, per raccontargli di noi. Per noi quel voto vale doppio, al di là del suo peso concreto, numerico. Siamo andati davanti alle scuole a dire a persone che hanno 18-19 anni che votare non è delegare, ma è uno strumento della partecipazione politica.

Nel vostro video “La mia prima volta” alcuni di loro raccontano il primo voto, come una grande cotta per la sinistra. È tenerissimo. Quanto è importante la scuola e il ruolo degli insegnanti, così bistrattati anche dalla Buona scuola di Renzi?

Penso che gli insegnanti siano stati una della categorie più maltrattate negli ultimi anni, sia sul piano retributivo che dei diritti. La Buona scuola ha rafforzato ancor più i poteri del presidi sottoponendo gli insegnanti al loro arbitrio e imponendo forti vincoli, anche limitando la libertà di insegnamento. Pochi giorni fa c’è stato un aumento di stipendio veramente esiguo, dopo ben 9 anni di blocco dei contratti. Ma al di là delle difficili condizioni materiali in cui gli insegnanti devono lavorare, ciò che è davvero pesante e difficile da mandare giù per chi insegna è il racconto che si fa della categoria. Vengono raccontati quasi fossero dei “parassiti”, come superflui o, al più, come tecnici che non devono entrare in conflitto con parenti e studenti che, spesso, ti chiedono un servizio, non formazione. Io penso invece che gli insegnanti e l’istruzione siano la componete più importante della formazione di un Paese e di una collettività. Se li paghiamo poco, li facciamo lavorare male e li disprezziamo nel discorso pubblico, non stiamo solo danneggiando la categoria, ma stiamo danneggiando un patrimonio comune. Bisognadare più soldi alla scuola pubblica, ma bisogna anche trasformare la visione. Non si possono sostituire gli insegnanti con un computer. La formazione degli studenti passa anche attraverso il rapporto con gli insegnanti, per la costruzione del pensiero critico, che è l’esatto opposto di quel che vuole la Buona scuola.

Parlando di lavoro, Grasso ha detto che la Fornero non va abolita ma va aggiustata. Bonino addirittura esalta tale riforma delle pensioni, in sintonia con Berlusconi e il Pd. Nel programma voi invece proponete di abolirla e di abolire anche il Jobs act.

Sì. Aggiungo che ciò che ha detto Grasso era stato anticipato da Bersani. Abolire la riforma Fornero non è una questione ideologica. È certamente anche una questione di principio perché ha peggiorato la condizione di vita di molti ed è stato un provvedimento oppressivo per chi non arriva a fine mese. Il punto è che un pensionato non deve essere maltrattato o spremuto come un limone fino alla fine. Per chi fa lavori pesanti lavorare degli anni in più significa ammalarsi. È una riforma che peggiora le condizioni di vita, che si prende gravi responsabilità sulla vita delle persone, non è solo un discorso ideologico su come noi immaginiamo lo Stato o le pensioni in un mondo ideale, riguarda la vita delle persone.

Cosa risponde a chi dice che abolire la riforma Fornero non si può fare per ragioni di sostenibilità economica?

Alcuni studi dicono che servono 20 miliardi. Un’enormità, si dice. Bene, è esattamente la cifra che abbiamo speso per il Salva banche. È una questione di scelte politiche, di priorità. Noi per che cosa vogliamo spendere i soldi? Li vogliamo spendere per le spese militari? Per il Salva banche? Noi no, li vogliamo spendere per chi va in pensione, per consentire un po’ di riposo a chi dopo tanti anni di lavoro ha diritto a godersi la famiglia, i propri interessi culturali. Bisogna far entrare i giovani nel mondo del lavoro. La condizione assurda che viviamo è che tanta gente che vorrebbe lavorare non trova le condizioni per farlo e tanta gente che vorrebbe smettere di lavorare, perché anziana, non può smettere, e questo è assurdo.

A proposito di spese militari, lei è andata in tv da Belpietro con la scritta «restiamo umani» sulla maglietta (andandosene poi dallo studio per protesta, gli ha lasciato la Costituzione da leggere). Cosa pensa della proposta di Tabacci e Bonino di costruire un esercito europeo?

Ci manca solo questo! Come se avessimo poche spese militari. Non sono solo inutili ma anche dannose. Hanno parlato di missioni umanitarie in Niger, nei primi anni Duemila si parlava di guerre umanitarie, è la stessa cosa; non stiamo andando a portare pace, stiamo andando a garantire interessi economici. Stiamo andando ad appropriarci di risorse altrui. Il paradosso è che proprio chi sostiene questo tipo di missioni poi grida agli invasori, non considerando che sono spinti da noi. È la nostra politica estera – con quella di molti altri Paesi – a generare i flussi migratori. Dobbiamo smettere di bombardare la gente, smettere di affamarla. Per noi il rifinanziamento delle missioni militari non solo è uno spreco ma è una cosa indecente in un Paese che vive in una situazione di compressione di spese sociali, di tagli alla sanità pubblica e alla scuola.

Salvini giura sul Vangelo, Il Pd imbarca Casini, la Bonino che va dal papa, Di Maio che bacia la teca di san Gennaro. Nel vostro programma c’è invece l’abrogazione dei Patti lateranensi, perché?

Io penso che la laicità dello Stato sia una questione essenziale e mi sembra anche paradossale doverlo ribadire nel 2018. Ma con tutta evidenza c’è ancora bisogno di farlo e noi lo facciamo. Perché è importante la laicità? Basta pensare alla questione dei medici obiettori, le statistiche per il Sud d’Italia dicono che sono il 70/80 per cento. Questo significa che il diritto a poter scegliere di interrompere una gravidanza è impedito. Senza contare che alcuni farmacisti per lo stesso principio si rifiutano di vendere la cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Oppure pensiamo alle difficoltà che ha incontrato in Italia l’aborto per via farmacologica. Parliamo di questioni molto concrete. Discorsi analoghi si potrebbero fare sul fine vita. Berlusconi ha detto che il primo passo sarà eliminare leggi come quella sul testamento biologico e la Cirinnà, conquiste che a me sembrano il minimo in un Paese civile nell’anno 2018.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Viola Carofalo è pubblicata su Left in edicola


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