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Festa della donna. Con due terzi di uomini nel Parlamento che viene

Maria Grazia Gatti (s) e Cecilia Guerra nell'aula del Senato durante l'esame di aggiornamento al DEF, Roma, 4 ottobre 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Alla Camera sono addirittura diminuite rispetto alla scorsa legislatura, passando da 198 a 185. Al Senato sono 86, il 27% sul totale. Se la legge elettorale doveva essere portatrice di buone notizie sulla rappresentanza femminile in Parlamento, oggi forse sarebbe il caso di rivedere i risultati: alla Camera il Movimento 5 stelle (che da questo punto di vista fa meglio di tutti) ha 82 donne su 222 eletti, (circa il 37%) mentre il centrodestra ha 67 donne du 260 totali (siamo sul 26%). Al Senato sempre il Movimento 5 stelle ha 42 donne su 112 (appena sotto la soglia del 40% stabilita per legge nella legge elettorale in fase di candidatura), 30 su 137 il centrodestra, 13 su 59 il centrosinistra e una su 4 per Liberi e uguali (che alla Camera sfoggia un triste 4 su 14).

Ma non è questo il punto: la discussione sulla formazione del nuovo governo avviene solo tra uomini. In campagna elettorale di donne si è parlato per bile (Laura Boldrini), per errori grammaticali (Francesca Barra) e solo perché candidate leader Giorgia Meloni e Viola Carofalo sono state “sopportate” in trasmissioni televisive oltre alla “storica” Emma Bonino.

Eppure, statistiche alla mano, le donne sono maggioranza.

E oggi è anche l’8 marzo.

Non regalate fiori ma uomini per bene. E praticatela l’uguaglianza, partendo dalle basi.

Buon giovedì.

 

Lo sciopero delle donne per denunciare la violenza

Women during a rally as part of a nationwide 'Lotto Marzo' protest on the International Women's Day 2017 in Torino, Italy, on March 8, 2017. (Photo by Mauro Ujetto/NurPhoto via Getty Images)

L’otto marzo sarà una giornata di femminismo per il 99 per cento». Con questo auspicio si chiude la lettera – pubblicata dal The Guardian – con cui è stato lanciato lo sciopero globale delle donne negli Stati uniti. Un giorno di mobilitazione con cui “Non una di meno” torna a farsi sentire, fuori dai luoghi di lavoro. Dopo il grande appuntamento del 2017, quando i collettivi femministi in più di cinquanta Paesi avevano rispolverato, innovandola, una pratica tipica degli anni Settanta. Ma soprattutto dopo un anno intenso, che ha visto esplodere il movimento #metoo, la celebre onda di denunce di abusi nel mondo dello spettacolo (e non solo) nata negli Usa all’indomani del caso Weinstein, che numerose poltrone ha fatto tremare nello star system a stelle e strisce. Tanto da convincere il magazine Time a nominare “Persona dell’anno” le donne che sono riuscite a rompere il silenzio sulle molestie.

E poi l’onda è straripata, e ha bagnato anche l’Italia. Con la denuncia di Asia Argento, l’inchiesta delle Iene sui Weinstein “de noantri”, l’arrivo (a scoppio ritardato) della politica, e la reazione scomposta di buona parte media, ancora permeati di cultura misogina e religiosa. «Il nostro sciopero riparte da lì, certo, ma vuole anche andare oltre», ci racconta Tatiana Montella, avvocata e attivista di Non una di meno. «Il movimento #metoo è stato importante e, se si è innescato, è anche grazie alla presenza dei movimenti femministi, per cui si è diffusa una maggiore propensione a denunciare questi tipi di violenza. Si tratta di gesti fondamentali. Poi però bisogna riuscire ad andare oltre: la denuncia degli effetti deve portare a mettere sotto accusa le cause strutturali degli abusi, ossia le gerarchie economiche e di potere». Questo è l’obiettivo numero uno dello sciopero – ribadito anche nel vademecum con le istruzioni per aderire che potete leggere sul blog del movimento: trasformare il #metoo (“anche io”) in #wetoogether (“noi insieme”). Il secondo hashtag, evoluzione del primo, è stato fatto decollare da Non una di meno lo scorso autunno, a stretto giro, per provare a convertire la massa delle singole accuse individuali in risposte collettive, che mirano a smascherare le radici della violenza, le relazioni di sfruttamento ed oppressione.

«L’obiettivo è trasformare un grido solidale in un grido collettivo – precisa Montella -. La voce più forte che possono avere le donne che rivestono una particolare posizione, che hanno più visibilità, come Asia Argento, può e deve essere un volano per mobilitare le donne che subiscono violenza quotidianamente nei loro luoghi di lavoro, donne per cui spesso è davvero difficile uscire allo scoperto e farsi sentire. Penso alle migranti, alle badanti…» Il punto, insomma, è superare la sola accusa del “mostro”, maschera interpretata perlopiù dal produttore televisivo ricco e famoso, per aprire uno spaccato sulla genesi sociale dei soprusi.

E che il problema sia sistemico, lo ha mostrato in modo evidente il “caso Macerata”. «All’indomani dell’omicidio della giovane Pamela – chiarisce Montella – abbiamo provato subito a ribadire che la violenza maschile non ha passaporto né colore, ma l’episodio è stato presto strumentalizzato: qualcuno si è eretto a difensore delle donne a prescindere, qualcun altro ha declinato la vicenda in chiave razzista, in pochi hanno sottolineato come la violenza maschile sia un fattore strutturale della società, che attiene ai rapporti di potere tra i sessi». Fino a conseguenze disumane. «Ho letto commenti – racconta l’attivista – che mi hanno sconvolto. Uno di questi diceva che “è più grave se ad uccidere è un migrante, perché rompe il ‘patto di solidarietà’ che stipula con chi lo ospita”. Come se un italiano, un “buon padre di famiglia”, fosse in qualche modo più legittimato ad uccidere. È incredibile». Il caso di Pamela, inoltre, scoppia nel bel mezzo della campagna elettorale. «Una delle più faticose e tristi che abbia visto – precisa – selvaggia anche nei toni. Abbiamo provato a sfidare la politica sui nostri temi, ma alla fine credo che la bagarre elettorale sia stata un “tappo” per le nostre lotte, perché i partiti non hanno detto una parola su questioni cruciali, penso al lavoro, alla salute».

Proprio su questi fronti, il movimento sta lavorando da tempo. La battaglia per la sanità pubblica è uno dei punti cardine della lotta, come si legge anche nel Piano femminista, il documento frutto di una stesura collettiva durata più di un anno, presentato poco prima del corteo del 25 novembre scorso. «I problemi in questo senso sono molti, dal dilagare dell’obiezione di coscienza, alla privatizzazione dei servizi socio-sanitari. Basti pensare che qui da noi a Roma, al Policlinico, lo storico reparto per l’Interruzione volontaria di gravidanza è a rischio per lo scarsissimo numero di non obiettori e lo scarso utilizzo della pillola Ru486. Senza considerare, più in generale, che 12 milioni di cittadini sono costretti a rinunciare alle cure perché costano troppo».

E poi c’è il lavoro. «La potenza del nostro movimento traspare dal fatto che, se confronti tutte le piattaforme dello sciopero, dagli Usa all’India, il temi del lavoro migrante, del gender gap salary e del lavoro riproduttivo sono ovunque centrali. Rivendicazioni simili in tutto il pianeta». A parlare è Natascia Cirimele, insegnante e attivista romana, che ha partecipato al tavolo “lavoro e welfare” per la stesura del Piano. Un tavolo che ha portato ad una vera e propria produzione intellettuale, che ha sfornato chiavi nuove per la critica dell’economia. «Abbiamo per esempio studiato a lungo la “femminilizzazione del lavoro”, ossia quel processo che vede la precarietà e i salari ridotti sperimentati sulle donne debordare, e colpire a cascata anche gli uomini. Anche per questo il femminismo deve essere un patrimonio di tutti».

Un movimento globale dunque, e prezioso. L’unico che riesca tuttora – come già scritto su queste pagine – a tenere insieme anticapitalismo, antisessismo e antirazzismo. Ed è un peccato che molti sindacati restino a guardare (aderiranno allo sciopero solo sigle di base, mentre i confederali risultano non pervenuti).
Ma non c’è solo la critica. Lo sciopero è anche l’occasione per rilanciare proposte concrete alla politica. «Un salario minimo europeo per combattere allo stesso tempo gender gap e dumping salariale, un welfare universale e laico, politiche a sostegno delle attività di cura, cosi da renderle un lavoro non più relegato alle donne». E poi la richiesta di un reddito di autodeterminazione incondizionato. «Già, perché abbiamo fatto una campagna sulle molestie sul lavoro, e abbiamo scoperto che le mancate denunce derivano non tanto da fattori culturali, bensì dal fatto che non ci sono norme in grado di dare garanzie a chi si espone. Quando il ricatto è il salario, e la molestia proviene da chi te lo eroga, se non c’è welfare per chi denuncia è chiaro che il meccanismo non funziona».

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left in edicola


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Carceri, l’appello di associazioni e giuristi: «Il governo Gentiloni porti a termine la riforma»

Una veduta interna del carcere romano di Regina Coeli in una foto tratta dal sito del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa Penitenziaria. ANSA/ UILPA PENITENZIARIA ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY- NO ARCHIVE++

«Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee».

Con queste parole si apre l’appello indirizzato all’esecutivo (qui il testo completo), affinchè la riforma dell’ordinamento penitenziario venga portata a termine. Dopo la presentazione dei decreti attuativi da parte del Consiglio dei ministri a dicembre, in seguito al pressing del ministro Orlando, e il vaglio delle camere che hanno presentato le loro osservazioni, la palla era tornata a Palazzo Chigi, ma il 22 febbraio scorso il governo ha deciso di licenziare in via definitiva solo tre decreti, quelli su giustizia riparativa, mediazione tra reo e vittima, e giustizia minorile. Una rivoluzione incompiuta, dunque (come abbiamo raccontato sul nostro settimanale, in un numero interamente dedicato a carcere e diritti umani).

Tra i firmatari del testo appello: l’Unione Camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone. E poi personalità, tra le quali, Edmondo Bruti Liberati, Carlo Federico Grosso, Franco Lorenzoni, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Mauro Palma, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky.

Formalmente, anche se le elezioni hanno fortemente modificato gli equilibri parlamentari, il governo Gentiloni è in carica sino al 23 marzo, e potrebbe dunque portare a termine il lavoro iniziato con gli Stati generali sull’esecuzione della pena, istituiti nel 2015 per strutturare le proposte su cui basare la riforma.

«Si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane – aveva commentato il presidente della associazione Antigone Patrizio Gonnella il 22 febbraio -. La legge che le governa risale al lontano 1975. Il Consiglio dei Ministri di stamattina poteva adeguarla alle esigenze del mondo attuale. Poteva allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, la cui capacità di ridurre la recidiva e dunque di garantire maggiore sicurezza ai cittadini è ampiamente dimostrata. Poteva avvicinare la vita penitenziaria a quella esterna, come tutti gli organismi internazionali sui diritti umani raccomandano di fare. Poteva garantire una maggiore tutela del diritto alla salute fisica e psichica. Ha invece preferito farsi spaventare dall’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale piuttosto che pensare alla tutela dei diritti dei detenuti».

Ora il governo ha una ultima possibilità. Gentiloni e Orlando rispetteranno la parola data?

 

Argentina, aborto legale: la battaglia delle “bandane verdi” arriva in Parlamento

epa06235346 A woman with her face painted with the words 'Alive and free' demonstrates during a march to legalize abortion at the center of Buenos Aires, Argentina, 29 September 2017. Leaders of left and feminist organizations asked yesterday that the Argentine Congress approve a new law that decriminalizes the abortion within a set period and to extend the cases in which it is allowed. EPA/David Fernandez

Le donne argentine vogliono la libertà di abortire. E per questo tengono strette tra i pugni alzati delle bandane verdi, che sono diventate il simbolo della riforma legale che stanno attendendo da troppo tempo. Aborto legal, para no morir. Che l’aborto sia legale, per non morire.

È la prima volta che il governo di centro destra sta considerando di tenere un referendum sulla legalizzazione dell’aborto nel Paese, dove si può mettere fine a una gravidanza solo in tre casi: dopo una violenza, se la vita della madre è a rischio, se il feto non è sano. Anche se il presidente conservatore Mauricio Macri non è d’accordo e non vuole che le leggi contro l’aborto vengano cancellate o ammorbidite, il suo Congresso voterà con libertà di coscienza.

Il dibattito sulla legalizzazione dell’aborto in Argentina comincia ufficialmente proprio l’8 marzo, la Giornata internazionale della donna. Una proposta di legge è già stata presentata: si tratta di una riforma che permetterebbe alle donne argentine di mettere fine alla gravidanza nelle prime 14 settimane. Finora le ragazze usavano anche una sostanza chiamata misoprostol, che provocava aborti spontanei. Se una scatola di misoprostol prima del governo Macri costava 40 dollari nel 2015, due anni dopo è diventata introvabile a meno di 170 dollari.

Le donne e le ragazze che vogliono rinunciare alla maternità, allo stato attuale, nel 2018, devono attendere la decisione della Corte, l’approvazione del giudice, che può rallentare la procedura a suo piacimento. Accade anche nel caso in cui l’aborto risulti terapeutico per salvare la vita della madre: è dovuta intervenire la Corte suprema per impedire ai giudici di poter porre perfino questa restrizione contro l’aborto, ma è servito a ben poco.

Se questa nuova proposta di 70 legislatori, di diversi partiti, dovesse diventare le legge, le cose comincerebbero a cambiare. «È una questione di eguaglianza e inuguaglianza, perché quelli che non hanno soldi pagano con la loro salute», ha detto Aracelia Ferreyra, membro dell’opposizione, mentre presentava e spiegava a cosa fosse davvero necessaria la riforma.

Ogni anno 522 mila donne argentine compiono aborti clandestini. Le attiviste per il diritto all’aborto nel Paese hanno stimato che almeno 49mila di loro finiscono in ospedale per i metodi poco sicuri utilizzati durante l’operazione. Nel mondo, oggi, ricordano le Nazioni unite, l’8 per cento delle donne muore per aborti clandestini ogni anno.

In molti paesi latinoamericani l’aborto è illegale in ogni circostanza: oggi è vietato mettere fine alla gravidanza in Honduras, El Salvador, Nicaragua, Repubblica Domenicana, Brasile, ma non in Uruguay. Il piano per indire il referendum invece, nella cattolicissima Argentina, adesso è finalmente sul tavolo. Dopo 13 anni di battaglie e tentativi falliti, la Campagna nazionale per la legalizzazione dell’aborto crede che la società, da Buenos Aires a Rosario, sia pronta a cambiare proprio adesso.

Panta rei, la versione moscovita

Il 26 febbraio il sindaco di Mosca, Sergey Sobianin, ha inaugurato cinque nuove stazioni della metropolitana di Mosca. Si tratta della seconda linea circolare che forma una sorta di “tangenziale esterna” della metrò moscovita. Ed entro la fine di quest’anno verranno aperte altre 16 fermate. In tal mondo il numero di stazioni raggiungerà la cifra astronomica di 228.

La metrò di Mosca è da sempre il cuore pulsante della città. Senza questa strada ferrata con le sue meravigliose stazioni del centro decorate con marmi bianchi, statue e passerelle, la città non potrebbe sopravvivere. La prima linea venne inaugurata nel 1935. I lavori vennero diretti da Lazar Kaganovic, il sergente di ferro di Stalin. Il quale sopravvisse anche a Krusciov e Breznev morendo solo nel 1991: prima di andarsene, diede in un’intervista il suo endorsement al corso gorbacioviano. «I miei erano altri tempi» dichiarò compunto il vecchio bolscevico.

Ogni giorno le 15 linee della metropolitana divorano ed espellono milioni di persone. Come tante formiche i passeggeri si inerpicano sulle scale mobili, si scontrano nei viali che conducono a linee coincidenti e si danno appuntamento per amore o per chissà cos’altro precisamente al centro delle banchine. Non a caso forse il romanzo russo più famoso degli ultimi anni, l’apocalittico Metrò 2033 di Dmitry Glukhovisky, è ambientato proprio nelle viscere e nei tunnel della capitale.

Ma il turbinio è dappertutto. Chiunque arrivi a Mosca oggi non può non essere sopraffatto da una sorta di ebrezza ma anche di straniamento. Per 24 ore e senza pause il traffico automobilistico scorre possente sui vialoni, le circonvallazioni le strade che portano ai “nuovi rioni”. Nuovi quartieri dormitorio, raggiungibili solo con i microautobus privati o con l’auto, sono tutti dotati di centro commerciale, di un un paio di farmacie e giardinetti per infanti. La domenica pomeriggio coppie con passeggini d’ordinanza sciamano nei vialetti anonimi in attesa che la settimana lavorativa se li sequestri di nuovo.

Dal 2010 non c’è più stato un censimento della popolazione ma gli algoritmi dicono che nel 2017 vivono al Mosca 12,5 milioni di persone e la città cresce al ritmo di 300mila abitanti l’anno. A cui vanno aggiunti i 7,5 milioni della provincia. Qui si crea il 30% di tutta la ricchezza del Paese e niente si ferma mai per davvero.

Dopo l’inizio della crisi economica, dal 2014 all’incirca, su Mosca si sono riversati i nuovi disoccupati delle varie regioni mentre i lavoratori stagionali centroasiatici hanno ripreso la strada delle loro impronunciabili città del profondo “Sovietistan”: i salari minimi sono scesi troppo in basso per restare ancora.

Per i mondiali di calcio di quest’estate si aspettano 1,5 milioni di tifosi da tutto il globo. Mosca li attende un po’ curiosa e un po’ impaurita. Quello che è sicuro però è che neanche allora la frenetica corsa dei suoi abitanti rallenterà davvero.

Buongiorno Mosca!
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Si è servi per la natura di servire più che per i padroni

Centinaia di persone in attesa sotto il palco dove parlerà Luigi Di Maio ad Acerra, 3 marzo 2018. ANSA/CIRO FUSCO

C’è rumore di ferraglia tra le retrovie del post elezioni che si apparecchia per tentare di apparecchiare un governo che riesca a stare in piedi: è lo sfrigolamento di notabili carcasse che dovrebbero essere i vip del pensiero della classe diligente del Paese che si illude di essere dirigente pensando che non si noti il cambio di consonante. Li riconosci in prima battuta perché si sono sperticati in tutto: lo furono sperticatamente nei confronti di Renzi, lo furono sperticatamente contro il Movimento 5 Stelle perculato con snobismo in ogni suo centimetro, e oggi sono gli stessi che praticano inversioni a u sentendosi Machiavelli.

Si parte da Eugenio Scalfari: prima era un convinto sostenitore di Renzi e del renzismo tanto da bullarsi delle colazioni passate insieme a favellar di banche e decreti legge poi, sentendo odore di Caporetto, si è affidato a Berlusconi come cavaliere salvatore, trattando Di Maio come un ragazzetto indegno anche del proprio moccolo e infine ieri ha beatamente dichiarato che «(Di Maio) ha dimostrato un’intelligenza politica notevole, perché di fatto il Movimento è diventato un partito. Lui addirittura ha steso la lista dei ministri e l’ha voluta portare al Quirinale». E ipotizzando l’appoggio del Pd ha immaginato non più due partiti distinti ma «diventa un unico partito, Di Maio il grande partito della sinistra moderna. Allora la faccenda cambia – ha beatamente dichiarato -, se lui diventa la sinistra italiana voterò per questo partito».

Poi c’è Sergio Marchionne (che chissà perché viene interpellato per ogni noce caduta come se fosse un illuminato) che scarica Renzi e prova timidamente ad avvicinarsi al M5s dicendo “abbiamo visto di peggio”.

E infine c’è Confindustria che per bocca del suo presidente dichiara di “prendere atto del voto” (cara grazia) e dichiara di “non avere paura di Di Maio e Salvini” (dopo mesi passati a bollarli come pericolosi sovvertitori) definendo addirittura il M5s “democratici”.

E poi, nel sottobosco, è tutto un riposizionarsi di corsa per farsi trovare pronti all’addomesticamento. Non stupisce la velocità con cui scendono dal carro del vincitore ma soprattutto la velocità con cui si sono messi a martellare quello nuovo per il padrone successivo.

Così, d’incanto, si sbriciolano (ancora, per l’ennesima volta) le credibilità incredibili di un’intellighenzia italiana flessibile e giravoltosa. Del resto si è servi più per natura che per la presenza di un padrone, da queste parti. Tanto alla fine un aforisma di Pasolini rimodellato per la situazione si trova sempre da qualche parte.

Buon mercoledì.

Il senso di Nardella per le fioriere

Se vi capita di passare da Firenze sappiate che le fioriere sono sacre, intoccabili. Vi sentite male e per sbaglio ne danneggiate una? Peggio per voi, la fioriera non si tocca. A scanso di equivoci, non è una barzelletta ma una storia tragica che mescola irresponsabilità, meschinità e totale assenza di proporzione dei fenomeni.

Il 5 marzo a Firenze è successo un fatto gravissimo. Un uomo è stato ucciso per strada senza un motivo, con sei colpi di pistola. Un pensionato italiano pieno di debiti, Roberto Pirroni, esce di casa per suicidarsi, poi cambia idea, e uccide – a suo dire – la prima persona che incontra, Idy Diene, cittadino senegalese. Motivo del gesto, almeno secondo le dichiarazioni dell’uomo, la volontà di finire i suoi giorni in carcere non avendo trovato il coraggio di suicidarsi.

Nel corso della giornata si è poi capito che Idy Diene non è stata esattamente la prima persona incontrata per strada dal pensionato, perché l’omicida avrebbe graziato una famiglia che stava incrociando il suo stesso percorso, ma evidentemente l’uomo di colore non deve avergli trasmesso la stessa pietas e ha premuto il grilletto. Per 6 volte.

Appena la notizia ha cominciato a circolare tra la comunità senegalese fiorentina e toscana, – Idy Diene abitava a Pontedera e come tanti suoi connazionali faceva il venditore ambulante a Firenze – le reazioni sono state comprensibilmente piene di dolore, stupore e rabbia. Scendono in strada chiedendo un incontro in questura «per avere chiarimenti sulla morte» e un altro con il sindaco Dario Nardella.

Il ricordo di tutti è andato subito ai tragici omicidi di sette anni fa, sempre a Firenze, quando in piazza Dalmazia l’estremista di destra, Gianluca Casseri uccise due senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, e un terzo è rimasto paralizzato a vita.

Il 6 marzo la Procura di Firenze fa sapere che non si tratta di un gesto a sfondo razzista non avendo trovato in casa, e nei profili social, di Pirroni alcun elemento che farebbe pensare ad un suo collegamento con gli ambienti dell’estrema destra.

I dubbi rimangono, e i senegalesi che si sono riuniti in presidio sul luogo della sparatoria, sul Ponte Vespucci, sono sempre meno convinti che sia stato solo un caso. Una signora senegalese, all’ennesima domanda dei giornalisti se si tratta di episodio razzista oppure no, si chiede a sua volta: «Al caso non ci credo, e perché ha sparato proprio ad una faccia nera? Più che un omicidio razzista mi sembra un omicidio politico. Tutta la campagna elettorale si è basata sui migranti».

Pape Diaw, storico portavoce della comunità senegalese fiorentina, ribadisce: «Si respira un clima di odio e repulsione già da molto tempo. Questa campagna elettorale incentrata quasi esclusivamente sui migranti non ha fatto altro che peggiorare le cose».

Al presidio si sono verificati momenti di tensione, un ragazzo ha accusato un lieve malore, e le persone presenti, tanti senegalesi e qualche fiorentino, hanno provato a dare vita ad una manifestazione sui Lungarni, subito stoppata dalle forze dell’ordine in quanto non autorizzata. A pochi minuti dall’inizio della manifestazione, si è presentato anche il sindaco Nardella costretto poi ad allontanarsi perché contestato, al grido di “Via, via razzista”, sia dai cittadini senegalesi sia da italiani delle formazioni di sinistra e dei centri sociali.

Insomma, c’è stata tensione ma neanche troppa. Niente in confronto a lunedì 5 sera, quando la comunità senegalese è arrivata in piazza della Signoria per chiedere un colloquio con Nardella e di fronte al suo rifiuto (alla fine ha incontrato una delegazione), si è riversata sulle strade limitrofe prendendo a calci le fioriere antiterrorismo poste nelle vie centrali della città.

Ed è questo lo snodo della brutta pagina vissuta ieri a Firenze, e che è all’origine della contestazione che il 6 marzo ha preso di mira il sindaco (sarebbe il più amato d’Italia, secondo l’ultima rilevazione di Index research): lunedì pomeriggio, poche ore dopo l’omicidio di Idy Diene, ha tuonato contro la violenza, equiparando quella insensata contro un uomo inerme ai danni provocati a delle fioriere. Ecco il twit apparso sulla pagina ufficiale del primo cittadino:«Stamani è successo un fatto molto grave. L’omicidio su ponte Vespucci di Idy Dienec per mano di uno squilibrato, ora agli arresti, ha colpito tutta la città. La Procura ha chiarito che non si tratta di un gesto a sfondo razzista. Comprendiamo il dolore dei familiari e della comunità senegalese, ma la protesta violenta di questa sera nel centro della città è assolutamente inaccettabile. E sia chiaro che i violenti, di qualsiasi provenienza, non meritano giustificazioni. Vanno affidati alle forze dellordine e alla legge».

Nardella purtroppo non è nuovo ad uscite poco felici su episodi gravi successi in città. A settembre 2017, quando due studentesse americane accusarono due carabinieri di stupro, scrisse: «È importante che gli studenti americani imparino, anche con laiuto delle università e delle nostre istituzioni, che Firenze non è la città dello sballo. È una città vivace, accogliente, plurale, ricca di opportunità culturali e di svago, ma credo che dal punto di vista delle regole e del buon comportamento non abbia niente di diverso da tante città americane. Questo ovviamente al netto del gravissimo episodio di cui stiamo parlando, perché il fatto ha riacceso i riflettori anche sul modo con cui i giovani studenti stranieri vivono la nostra città. Mi piacerebbe che fossero più integrati nella vita culturale e collettiva, e non considerassero Firenze soltanto una Disneyland dello sballo». Che è come dire che le due ragazze se la sono cercata.

Ma c’è comunque una buona notizia: ora che Matteo Renzi è solo«un semplice senatore» e quindi non avrà più bisogno dello storico portavoce di Palazzo Vecchio, Marco Agnoletti, poi volato a Roma, potrà richiamare quest’ultimo a Firenze e farsi consigliare prima di scrivere di suo pugno qualsiasi dichiarazione.

Rimane il dolore per la morte inspiegabile di un uomo che, tragedia nella tragedia, era cugino di Samb Modou, ucciso da Casseri 7 anni anni fa in Piazza Dalmazia, e del quale aveva adottato la figlia rimasta in Senegal.

A fine giornata grande parte della comunità senegalese ha avanzato una proposta importante: una raccolta fondi sia a sostegno della famiglia di Idy Diene sia per ripagare le famose fioriere distrutte durante la protesta. Ancora non è confermata, ma l’intenzione come precisa Pape Diaw «c’è tutta, e faremo come al solito del nostro meglio per dimostrare tutta la nostra buona volontà».

Il peggiore dei razzismi

Sabato 7 agosto 2010, a Milano, Oleg Fedchenko, un giovane ucraino, pugile dilettante, arrabbiato perché lasciato qualche giorno prima dalla fidanzata, esce di casa alle 8 della mattina con la ferma intenzione di uccidere qualcuno. A 200metri da casa incontra Emilu, una filippina di 41 anni. Scarica tutta la sua furia sulla povera donna. La donna muore per arresto cardiaco sotto i pugni di questo criminale.
Lunedì 5 marzo 2018, a Firenze, Roberto Pirrone, un uomo italiano di 65 anni, dopo una lite con la moglie per questioni di soldi, esce di casa con l’intenzione di suicidarsi. Per strada cambia idea e pensa che forse è meglio la prigione: si mangia gratis. Decide allora di sparare al primo che gli capita a tiro: un pacifico senegalese di 54 anni, Idy Diene. Lo uccide con sei colpi di pistola. I media qualificano Idy Diene come immigrato regolare con il permesso di soggiorno. Che senso ha questa informazione sulla regolarità o meno di una persona assassinata? E se non fosse stato regolare, cosa sarebbe cambiato?
La comunità senegalese di Firenze, le cui ferite sono ancora vive per i fatti del 13 dicembre 2011 quando il fascista Gianluca Casseri uccise, a colpi di pistola, Samb Modou e Diop Mor, interpreta sul momento questo assassinio come «un bianco che uccide dei neri». Molti allora decidono di manifestare spontaneamente la loro rabbia per strada. Qualcuno fa cadere qualche fioriera. Il sindaco di Firenze dichiara di «comprendere il dolore della comunità senegalese” ma “condanna la violenza della protesta». Ora parlare di violenza per un vaso rotto di fronte alla morte di un uomo è cosa molto discutibile, dire poi come ha aggiunto il sindaco che «i violenti, di qualsiasi provenienza, vanno affidati alla giustizia», equiparando la violenza dell’omicida a quella della rabbia per la morte di un uomo, è segno che c’è un malessere profondo nella società italiana e di un profondo malessere nella politica italiana.
Oleg Fedchenko e Roberto Pirrone hanno scelto con cura le loro vittime. Il primo per punire la sua ex fidanzata si scaglia contro una donna asiatica, percepita come debole e da “punire” al posto della fidanzata italiana. Femminicidio per interposta persona. Il secondo, per punire la moglie, si scaglia contro un africano percepito come debole – effettivamente indebolito dalla narrazione corrente, che non è solo leghista, ma anche di una lunga scia di sindaci sceriffi che facevano la caccia ai neri ambulanti -, e da “punire” come responsabile della propria reale o presunta indigenza e come mezzo per andare in prigione per essere sfamato. 

Moni Ovadia: «La sinistra deve riscoprire il senso delle cose»

Moni Ovadia durante la conferenza stampa per il diritto di cantanti e musicisti alla raccolta diretta dei propri compensi e non attraverso i produttori discografici, nella Sala Nassiriya del Senato. Roma 23 marzo 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

«Il vero vincitore di queste elezioni è il Movimento 5 Stelle» a parlare è Moni Ovadia, attore teatrale e drammaturgo, volto noto della sinistra italiana di cui ha sempre sostenuto le battaglie. Commenta con Left il risultato uscito dalle urne il 4 marzo.
«I 5s hanno lavorato molto bene. Hanno girato il territorio e hanno affascinato i cuori e le menti delle persone. Aveva ragione Grillo quando diceva che dovrebbero ringraziare il Movimento per aver canalizzato un malcontento vastissimo che poteva trovare sfogo in qualcosa di molto peggio. L’altro vincitore è indubbiamente la Lega, che ha cavalcato la paura dell’immigrazione».

Cosa pensa di questa Lega che, nel giro di 5 anni, è passata dal superare appena la soglia di sbarramento, ad essere leader della coalizione di destra?

A Salvini va dato atto del fatto che dal punto di vista politico ci ha saputo fare. La sua vittoria è dovuta anche a slogan come “prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro”. Quest’ultimo in particolare è una grandissima fesseria. Aiutarli a casa loro vorrebbe dire costringere tutte le multinazionali che operano in Africa a smettere di sfruttare il continente. Per ogni miliardo che la cooperazione internazionale porta in Africa, le multinazionali portano via cinque o sei volte tanto. È aprendo lager e facendo accordi con i loro peggiori tagliagole, come abbiamo fatto di recente, che li aiutiamo?

Come giudica invece la posizione delle altre forze in campo?

Ne sono uscite tutte con le ossa rotte, chi più, chi meno. Berlusconi ormai è completamente “bollito”, a votarlo sono rimasti solo i fedelissimi che lo votano solo per identificazione e coinvolgimento emotivo. LeU è stato percepito come il solito apparato di sinistra, incapace di comunicare con il mondo odierno. Inoltre già si vocifera di un possibile accordo tra LeU e Pd, e questo sicuro non è piaciuto agli elettori. Ci sono però dei motivi per cui essere felici: l’onda nera dei partiti neofascisti, e in parte anche di FdI, è rimasta al palo, vuol dire che la retorica sulla patria e patriottismo fa poca presa. In ultimo, Renzi ha ricevuto la lezione che meritava, da arrogante, fanfarone e mediocre quale è.

Cosa si aspetta che succeda adesso? Le forze vincitrici riusciranno a formare un governo?

M5s e Lega hanno qualche affinità ma non abbastanza per allearsi, inoltre al Movimento non converrebbe in quanto molti suoi sostenitori sono elettori di sinistra che non perdonerebbero mai un’alleanza con la Lega. Un eventuale governo di larghe intese, escludendo il M5s, non penso durerebbe più di un paio d’anni, e al voto successivo i pentastellati prenderebbero molti più voti dei tanti che già hanno. Personalmente mi aspetto che si formi un governo di scopo per cambiare questa legge elettorale e tornare alle urne.

Che futuro si immagina per la sinistra adesso?

La sinistra deve ricominciare da zero. Deve ripartire dai suoi temi fondanti e radicali, come giustizia sociale, difesa degli ultimi, battersi contro il capitalismo selvaggio e criminogeno degli ultimi anni. PaP ha ottenuto un buon risultato, per una forza costruita dal basso che per la prima volta si presentava alla sfida delle urne, ma non bisogna sapere solo cosa fare ma anche come farlo. Dobbiamo ricominciare dal linguaggio perché il linguaggio usato fino ad oggi non ha funzionato. Le forze progressiste devono ritrovare il modo per convincere le persone, per loro natura fragili, che possono anche fare cose meravigliose, ma per spingerle in quella direzione bisogna comprenderne e affrontarne le miserie.
Negli ultimi anni la socialdemocrazia è venuta meno alla sua grande sfida, quella di dimostrare al mondo che si può avere una società fondata sul libero mercato ma con un forte stato sociale sul modello di quello svedese. Invece, una volta sparito lo spauracchio del blocco comunista, il capitalismo ha schiacciato la socialdemocrazia, che si è appiattita sui valori del libero mercato sfrenato, scimmiottando i conservatori. Ovviamente l’elettore, al momento di scegliere, preferisce l’originale alla brutta copia.

Il successo di M5s e Lega sono l’ennesima prova di un distacco tra i cittadini e la politica. Può questa distanza essere dovuta anche al fatto che la politica degli ultimi anni, sia a destra che a sinistra, ha smesso di proporre una visione di ampio respiro della società che vorrebbe creare, e invece pensa solo ad inseguire il tema della settimana?

Il problema della nostra epoca è la morte del senso, fagocitato dal marketing. Il senso della vita secondo me è crescere i propri figli, migliorare se stessi, dare al mondo un contributo. Questo l’ho appreso dal sabato ebraico, pur essendo io agnostico.  “Lavorare tutti, lavorare meno” una volta era uno slogan, ma ora sta diventando una realtà in Germania. Al tempo stesso bisogna però assicurare al lavoratore uno stipendio che gli permetta non solo di mantenersi e di mantenere i suoi figli e garantirgli un futuro, ma anche di trovare il tempo e il modo di svilupparsi come persona. Se continuiamo come abbiamo fatto fino ad oggi, c’è il rischio che si diventi, non più tutti proletari, ma solo consumatori inebetiti.

Non si ricomincia da tre

Italian Senate President and leader of 'Free and Equal' (Liberi e Uguali / LeU) party, Pietro Grasso, delivers a speech during a press conference in Rome, Italy, 05 March 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Se è necessario che la prassi si rovesci, si può rovesciare il titolo di un celebre film. Liberi e uguali è andata male, e non è di sollievo alcuno, che poteva andare peggio, come PaP. Tuttavia anche questo è un dato di nessun conforto, se si ragiona non in termini di consorteria, ma di popolo di sinistra da rappresentare. Bisognava tentare di invertire le politiche di austerità, che sono state pagate dalle masse popolari: accendere almeno una luce di speranza. Ai risultati deludenti si è aggiunta la scomparsa di un gruppo dirigente persino nei primi commenti. Se si crede in un progetto ci si deve mettere la faccia, se non altro per una valutazione critica ed assunzione di responsabilità. LeU è nata come accordo dentro al Parlamento sotto la guida ed il controllo di Mdp-Si-Possibile, controllo stretto, una necessità all’inizio, ma un errore la sua proiezione nelle candidature e nella conduzione della campagna elettorale, anzi nelle conduzioni della campagna elettorale, senza una regia unificante, neppure quella del presidente Grasso, sia pure indicato come leader sempre dai soliti tre soggetti politici. Pietro Grasso ha lanciato alcune suggestioni sull’apertura di un processo costituente di un partito di sinistra largo e plurale. Si doveva vederne una traccia già nella campagna elettorale, non è avvenuto: non basta un incontro con Corbyn per ovviare all’assenza di una strategia di ampio respiro, almeno per le prossime regionali 2018 dopo Lazio e Lombardia (Molise, Friuli-Venezia Giulia, Basilicata, T-A.A./S e VdA) e il 2019 con l’appuntamento maggiore delle elezioni europee e delle Regioni elette nel 2014 (Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna, Piemonte e Sardegna). Quale sarà la proposta? Una strategia di ricostruzione della sinistra o un patchwork di consiglieri regionali alla ricerca di una riconferma a qualsiasi prezzo e non importa con quali alleanze? Degli sviluppi futuri volete discutere solo tra di voi o aprire occasioni di confronto tra tutti quelli che si sono impegnati, compresi quelli a priori non eleggibili, candidati clandestini. Vorremmo capire le ragioni della mancanza quasi totale di attrattiva per i militanti e gli elettori in fuga dal Pd, che hanno addirittura preferito l’astensione al voto per LeU. Nel 2013 i voti validi sono stati 34.005.755 di cui 8 646 034 al Pd. La partecipazione si è attestata al 72,9%, cioè 2 punti in meno del 2013, a mio avviso da individuare in elettori Pd. Se quella strategia è fallita, ne va aperta un’altra, cioè appellarsi a tutta la sinistra socialista, comunista, libertaria, ambientalista e del terzo settore in particolare del volontariato. La sinistra è in crisi in tutta Europa e non uscirà dalla crisi con una competizione per l’egemonia tra Pse e Sinistra europea, tutte aggregazioni percorse da contraddizioni e non attrattive nel complesso per le masse popolari e dei lavoratori europei.

Felice Besostri è avvocato ed è stato candidato alla Camera per Liberi e uguali alle Politiche 2018