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Buongiorno Mosca

epa06556978 Russian President Vladimir Putin (L) attends a wreath-laying ceremony at the Tomb of the Unknown Soldier memorial in Moscow, Russia, 23 February 2018. Russia marks today a Day of the Fatherland Defender. EPA/SERGEI CHIRIKOV

Il Cavalier Berlusconi, ci ha deliziato (si fa per dire) con una intervista a Otto e mezzo di Lilli Gruber. Per sostenere la bontà della flat tax (aliquota unica) ha citato anche l’esempio della Russia dove esiste effettivamente una flat al 13%. Essa fu introdotta nel 2001 dall’allora ministro delle finanze Alexey Kudrin. Berlusconi ha sostenuto che i risultati economici ottenuti dalla Russia sarebbero dovuti a questo sistema di tassazione che avrebbe «risolto i problemi di evasione e elusione fiscale». Affermazioni fatte con la solita sicumera di cui l’ex presidente del Milan ci ha da sempre abituato. L’unico problema dell’economia russa per leader di Forza Italia! Sarebbe legato all’eccessiva corruzione, «un prodotto del passato comunista». Ma è davvero così?

Vediamo nel dettaglio. In primo luogo la flat in Russia fu introdotta assieme a una tassazione alla fonte sulle esportazioni del 40-45% delle aziende del settore energetico. Sono queste aziende che forniscono gran parte del gettito russo che alimenta la spesa pubblica. La Russia crebbe economicamente a un ritmo sostenuto del 6% medio tra il 2001 e il 2011. Risultati importanti sicuramente, ma che furono il prodotto in primo luogo dall’alto prezzo del petrolio che in quella fase oscillò per lunghi periodi tra i 100 e i 150 dollari al barile. A partire dal 2011 la crescita economica iniziò a stagnare e addirittura secondo Kudrin l’effetto dei rialzi del prezzo del greggio iniziò ad essere sempre più ridotto. Nel biennio 2015-2016, l’economia russa entrò in recessione perdendo il 5% del Pil in due anni mentre il valore del rublo perdeva il 100% del suo valore sui mercati valutari. Non abbiamo qui dati molto recenti per quanto riguarda l’evasione fiscale in Russia ma secondo l’ufficio statale di statistica nel 2016 l’evasione fiscale aveva raggiunto i 102 miliardi di rubli (mentre il Pil era di circa 8.600 miliardi di rubli) ed era aumentata rispetto all’anno precedente del 25,9% e di due volte rispetto al 2014. Risulta evidente che con l’incedere della stagnazione economica l’evasione torna ad aumentare rapidamente indipendentemente dall’esistenza della flat tax. Inoltre, come è noto, la Russia è il paese che ha il record di fuga di capitali al mondo: nei paradisi fiscali finiscono circa 50 miliardi di dollari all’anno.

Quando Putin ascese alla presidenza nel 2001 sostenne che la Russia avrebbe avuto bisogno di una crescita del 8% di crescita del pil per 15 anni per raggiungere il paese più povero dell’Europa Occidentale. A distanza di 15 anni l’obbiettivo non è stato raggiunto. Il Pil russo pro capite a parità di potere d’acquisto è inferiore di circa il 15% di quello del Portogallo, il 75% in meno di quello italiano e oltre del 100% di quello francese.
Il sistema fiscale russo funziona talmente bene che seppur in campagna elettorale il ministro delle Finanze russe Anton Siluanov ha dichiarato a Soci il 15 febbraio scorso che «stiamo pensando a rivedere il sistema fiscale russo… abbiamo bisogno di maggior gettito» al fine di garantire maggiori investimenti e rinnovare le infrastrutture. La flat tax finirà nel cestino anche in Russia dopo non aver raggiunto nessuno degli obiettivi per cui era stata lanciata nel 2011.

Berlusconi è da sempre abituato a raccontare un’Italia che non esiste. Per una volta, ha raccontato una favola diversa: quella di una Russia che non esiste.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Siria, Yemen, bambini morti, bombardamenti e indignazione selettiva

Ci arrivano da “Ghouta” immagini terribili – rese ancora più terribili in Italia dal black out mediatico per tutto il resto del tempo in cui sembra che non succeda nulla e all’improvviso l’inferno -. A leggere e sentire i media sembra che quel “feroce dittatore” che è Bashar Al Assad, si svegli una mattina con la luna storta e schiaccia un bottone, senza motivo e senza avvertire, per scatenare l’inferno su città e sobborghi nei quali regnava un attimo prima la pace, l’amore e la serenità. Così da un giorno all’altro assistiamo impotenti all’invasione di immagini di bambini dilaniati. Così da un giorno all’altro il termometro dell’indignazione schizza alle stelle. Come per dire: per il resto del tempo che muoiano bambini o vecchi o donne, non li vediamo e il cuore non duole, ora li vediamo o ci sembra di vederli e quindi non sappiamo dove nascondere la faccia davanti a queste terribili immagini. E non importa se alcune di quelle immagini sono di bambini yemeniti morti sotto bombe fabbricate in Sardegna. Bambini yemeniti, sembra, non in grado di commuovere qualcuno: possono morire sotto le bombe o di colera non fa nessuna differenza per la nostra indignazione selettiva. Anzi immoralmente condividiamo le loro immagini perché siamo… altamente indignati… per un altro conflitto. Terribile scissione della personalità.

Ma perché la Siria schizza ogni tanto agli onori della cronaca e agli onori dell’indignazione selettiva? Siamo così, può chiedere legittimamente qualcuno, manipolati dai jihadisti? No, siamo manipolati dai manipolatori dei jihadisti. È un copione già visto a Qusayr, a Baba Amr, ad Aleppo e nella stessa Ghouta di oggi qualche anno fa. Copione che fa salire ogni volta di colpo la tensione alle stelle con tanto di riunioni all’Onu – come oggi – per fare pressione sulla Siria per aprire un corridoio umanitario, ufficialmente per portare aiuti alle popolazioni, ma in realtà è per far uscire forze speciali straniere in tutta sicurezza.

Ai manipolatori non importano i jihadisti, loro mercenari, non importano i bambini siriani. A Baba Amr, nel 2012, un numero imprecisato di agenti francesi furono catturati dall’esercito siriano. In quel momento, i media sono stati invasi da immagini e video del tutto simili a quelli di oggi, la stessa polvere, la stessa nebbia, la stessa scenografia, cambiano solo le persone, cambiano i morti. Baba Amr fu battezzata dai media la Stalingrado della Siria. Lo Stato siriano ha trattato, in segreto ovviamente, e ha consegnato quei soldati alla Francia, non si sa per quale contropartita. Poi dopo tutto fu facile, lo Stato ha negoziato con i jihadisti e li ha trasportati con autobus verdi verso Idlib: come è successo a Qusayr, ad Aleppo, a Homs e altrove, per questo, fateci caso, una volta la città o il quartiere ripreso dall’esercito siriano, cessa come per incanto di esistere nelle cronache, non ci è dato sapere che fine fanno i sopravvissuti di quelle città e di quei quartieri.

E così le città sono tornate allo Stato siriano, molte persone alle loro case e in qualche caso si è persino avviata la ricostruzione. Ci sarà anche questa volta la trattativa e gli autobus verdi? Staremo a vedere.

Questa volta il quadro sembra più complicato perché la posta in gioco è altra ed è alta: gli Usa intendevano introdurre jihadisti dell’Isis, cooptati dopo la sconfitta dello Stato islamico con l’aiuto delle Forze di Siria Democratica (SDF) e delle asha’er (le tribù), cooptazione documentata dalla BBC nel reportage “Raqqa’s Dirty Secret” (cercatelo su Internet, è molto istruttivo). Questi ex jihadisti dell’Isis, con i quali i nordamericani volevano in un primo tempo creare una forza da disseminare lungo la frontiera turca, progetto fallito sotto i colpi dell’esercito turco. Colpi che hanno svegliato i curdi del YPG della loro sbornia di collaborazione con gli Usa e sono tornati a collaborare con lo Stato e l’esercito siriano. Ora sembra che gli americani li vogliano portare dal deserto siriano e da Tanaf, a circa 75 km da Ghouta per aprire un fronte nella campagna di Daraa a 46 km dalla stessa Ghouta. L’esercito siriano, per sventare questa operazione, ha inviato le sue Forze speciali Nimr (Tigre) che non hanno mai perso una battaglia fino a questo momento. Tutto parte da cui: se queste forze entrano in questo momento a Ghouta rischiano di far prigionieri imbarazzanti per Usa e alleati. Da qui una guerra mediatica contro la Siria. Da qui l’invasione di immagini inviati da feroci assassini per “intenerire il mondo”.

La Ghouta (est), zona di 150 km2 circa, è controllata attualmente dai jihadisti di Jeish Al-Islam (L’esercito dell’Islam) con 15mila combattenti, da Failaq Al-Rahman (Corpo d’armata del Misericordioso), alleato di Jabhat Al-Nusra – Al Qaeda in Siria – con 6mila combattenti e da altri gruppi meno importanti numericamente come Ahrar Al Sham (Liberi di Siria, o Siriani Liberi) e Al Fustat (dal nome antico del Cairo). Tutti questi gruppi sono finanziati dalle monarchie del Golfo. Questi gruppi jihadisti, in conflitto fra di loro, si mettono d’accordo per due cose: nell’esporre civili e prigionieri in gabbia (gabbie chiamate “sujun attawba”, prigioni del pentimento; il pentimento per i jihadisti si compie anche con la morte) nelle strade come scudi umani contro i bombardamenti dell’esercito siriano e nel bombardare quotidianamente Damasco, bombardamenti che provocano centinaia di morti, di cui, stranamente, non si sente mai parlare. Ci sono morti più morti di altri.

Rom e sinti, identità negate in Italia

Quasi a rivendicare una certezza di tutti ma che a loro sembra essere negata, in lingua romanès, Rom, vuol dire essere umano. E non una minoranza con una specificità razziale, culturale, linguistica e religiosa opaca e avulsa dalla dialettica sociale. Caratteristiche rigidamente definite, secondo un approccio piuttosto diffuso in gran parte della letteratura, non solo ne hanno sfregiato la costruzione identitaria ma sono scivolate in una deriva etnica, intrisa di strabico relativismo. Un’immagine omogenea, essenzialista e parziale che ha condizionato incessantemente il discorso pubblico e l’azione politica sui Rom.

Prova ne sono l’impostazione culturalista utilizzata nella prassi della Strategia nazionale per l’inclusione dei rom 2012-2020 e gli interventi legislativi regionali. «Si comprende bene come dal 2012 a oggi, le principali azioni condotte a livello istituzionale e le proposte legislative non abbiamo posto al centro il superamento dei mega insediamenti monoetnici, azioni di contrasto alla povertà estrema e alla discriminazione, o la lotta alle azioni di sgombero forzato e alla violazione dei diritti fondamentali», dichiara il presidente di Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, partecipando al convegno “Riconoscimento, tutela e promozione sociale delle comunità rom e sinti in Italia. Quali azioni promuovere?”, tenutosi al Senato, qualche giorno fa. E aggiunge: «Abbiamo, piuttosto, assistito a proposte per il riconoscimento linguistico, per salvaguardare la realizzazione di micro aree del Nord Italia dove esistono dignitose case mobili, per tutelare specifiche tradizioni artistiche. Battaglie legittime ma che nell’Italia segnata da centocinquanta baraccopoli istituzionali, non possiamo sicuramente considerare prioritarie!».

Ci sono 28mila rom senza voce ma ipervisibili in uno stato di estrema povertà, marginalità e segregazione ‘autorizzata’. Che finiscono nel mirino di atti xenofobi e discorsi d’odio, colpevoli(zzati) di essere portatori scelti di differenze culturali segreganti. Senza sapere che «l’esclusione sociale di cui parte dei rom è vittima – sostiene Antonio Ciniero, ricercatore presso il National Institute of Statistics (Istat) e l’International Centre of Interdisciplinary Studies on Migrations – è, in primo luogo, una questione di politica sociale e come tale dovrebbe essere affrontata, non in termini etnico-culturali» perché la condizione in cui versa altro non è che la conseguenza (visibile) di disuguaglianze sociali, reiterate per generazioni, in parte incentivate o sostenute proprio dagli interventi politici che sanciscono, il più delle volte, una differenza che inevitabilmente produce effetti sociali.

E non solo. «L’ostilità nei confronti di rom, sinti e camminanti nasce da molte motivazioni – specifica il presidente della Commissione diritti umani del Senato, Luigi Manconi -, una di queste è la cancellazione della loro storia. Pochi conoscono il numero dei morti rom e sinti nei campi di concentramento. E’ necessario riconoscere la dignità storica di questi gruppi».

Conoscere e riconoscere è l’unico movimento (virtuoso) per sfatare interpretazioni distorte dell’identità culturale dei rom. Ne è convinto il presidente della Fondazione Romanì Italia, Nazzareno Guarnieri, intervenuto al convegno: perché «un’errata rappresentazione etnica ha condizionato la stesura dei testi normativi e giustificato politiche differenziate e di assistenzialismo culturale». L’equivalenza tra rom e nomadismo, per esempio, ha portato «a ridurre il nutrito corpus delle leggi regionali degli anni ottanta alla salvaguardia della cultura rom con la tutela del diritto al campo nomadi e ha, più che altro, contribuito a cristallizzare un’idea (deformata) della minoranza romanì». Che marginalizza, esclude e nega i loro diritti fondamentali. Uno su tutti, quello all’inclusione, possibile solo eliminando dispositivi politici o giuridici che tendono a separare i rom dal resto degli esseri umani.

Fondazioni liriche, nuova protesta dei lavoratori, contro Franceschini

Sfidando neve e maltempo il Comitato nazionale dei lavoratori delle Fondazioni lirico-sinfoniche invita tutti gli operatori culturali a manifestare a Roma, in piazza del Campidoglio, lunedì 26 febbraio, dalle ore 11 alle 13.30, contro le politiche culturali del Ministro Dario Franceschini, la concezione mercenaria dell’arte e della cultura, la logica del pareggio di bilancio e del profitto a ogni costo, l’idea della cultura come azienda culturale. Nato nel 2016, il Comitato nazionale ha lo scopo di contrastare l’errata gestione delle politiche che hanno indebolito tutte le categorie del settore, in teatri eccellenti come il Regio di Torino, il Carlo Felice di Genova, la Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, il Maggio Musicale fiorentino, il Comunale di Bologna, il Petruzzelli di Bari, compresa l’Opera di Roma. Per quel che riguarda Roma, quello del CNFLS è un vero e proprio appello, nel settore lirico, ai professori d’orchestra, agli artisti del coro, ai tersicorei, alle maestranze e al personale tecnico amministrativo del Teatro dell’Opera di Roma, affinché tutti partecipino a una manifestazione che riporti l’attenzione su un’eccellenza formata da professionisti, a tutela del loro stesso lavoro.
La manifestazione vede la partecipazione, pertanto, dei lavoratori dei tetri lirici, dei docenti e degli allievi del Conservatorio, degli operatori culturali di musei, biblioteche e beni archeologici. Tutti insieme per respingere l’aggressione all’art. 9 della Costituzione, che promuove lo sviluppo culturale, contestando appieno l’azione demolitrice del ministro Franceschini nei confronti dell’attività dei teatri lirici. Mentre nuove forme contrattuali capestro, hanno indebolito e precarizzato molte figure artistiche professionali, determinandone la quasi totale estinzione, come è accaduto per la chiusura dei corpi di ballo. i manifestanti si rivolgono al sindaco di Roma Virginia Raggi e all’assessore alla cultura Luca Bergamo, affinché valutino, con attenzione la situazione economica gestionale del Teatro dell’Opera di Roma, flagellato, già nelle passate amministrazioni, dai tagli economici procurati da pessime gestioni dirigenziali, a discapito di tutti i lavoratori del settore.
Tra gli aspetti criticati della attuale politica culturale c’è anche l’affidamento delle gestioni delle fondazioni, da parte di Franceschini, al perito agrario Francesco Girondini, ex Sovrintendente dell’Arena di Verona, accusato da chi oggi protesta di aver contribuito al peggioramento della situazione patrimoniale della fondazione. Una maggiore idonea organizzazione dovrebbe, infatti, riflettere sulla possibilità di valorizzare tutti gli operatori degli enti lirici e non premiare singole figure dirigenziali.
L’obiettivo della manifestazione è accendere i riflettori sulla grave situazione che coinvolge qualificati professionisti e anche quasi cinquanta mila studenti del Conservatorio. Un numero considerevole di giovani, il cui futuro professionale rischia di essere seriamente compromesso, in una situazione lavorativa già danneggiata dal massiccio utilizzo dei volontari nei musei, nelle biblioteche, ma anche nelle stesse fondazioni liriche. Ciò è reso possibile dall’art. 24 della Legge 160 (del 7 agosto 2016) a dal Nuovo Codice dello Spettacolo, che comporta un’esternalizzazione della maggior parte di cori, orchestre e ballerini: fattore che aumenta il precariato con relativa perdita di diritti e tutele.
A differenza di altri paesi europei, primo tra tutti la Francia, che nell’ambito culturale investe gran parte delle risorse economiche, l’Italia, dove i luoghi di cultura abbondano e sono assiduamente frequentati con offerte varie e di elevata professionalità, quello teatrale soprattutto è un ambito trascurato dal governo. Questo anche a causa della subita decurtazione, da parte del Fondo Unico per lo Spettacolo, dal 1985 al 2005, del 55%, dimostrando così lo Stato uno scarso impegno nel sostegno della cultura, che colloca l’Italia al penultimo posto in Europa, con un investimento totale dello 0,7%. Tutto ciò, nonostante le file ai musei si allunghino e i teatri, soprattutto lirici, facciano il tutto esaurito a ogni manifestazione, vedendo il coinvolgimento di molti artisti internazionali, che spesso firmano la regia delle rappresentazioni.
L’invito, pertanto, è quello di riunirsi tutti, operatori e amanti della cultura, in quel del Campidoglio, affinché, coerenti con la normativa costituzionale per l’incremento culturale, si muova un’unica voce, che si estenda a tutta la nazione e distolga i vertici da questioni più effimere, affinché si concentrino sulla possibilità di portare avanti, con sempre maggior vigore, la tradizione musicale e teatrale italiana per la quale, nel mondo, siamo al primo posto.

Avviso ai naviganti: la legge funziona anche per Facebook

20060905 - ROMA - CRO - ALLARME CYBERCRIME, NEL MONDO +51% ATTACCHI IN 6 MESI. Una immagine di archivio, datata 24 maggio 2005, un agente della Polizia postale al lavoro. Carte di credito clonate, conti in banca svuotati, dati segreti violati: la minaccia naviga sempre di piu' in rete. In Italia le frodi telematiche sono i reati che hanno subito il maggiore incremento nel 2005 rispetto al 2004 (+35,9%). Un trend che rispecchia quanto accade a livello mondiale, dove negli ultimi sei mesi gli attacchi informatici sono aumentati del 51%. A discutere le strategie di contrasto sono oggi 60 delegati in rappresentanza delle forze di polizia di 20 Paesi, presenti al Polo Tuscolano della Polizia di Stato per la 47/a riunione del gruppo di lavoro europeo sul crimine informatico, sotto l' egida di Interpol. ANDREA MEROLA/ARCHIVIO - ANSA - KRZ

Mentre frotte di politici da anni continuano a parlare piuttosto a vanvera di diverse modulazioni di bavagli per il web, da Torino arriva una notizia che merita attenzione perché dissolve di colpo tutto il chiacchiericcio e propone una soluzione semplice semplice che vale per i social così come per i bar, sui giornali o in piazza: il rispetto della legge.

Un operaio quarantaduenne di Settimo Torinese ha patteggiato nei giorni scorsi una condanna a 1000 euro (oltre alle spese processuali) per avere scritto su Facebook (ovviamente con un profilo falso, come si conviene ai leoni da tastiera) dopo la morte di Stefano Pulvirenti, 17 anni, siracusano, deceduto in un incidente stradale dopo 23 giorni di agonia nel novembre 2015:

“Sono felicissimo un terrone in meno da mantenere. Quando vedo queste immagini e so che nella bara c’è un terrone ignorante, godo tantissimo. Peccato che ero al Nord altrimenti avrei c.. su quella bara bianca. Buonasera terroni merdosi. Non è morto nessuno di voi oggi?”.

La frase, ripugnante come tante che colano nei vari social network, è un reato. È un reato indipendentemente dal luogo in cui viene scritta o pronunciata e per questo la Procura ha allertato il nucleo investigativo telematico per risalire all’identità del possessore del falso profilo, rinviato a giudizio e poi condannato.

Diffamazione aggravata da odio razziale è il reato. E se ci pensate bene di frasi di questo spessore ne incontriamo spesso durante la nostra giornata. Lasciamo perdere quindi nuove leggi che rischiano solo di limitare le libertà personali e mettiamo le procure nelle condizioni di poter (e dover) intervenire. È semplice. E funziona.

Buon lunedì.

La trappola letale degli psicofarmaci

"Portrait de Marie-ThÈrËse", Pablo Picasso, 04 dÈcembre 1937, Paris MusÈe national Picasso - Paris ANSA/ UFFICIO STAMPA ARTHEMISIA GROUP © Succession Picasso by SIAE 2016 DIDASCALIE IMMAGINI HD USO STAMPA NOTA IMPORTANTE Le immagini possono essere utilizzate solo per accompagnare articoli o segnalazioni della mostra ?Picasso. Figure (1906-1971)? in programma a Verona, Palazzo Forti dal 15 ottobre 2016 al 12 marzo 2017. Ogni immagine DEVE essere seguita da didascalia e © e NON DEVE essere tagliata e/o sovraimpressa e/o sovrascritta e/o manomessa. Le immagini possono essere utilizzate sul web solo in bassa definizione (72 dpi). Per gli artisti sotto tutela SIAE rammentiamo che possono essere utilizzate per diritto di cronaca e senza riconoscere i diritti SIAE fino a un massimo di due immagini; oltre tale limite l?editore deve riconoscere il diritto d?autore SIAE per tutte le immagini utilizzate. Quanto sopra indicato solleva Arthemisia Group da ogni responsabilit‡ dovuta all?uso improprio delle immagini fornite, nonchÈ dal pagamento di qualsiasi onere addizionale verso la SIAE e verso chi detiene i diritti delle immagini delle opere, che ricadranno invece su coloro che mancheranno all?adempimento delle suddette indicazioni.

Nei primi anni di vita dopo la nascita, quando per ciascuno di noi inizia l’attività di pensiero, si realizza un processo di sviluppo estremamente complesso che nell’uomo ha caratteri specie specifici: l’equilibrio psicofisico viene messo in crisi di continuo in un movimento che tende a un livello di maturazione più alto attraverso nuove fasi di trasformazione. La vitalità che emerge alla nascita è cimentata ad affrontare difficoltà crescenti e a consolidarsi nelle relazioni con gli adulti. Il processo di sviluppo può andare incontro a rallentamenti, più o meno temporanei e risolvibili spontaneamente per la capacità di reagire e la vitalità del bambino. In altri casi si hanno veri e propri blocchi: si entra allora nel circuito della coazione a ripetere che persistendo porta alla malattia che in relazione ad una molteplicità di fattori, a volte si manifesta precocemente addirittura nei primi anni di vita con sintomi caratteristici, in altre circostanze si palesa nell’adolescenza se non addirittura nell’età adulta.

L’infanzia è comunque sempre implicata nell’eziopatogenesi come ben sanno tutti coloro che si occupano di psicoterapia e per questo motivo è importante cogliere i primi segni della malattia per mettere in atto un intervento precoce che ne eviti la cronicizzazione. La ricerca psichiatrica ha chiarito che non esiste una correlazione lineare fra sintomaticità e gravità della patologia. Processi psicotici possono decorrere in modo silente per anni se non per decenni per poi esplodere in modo catastrofico in vari momenti dell’esistenza. La manifestazione precoce del problema psichico non sempre ha significato prognostico negativo in quanto sollecita l’ambiente che è deputato a prendersi cura del bambino, a predisporre un intervento terapeutico specifico e mirato che inevitabilmente coinvolga tutto il nucleo familiare.

Per dimostrare la realtà della malattia mentale nella neuropsichiatria organicista si fa ricorso al concetto di vulnerabilità biologica su base genetica e alla ricerca di alterazioni morfologiche e funzionali con le neuroimmagini. L’idea di una predisposizione costituzionale alla malattia mentale è sempre esistita nella medicina anche se attualmente essa viene…

L’articolo di Maria Gabriella Gatti prosegue su Left in edicola


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Come impoverire una lingua millenaria

Ma Yuan, Walking on Path in Spring by Ma Yuan (马远 c.1190 - 1279年)), a Chinese painter of the Song Dynasty. Walking on a Mountain Path in Spring Born c. 1160 Qiantang (now Hangzhou, Zhejiang) Died 1225 Nationality Chinese Known for Painting Notable work Dancing and singing Walking on a mountain path in spring Movement Southern Song Dynasty, Ma-Xia movement

«Hanzi bu mie, Zhongguo bi wang» (Se i caratteri cinesi non spariscono, la Cina perirà). Con queste parole il padre della letteratura cinese moderna, Lu Xun, attribuiva l’alto tasso di analfabetismo e l’arretratezza del Paese alla complessità della sua scrittura. Erano gli anni in cui l’ex Celeste impero usciva sconfitto da un primo esperimento repubblicano e dalle ripetute umiliazioni internazionali culminate nel Trattato di Versailles (1919). Già assediata dalla spinta riformista di età tardo-imperiale, la cultura tradizionale cinese fu travolta dal fervore progressista divampato negli ambienti accademici e letterari “borghesi”. Una volta fatta a pezzi l’immagine di Confucio, il Movimento di nuova cultura bersagliò la lingua con proposte che spaziavano dalla promozione di una variante vernacolare fino all’adozione dell’inglese e dell’esperanto in sostituzione degli ideogrammi. Da allora la sperimentazione linguistica è proseguita senza sosta sino all’assunzione nel 1956 dei caratteri semplificati (ancora utilizzati nella Cina continentale), seguita due anni dopo dall’introduzione del sistema di romanizzazione (pinyin). Ciò che oggi permette a ogni cinese di scrivere al pc semplicemente digitando le lettere dell’alfabeto sulla tastiera.

Circa dieci anni dopo, con la standardizzazione di 6.196 ideogrammi, la commissione statale per la Riforma della lingua metteva fine alla “fase creativa” inaugurando un periodo di più stringenti regolamentazioni: sì al putonghua (il mandarino standard di Pechino) no all’utilizzo di dialetti nei film e sui mass media. Con il risultato che la vittoria dell’idioma ufficiale si è tradotta nella condanna a morte delle oltre 100 lingue parlate dalle innumerevoli minoranze etniche residenti nella Repubblica popolare. Perché uniformare la lingua vuol dire anche e soprattutto preservare l’identità nazionale (specie nelle aree periferiche del Paese poco permeabili alle politiche centrali) e riaffermare quella “cinesità” insuperbita dalla rapida ascesa economica del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale. A distanza di un secolo, Confucio è di nuovo riabilitato e non si parla più di…

Sul rapporto tra scrittura e potere in Cina, su Left del 23 febbraio, potete leggere un approfondimento del sinologo Federico Masini

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


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Oltre le barriere della Fortezza Europa

Migliaia e migliaia di chilometri percorsi, tre anni di viaggio, 25mila foto, 15 quaderni di appunti, decine di articoli. È frutto di un tenace e coraggioso lavoro La crepa (Add editore) graphic novel con cui il giornalista Guillermo Abril e il fotografo Carlos Spottorno hanno vinto prestigiosi premi, compreso il World press photo. Difficile definire questo loro straordinario volume che fonde inchiesta sul campo, reportage fotografico, con uno sguardo e una modo di narrare partecipe, umanissimo, a tratti anche poetico, nonostante la drammaticità degli eventi che scorrono davanti ai nostri occhi. Tuffandovi nelle pagine di questo grande libro non troverete le classiche strisce disegnate, ma fotografie d’autore scattate (e poi rielaborate) seguendo il cammino dei migranti: tracciano sentieri che sotto i loro piedi si aprono come crepe, lasciando intravedere le pericolose faglie che attraversano il sogno di un’Europa unita culla del welfare e dei diritti. Le storie che i due autori hanno raccolto in queste vivissime pagine parlano, purtroppo, di ostilità, di sospetto, di discriminazione, di un continente che sempre più si è chiuso e arroccato diventando una specie di escludente “Fortezza Europa”, tradendo così le proprie radici multiculturali. Marocco, Spagna, Turchia, Bulgaria, Grecia, Italia e oltre. Ogni tappa, una ferita aperta. Ogni tappa incontri con persone che hanno rischiato tutto per fuggire dalla miseria e dalla guerra, che sono fuggite su barconi di fortuna, che sono state costrette a pagare criminali scafisti e che, una volta approdate alle soglie dell’agognata Europa, si sono trovate di fronte un invalicabile muro.

È questo il cuore e il senso della narrazione che comincia nel 2011 nella Spagna degli Indignados e delle primavere arabe che avevano fatto sperare in una nuova stagione di conquiste democratiche. Inizia nel Paese di origine dei due autori, senza trascurare drammatici antefatti: fino al 1991 la Spagna aveva un confine aperto con il Nord Africa.

I lavoratori migranti andavano in terra iberica per il lavoro stagionale e poi tornavano a casa. Nel 1986, la neo-democratica Spagna aderì all’Unione europea e chiuse i propri confini nord africani. Quattro anni dopo è stata ammessa nel gruppo Schengen. La chiusura dei confini non fermò i lavoratori migranti, che cominciarono a prendere piccole imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo. Il 19 maggio 1991 i primi corpi di migranti “clandestini” furono trovati a riva. Da allora, si stima che oltre 20mila persone siano morte nel Mediterraneo mentre cercavano di entrare in Europa. La Spagna è stato uno dei primi Paesi europei ad alzare insormontabili barriere e a dare la caccia ai migranti.

Abril e Spottorno raccontano e mostrano cosa è accaduto dopo. Nel 2014 approdano nella città blindata di Melilla, enclave spagnola in Marocco, raccontano la barriera crudele che divide l’Africa dall’Europa e il drammatico momento del salto, dove non pochi rischiano la vita e l’amputazione degli arti; ma raccontano anche la vita nell’accampamento di fortuna, cercando di sfuggire alla fame e alla scabbia, per mesi e anni, aspettando il momento per saltare. Alle sguardo dolente e profondo dei migranti fa riscontro – ed è agghiacciante – la fatuità dei poliziotti che ai giornalisti embedded annunciano «ne vedrete delle belle», come se le ronde fossero un gioco virtuale. «Saltare è un atto violento», dicono. E la Guardia civil non perdona. Dopo aver toccato terra, chi ce la fa senza farsi troppo male, inizia a correre. I “saltatori” sfrecciano terrorizzati per le strade di Melilla. L’obiettivo? Arrivare a un documento ufficiale con l’ordine di espulsione. Almeno è uno straccio di documento. E l’ordine non viene quasi mai eseguito.

Cambio di scena, siamo in Tracia, alla frontiera fra Grecia, Bulgaria e Turchia finanziata dall’Europa per far da carceriere, per bloccare in ogni modo i migranti. Eccoci ad Edirne, la Grecia ha chiuso le porte e i due autori documentano la deportazione dei siriani. Più di un milione di profughi è passato da qui per raggiungere l’Europa. E ancora. Lampedusa, raccontata in questa potente e drammatica immagine di apertura che ricorda silenziosamente le 366 persone che qui hanno perso la vita nel 2012. Purtroppo non sono state le sole. Eccoci infine al centro di accoglienza di Mineo in Sicilia, il complesso residenziale che ospitava i militari della base Usa. È diventato centro di detenzione di richiedenti asilo. Prigioni, esercitazioni militari, i due autori denunciano in modo essenziale, incisivo, diretto – con poche frasi e la forza delle immagini – l’inaccettabile gestione securitaria e militare di un fenomeno migratorio che esiste da sempre e che oggi anche nella civilissima Europa avviene nella più grave violazione dei diritti umani.

 

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola


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L’Eni e il risiko del gas in Medioriente

An undated photo of the the Saipem 12000 drilling floater. Turkish warships continue to impede a rig from reaching a location off Cyprus where Italian energy company Eni is scheduled to drill for gas, the Cypriot government said Monday, Feb. 12, 2018. Spokesman Nicos Christodoulides told state broadcaster RIK that the rig remains anchored about 30 miles (50 kilometers) from the drilling target off the island's southeastern coast. (Saipem via AP)

C’è un filo conduttore che collega Egitto, Cipro, Turchia e Libano: l’Eni. L’azienda energetica italiana è sempre più protagonista nell’area orientale del Mediterraneo dove, indifferente alle violazioni dei diritti umani dei Paesi regionali o al complicato scacchiere geopolitico, possiede importanti concessioni di giacimenti di gas. Uno di questi è quello di Zohr in Egitto, grande 100 chilometri quadrati con un potenziale di oltre 850 miliardi di metri cubi di gas (circa 5,5 miliardi di barili di greggio equivalente) e per il quale l’Eni ha una quota di partecipazione del 60%. Scoperto nell’agosto del 2015 nel blocco di Shourouk, a circa 190 chilometri a nord di Port Said, secondo gli esperti del settore Zohr trasformerà il panorama energetico egiziano permettendo al Cairo di diventare autosufficiente e di trasformarsi da importatore di gas naturale in futuro esportatore.

Una bella notizia per il regime brutale di al-Sisi che, lacerato da una profonda crisi economica, soggetto a ripetuti attacchi jihadisti (soprattutto nel Sinai), può ora tirare un sospiro di sollievo e parlare di «successo». Un successo non soltanto economico, ma anche diplomatico. Al-Sisi lo sa bene: lo scorso 31 gennaio, quando Zohr è stato inaugurato, il presidente ha colto l’occasione per ribadire all’Ad del “cane a sei zampe” Claudio Descalzi come «i rapporti tra Italia ed Egitto siano ottimi nonostante qualcuno li abbia voluti rovinare» con l’uccisione di Giulio Regeni avvenuta due anni fa.

Una dichiarazione che sarà suonata superflua alle orecchie del dirigente dell’Eni che ha continuato a fare affari con il Cairo regolarmente, nonostante i depistaggi e le bugie egiziane sugli ultimi giorni di vita del ricercatore italiano. Descalzi ha annuito sottolineando come il maxi-giacimento sia il frutto di un «matrimonio di lunghissima data» tra l’Egitto e l’azienda italiana. Una relazione così solida che neanche la brutale uccisione di Regeni e le relative responsabilità del regime poteva interrompere. Gli affari sono affari, dopo tutto.
Se il gas sancisce l’alleanza di ferro tra Roma e il Cairo, diverso è lo scenario che si presenta…

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SOMMARIO ACQUISTA

Non possiamo farci ingannare. Ecco perché non trovo sbagliato vedere il viso della Bonino su quella barca, con Renzi e gli altri

Ancora una volta, sono d’accordo con Left. Mettere la Bonino su quella barca è avere uno sguardo onesto e non ideologico. La Bonino ha la sua storia, è vero. E proprio quella storia va vista, per fare qualche precisazione. Ho letto in moltissimi commenti la rivendicazione delle enormi battaglie di civiltà e per i diritti portate avanti dai Radicali a partire dagli anni ’60-’70. Tutto vero, nessuno lo nega. Ma intanto da “storico” vorrei precisare che, se abbiamo avuto in quel momento storico il periodo di maggiore riformismo nel nostro Paese (basterebbe citare le leggi su divorzio e aborto), è stato prima di tutto per una società in trasformazione, un ingresso nuovo dei giovani in politica, per le tante voci di donne che hanno cominciato a farsi sentire, insomma per una sensibilità nuova che si stava sviluppando. Di tutto questo i Radicali furono il megafono parlamentare, e gliene va dato atto.

Ma la storia della Bonino non è solo quella: è anche la storia di posizioni bellicistiche, mai nascoste, e a favore dell’intervento duro in Medio Oriente, prima di tutto in Afghanistan (cfr. link1; link 2 ). E la storia di un pensiero geopolitico che vede Israele come uno stato democratico, con cui confrontarsi, anzi da usare come “testa di ponte” per gli interessi dell’Unione Europea per la pace in Medio Oriente (cfr. link 3).

E qui i primi brividi. I brividi di fronte a un pensiero lucido, razionale, che mette gli Stati nella giusta ottica internazionale, pesandone forze e interessi, tentando di prevederne equilibri e debolezze. Un pensiero freddo. Un pensiero che, mi viene da dire, “tralascia” di considerare che questi bei calcoli hanno una ricaduta su vite umane. Non le ho mai sentito usare l’espressione “danni collaterali”, ma sembra la logica conseguenza del suo ragionare.

E che altro ci dicono il passato e il presente della Bonino e dei candidati radicali di +Europa? Il liberismo più sfrenato. Questo è scritto con parole inequivocabili sul programma elettorale, e fa parte da sempre del loro orientamento. Ma con la consueta ambiguità: per difendere l’Europa. Ancora una volta, la difesa di un’entità sovranazionale, di un’astrazione portatrice di diritti.

E gli esseri umani?

Privatizzazione delle imprese statali, imposte indirette, “semplificazione” delle aliquote, rimozione degli “ostacoli di sistema” (incluso il sistema formativo poco diretto alle imprese). Per chi è un minimo abituato al gergo politico-economico, si possono leggere con facilità dietro questi punti degli interventi pienamente neoliberisti, di destra, che mirano ad un mercato sempre più libero, ad un’impresa sempre più agevolata, ad uno Stato sempre meno presente e, fondamentalmente, a lavoratori di ceto medio o basso sempre più poveri e meno tutelati.

Quindi sì, i diritti civili, continue battaglie di civiltà, la campagna “Ero straniero”. Ma su questo sfondo, sempre presente. Quello di un pensiero freddo e razionale, “umano” per ideologia, come nella Rivoluzione francese. Un pensiero che difende i diritti ma non vede, non riconosce gli esseri umani. Ecco perché non trovo sbagliato vedere il viso della Bonino su quella barca, con Renzi e gli altri. Perché la sua ideologia umanitaria è profondamente contraddittoria e cade immediatamente, se la si vede dal verso giusto. Se si seguono con la giusta sensibilità le sue parole. È questione di volto, di quel volto che ha deciso di esibire in primo piano nel suo spot elettorale: quel volto non mi racconta di un interesse umano sincero. Non possiamo farci ingannare.