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“Basta privilegi alla Chiesa cattolica. Aboliamo il Concordato” (podcast). Intervista a Carla Corsetti e Raffaele Carcano

Carla Corsetti (segretario nazionale di Democrazia atea): Abbiamo sempre sostenuto che i Patti lateranensi non dovessero essere inseriti nella Costituzione. La differenza tra democrazia e teocrazia passa per i Patti. L’Italia è una teocrazia di fatto. Gli italiani non si percepiscono autonomi sotto il profilo democratico a causa di questo accordo internazionale che dovrebbe essere stracciato. La deriva e l’ingerenza teocratica nella vita quotidiana e nella politica non è avvertita e di questo sono responsabili i media e certi politici, con i loro costanti riferimenti alla teocrazia confinante. Che si tratti di un altro Stato non viene percepito, che si tratti di uno Stato teocratico e di una monarchia assolutista non viene percepito. Basti pensare agli esponenti di sinistra che non si fanno scrupolo di prendere come riferimento Bergoglio: un peronista, ultra conservatore di destra e detentore del potere assoluto che gli è stato attribuito da una setta cattolica di soli uomini. E per costoro nemmeno conta che questo gesuita stia veicolando la teoria del popolo.

Raffaele Carcano (ex segretario nazionale della Unione degli atei e degli agnostici razionalisti e responsabile editoriale di Nessun dogma ed.): Se in Francia la laicità entra nella costituzione, in Italia, nel 1948, ci entrano gli accordi stipulati con il fascismo. Calamandrei chiede nel suo intervento che, se proprio si vuole «proclamare una Repubblica confessionale», lo si deve dire apertamente: non si devono fare «cose di tanta importanza alla chetichella». Ma a favore dell’articolo 7 votano anche i comunisti. Anziché ringraziarli, due mesi dopo i democristiani li buttano fuori dal governo. Per la Chiesa cattolica è un secondo colpo grosso: mantiene tutti i vantaggi derivanti dal concordato ed elimina ogni preoccupazione politica e ogni dissenso tra le sue fila. La costituzione democratica ingloba un trattato che definisce il cattolicesimo «la sola religione dello Stato».

L’intervista prosegue su Left on air, il podcast di approfondimento del numero 7 di Left – ESPROPRIO VATICANO

Corbyn spia dell’Est? La bufala sul leader labour svela le paure della destra britannica

epa06480119 Britain's opposition Labour Party Leader Jeremy Corbyn arrives for an interview at British Broadcasting Corporation's (BBC) Broadcasting House in London, Britain, 28 January 2018. EPA/NEIL HALL

«Abbiamo una notizia per loro. Il cambiamento sta arrivando». Jeremy Corbyn risponde alle ultime accuse di tre quotidiani britannici conservatori e ai loro pallidi fantasmi della Guerra fredda. «Negli ultimi giorni Sun, Mail e Telegraph sono diventati un pò James Bond» ha detto Corbyn. La battaglia tra la stampa e Jeremy “il rosso” ha avuto inizio una settimana fa, quando il tabloid Sun ha scritto che il leader laburista avrebbe incontrato e passato informazioni ad un agente cecoslovacco tre volte nel 1986 e 1987. Corbyn ammette che gli incontri siano avvenuti, ma la “spia”, Jan Sarkocy, era all’epoca semplicemente un diplomatico che lavorava all’ambasciata cecoslovacca a Londra, poi espulso nel 1989 dal Paese.

Secondo le dichiarazioni di Sarkocy, i due si sarebbero incontrati negli anni 80 nella House of commons e Corbyn sarebbe stato un informatore pagato dalla StB, il servizio di sicurezza cecoslovacco. Per l’intelligence britannica, che ha avuto accesso ai dossier dell’epoca, mancano le prove a sostegno di questa tesi. Ma la vicenda, scivolata dai polverosi archivi cecoslovacchi all’inchiostro della stampa del Regno Unito, è finita sulle labbra della premier Theresa May, che ha richiesto al leader laburista di parlare apertamente del suo passato.

Corbyn lo ha fatto, in un video pubblicato ieri. Questa campagna denigratoria «mostra solo come i media siano spaventati da un governo labour, i labour si leveranno contro i potenti e i corrotti e prenderanno le parti dei many, not of the few», dei molti, non dei pochi, ha detto Corbyn. «Le ultime elezioni hanno mostrato come i baroni mediatici stanno perdendo la loro influenza. La stampa libera è essenziale per la democrazia, molta della nostra stampa non è libera, ma controllata da milionari in esilio fiscale, determinati a non pagare la loro quota per i nostri servizi pubblici. Abbiamo una notizia per loro. Il cambiamento sta arrivando».

Mary e la Bestia. Un convegno per il bicentenario di Frankenstein

Frankenstein Junior

Nell’“anno senza estate” che Mary Shelley concepisce l’idea di Frankenstein, o il moderno Prometeo. L’eruzione del Tambora, vulcano di una remota isola dell’Oceano Indiano, avvolge di polveri l’emisfero settentrionale, riduce la radiazione solare e sconvolge le stagioni. Tutto avviene in quella fredda estate di 200 anni fa sul lago di Ginevra, dove la diciottenne Mary, assieme al futuro marito Percy Shelley, è ospite di Lord Byron, della sorellastra Claire Clairmont, amante del poeta, e del loro medico John Polidori a Villa Diodati. Costretta in casa dal maltempo, la compagnia inganna le ore leggendo storie di fantasmi e Byron, in una sorta di concorso letterario, lancia una sfida: ognuno di loro dovrà scrivere un racconto dell’orrore. Tutti si impegnano ma solo due onorano la scommessa, Mary con Frankenstein e John Polidori con il racconto Il Vampiro che suggerirà Dracula a Bram Stoker. L’ispirazione, che per la Shelley tarda a venire, si palesa con forza una notte nel dormiveglia: «Vidi lo scienziato dall’arte sacrilega, inginocchiarsi, pallido, accanto alla cosa che aveva messo assieme, l’orrida forma di un uomo disteso, vidi una macchina che entrava in azione e il cadavere che mostrava segni di vita. Aprì gli occhi e io sgranai i miei per il terrore».
Nasce così un fenomeno letterario unico che attraversa intramontabile questi due secoli: travalica i confini del gotico per affondare nelle paure del Romanticismo; sfrutta il romanzo epistolare per adottare una rarità assoluta; genera il primo romanzo di fantascienza per entrare come mito nella cultura popolare. Un’opera cioè senza tempo e senza contesto che talvolta si fa solo titolo. Chi ode la parola Frankenstein crea in sé un’immagine o un pensiero, ma dietro sono spesso scomparsi l’autrice, la trama, i personaggi. È curioso infatti che Frankenstein vada spesso erroneamente ad identificare l’essere deforme richiamato alla vita dalla materia inanimata e non il suo creatore Victor, «scienziato dall’arte sacrilega». Il mostro è, e va osservato, senza nome. Ma questo banale quanto comune equivoco può essere il pretesto per approfondire la ricerca e cogliere, dietro gli apparenti aspetti di continuità, i tratti del romanzo che creano una rottura con la tradizione letteraria e filosofica dell’epoca. Ma per comprendere oltre è forse necessario ricordare la trama dell’opera che si articola in tre narrazioni autobiografiche, quella dell’esploratore, dello scienziato e della creatura, in un intreccio, che, come un’onda, si richiude su se stesso a ritroso. Durante una spedizione al Polo Nord il capitano Walton incontra Frankenstein, giovane brillante che, dedito agli studi di chimica e filosofia naturale, è ossessionato dall’idea di poter dare vita alla materia inanimata e creare “un essere perfetto”. Una notte la creatura prende vita ma Frankenstein, scosso dall’orrore per l’insostenibile bruttezza dell’essere che ha appena creato, fugge sperando che «lasciato a se stesso, il lieve barlume di esistenza che era stato trasmesso si sarebbe dissolto e che quella cosa dalla vitalità così imperfetta si sarebbe di nuovo trasformata in materia morta».

Il mostro invece vive e la fuga di Frankenstein sarà devastata da disgrazie e delitti che, si scopre quando i due si rincontrano su un ghiacciaio delle Alpi, sono opera del mostro. Da qui, racchiusa al centro del romanzo, si snoda la terza triste storia, quella dell’orripilante creatura che, contrariamente a ciò che ha potuto fin qui pensare il lettore, è un essere mite ma distrutto dalla violenza dell’abbandono. Inoffensivo per natura, se respinto avverte «nella mente una sorta di pazzia che va al di là di ogni limite della ragione e della riflessione». Il tragico epilogo vede i tre, di nuovo, nella vastità ghiacciata dell’Artico dove il cerchio si chiude. Frankenstein, trascorso il resto della vita ad inseguire il suo persecutore, muore di stenti e privazioni; l’esploratore, compresa la vanità della presunzione, porterà in salvo la propria ciurma, e l’innominata creatura si dirige verso il polo dove sparisce per sempre.

Un’opera innovativa per forma: il classico schema settecentesco del romanzo epistolare, ideato per accrescere curiosità e tensione attraverso la sospensione della narrazione, perde vigore di fronte al sistema a scatole cinesi che Mary Shelley propone con i tre livelli narrativi. Innovativa per contenuto: chi allinea Frankenstein al gusto del gotico, che denuncia la povertà del pensiero illuministico, non osserva che il mostro della giovane esordiente nasce in uno stato d’innocenza rousseauiano e cresce secondo i principi di Locke: da tabula rasa ad erudito. Di gotico c’è ancora in Mary Shelley l’ossimoro terrificante-stupendo ma l’anfratto buio e angusto del castello, il minaccioso sotterraneo diventano la distesa gelida del Mar glaciale artico, immagine tutta romantica del tremendo fascino di fronte alla maestosità della natura. Eppure, e questo è il tratto che merita di essere approfondito, l’autrice oltrepassa il Romanticismo stesso quando lo straordinario non diventa trascendente, quando il demiurgo è scienziato. è per questo ultimo aspetto che Frankenstein è divenuto, a ragione, precursore del genere fantascientifico ed è entrato di diritto nei dibattiti culturali come emblema della bioetica.

Tuttavia, approfondendo e contraddicendo l’interpretazione comune, non pare che il senso dell’opera sia da ricercare nel ruolo dello studioso che, tracotante, ignora e travalica i limiti della scienza. Non pare cioè esserci da parte dell’autrice alcun monito alla superbia umana che intende sostituirsi al divino. La Shelley, figlia del filosofo illuminista William Godwin e della scrittrice Mary Wollstonecraft, strenua promotrice dei diritti delle donne e anticipatrice del femminismo, vive un ambiente familiare e sociale estremamente ricco di cultura ermetico-alchemica e di interesse per gli studi sul galvanismo, un ambiente che è più facile immaginare divertito che non impressionato o spaventato di fronte alle sfide della scienza. Il sottotitolo Moderno Prometeo, più che un monito, appare piuttosto il tentativo di opporsi alla religione e ad ogni forma di trascendente che trova conferma sia negli espliciti riferimenti al Paradiso perduto e al Faust sia nell’iniziale allusione a Coleridge quando l’esploratore, a differenza del vecchio marinaio della Ballata del poeta inglese, non uccide l’albatro. L’uomo non ha più paura del fuoco e fa sua la luce. Questi gli spunti che offre direttamente la lettura del romanzo e che ci mostrano una diciottenne viva e coraggiosa, poco incline ad accettare passivamente le mode del tempo. Se poi, sollecitati dalle interpretazioni più popolari e dagli accostamenti letterari proposti per il Frankenstein, un monito volessimo proprio leggerlo, questo per noi sarebbe di segno opposto: allo scienziato illuminista non viene affatto rimproverata la ricerca in sé, quanto l’ottusità di pensiero che guarda solo al meccanismo che fa vivere il corpo, la stupidità nei riguardi della ricerca sulla realtà umana che non vede gli affetti della strana creatura.

Una cecità affettiva che la Shelley fa affiorare nel contrasto di ritmo delle due narrazioni: piana, lenta e descrittiva quella di Victor, incalzante e appassionata quella del mostro. Ora, vedendo tutti i limiti dell’autrice e del pensiero dell’epoca, vorremmo comunque riconoscere a questa giovane donna il tentativo di inventare una favola sull’“uomo nuovo” tradito dalla lucidità del pensiero illuminista che lo esilia nell’oscurità: è esplicito nel romanzo il passaggio dalla luce di luoghi ameni al buio dei ghiacci eterni. In questo senso ci paiono poco calzanti i paragoni letterari solitamente suggeriti: è brutto ma non è, almeno in origine, la cattiveria di Mister Hyde del racconto di Stevenson; è brutto ma non è la violenza inestinguibile del Vampiro né la freddezza di Olimpia, l’automa concepito da Hoffmann ne Il Mago sabbiolino. Pare più la sfida, ben conosciuta al tempo, di saper “vedere”, intuire, la bellezza interiore al di là delle fattezze fisiche. Deluso dall’assenza di amore (le vaste gelate dell’Artico) e dal non riconoscimento (non ha nome), il mostro diventa violento. Diventa violento. Il resto è fantasia.

Sono trascorsi due secoli da quella fredda estate e ci siamo lasciati alle spalle storie assai più insidiose e subdole del Frankenstein di Mary Shelley. Tutte quelle che, nell’oscurità della notte quando senza coscienza e parola si esprime l’altro tempo della nostra vita, hanno voluto vedere cattiveria e bestialità, hanno voluto fare dei sogni «la manifestazione più feroce della pazzia», negando così la possibilità di conoscere il pensiero che le immagini oniriche raccontano. Capito il senso del fuoco e della luce, Psiche vede Amore e scopre che è «di tutte le fiere, la più mite e la più bella».

Il convegno. Il 21 e 22 febbraio, 45 studiosi di tutto il mondo sono all’università Ca’ Foscari per celebrare il capolavoro di Mary Shelley. L’evento si articola in sessioni parallele e si apre con la relazione plenaria di Marie Mulvey-Roberts, autrice di svariati studi su Mary Shelley cui seguirà il giorno successivo quella di David Punter, il maggiore esperto in Europa di letteratura gotica

Berlusconi ha già cominciato la campagna acquisti. Il prossimo centrodestra è già putrido

Italian former Prime Minister and Forza Italia (FI) leader, Silvio Berlusconi, attends the Rai program 'Che tempo che fa' hosted by Fabio Fazio in Milan, Italy, 18 February 2018. Italy will hold general elections on 04 March. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

“Non si dice mai di no a chi dice ‘Sottoscrivo il vostro programma’. Noi saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare interamente l’indennità parlamentare”: la frase è stata pronunciata da Silvio Berlusconi durante un’intervista al Corriere della Sera e i “loro” di cui parla sono i transfughi del Movimento 5 Stelle che, nonostante siano stati “espulsi” dal Movimento, saranno eletti (per merito di una pessima legge elettorale, giova ricordarlo) e andranno a rimpinguare un Gruppo misto che si preannuncia già folto fin dall’inizio della legislatura.

Stiamo parlando (per ora) di sei persone coinvolte nel cosiddetto caso “rimborsopoli”: Maurizio Buccarella, in lista al secondo posto per il Senato nel collegio Puglia 2; Carlo Martelli, al primo posto per il Senato nel collegio Piemonte 2; Elisa Bulgarelli, al terzo posto nel collegio Emilia Romagna 1 per il Senato; Andrea Cecconi, al primo posto per il collegio Marche 2 per la Camera; Silvia Benedetti, al primo posto in un collegio veneto per la Camera; Emanuele Cozzolino, al terzo posto in un altro collegio veneto sempre per Montecitorio; dei quattro candidati “massoni” (Piero Landi, candidato a Lucca; Catello Vitiello a Castellammare di Stabia, David Zanforlin a Ravenna e Bruno Azzerboni a Reggio Calabria), di Emanuele Dessì (amico del clan Spada e in affitto in una casa popolare a 7 euro al mese e candidato al Senato nel collegio Lazio 3, al secondo posto).

Ma non è questione solo di candidature sbagliate: qui si tratta di un recidivo (Berlusconi) che sfrontatamente dichiara di avere aperto la campagna acquisti per ambire a un gruppo parlamentare già dopato indipendentemente dal risultato elettorale. È il solito Berlusconi, quello pessimo a cui la storia ci ha abituato, quello che la Lorenzin e la Bonino da sinistra dichiarano come prossimo alleato naturale in nome della responsabilità. È lo stesso disco. Rotto. Vecchio. E quasi nessuno si indigna.

Buon mercoledì.

Campagna elettorale, il pluralismo politico che manca in tv

“Dal diritto di conoscere per deliberare alla volontà di condizionare”, con questo titolo nella sede dei Radicali si è tenuta la conferenza in cui sono stati diffusi e confrontati i dati raccolti dall’Agenzia per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) e dall’Osservatorio di Pavia relativi allo spazio televisivo dato ai partiti politici.
A presentare i dati c’erano il radicale  Maurizio Turco che ha segnalato la mancanza di  veri dibattiti e  Marco Beltrandi, esponente radicale e membro della Commissione di Vigilanza della Rai. Beltrandi che ha innanzitutto fatto notare che, con la chiusura del Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva, la raccolta dei dati sul pluralismo televisivo ora si limita a contare i minuti durante i quali viene dato spazio ad un partito politico nel corso di una trasmissione d’informazione sulla Rai, piuttosto che gli ascolti consentiti, equiparando così cinque minuti di presenza in una trasmissione che va in onda a notte fonda, con altrettanti minuti di una trasmissione in fascia oraria da prima serata, con ovvie distorsioni in termini di esposizione.
Ulteriore stranezza, ha continuato Beltrandi, è la decisione dell’Agcom di monitorare soltanto le liste elettorali, escludendo tutte le altre forze politiche, impossibilitate così a far valere i propri diritti in materia di corretta ripartizione di spazi di tempo nelle trasmissioni televisive.
Sono molto diversi i dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia e dall’Agcom, di cui però si possono confrontare solo i dati raccolti a partite da gennaio 2018, in quanto l’Agcom non ha reso noti i dati del dicembre 2017.
Andando a guardare i dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia, consultando il report che prende in esame l’intervallo di tempo più lungo, ovvero dal 29 dicembre al 4 febbraio, e quello immediatamente successivo, dal 5 all’11 febbraio, ne emerge infatti che a dominare gli schermi dei telegiornali Rai sono i partiti maggiori, nell’ordine: Pd, M5S, FI, con la Lega che si ferma a metà della percentuale del partito di Silvio Berlusconi. A tutti gli altri partiti spettano le briciole dello spazio d’informazione pubblico, con LeU, FdI e UdC che, anche se sommati, non raggiungono la doppia cifra.

“C’è una recrudescenza di quell’analisi sul regime che è partita negli anni Sessanta. Siamo davanti a  un vero e proprio esproprio della volontà popolare”, ha denunciato Maurizio Turco.  “La gestione monitorata è quella di un Paese a democrazia reale, nei decenni l’abbiamo denunciato la censura dell’informazione e il nostro oscuramento, attraverso scioperi del voto e negli anni Duemila con Luca Coscioni al Pantheon bruciammo i certificati elettorali . Oggi abbiamo  la conferma di tutto questo. Il regime ha sempre scelto quale era il soggetto politico prescelto a fare opposizione. Dovremmo riprendere il capitolo della Peste gialla sulla campagna elettorale dove mettemmo nero su bianco  tutta questa storia”.

In viaggio verso l’altrove. Sulle ali di un nuovo graphic novel

Non stancarti di andare Bao publishing

Non stancarti di andare è un lungo romanzo grafico ideato e realizzato da Teresa Radici e Stefano Turconi. Una storia moderna che si legge tutta d’un fiato tra le andate e i ritorni dei due protagonisti, Iris e Ismail, lei disegnatrice italiana la quale, durante un viaggio in Siria condotto diversi anni prima, conosce Ismail, ricercatore siriano, del quale si innamora.
Il libro, edito dalla casa editrice Bao Publishing, sta girando molto e gli autori saranno presenti al Cartocomics di Milano, dal 9 al 12 marzo. Abbiamo colto l’occasione per rivolgere ai due autori qualche domanda.

Nel libro si affrontano diverse tematiche. Una delle più scottanti è sicuramente quella legata ai fortissimi movimenti migratori che stiamo vivendo in questi anni. Secondo voi, ancor più che l’andare e il partire, qual è invece la vera sfida che è costretto ad affrontare ogni giorno chi, una volta arrivato, decide di restare?
Non crediamo si possa riuscire ad immaginare neanche lontanamente l’enorme quantità di sfide che chi sopravvive a viaggi migratori lunghi e perigliosi si trova ad affrontare una volta “raggiunta la meta”. Sicuramente c’è l’angoscia per chi è rimasto indietro, bloccato là nel paese martoriato d’origine o perso sulla via verso la salvezza; poi dev’esserci lo sconforto per un futuro da riscrivere tutto da capo, la paura di non riuscirci, di non essere creduto, capito, accolto. Poi, forse, la sensazione di “esilio” che ti accompagna per tutta la vita: il “non sentirsi più a casa in nessun luogo”, la fatica ad identificarsi come cittadino di un singolo Stato, la natura “a metà” di un essere perennemente tra due mondi.

Un’altra tematica importante, e legata sicuramente alla migrazione, è la “diversità”.
Come può l’arte dire la sua sulla diversità e in qualche modo aiutarci a comprendere quanto, mentre ci attrae, inevitabilmente ci spaventa?
Forse possiamo rispondere parlando, nel nostro piccolo, dell’ambito che ci riguarda più da vicino: le storie. Le storie sono grandi lezioni di umanità: spingono a mettersi nei panni degli altri, di quei personaggi che diventiamo vivendole, che si tratti di storie scritte, disegnate, filmate, recitate a teatro non importa. Nell’arco di tempo che trascorriamo dentro una storia, vediamo con altri occhi, sentiamo con altri sensi, ricordiamo avvenimenti mai vissuti e ci proiettiamo in mille futuri possibili, il più delle volte magari lontani da quelli che nella vita di ogni giorno immagineremmo per noi. Dovremmo far tesoro di queste esperienze, di queste sensazioni. Perché è vero che ci raggiungono grazie alla nostra “volontaria sospensione dell’incredulità”, ma è anche vero che ci avvicinano prodigiosamente all’essere qualcun altro, a conoscere in prima persona realtà diverse. Ed è la conoscenza l’antidoto alla paura, il primo passo verso la comprensione del fatto che è proprio l’unicità di ognuno a renderci, in fondo, tutti la stessa cosa.

Una delle prime a raccontare il suo viaggio è proprio Iris, la protagonista femminile della storia, quando parte per la Siria alla ricerca di immagini diverse e suggestive di quell’altrove che da qualche parte ci aspetta per essere svelato. Quando l’artista deve fermarsi per cominciare a disegnare e intraprendere un altro viaggio, quello che lo trascinerà dentro il suo altrove?
La risposta potrebbe essere: quando qualcosa minaccia di esplodergli dentro, se non gli dà corpo sulla carta (o sulla tela, o scolpito nella materia, o su un palco, o grazie a un film). Ma non si tratta tanto di un fermarsi, quanto di continuare il cammino in una direzione diversa. Continuando comunque a raccogliere stimoli, emozioni, attimi dalla vita e le esperienze di ogni giorno… e conservarli per le storie che verranno.

 

Gerusalemme, il sindaco alle Chiese cristiane: «Basta, ora dovete pagare le tasse»

Un responsabile del municipio di Gerusalemme ha ordinato la chiusura al pubblico di un ponte provvisorio di accesso alla Spianata delle Moschee, quello 'dei Mugrabi', in quanto pericolante. Lo rende noto il municipio. La sostituzione del ponte e' stata per mesi oggetto di tensioni fra Israele e il mondo arabo. Nella foto, veduta della spianata delle moschee FRANCESCO GERACE/ANSA

Dio non paga le tasse a Gerusalemme, ma deve farlo. Il sindaco  Nir Barkat, ha preso una decisione laica: nella sua città le tasse le devono pagare tutti. Chiese comprese. Mentre il presidente palestinese Mahmud Abbas chiede nuove negoziazioni alle Nazioni Unite sulla città divisa, «perché una nuova fase della lotta è iniziata», come ha appena dichiarato il suo portavoce, altre tensioni, – civili e religiose -, scuotono la capitale contesa.

Tutti gli edifici e le sedi religiose finora erano state esentate dalle imposte che in Israele chiamano “arnona”, ovvero le tasse municipali. Questa politica di privilegio ed esenzione per i religiosi andava avanti dal 1967. Secondo il direttore generale della municipalità, Amnon Merhav, il debito delle Chiese ammonta a 657,180 shekels, cioè 191 milioni di dollari, per 887 sedi di loro proprietà, come si legge in una lettera indirizzata al premier Benjam Netanyahu e ai ministeri degli Esteri, degli Interni e delle Finanze.

Questa decisione mina «il carattere sacro di Gerusalemme, minaccia la capacità del ministero della Chiesa di compiere beneficio nella comunità, rimaniamo fermi e uniti sulle nostre posizione per difendere la nostra presenza e proprietà» hanno reso noto i patriarchi e capi delle chiese cattolici, anglicani, armeni, ortodossi di Gerusalemme passati al contrattacco boicottando il partito del sindaco e la sua politica.

La municipalità ha ribattuto che la libertà di culto è garantita nei luoghi destinati, ma «non esentiamo alberghi, sedi, ristoranti, solo perché sono di proprietà delle Chiese, perché sono attività commerciali». Ne sono un esempio l’hotel Notre Dame di Gerusalemme del Vaticano, sale da conferenze, ristoranti, hotel a ridosso del centro antico della città.

Non cede il sindaco che, tra l’altro, è in conflitto anche con  il ministro delle finanze Moshe Kahlon per l’esiguo stanziamento di fondi alla Capitale, con 2mila impiegati municipali a rischio licenziamento. Nir Barkat, fa sapere che l’esenzione verso i religiosi voluta dallo Stato negli anni passati ha causato circa un miliardo di shekel di perdite e non è ragionevole che solo i residenti di Gerusalemme paghino: «lo Stato ha giocato a discapito dei residenti di Gerusalemme, ha esentato illegalmente le Chiese e le Nazioni Unite dal pagare tasse di proprietà in luoghi che non sono destinati al culto».

Quindi alla fine i No Tav avevano ragione

«Non c’è dubbio, infatti, che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni, che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni e nessuna persona di buon senso ed in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni a suo tempo assunte potevano essere diverse. Quello che è stato fatto nel presente documento ed interessa oggi è, invece, valutare se il contesto attuale, del quale fa parte la costruzione del nuovo tunnel di base, ma anche le profonde trasformazioni attivate dal programma Ten-t e dal IV pacchetto ferroviario, richiede e giustifica la costruzione delle opere complementari: queste infatti sono le scelte che saremo chiamati a prendere a breve. Proprio per la necessità di assumere queste decisioni in modo consapevole, dobbiamo liberarci dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa»: sono le parole del documento («Adeguamento dell’asse ferroviario Torino – Lione. Verifica del modello di esercizio per la tratta nazionale lato Italia fase 1 – 2030») che ha pubblicato il Consiglio dei ministri. A pagina 58, per essere precisi.

Gli studi del 1999 prevedevano (per sponsorizzare il Tav) un incremento del 100% dal 2000 al 2010 per un totale di cento tonnellate di merci (ne ha scritto benissimo Maurizio Pagliassotti per Il Manifesto) e invece si sono sbagliati.

Così improvvisamente hanno ragione coloro che vedevano nel Tav un lucroso guadagno solo per chi le opere le costruisce piuttosto che per chi le dovrebbe usare come sarebbe lecito pensare.

Quei pericolosi terroristi dei No Tav insomma avevano ragione nonostante in tutti questi anni ci si sia impegnati a sottolinearne le violenze (poche vere, molte presunte) per evitare di raccontarne i contenuti. Questi hanno fatto un buco nell’acqua infilandolo in un costosissimo tunnel e sono gli stessi che vorrebbero insegnarci “l’unica via possibile per lo sviluppo”.

Ma va là, avrebbe detto mio nonno. Ma va là.

Buon martedì.

 

Le purghe di Erdogan, la Turchia non è un Paese per giornalisti

A protestor carries a placard showing the face of arrested Turkish journalist Nazli Ilicak during a protest for freedom of press in front of the Turkish embassy in Berlin, Germany, 03 May 2017. On 03 May 2017 is the World Freedom Press Day. EPA/CLEMENS BILAN

C’è stata una trattativa tra il governo turco e quello tedesco per liberare Deniz Yucel? E se sì, quale è stata la moneta di scambio del governo di Angela Merkel? È stata una decisione di natura legale o politica? Questa è la domanda che adesso tiene impegnata l’opinione pubblica tedesca, a quattro giorni dalla scarcerazione del giornalista turco-tedesco, Deniz Yucel, corrispondente del quotidiano Die Welt, sul cui sito è comparso un articolo che ha sollevato tali quesiti.
Il cronista, ricordiamo, è stato rilasciato dopo aver trascorso un anno e due giorni in carcere in regime di isolamento nella prigione di Silivri, vicino a Istanbul.

Yucel era stato arrestato con le accuse di «diffusione di propaganda a sostegno di un’organizzazione terroristica» e «incitamento alla violenza» come riporta Amnesty. Il giornalista è finito in manette il 14 febbraio 2017, in seguito alla repressione della libertà di stampa voluta dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan e iniziata dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016. Yucel era però da tempo nel mirino del presidente turco, che già lo aveva in passato accusato di essere una spia con lo scopo di supportare il Pkk e il movimento dell’alleato di un tempo di Erdogan, l’ex imam e scrittore Fethullah Gulen. Il capo di Stato turco, nel corso di un discorso pubblico, non ha esitato a definire Yucel una spia, come ha riportato il giornale tedesco Der Spiegel sul suo sito il 5 maggio del 2017.

La buona notizia arriva però in un giorno che più buio non potrebbe essere per la libertà di stampa in Turchia: lo stesso giorno della scarcerazione del giornalista, infatti altri 6 cronisti sono stati condannati all’ergastolo. Sono i fratelli Altan, Mehmet e Ahmet, rispettivamente un economista e uno scrittore; i giornalisti Nazlı Ilıcak, Fevzi Yazici, Sukru Tugrul Ozsengul e Yakup Simsek. Tutti quanti sono stati giudicati colpevoli di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale.

Particolarmente dure le pene, i condannati dovranno infatti passare 23 ore al giorno in isolamento, secondo quanto riferisce Amnesty. Per la direttrice di Amnesty International per l’Europa, Gauri Van Gullk, le condanne hanno «chiaramente l’obiettivo di mettere paura. Sentenze del genere violano non solo la libertà d’espressione ma anche il divieto di tortura e di altri maltrattamenti» continuaVan Gullk che l’ha anche definita una sentenza «politicamente motivata».

I condannati provengono da anime molto diverse della Turchia. Da sempre critico nei confronti di alcuni aspetti della società turca, Ahmet Altan era già assurto all’onore delle cronache nel 1995 quando fu licenziato dal periodico per cui allora scriveva, il Milliyet, per aver redatto un articolo intitolato “Atakurd“, in cui descriveva una realtà alternativa in cui i rapporti di forza tra turchi e curdi nel Paese erano invertiti. Di nuovo nel 2008 era stato accusato dal partito di estrema destra e islamista radicale Bbp, il Partito della grande unità, di aver violato l’articolo 301 del codice penale turco, per aver “denigrato lo spirito turco”, questa volta per un articolo dedicato alle vittime del genocidio armeno. Altan è stato infine arrestato il 23 settembre 2016, e durante la sua prigionia ha scritto il saggio Il paradosso dello scrittore ( autore tradotto e pubblicato in Italia dalle Edizioni e/o) in cui rivendica la sua capacità di poter scrivere e criticare noncurante del suo stato di carcerato. Altan ha ricevuto solidarietà da moltissimi scrittori e autori come Neil Gaiman e Joanne Harris.

Ha un’altra storia invece la giornalista Nazlı Ilıcak, già parlamentare dal 1999 al 2001 tra le fila del Fp, Partito della virtù, partito che è stato sciolto nel 2001, in seguito ad una decisione della corte costituzionale che ha giudicato incompatibile la natura islamista radicale del partito con gli articoli della costituzione turca che sanciscono la laicità dello Stato. Dal partito sciolto sono nati Sp, Partito della Felicità e proprio il partito dell’attuale premier turco, il Akp, partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Ilicak, secondo le accuse, sarebbe ancora stata vicina a Fethullah Gulen, fino al suo arresto nel luglio del 2016.

Il Centro di Stoccolma per la Libertà, una Ong fondata nel 2017 da giornalisti turchi fuggiti in Svezia per evitare di fare la fine di tanti loro colleghi rimasti in patria, ha stilato un rapporto da cui si evince che sono  33 i giornalisti condannati al carcere, 208 sono quelli arrestati e in stato di fermo, mentre 140 sono ricercati.

Per difendere la libertà di stampa in Turchia, Amnesty International ha lanciato una raccolta firme per chiedere al governo turco di porre fine alla repressione che colpisce gli operatori dell’informazione nel Paese.

Anna Cereseto e la via italiana all’editing genetico per curare le malattie

ANNA CERESETO BISTURI GENOMICO BIOMEDICINA; organizzatore UNIVERSITA' DI TRENTO, CIBIO; Progetto SLiCES / in foto ANNA CERESETO in laboratorio con i componenti del gruppo di ricerca ANTONIO CASINI capelli e barba, CLAUDIA MONTAGNA capelli lunghi mossi e castani, GIANLUCA PETRIS calvo e barba, GIULIA MAULE capelli biondi FOTO DI ALESSIO COSER

Lei ne è sicura e, senza falsa modestia, annuncia: «È una scoperta che avrà un impatto mondiale». Lei è Anna Cereseto e dirige il Laboratorio di virologia molecolare del Cibio (Centro di biologia integrata), presso l’Università di Trento. E la scoperta ha sì un nome enigmatico – evoCas9 – ma ha un contenuto facile da capire: perché, sostiene ancora la ricercatrice trentina consente, alla bisogna, di tagliare, riparare e ricucire il Dna, «con una precisione assoluta».

Insomma, è la tecnica di gran lunga più precisa di editing genetico. O, se volete, di correzione del codice della vita. La scoperta è stata resa pubblica a fine gennaio sulla rivista specializzata Nature Biotechnology e, in effetti, sta già avendo un’eco planetaria. Perché promette, in un tempo indeterminato ma forse non lontanissimo, di realizzare un passo gigantesco nella “terapia genica” e, dunque, annuncia la possibilità di guarire da molte malattie causate da un tratto di Dna malato. Per avere un’idea di cosa stiamo parlando, basti ricordare che le malattie genetiche monofattoriali – cioè causate da un solo piccolo tratto di Dna “malato” – sono, a quanto ne sappiamo, almeno 5mila. Alcune rarissime. Molte letali.
Ma, prima di spiegare almeno per sommi capi cosa Anna Cereseto, alla testa di tre diverse equipe del Cibio, ha realizzato a Trento occorre introdurre un altro acronimo astruso, il Crispr (Clustered regularly interspaced palindromic repeats) dietro cui si cela una tecnica, scoperta di recente, appena nel 2012, anche se esiste in natura inventata dai batteri centinaia di milioni se non alcuni miliardi di anni fa proprio per correggere, quando necessario, il Dna “sbagliato” o, per dirla in termini più rigorosi, mutante.

Meno di sei anni fa i biologi si accorsero della presenza (nel Dna dei batteri) e delle potenzialità di questo sistema di “correzione di errori. Protagonisti della scoperta furono almeno due gruppi, uno facente capo a Jennifer Doudna, biochimica della University of California di Berkeley, aiutata da un’altra donna Emmanuelle Charpentier, e l’altro facente capo a Feng Zhang, un americano di origine cinese del Massachusetts institute of technology (Mit) di Boston. Insomma, due gruppi affiliati a due giganti della ricerca americana e mondiale. I due gruppi rivendicano ciascuno a sé la primogenitura della scoperta. E, dunque, il diritto a brevettare. In gioco c’è un oceano di quattrini. La vicenda è finita in tribunale e non è ancora risolta. Ma, al netto delle questioni giudiziarie, è certo che la scoperta sia essa di Jennifer Doudna e/o di Feng Zhang, è, come sostiene Anna Cereseto, «un’autentica rivoluzione». Perché, grazie ai geni Cas9, consente, per l’appunto, l’editing genetico.

La rivoluzione, come abbiamo detto, non nasce dal nulla. Il Crispr è, infatti, un’invenzione, magari primitiva, ma efficace, dello stesso Dna dei batteri per riconoscere al suo interno delle mutazioni pericolose e cancellarle. Il sistema di editing genetico dei batteri è costituito da alcune sequenze di basi che si ripetono lungo la catena del Dna. A queste unità ripetitive sono associati dei geni, chiamati Cas, portatori delle informazioni necessarie alla sintesi di enzimi capaci di tagliare il Dna nel punto dove c’è la mutazione, eliminare la base o la sequenza di basi mutanti e sostituirle con quelle canoniche. Quello che hanno fatto Jennifer Doudna e Feng Zhang, forse in maniera indipendente l’uno dall’altra, è aver messo a punto gli opportuni accorgimenti per trasformare il sistema CrisprCas9, in una “forbice universale” in grado di “riscrivere” il Dna appartenente a qualsiasi tipo di cellula: anche eucariote e, dunque, umane.

La tecnica Crispr/Cas9 di Jennifer Doudna e/o di Feng Zhang è rivoluzionaria non solo per questo. Ma anche perché è efficace, semplice da applicare – lo possono fare praticamente tutti – e molto economica. Sono già in commercio kit da non più di duecento dollari per praticare in casa l’editing genetico su lieviti e piante. La Crispr/Cas9 funziona in ogni organismo ed è stata usata a fini di ricerca e con successo non solo su lieviti e piante, ma anche su topi e cellule umane adulte. E, tuttavia, per quanto si sia sviluppata in tempi rapidissimi, c’è qualcosa che ancora non va. Almeno per praticare l’editing genetico sull’uomo e per curare molte delle sue malattie. La precisione della Crispr/Cas9 è alta, ma non è assoluta. A questo punto è chiaro qual è l’obiettivo della gran parte dei gruppi di ricerca che studiano la tecnica Crispr/Cas9: aumentarne la precisione.

Tra questi gruppi, a partire dal 2015, c’è anche quello di Trento diretto da Anna Ceresato. «A Trento – sosteneva non molto tempo fa – stiamo testando un nuovo approccio dedicato in particolare sulla cura della fibrosi cistica e dell’atrofia muscolare spinale, ma le possibili applicazioni della tecnica su altre malattie, in primis i tumori, sono numerose e interessanti». Sono settimane, quelle d’inizio 2015, in cui il dibattito intorno alla Crispr/Cas9 si accende e raggiunge il “calor bianco”. Alcuni accusano Doudna, Zhang e tutti gli altri di volersi “sostituire a Dio”, manipolando il codice della vita.

Il fatto è che il 16 marzo di quell’anno, un genetista cinese, Junjiu Huang, dell’università Sun Yat-sen di Guangzhou rende noto di aver utilizzato, con un gruppo di quindici collaboratori, la nuova (antica) tecnologia su embrioni umani proprio per verificare se può essere utilizzata come terapia genica. In particolare per far guarire da una malattia nota e diffusa: la beta-talassemia. In pratica Huang e i suoi hanno utilizzato 86 zigoti nel tentativo di eliminare le mutazioni del gene Hbb che causano la malattia o l’intero gene mutante. I numeri parlano chiaro. Degli 86 zigoti cui è stato iniettato il Crispr/Cas9, dopo 48 ore (il tempo necessario perché il sistema tagli e riscriva il Dna “sbagliato”) solo 71 sopravvivono. Di questi 54 sono testati geneticamente, rilevando che solo 28 (meno del 35% del totale iniziale) sono stati correttamente “riscritti”. Un numero non certo bassissimo in laboratorio, ma molto lontano da quel 100% di cui c’è bisogno, riconosce lo stesso Huang, perché il Crispr/Cas9 diventi uno strumento da utilizzare nella clinica medica.

Ancora nel marzo del 2015, dunque, mentre a Trento Anna e i suoi si mettono al lavoro, il grande tema è: come migliorare la precisione della tecnica fino a renderla assoluta.
Il gruppo italiano inizia a lavorare a questo obiettivo avendo il lievito come organismo modello. Le opzioni sul tavolo per ridurre la frequenza degli errori del “taglia e cuci” sono tre, affinare le modalità con cui il sistema Crispr è iniettato nelle cellule e stando attenti a che resti nell’ambiente cellulare solo il tempo strettamente necessario per “tagliare e cucire” nel luogo e nel modo desiderati; trovare un modo per far sì che il sistema Crispr punti direttamente al punto giusto. A Trento individuano una sorta di molecola pilota di Rna; rendere più intelligenti le forbici, vale a dire i geni Cas, in modo che taglino con assoluta precisione e rapidità lì e solo lì dove devono farlo. Anche in questo caso la creatività trentina ha successo: piccole modifiche alle forbici microscopiche le rendono di gran lunga più precise.

Già, ma come fa Anna Ceresato a scoprire quel è il modo migliore per rendere più efficaci le forbici? È qui la grande intuizione. Lasciando lavorare la selezione naturale di darwiniana memoria. In pratica Ceresato e i suoi collaboratori hanno lasciato che il sistema Cas potesse evolvere, mutando in provetta. E di volta in volta hanno selezionato le nuove varianti più efficienti. La selezione è facile (si fa per dire) da operare, perché le cellule di lievito che subiscono i “tagli giusti e le giuste ricuciture” si colorano di rosso, mentre quelle dove l’operazione è sbagliata diventano bianche. Basta, dunque, selezionare il sistema Cas9 – anzi evo Cas9, il Cas 9 evolutivo – presente nelle cellule rosse. Alla fine del processo di selezione naturale, le varianti evoCas9 selezionate presentano tasso di errori del 99% inferiore a quelli di tutti gli altri sistemi finora utilizzati.

«Sì, abbiamo fatto compiere un grande passo avanti all’editing genetico», dichiara soddisfatta Anna Ceresato. Dunque presto potremo la tecnica diventerà uno strumento di pratica clinica? «È meglio non fare previsioni, perché la ricerca spesso presenta imprevisti. Tuttavia confido che non passeranno molti anni prima che ecoCas9 e le sue successive evoluzioni saranno utilizzate per guarire le persone».
Tanta prudenza è d’obbligo. Ma un fatto è certo. In poche settimane due ricercatrici italiane, Marica Branchesi con le onde gravitazionali e ora Anna Cereseto con evoCas9, hanno assunto una visibilità planetaria. Segno che la ricerca italiana, malgradi i tanti ostacoli che deve superare e la penuria di risorse, è di valore assoluto. E segno che oggi, a trainarla, sono anche e soprattutto le donne.