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Nel nome di Zainab, il Pakistan si ribella alla cultura della pedofilia

epa06431136 People rally to protest against the rape and murder of a minor girl in Kasur, in Karachi, Pakistan, 11 January 2018. Hundreds of people blocked roads and shut down markets for a second day, to protest against the rape and murder of a seven-year-old girl named Zainab, in the city of Kasur in eastern Pakistan. EPA/REHAN KHAN

Aveva 7 anni, si chiamava Zainab Ansari e nelle ultime immagini che si hanno di lei viva, registrate da una telecamera di sicurezza a circuito chiuso, cammina mano nella mano con il suo assassino, un suo lontano parente, Mohamead Imran Ali. Si allontana di spalle, vicino casa sua, a Kasur, Lahore est, nel fermo immagine del 4 gennaio scorso. Cinque giorni dopo il suo corpo è stato trovato su mucchio di spazzatura nei pressi della discarica della zona. Zainab è stata violentata e poi uccisa. Il suo assassino, Iman Ali ha 24 anni, è stato condannato a morte.

Zainab viveva con i genitori nel distretto di Kasur, paese già al centro di un altra vicenda criminale riconducibile alla pedofilia: nel 2015 una gang di 25 uomini era stata accusata di ricattare duecento minori con dei video a sfondo sessuale, registrati tra il 2009 e 2014.

La morte di Zainab ha innescato dibattiti e riflessione nella società pakistana, perché rimane irrisolto il fenomeno degli abusi su minori nel grande Paese a tradizione islamica. La novità in positivo è che l’opinione pubblica inizia a ribellarsi. Una serie di manifestazioni che si sono svolte anche per le vie di Karachi hanno visto sfilare migliaia di persone. Chiedevano giustizia e soprattutto la fine dell’omertà istituzionale nei confronti di questo orrendo crimine: “Talk about sexual abuse, break the taboo”, era scritto sui cartelli esibiti dai cittadini indignati. Durante le proteste alcuni commissariati e case di politici sono state prese d’assalto.

Si stima che in Pakistan oltre 17mila bambini siano stati molestati o abusati tra il 2013 e il 2017: la cifra è stata resa pubblica dal ministro dei Diritti umani, Mumtaz Ahmed Tarar, durante un’audizione in Parlamento la scorsa settimana. Tarar ha ricordato che il Pakistan ha ratificato numerose convenzioni internazionali per la protezione dei diritti dei bambini, compresa quella delle Nazioni unite nel 1990. Secondo il report dell’ong Sahil citato del ministro, sono 17.862 i minori che hanno sofferto di abusi negli ultimi quattro anni nel Paese: 10.620 bambine e 7.242 bambini.

Pensare un modello sociale diverso. Appello dei delegati Cgil

Abrogazione del jobs act, ripristino dell’articolo 18, abrogazione della Fornero, sono questi i punti di forza dell’appello alla Cgil sottoscritto da Rsu e delegati Cgil. «Ciò che ci ha spinto a scrivere e a prendere posizione è l’idea di un modello di società profondamente diverso da quello attuale, i lavoratori, i disoccupati, i pensionati a nostro avviso devono essere al centro delle politiche e devono avere servizi pubblici fruibili e di qualità», racconta a Left il sindacalista livornese Valerio Melotti. «L’appello che abbiamo lanciato tramite la nostra pagina ufficiale facebook Rsu e Delegati Cgil a sostegno di Potere al popolo ha raccolto in pochi giorni molto interesse, in 20 giorni abbiamo superato le 200 adesioni di delegati di base e quotidianamente anche  via mail ci arrivano ulteriori adesioni. Considerando che i firmatari dell’appello partecipano attivamente alla campagna elettorale nei luoghi di lavoro gli auspici sono ottimi». Ecco i contenuti dell’appello:

“Noi dirigenti Cgil e lavoratori dei tanti luoghi e non luoghi del lavoro, operanti nelle transizioni delle sempre mutanti prestazioni e condizioni di lavoro, facciamo appello a tutti coloro che nell’aspirazione di trovare, avere e stare in un luogo di lavoro adeguato, nel reddito e nella professione, si ribellano quotidianamente alla condizione imposta dai tanti sfruttamenti. E lo fanno con partigiano impegno, ognuno dal punto di contatto in cui agisce, accomunati dal voler cambiare e superare modelli globali malati, imposti localmente. Modelli deleteri per l’ambiente, la salute, il lavoro e per i luoghi del vivere delle tante lavoratrici e lavoratori, cittadini e cittadine di oggi e del domani. A tutti coloro che sono cresciuti con l’aspirazione dell’uguaglianza, del rispetto della dignità, della sostenibilità e della solidarietà nel lavoro e nella società, chiediamo di sostenere attivamente idee e programmi costruiti dal basso dalle centinaia di assemblee popolari che hanno dato vita a Potere al popolo.
Un movimento che, dalla pratica dell’agire nel cambiamento dello stato delle cose esistenti, ha individuato le condivise candidature, frutto delle esperienze di lotta ed elaborazione alternative. L’obiettivo è attuare e offrire, con quel tanto di “follia”, leggerezza e di utopia necessari, una visione attuabile di società alternativa, pacifica, inclusiva, proiettata nel futuro, dove i nuovi orizzonti che anche le tante innovative tecnologie offrono, possano essere strumenti e parte dei nuovi diritti strumentali di cui appropriarsi, per ridurre fatica, liberare tempi di vita, preservare le risorse del pianeta, distribuire equamente le ricchezze, lavoro e le conoscenze. Obiettivi altri rispetto al praticato e acriticamente accettato – dai vari livelli istituzionali nazionali e internazionali e da quei smarriti partiti e corpi intermedi della società – mantra dei sistemi di profitto e sfruttamento globali”.

Il giornalismo d’inchiesta nel Paese de’ servi

Roberto De Luca (D) ed il fratello Piero (S) con il padre Vincenzo De Luca, governatore della Campania, insieme allo stadio, Salerno, 07 maggio 2016. ANSA/LUIGI PEPE

Ricapitoliamo. Il giornale Fanpage.it pubblica un’inchiesta sul ciclo dei rifiuti in Campania che coinvolge alcuni esponenti politici tra cui il candidato di Fratelli d’Italia Luciano Passariello e l’assessore al comune di Salerno Roberto De Luca, che non è omonimo di quel De Luca del Pd ma è proprio il figlio, che non è il figlio candidato alla Camera con il Pd ma è un altro figlio parcheggiato a fare l’assessore. E per fortuna De Luca non ha moltissimi figli, insomma.

La Procura apre un’inchiesta giudiziaria sull’inchiesta giornalistica. Anzi, a ben vedere la Procura “brucia” l’inchiesta giornalistica facendo uscire i nomi prima che Fanpage rendesse pubblico il proprio lavoro. Ma questo ci sta, per carità, se i magistrati hanno ritenuto necessario intervenire d’urgenza. Però c’è un però: la Procura non aveva idea di cosa stesse succedendo nel ciclo dei rifiuti in Campania ma è stata informata dal direttore d Fanpage, Francesco Piccinini, che ha deciso già da tempo di informare la Procura. È un dato importante: se sentite dire in giro che “i giornalisti hanno rovinato le indagini” sappiate che senza i giornalisti quelle indagini non esisterebbero nemmeno, per dire.

Poi la Procura decide di indagare anche Fanpage (il suo direttore e il giornalista Sacha Biazzo). “Atto dovuto”, dicono. E forse lo dicono perché un po’ si vergognano anche loro di indagare chi ha scoperchiato un illecito di cui non avevano minimamente idea. Fatto sta che il fatto che Fanpage sia indagato è elemento utilissimo per chi vuole sminuire il suo lavoro tant’è che Matteo Renzi (segretario del partito che ha inventato Vincenzo De Luca, che ha candidato un suo figlio in Parlamento e che appoggia l’altro figlio al comune di Salerno) dice, intervistato da Fanpage, che non può esprimere giudizi “perché anche voi siete indagati”. Se Renzi non dovesse parlare con gli indagati dovrebbe evitare approcci con più di qualcuno dei suoi candidati alle prossime politiche ma nessuno glielo fa notare. Se Renzi non dovesse parlare di indagini in corso dovremmo stralciare metà delle sue dichiarazioni negli ultimi mesi (dall’indagine Consip alle indagini sulle banche). Ma nessuno glielo fa notare.

Poi Vincenzo De Luca, governatore della Campania, dice che l’inchiesta di Fanpage «è un attacco della camorra». I sostenitori di De Luca prendono a sberle una giornalista. Tommaso Cerno (candidato PD) dice che Fanpage ha messo in piedi tutto per “colpire De Luca” (come se non sapesse che un’indagine giornalistica non si sa mai dove andrà a parare ma del resto Cerno è solo stato un direttore di giornale, che sarà mai). Dappertutto si legge che il problema è chi ha dato la notizia, mica la notizia. E intanto i media nazionali si dimenticano di raccontare i rapporti tra politica e criminalità.

Bene così. Buon lunedì.

La laicità del vicino è davvero sempre più verde

Che esista un problema di scarsa separazione tra potere temporale e potere politico in Italia è assodato (come dimostrato nelle pagine che precedono questo articolo). Meno risaputo è invece il fatto che sussistano problemi del genere anche nel resto del Continente. Vale dunque la pena provare a tastare il polso della secolarizzazione europea. La separazione tra Stato e Chiesa in Europa è gestita essenzialmente in tre modi: attraverso il diritto pattizio, ovvero Patti e/o Concordati tra i singoli Stati e la Santa sede; l’istituzione di Chiese nazionali e/o una serie di culti riconosciuti, il che comunque non esclude la possibilità di concordati e accordi parziali con il Vaticano; l’assenza di veri e propri statuti di culto.

Soffermandoci sul primo punto, ad esempio, il Vaticano ha accordi con 25 Stati europei, ma di questi solo 15 sono accordi completi o concordati: Albania, Andorra, Austria, Bosnia ed Erzegovina, Estonia, Germania, Italia, Lettonia, Monaco, Montenegro, Polonia, Portogallo, San Marino, Slovacchia, Slovenia. Tra questi Paesi spicca l’assenza della Spagna, la cui complessa situazione discuteremo nel dettaglio più avanti.

Riguardo al secondo punto, esistono in Europa numerose Chiese nazionali, spesso create a seguito di conflitti tra i singoli Stati e la Chiesa cattolica – la Church of England, ad esempio, nata nel 1534 a seguito della scomunica di Enrico VIII da parte di Papa Clemente, o la Chiesa luterana danese, nata nel 1536 dopo la riforma protestante. Ad ogni modo, il numero delle Chiese nazionali in Europa è in diminuzione.

Esistono infine Stati europei senza un vero e proprio statuto di culto: Francia, Irlanda e Paesi Bassi per esempio. Tre Paesi estremamente diversi tra loro e con concezioni di laicità e secolarizzazione molto eterogenee. Vediamo dunque nel dettaglio la situazione in…

L’articolo di Giovanni Gaetani prosegue su Left in edicola


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Foibe, tra mito e fake news neofasciste

La manifestazione non si era ancora sciolta, nemmeno il tempo per allontanarsi infreddoliti e felici da piazzale Diaz e risalire sui pullman, che già i principali quotidiani nazionali presentavano a gran voce il fatto principe del corteo nazionale antifascista di Macerata del 10 febbraio 2018: «Frasi shock sulle foibe nel Giorno del ricordo. Serracchiani: “Cori scandalosi”», si legge su La Repubblica, a stretto giro. E la notizia diventa virale. Le circa 30mila persone presenti, la risposta decisa, di popolo, di una Italia che si stringe per dare solidarietà alle vittime di un attentato fascista, dopo che le principali sigle di sindacato (Cgil), associazionismo (Arci) e l’associazione dei partigiani (Anpi) avevano revocato il sostegno al corteo – fatto inusuale – e il ministro dell’Interno aveva promesso di vietarlo – fatto inedito in pressoché tutto il mondo cosiddetto “occidentale”, all’indomani di un episodio di terrorismo -: tutto questo scivola inesorabilmente in secondo piano, rispetto all’oltraggio di quel coro. E poco importa che a gridarlo sia stata uno sparuto manipolo di militanti.

Perché, quando si parla di foibe, non ci si riferisce ad un semplice fatto storico, drammatico, da analizzare con la cura e la serietà tipiche di accademici e divulgatori. No, le foibe sono qualcosa di molto diverso, e di molto di più: sono un tabù, un feticcio da evocare senza approfondire, un dispositivo mitologico costruito ad hoc a partire da una storia, quella vera, che ormai non importa più a nessuno. La sua malcelata funzione si è resa manifesta in modo limpido, finalmente, lo scorso 10 febbraio 2018, dopo Macerata: il dispositivo-foiba – di cui il Giorno del ricordo, istituito nel 2004 per volere dell’allora governo Berlusconi col beneplacito del centrosinistra, è parte integrante – non è altro che una clava con cui colpire l’antifascismo. «Questa commemorazione è una battaglia strumentale della destra in contrapposizione alla Giornata della memoria», ha dichiarato anni fa lo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca. E l’efficacia dello strumento è sostenuta da una grossa mole di bufale e narrazioni tossiche che gravitano intorno alla vicenda giuliano dalmata.

A partire dai numeri: «Diecimila infoibati» ribadisce quest’anno CasaPound, «ventimila italiani torturati e gettati nelle foibe» rilancia Pietrangelo Buttafuoco dalle colonne del Tempo. La fiera delle cifre è ricca, e la destra gioca a chi le spara di più. «Maurizio Gasparri, ad esempio, alcuni anni fa ha parlato di “milioni di infoibati”, ma tutta l’Istria non aveva un milione di abitanti, allora poco dopo ha ritrattato e ha parlato di migliaia». A ricordarlo è Claudia Cernigoi, giornalista e saggista, autrice di Operazione foibe a Trieste (Kappa Vu, 1997), che ci aiuta a fare luce sulla vicenda. «È stata fatta una grossa confusione – spiega Cernigoi – grazie anche all’opera di alcuni storici secondo cui il significato di “infoibati” non andava inteso in senso letterale, ma piuttosto in una accezione più vasta che comprende tutte le persone che, in un determinato periodo di guerra, sono state uccise, o dai partigiani o dall’esercito jugoslavo, per vari motivi, o portati nei campi e poi giudicati dai tribunali militari, o vittime di violenza privata. Questo è l’errore principale, il terreno fertile su cui sono potute fiorire le varie manipolazioni».

Ma quale potrebbe essere, dunque una stima più ragionevole delle cifre? «Per quanto riguarda le vittime delle foibe istriane, quelle avvenute all’indomani dell’8 settembre del 1943, possiamo parlare di duecento, trecento persone, considerando anche alcuni episodi accaduti nel dopoguerra in quelle zone. Circa le foibe del goriziano e del triestino, nel dopoguerra sono stati recuperati 464 corpi, metà dei quali erano militari morti durante il conflitto». Sono numeri molto più contenuti, documenti alla mano, rispetto a quelli della propaganda. «Per questo io e altri miei colleghi siamo chiamati “negazionisti”», chiosa Cernigoi. La loro “colpa”, in realtà, è quella di smontare pezzo dopo pezzo le giustificazioni con cui ancora c’è chi si ostina a parlare maldestramente di “genocidio”, oppure chi tira in ballo l’odio anti-italiano, nel tentativo di dimostrare una pulizia etnica da parte delle truppe di Tito mentre si trattò di uccisioni avvenute nel contesto della battaglia oppure di esecuzioni, dopo una sentenza di condanna, di gerarchi e collaborazionisti accusati di crimini di guerra. Al termine, è bene ricordarlo, di un periodo in cui italianizzazione forzata, campi di concentramento e crimini di guerra in territorio slavo erano stati all’ordine del giorno (a questo proposito, molto interessante è il documentario prodotto dalla Bbc Fascist legacy, per anni censurato dalla Rai).

Uno tra i tanti paradossi di questa vicenda, quello forse più straordinario, riguarda la foiba di Basovizza. Divenuta monumento nazionale nel 1992 per mano dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro, da quelle parti, in occasione delle consuete celebrazioni, transitano le massime autorità triestine, friulane e nazionali. Ma quel sito nasconde una storia particolare. Le foto d’agenzia che puntualmente circolano nel Giorno del ricordo dovrebbero far drizzare le antenne: che ci fanno l’ex vicepresidente del Pd Debora Serracchiani e governatrice del Friuli, il sindaco di Trieste (ma a celebrazioni in quel luogo hanno partecipato anche i presidenti Cossiga e Napolitano), ogni anno ritti in piedi di fronte ai labari della formazione nazifascista Decima Mas?

Qualcosa, ad occhio, non torna. «La leggenda parla di centinaia di persone, legate, in fila, la prima delle quali veniva fucilata, facendo cadere nella gola le altre. Si tratta di bufale – racconta Cernigoi -. Innanzitutto a Basovizza non c’è una vera e propria foiba, bensì un pozzo di miniera, le cui dimensioni escludono una dinamica simile a quella tramandata nella leggenda. Inoltre, nell’estate del 1945 sono stati fatti dei recuperi dai militari angloamericani, e i documenti parlano di una decina di corpi rinvenuti, non riconoscibili se non per la loro divisa tedesca, soldati morti durante la battaglia di Basovizza, e di alcune carcasse di cavalli».

Il monumento nazionale alle vittime delle foibe, dunque, è sorto in un luogo dove non c’è mai stato nessun infoibamento. «Solo su una circostanza, non del tutto certa, le carte di un procedimento penale lasciano aperta l’ipotesi». Si tratta del caso di Mario Fabian, un torturatore della “banda Collotti”, lo squadrone tristemente celebre per la repressione anti-partigiana nell’allora Venezia Giulia. «I suoi assalitori avrebbero confessato di averlo gettato nel pozzo», chiarisce la studiosa. Insomma, mentre a meno di dieci chilometri da lì, il 27 gennaio, presso quella Risiera di San Sabba teatro per anni di uno dei lager nazisti in territorio italiano, si celebra la “memoria” dell’Olocausto, qualche giorno più tardi, a Basovizza si “ricordano” le foibe nel luogo dove probabilmente venne infoibato soltanto un complice dell’Olocausto. A questo punto, il significato delle bandiere della Decima Mas dovrebbe essere più chiaro.

«È stata creata una mitologia sulla foiba di Basovizza, che purtroppo le autorità italiane hanno ripreso dalla destra neofascista», ha recentemente dichiarato a Fanpage lo storico Jože Pirjevec, autore di uno degli studi più importanti sul tema, Foibe – una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Mitologia che viene alimentata anche a suon di falsi fotografici. Raccolti e catalogati sul blog Giap grazie al collettivo di scrittori Wu Ming, insieme allo storico Pietro Purini e al gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Un esempio su tutti, la foto che ritrae l’esecuzione di civili sloveni da parte di soldati italiani, puntualmente scambiati per un plotone titino pronto a martoriare vittime italiche

Il falso è stato riprodotto persino da Bruno Vespa nel salotto Rai di Porta a porta nel 2012, mentre quest’anno ha fatto capolino sul sito di Fratelli d’Italia. Ma è solo una delle tante distorsioni storiche che albergano in questa vicenda surreale. A fine gennaio 2018, proprio a ridosso della commemorazione delle vittime dell’Olocausto, è stato intitolato il carcere di Trieste al maresciallo Ernesto Mari, comandante della struttura dalla quale partivano ebrei, detenuti politici e partigiani direzione Auschwitz, poi infoibato nel maggio 1945 nell’abisso Plutone, il luogo dove le esecuzioni furono più numerose. «Ci piacerebbe che il ministero della Giustizia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’intero governo spiegassero ai cittadini il perché di questa scelta», ha denunciato la coordinatrice di Antigone Susanna Marietti. Un cortocircuito inquietante, che racconta di un Paese tutt’ora incapace di fare i conti con la storia.

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left n. 7 del 16 febbraio 2018


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Il fascismo avanza e il Pd sta a guardare

MARCO MINNITI CON LA SCORTA SCORTE

I fatti di Macerata hanno messo in evidenza quanto ambigua sia l’opinione di molti italiani sul significato del fascismo. Diversi storici e opinionisti sostengono che il fascismo sia identificabile solo con il regime di Benito Mussolini e che sia caduto insieme al regime. Casi di squadrismo fascista si sono succeduti senza interruzione dal 1945, per intensificarsi in anni più recenti insieme al declino di legittimità della democrazia dei partiti.

Un piccolo e incompleto riassunto: le immagini di Anna Frank usate dai tifosi laziali; il calciatore che a Marzabotto saluta fascisticamente il pubblico indossando una maglia nera con l’emblema della Repubblica di Salò; l’irruzione a Como di un gruppo di militanti neofascisti nella sede di un’associazione che si occupa di assistenza agli immigrati; le dichiarazioni del presidente Pd del quartiere Centro di Firenze secondo cui Mussolini avrebbe fatto tante cose buone, molto più di altri in età democratica; l’affissione a Rimini di centinaia di manifesti con il faccione del Duce. E da ultimo, il fascista e leghista che a Macerata ha sparato ai passanti per uccidere persone di colore (ferendone alcune) e le dichiarazioni di commento del segretario del Pd e del ministro Minniti sulla natura di quel gesto, rubricata come un caso isolato di un folle che ha cercato di fare giustizia dell’uccisione di una ragazza, Pamela, che vede imputati alcuni nigeriani. Rambo, giustizia da pistolero: una depoliticizzazione dell’attentato alla vita civile e alle persone di Macerata.

Questa reazione del partito di centro-sinistra parla da sé sull’ideologia della estrema storicizzazione, che è a suo modo una forma di revisione del modo con cui per decenni la cultura democratica ha inteso il fascismo – un rischio mai completamente scongiurato. I fatti (ricorrenti) parlano di fascismo che ritorna, in molti casi mai scomparso e tenuto in vita da associazioni e una pubblicistica molto intensa: e che viene quasi negato, certamente minimizzato, anche da coloro che dovrebbero essere naturalmente i suoi oppositori. Reinterpretare, minimizzare. E intanto le cose vanno avanti.

Pochi anni fa…

L’articolo di Nadia Urbinati prosegue su Left in edicola


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Chiese ai senza casa, una nuova occupazione a Napoli

A cosa servono le chiese? Alla maggiore “gloria di Dio” o al conforto degli uomini? La storia ci dice: a entrambe le cose. Per un verso le chiese, la loro progettazione, la loro costruzione, hanno rappresentato un tentativo di celebrazione fino a sacrificare in quest’opera ogni bene e risorsa umana. Per un altro verso, però, le chiese hanno anche rappresentato luoghi di comunità, dove trovare anche ristoro materiale, protezione dal freddo, dalle angherie del mondo. Da questo punto di vista, non appare poi così peregrina l’idea avuta il 2 febbraio da una cinquantina di attivisti napoletani: occupare una chiesa abbandonata del centro storico per restituirla al popolo e utilizzarla come dormitorio e refettorio per i senzatetto.

Ma facciamo un passo indietro. A Napoli ci sono circa 200 chiese abbandonate, di proprietà della Curia e del Comune. Si va da piccoli edifici a complessi piuttosto grossi, disseminati nel ventre della città. A Napoli ci sono però anche un migliaio di senza tetto, e una delle emergenze abitative più gravi di tutto il Paese, dettata dall’assenza di edilizia popolare e di adeguate politiche assistenziali. L’emergenza freddo del 2016, che causò la morte di diversi esseri umani costretti a vivere per strada, accese per qualche giorno i riflettori su questo mondo. Diverse associazioni in tutta Italia decisero di rimediare alla scarsa offerta di posti letto nei dormitori e di aprire le proprie porte ai senza fissa dimora. A Napoli questo spontaneo esperimento di accoglienza si tenne presso l’Ex Opg “Je so’ pazzo” di Materdei – un antico monastero, per lungo tempo adibito a manicomio criminale e infine occupato e riconvertito a centro sociale -, e portò alla nascita della “Rete di solidarietà popolare”, un insieme di associazioni, singoli cittadini ed ex senzatetto che iniziarono a praticare il mutuo soccorso.

Sin da subito, per evitare il ripetersi dell’“emergenza freddo” – che in effetti emergenza non dovrebbe essere, visto che il ciclo delle stagioni si ripete da miliardi di anni ed è possibile attrezzarsi per evitarne i tragici effetti – la Rete…

L’articolo di Salvatore Prinzi prosegue su Left in edicola


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Bersani: «Questi sono i contraccolpi della globalizzazione»

PIER LUIGI BERSANI

Alla manifestazione antifascista di Macerata c’erano i movimenti, la Fiom, tante associazioni. Ma Liberi e uguali, a parte Civati e Fratoianni, non era presente in massa.
Ma non è vero! Sì, c’erano Fratoianni, Civati, Zoggia, altri nostri deputati. Siamo in giro per la campagna elettorale e dove eravamo abbiamo detto la cosa che ripeto sin dall’inizio. Noi in Italia abbiamo già visto terrorismo, rigurgiti fascisti, le bombe, abbiamo visto di tutto. Come abbiamo risposto? In due modi: andando in piazza e andandoci tutti. Unità di popolo in piazza. Credo che sia stato un limite il fatto di non rispondere coralmente in questo modo, naturalmente con il rispetto di chi, sindaco, Cgil, Anpi nazionale hanno avuto questo timore. Però io credo che adesso bisogna assolutamente riprendere la strada…

Ma la presenza di Grasso non sarebbe stata importante a Macerata?
Il nostro obiettivo è quello di ricucire, di avere tutti in piazza, dal Pd fino alla Bonino e tutti i democratici. Andiamo noi, venga anche Calenda, l’Anpi… Fatto l’errore, per così dire, il nostro obiettivo non è stato quello di ribadire il solco ma di tenere un atteggiamento che avesse un profilo ricostruttivo. Bisogna stare attenti anche a non creare ulteriori fratture. Quindi mi auguro che il 24 febbraio alla manifestazione nazionale (a Roma promossa da Anpi, ndr) ci siano davvero tutti.

I toni bassi invocati da Renzi su Macerata sono stati visti come uno strizzare l’occhio a Berlusconi per la “grande coalizione” dopo il voto. Voi che farete?
Beh è chiaro che il Pd su questi temi di fondo ha uno sbandamento, e non da oggi. Ci sono segni evidenti che il Pd si incontra almeno con una parte della destra, cioè Berlusconi. Se no non si spiegherebbe il fatto che si sono fatte le leggi elettorali insieme alla destra, dall’Italicum al Rosatellum. E non si spiegherebbe anche la scelta sulle candidature dove si è “spianato” tutti quelli che potevano parlare di centrosinistra e si è messo invece un sacco di gente – da amici di Lombardo e Cuffaro, al braccio destro di Formigoni, Casini e Lorenzini in Emilia – tutta gente che il centrosinistra lo farebbe con Berlusconi, mica con noi.

Ma che farete nel caso di una maggioranza Renzi-Berlusconi?
Noi con la destra…

L’intervista di Donatella Coccoli e Pierluigi Bersani prusegue su Left in edicola


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La storia curda sotto le bombe

epa06498178 A Kurdish girl carries a picture of late 23-year-old Kurdish People's Protection Units (YPJ) fighter Barin Kobani, during a protest against what they call the 'Turkish aggression' in northern Syria, near the US embassy in Awkar, east of Beirut, Lebanon, 05 February 2018. The Turkish army is on an operation named 'Operation Olive Branch' in Syria's northern regions against the Kurdish Popular Protection Units (YPG) forces which control the city of Afrin. Turkey classifies the YPG as a terrorist organization. EPA/WAEL HAMZEH

Il tempio di Ain Dara, tremila anni di storia, a cavallo tra età del bronzo e del ferro e memoria del regno siro-ittita, è stato polverizzato dalle bombe di un caccia turco alla fine di gennaio. Ne resta ben poco, sebbene sia al momento difficile fare un bilancio preciso dei danni: 77 chilometri a nord-ovest di Aleppo, alle porte di Afrin – il cantone curdo siriano dal 20 gennaio target dell’operazione turca “Ramo d’ulivo” – il tempio era stato scoperto quasi per caso negli anni 50 e riportato alla luce trent’anni dopo dal Dipartimento siriano di antichità.
Tra i più grandi siti siriani, considerato la chiave per leggere la scomparsa struttura del tempio di Salomone a Gerusalemme, era noto per le sue statue di leoni e sfingi che, in fila, disegnavano il perimetro del tempio e per le impronte scolpite a terra, simbolo del passaggio degli dei. Un tesoro unico, ridotto in macerie dalla politica di potenza turca.

L’operazione, annunciata da tempo dal presidente turco Erdogan, ha nel mirino il cantone più occidentale di Rojava, Afrin, città di 500mila persone – di cui la metà sfollati da Idlib, Raqqa, Azaz – e distretto in cui ne risiedono oltre 1,2 milioni. Contro la comunità si sta abbattendo una forza di fuoco che colpisce da più direzioni: dal cielo l’aviazione e da terra gli incessanti colpi di artiglieria dell’esercito di Ankara a copertura dell’avanzata di 25mila miliziani di diversi gruppi di opposizione a Damasco, identificati come unità dell’Esercito libero mescolati a islamisti di varie affiliazioni (secondo le unità di difesa curde, Ypg/Ypj, del gruppo salafita Ahrar al-Sham, dei qaedisti dell’ex al-Nusra e anche delle fila Isis).

La sproporzione di forza non ha finora permesso ai turchi un’avanzata reale sul terreno, a difendere Afrin sono arrivati combattenti di diverse etnie e confessioni da tutto il nord della Siria. Ma se a pagare il prezzo dell’offensiva sono i civili, nel mirino di Erdogan c’è qualcosa che va al di là dell’imposizione della propria egemonia nel nord della Siria: c’è la definitiva cancellazione di un progetto politico – il confederalismo democratico – che trova le sue radici nella storia e la tradizione sociale curda. Una regione storicamente pluralista…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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Il fascismo non è un’opinione

Cosa manca a sinistra perché non ci sia più confusione nel comprendere come opporsi a quanto di negativo accade nella società? Cosa manca perché sia ovvio che il fascismo è un crimine ed è necessario opporvisi in ogni modo, anche nell’azione politica?

Bisogna forse prima capire come esso sviluppa la sua azione di proselitismo tra le giovani generazioni e cosa gli permette di attecchire. Il fascismo è una visione distorta della realtà ed in particolare della realtà umana. Una visione errata che porta a fare scelte violente nei confronti di altri esseri umani.

È un pensiero che elimina l’umanità dell’altro e porta quindi alla prevaricazione e alla violenza. Il fascismo ha, paradossalmente, un’idea per cui dovremmo essere tutti uguali. Ma questa uguaglianza è in realtà falsa perché elimina del tutto ogni possibile diversità. L’uguaglianza sarebbe in realtà solo di una parte dell’umanità. Per i fascisti non esistono diversi. Esistono solo uguali. I diversi sarebbero errori della natura. In quanto tali possono essere eliminati, perché fondamentalmente non sono veri esseri umani. Come degli animali.

L’azione prevaricatrice e violenta altro non sarebbe che la manifestazione della realtà autentica dell’essere. Tanto più questo avviene tanto più questo indica un destino dell’essere che si realizza. I fascisti giustificano le proprie azioni con il fatto di essere prescelti, di essere predestinati a fare quello che fanno. In realtà sono completamente ciechi. Non vedono realtà umana attorno a sé. Sono soli. Sanno perfettamente che una leva emotiva per controllare gli altri è la paura di ciò che non si conosce.

Perché essi per primi hanno una paura terribile di ciò che non conoscono. Ciò di cui hanno più paura è del diverso. Ma non tanto perché il diverso potrebbe essere violento ma perché il diverso è qualcosa di incomprensibile e inconoscibile. Qualcosa, o meglio qualcuno, con cui non si potrà mai avere rapporto. La conseguenza logica è che il diverso è violento. Bisogna difendersi, eliminarlo, altrimenti lui distruggerà noi… C’è una difficoltà, se non impossibilità, di comprensione dell’altro, di capire cosa pensa e soprattutto cosa prova. Il fascista vuole che tutti pensino che i diversi non siano esseri umani perché in questo modo giustifica a se stesso il fatto di non comprenderne la realtà. Può nascondere la sua incapacità di comprendere affettivamente l’altro attribuendo al diverso una violenza che in realtà è la sua.

La violenza sta nella incapacità di comprendere. Ciò che non viene compreso deve essere distrutto, deve sparire. Come disse Primo Levi in un intervista ad Enzo Biagi, il fascismo è come un anestetico: serve a non pensare, svuota la mente e rende tutto molto facile. È la facilità della negazione e dell’annullamento. L’azione facile di chiudere gli occhi per non vedere e non sentire. Se all’inizio può essere qualcosa di poco conto, se la cosa viene ripetuta, alla lunga il gioco diventa verità… e si perde l’umanità. Perché l’altro diventa effettivamente non più umano. E non è certamente un pensiero religioso che può fare da antidoto al fascismo, con cui in verità va perfettamente d’accordo.

L’antidoto sta nello sviluppare l’identità della donna e del rapporto tra uomo e donna. Perché la prima realtà che mette alla prova il rapporto con il diverso è il rapporto con la donna per l’uomo e con l’uomo per la donna. È in quella dinamica che si mette alla prova la propria capacità di amare e di andare verso lo sconosciuto e non contro lo sconosciuto.

Massimo Fagioli, cui abbiamo dedicato il numero speciale della scorsa settimana, ha speso la vita a lottare per la realizzazione della donna. Per far sì che si superi un’idea millenaria che pensa che la sua massima realizzazione sia nell’essere madre, considerandola di fatto un essere umano inferiore: la costola di Adamo.

Consiglio al lettore interessato la lettura del libro di Massimo Fagioli La marionetta e il burattino (L’asino d’oro edizioni). Basterebbe questo alla sinistra per non avere più confusione. Per poter avere idee chiare che permettano di reagire a pensieri e politiche stupide e violente. La paura del diverso è la paura verso ciò che non si conosce. Ma, come insegna Fagioli, non esiste l’inconoscibile. Esiste solo ciò che ancora non si conosce.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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