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Ivan Franceschini: «La fabbrica del mondo chiamata Cina. E i diritti dei lavoratori»

CINA:CENTRALE NUCLEARE Workers walk on the grounds of the Qinshan Nuclear Power Plant, in eastern China's Zhejiang province, Friday 10 June 2005. Qinshan is China's first such plant designed, constructed and managed entirely by domestic resources. China plans to build 30 more nuclear generators by 2020, at which point nuclear energy is expected to account for only four percent of the nation's energy capacity. MICHAEL REYNOLDS ANSA-CD

Tra i numerosi, e riuscitissimi, aforismi di Ennio Flaiano ce n’è uno che si è rivelato un po’ meno indovinato degli altri: «Capire la Cina non è soltanto noioso, ma inutile». Così scriveva il grande giornalista e critico cinematografico abruzzese sull’Impero Celeste nel Frasario essenziale per passare inosservati in società. Più lungimirante si è invece dimostrato Napoleone Bonaparte che nel lontano 1816 disse: «Lasciate dormire la Cina perché al suo risveglio il mondo tremerà». Anche se nato come commento di natura militare, l’opinione del generale francese si è avverata sul piano economico. Ed è quindi quanto mai importante, e utile, cercare di capire la Cina e la sua sorprendente ascesa nel mercato globale, tra innegabili successi e altrettante contraddizioni. Nei giorni che vedono milioni di lavoratori spostarsi per tornare alla loro città d’origine per festeggiare il Capodanno Cinese, la festività più importante del Paese equivalente al nostro Natale e che quest’anno cade il 16 febbraio, abbiamo incontrato un affermato studioso italiano, Ivan Franceschini, che sulla Cina ha scritto nel 2016 un piccolo ma prezioso libro, ancora attuale: Lavoro e diritti sulla in Cina. Politiche sul lavoro e attivismo operaio nella fabbrica del mondo (ed. Il Mulino), nato come risultato del progetto sul lavoro cinese in prospettiva globale al quale ha lavorato come Marie Curie Fellow all’Università Ca’ Foscari di Venezia e all’Australian Centre on China in the World di Canberra.

Una domanda preliminare ma necessaria. È ancora corretto definire la Cina come la “fabbrica del mondo”, alla luce dell’incremento medio dei salari dei lavoratori e dell’aumento delle produzioni ad alto contenuto tecnologico delle industrie cinesi?

È vero che i salari in Cina – e più generalmente il costo del lavoro – sono cresciuti molto negli ultimi anni sull’onda dell’adozione di una serie di nuove leggi e regolamenti sul lavoro, ed è anche vero che i lavoratori cinesi hanno tratto vantaggio dai cambiamenti demografici in atto nel Paese, con il loro potere contrattuale rafforzato dall’emergere di quella che è stata definita come una vera e propria ‘carestia di migranti’. Allo stesso tempo, le autorità cinesi hanno lanciato imponenti campagne per l’upgrade industriale nel tentativo di scrollarsi di dosso la reputazione di ‘fabbrica del mondo’. Tuttavia, a dispetto dei progressi in questo senso, e nonostante un numero sempre maggiore di aziende in settori ad alta intensità di lavoro stia trasferendo la produzione dalla Cina ad altre aree dove i costi sono inferiori, la Cina rimane tuttora il centro della manifattura globale.

Negli ultimi mesi, tra novembre e dicembre del 2017, la stampa internazionale ha dato ampio spazio alle notizie degli sgomberi dei lavoratori migranti (per lo più contadini) a Pechino. Secondo le ultime stime sono circa 273 milioni, e vivono in condizioni di estrema precarietà dovuta al mancato ottenimento della registrazione (hukou) nella città dove lavorano, e senza la quale non si ha accesso ai diritti essenziali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Il motivo ufficiale degli sgomberi è stato la scarsa sicurezza delle case nelle quali abitavano. Ci sono a suo avviso motivi meno nobili dietro la decisione dell’amministrazione pechinese? 

In realtà, il dramma che si è svolto alla fine del 2017 è stato il culmine di un lungo processo. Già nel marzo del 2014, un piano ufficiale per la ‘nuova urbanizzazione’ rilasciato dalle autorità centrali cinesi richiedeva l’adozione di severe misure restrittive per contrastare i flussi migratori verso le megalopoli con più di cinque milioni di abitanti. Tre anni dopo, nell’aprile del 2017, le autorità di Pechino hanno annunciato l’intenzione di limitare la popolazione della capitale – che allora si aggirava intorno ai 22 milioni di persone – a non più di 23 milioni entro il 2020. Questo avveniva nel mezzo di piani per riqualificare ampie aree della città che prevedevano l’abbattimento di decine di milioni di metri quadrati – 30 milioni nel 2016, altri 40 milioni nel 2017 – di costruzioni illegali, soprattutto piccoli negozi, ristoranti, bancarelle gestite da migranti. Nell’estate del 2017 ha fatto notizia in Cina l’annuncio che alcuni villaggi ai margini di Pechino – località che ospitano quei lavoratori migranti che non possono permettersi un alloggio nella capitale – avrebbero iniziato a richiedere alla popolazione non locale di pagare una cifra esagerata come una sorta di tassa di soggiorno. Dichiaratamente, questi soldi sarebbero stati usati non solo per coprire i costi dei servizi e della pubblica sicurezza, ma anche per raggiungere l’obiettivo di avere zero migranti all’interno del villaggio. È stato in questo contesto che nel novembre del 2017, quando un incendio in una palazzina alla periferia di Pechino abitata soprattutto da migranti ha causato la morte di diciannove persone, le autorità cinesi hanno colto la palla al balzo per iniziare un’opera generale di ‘pulizia’ di quelli che sono stati definiti gli “strati inferiori della popolazione”. La situazione è presto sfuggita di mano, e nessuno si aspettava la risonanza che la vicenda avrebbe ottenuto a livello mediatico, tanto in Cina quanto all’estero.

Nel suo libro dà conto del cosiddetto “risveglio dei diritti” messo in atto dai lavoratori migranti, in particolar modo da parte dei “migranti di nuova generazione”, generalmente più giovani ed istruiti, lontani dalla dicotomia “sfruttamento/resistenza” con la quale tradizionalmente in Occidente si è sempre inquadrato il lavoratore cinese. Si può parlare, a questo proposito, di una rottura con il passato in direzione di una maggiore consapevolezza dei diritti?

Quello che propongo nel mio libro è in realtà una critica dell’idea del “risveglio dei diritti”. Nell’ultimo decennio si è scritto molto su questo presunto ‘risveglio’ dei lavoratori cinesi, in particolare in occasione di alcuni specifici episodi di mobilitazione operaia in cui i lavoratori hanno avanzato rivendicazioni salariali che andavano ben oltre quanto avevano diritto per legge. Stando a questa narrazione, protagonista della nuova ‘ondata’ di attivismo sarebbe stata la cosiddetta ‘nuova generazione di migranti’, vale a dire quei lavoratori di origini rurali nati negli anni Ottanta e Novanta. Se questi nuovi lavoratori indubbiamente presentano elementi di rottura con il passato in termini di identità, aspettative e abitudini di consumo, presentarli come il motore della lotta operaia in Cina è, a mio avviso, un’esagerazione. Negli ultimi anni, la maggior parte delle proteste dei lavoratori in Cina ha avuto luogo per il mancato pagamento dei contributi previdenziali, oppure in risposta a decisioni aziendali di chiudere gli impianti e rilocare la produzione altrove. A giocare un ruolo fondamentale in questi episodi sono stati lavoratori più anziani, più esperti e maggiormente preoccupati per il proprio futuro post-lavorativo. Da questo punto di vista, l’idea che i giovani migranti siano più attivi è come minimo una semplificazione. Più in generale, l’idea stessa che in Cina stia avendo luogo un ‘risveglio’ dei lavoratori dovrebbe essere presa con le pinze. Se, come dicevo, non mancano episodi in cui lavoratori si sono mobilitati per i propri interessi – in contrasto con la grande maggioranza dei casi di sciopero, in cui i lavoratori si limitano a rivendicare diritti già concessi per legge – questo non è automaticamente indicativo di una tendenza più generale.

A seguito della ricerca che ha svolto sul campo, tra il 2012 e il 2015, con più di 1300 interviste ai lavoratori in 3 diverse città cinesi, a proposito del sindacato conclude: «Quasi i due terzi degli intervistati ignorava o non aveva un’idea chiara del ruolo del sindacato». Quale ritiene sia la causa di questa “irrilevanza” del sindacato cinese e quali sono le conseguenze maggiori per i lavoratori?

In una più recente ricerca che ho realizzato su un campione di lavoratori nel settore tessile ho riscontrato un dato ancor più sorprendente: il 28 percento dei miei 250 intervistati non aveva mai sentito prima la parola cinese per sindacato (gonghui). Questa irrilevanza è dovuta alla struttura stessa del sindacato cinese. In Cina ancora oggi è permesso un solo sindacato, la Federazione nazionale dei sindacati cinesi (Fnsc). Si tratta di un’organizzazione colossale, che nel 2017 contava oltre trecento milioni di membri – quanti dei quali fossero consapevoli di esserne parte non saprei dire. Prima che un sindacato, la Fnsc rimane una tradizionale organizzazione di massa, pensata per funzionare come cintura di trasmissione leninista tra Partito e lavoratori – e non sono parole mie, ma è la retorica usata dai massimi dirigenti cinesi in ogni occasione ufficiale. Se negli ultimi tempi la Fnsc ha dedicato parecchie risorse all’assunzione di personale in grado di fornire assistenza legale nel caso di dispute lavorative, a livello aziendale il sindacato ufficiale si occupa soprattutto dell’organizzazione di attività ricreative per i dipendenti. In molti casi, sebbene sia proibito per legge, i quadri della sezione sindacale aziendale spesso sono manager o parenti dei datori di lavoro e il sindacato aziendale è stabilito solamente pro forma, in risposta a richieste giunte dall’alto. In un contesto simile, c’è ben poco da stupirsi se i lavoratori cinesi non hanno un’idea chiara di cosa sia un sindacato. La conseguenza più evidente dell’assenza di un sindacato indipendente in Cina si riscontra nel fatto che, nel caso di una disputa lavorativa, la maggior parte dei lavoratori cinesi, piuttosto che lottare, sceglie di dare le dimissioni e cercare una nuova occupazione. Senza sindacati indipendenti, per i lavoratori cinesi è molto più difficile – anche se non impossibile – organizzarsi per portare avanti le proprie rivendicazioni, tanto più qualora si renda necessaria una lotta sostenuta nel tempo.

Oltre al sindacato ufficiale, in Cina sono presenti molte Ong del lavoro nate a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Il numero così alto di organizzazioni “non riconosciute” cosa ci dice sul mondo del lavoro cinese?

In realtà, il numero di queste organizzazioni è tutt’altro che alto. Si tratta al massimo di qualche dozzina di organizzazioni, concentrate per lo più nella provincia del Guangdong e in poche altre metropoli costiere, nulla in confronto al numero di lavoratori migranti in Cina e ai loro bisogni. Se non altro, l’esistenza di queste organizzazioni ci racconta del fallimento del tentativo delle autorità cinesi di affidare la rappresentanza dei lavoratori al sindacato ufficiale. Queste Ong infatti giocano un ruolo fondamentale di intermediazione tra i lavoratori e il sistema giuridico cinese, assistendo i lavoratori cinesi là dove le istituzioni preposte a questo scopo falliscono. In alcuni casi, negli ultimi anni, queste Ong si sono spinte al punto di intervenire in dispute collettive, spiegando ai lavoratori come eleggere i propri rappresentanti per avviare una contrattazione collettiva con il proprio datore di lavoro. È stato proprio questo approccio militante che alla fine del 2015 ha portato le autorità cinesi a lanciare un nuovo, pesantissimo giro di vite contro queste organizzazioni. Le Ong del lavoro oggi si trovano ad affrontare difficoltà enormi, tanto per le crescenti difficoltà ad accedere a finanziamenti stranieri – per ovvie ragioni, non esistono forme di finanziamento locali – quanto per il controllo sempre più soffocante delle autorità cinesi sulle loro attività.

Con l’ascesa al potere di Xi Jinping, e con una Cina sempre più proiettata all’estero con interventi infrastrutturali faraonici quali la costruzione della Nuova Via della Seta, si registra qualche miglioramento sul fronte dei diritti dei lavoratori? Si può sostenere, insomma, che il grande sviluppo economico possa contribuire anche allo sviluppo dei diritti? O è solo un auspicio per il futuro?

La vicenda degli sgomberi a Pechino dimostra che sviluppo economico e diritti dei lavoratori non necessariamente vanno di pari passo. In assenza di un movimento dei lavoratori forte e organizzato, ogni avanzamento sul fronte dei diritti rimane sacrificabile. In fondo, i diritti dei lavoratori in Cina sono pur sempre una concessione dall’alto, un ‘regalo’ del Partito alle masse, non una conquista, il che è una differenza non da poco. Per quanto riguarda la Nuova Via della Seta, sebbene mezzo mondo sia intento a discutere – spesso con toni sicofantici – di come approfittare di questa opportunità, quello che manca è proprio un’analisi del possibile impatto sociale di questi investimenti nei paesi destinatari, in particolare in relazione al lavoro. Le ragioni di preoccupazione non mancano. Penso ad esempio alla situazione che si sta verificando in Cambogia – oggetto della mia nuova ricerca – dove massicci investimenti e aiuti incondizionati provenienti dalla Cina stanno non solo avendo pesantissime ripercussioni sociali, ma anche contribuendo a fare terra bruciata delle fragili istituzioni democratiche costruite con fatica negli anni trascorsi dalla fine della guerra civile. Da questo punto di vista, auspicherei più attenzione – o quantomeno l’inizio di un dibattito – sull’impatto sociale, non solo economico, degli investimenti cinesi all’estero, anche in Italia.

Iran, il caso del professore ambientalista. E’ stato un suicidio?

L’ambientalista iraniano Kavous Seyed Emami, morto due giorni fa nella prigione di Evin a Teheran, si è suicidato perché le prove di spionaggio contro di lui erano schiaccianti. O, almeno, è questa è la versione ufficiale delle autorità iraniane e del giudice Abbas Jafari Dolatabadi: «ha commesso suicidio in prigione perché sapeva che molti avevano testimoniato contro di lui, lui stesso aveva confessato».

Parole che descrivono una spia, che si sarebbe tolto la vita per la vergogna. Ma l’intellettuale ed accademico Emami, 63 anni, doppio passaporto, – canadese ed iraniano -, era un professore di sociologia all’università Imam Sadigh, fondatore della Persian Wildlife Heritage Foundation. Era stato arrestato il mese scorso, il 24 gennaio, e trasferito nella prigione di Evin, dove nel 2003 la fotografa iraniana canadese Zahra Kazemi, 54 anni, è morta dopo essere stata arrestata solo per aver scattato delle fotografie. Emami aveva combattuto nella guerra contro l’Iraq, per diventare poi, strenuo difensore dell’ambiente del suo Paese.

Il figlio di Emami, il musicista Ramin, insieme a molti altri attivisti, non crede che si sia tolto la vita. Cominciano a porre interrogativi sulla sua morte anche i membri dell’Associazione dei sociologi iraniani. Ali Shakourirad, a capo del Partito dell’Unione islamica riformista, ha ribadito che questa morte «solleva molte domande e preoccupazioni pubbliche».

Questa non è la prima morte sospetta, bollata come suicidio, tra i detenuti delle carceri persiane. Due manifestanti iraniani, arrestati durante le recenti proteste che hanno scosso il Paese il mese scorso, sono morti in cella e anche in quel caso, la spiegazione ufficiale delle autorità è stata: “suicidio”. I familiari, insieme ai loro avvocati, hanno chiesto un’indagine indipendente per una verità altra, che credono non assomigli a quella ufficiale delle toghe.

Si continua a morire a Teheran. La repressione continua. Quello di Emami non è stato il primo arresto tra la comunità accademica degli ecologisti iraniani. Sette persone sono state ammanettate la settimana scorsa per aver fornito informazioni classificate «sotto la copertura di progetti ambientalisti e scientifici», perché, riferiscono le autorità, le loro ricerche nei siti erano in realtà una copertura «per attività di spionaggio». Dopo le preoccupazioni espresse da Antonio Guterres e dall’Onu sulla vicenda, sono arrivate quelle del Center for Human Rights in Iran: «il sistema giudiziario è fuori controllo, sta collaborando a coprire la verità».

Ambasciator non porta verità

«È un messaggio di continuazione dell’impegno. I risultati ottenuti sono stati basati su uno stretto raccordo e una concertazione quasi quotidiana tra le istituzioni, il governo italiano, l’ambasciata, la Procura di Roma – che ha fatto un lavoro straordinario – e la Procura del Cairo e su questa strada dobbiamo continuare per avere la verità sulla brutale esecuzione di Giulio»: aveva detto così lo scorso 24 gennaio Giampaolo Cantini quando si era ritrovato (povero lui) a fingere di commemorare i due anni dalla scomparsa di Giulio Regeni da ambasciatore italiano in Egitto.

Ci hanno detto che il ritorno dell’ambasciatore italiano in terra d’Egitto sarebbe servito per “trovare la verità” e invece, sei mesi dopo, registriamo la saldatura dei ghiotti rapporti commerciali (la scenetta dell’amministratore dell’Eni De Scalzi insieme a Al Sisi è una di quelle notizie che dovrebbe sanguinare e invece niente) ma nessun concreto passo in avanti sulla morte di Giulio Regeni.

Lo dice senza troppi giri di parole la famiglia di Giulio: «Non è stata registrata in realtà nessuna ‘reazione’ da parte della magistratura egiziana sulla informativa italiana che ricostruisce le precise responsabilità di nove funzionari di pubblica sicurezza egiziani perfettamente individuati. Sono passati, da quel 14 agosto, altri sei mesi». «Se, come ci era stato garantito dal nostro Governo – dice la famiglia Regeni – l’invio dell’ambasciatore, doveva consentire il raggiungimento della verità processuale su “tutto il male del mondo” inferto su nostro figlio, il fine evidentemente non è stato raggiunto e la missione in questo senso è fallita. Non è possibile normalizzare i rapporti con uno stato che tortura, uccide e nasconde oltraggiosamente la verità, se non a scapito della credibilità politica del nostro Paese e di chi lo rappresenta».

Missione fallita. Giulio è morto. Questi sperano che il ricordo e la fame di giustizia si spenga. E invece no, non si spegne.

Buon mercoledì.

Luca Marinelli è il poeta De André, cantore libero e anarchico

Luca Marinelli in una foto di scena del film ?Fabrizio De Andrè. Principe Libero?. 19 gennaio 2018. ANSA/UFFICIO STAMPA NEXO DIGITAL ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Presentato in 300 sale italiane il 23 e il 24 gennaio, viene trasmesso su Rai 1, il 13 e il 14 febbraio, il film in 2 puntate Fabrizio De André – Principe libero, titolo ispirato alla citazione di Samuel Bellamy presente sull’album Le Nuvole. Regia di Luca Facchini, scritto da Francesca Serafini e Giordano Meacci (loro il copione del film di Claudio Caligari Non essere cattivo), interpretato con buona aderenza fisica ed efficace credibilità dal bravo Luca Marinelli, malgrado l’accento romano.

Sarà un modo per ricordare uno dei maggiori cantautori della musica italiana – genovese di nascita, versatile per vocazione – forse il più potente nella scrittura dei testi e nell’invenzione di un personale mondo poetico. Il lavoro televisivo racconta gran parte della vita dell’artista, dal sequestro in Sardegna alla sua liberazione, ripercorrendone in flashback l’adolescenza inquieta e la vita privata. Ci sono il rapporto conflittuale con il padre; l’avvicinamento alla musica; la frequentazione del liceo classico e gli esami rimandati a Giurisprudenza; le notti brave tra i carruggi di Genova; la bottiglia in mano, la sigaretta tra le dita, le prostitute all’angolo della strada, i primi versi scritti con un misto di pudore e insoddisfazione; le serate con Paolo Villaggio – suo il soprannome Faber – per sbarcare il lunario; il matrimonio con la ricca Puny e la nascita del figlio Cristiano. E, procedendo verso la maturità, emergono l’intima lacerazione tra lavoro, denaro e aspirazioni artistiche; il successo con “la Canzone di Marinella” interpretata da Mina nel 1964; la scena musicale di allora e l’amicizia con Tenco; l’insofferenza per l’ambiente borghese; i rapporti turbolenti con il ’68; la dipendenza dall’alcol; l’incontro e la relazione con Dori Ghezzi.

Insomma l’intento di realizzare un biopic corposo e sintetico, guidato da un afflato sincero, è evidente, ma l’andamento è fortemente impressionistico, le punte sono smussate, le emozioni rarefatte, il tono fin troppo incline al perbenismo e alla conciliazione. La storia di un uomo diviso tra due donne e due modi di intendere la vita prevale sulla complessità di un personaggio scomodo, ostinatamente ribelle, volubile, imprevedibile negli scatti come negli slanci di tenerezza. L’impostazione nazional-popolare vince sulle contraddizioni di un uomo irriverente, ironico, audace, anticonformista, anche brutale, ma mai uguale a se stesso.

L’orizzonte è compresso. De Andrè è stato un anarchico, che disprezzava il potere, la Chiesa, i guerrafondai, dileggiandone l’ipocrisia, la mollezza e la violenza truce; un poeta che raccontava la libertà, la sconfitta, il dolore, l’amore spregiudicato e la vischiosità dei pregiudizi, storie intime ed esemplari, andando dritto alla testa e al cuore; un inventore di forme espressive in debito con Villon, Baudelaire, Brassens, Lee Masters e la filosofia esistenzialista e non ultimo un artista che si misurava con dialetti e lingue locali nell’esperienza del far musica, lasciando vibrare nelle sue partiture echi lontani e strumenti dimenticati. Chi si aspetta tutto ciò, troverà poco. Ma chi vorrà avvicinarsi a questo cantore delle fragilità dell’amore, della follia più cupa, degli abbandoni struggenti, dei fatti di strada e di popolo; ai suoi versi aulici e malinconici, maliziosi o sensuali, lunari o luminosi; ai suoi personaggi reietti, dannati, oltraggiosi – prostitute, ladri, blasfemi, bombaroli, assassini, amanti – così vivi e concreti, anche in prossimità della morte, resterà inevitabilmente sedotto dalla sua produzione artistica, dai suoi racconti e dalle sue riflessioni : qualcuno ne ascolterà con piacere i brani, nella performance di Marinelli, e qualcun altro inevitabilmente se ne innamorerà o tornerà ad innamorarsene, scoprendoli sorprendentemente senza tempo.

…domani alle tre
nella fossa comune sarà
senza il prete e la messa perché d’un suicida
non hanno pietà
(“La ballata di Miché” -1961)

A salutare chi per un poco
Senza pretese, senza pretese
A salutare chi per un poco
Portò l’amore nel paese
C’era un cartello giallo
Con una scritta nera
Diceva “addio bocca di rosa
Con te se ne parte la primavera”
(“Bocca di rosa” – 1967)

E tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d’amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
Amore che vieni Amore che vai
– 

l’amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po’ di tenerezza
(“La Canzone dell’amore perduto” – 1966)

furono baci
furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle
dicono poi che mentre ritornavi 
nel fiume
chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent’anni ancora alla tua porta
(“La Canzone di Marinella” – 1964)

E se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà
per vedere 
vedere gli occhi di un uomo che muore
(“La Guerra di Piero”)

Onora il padre,
onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone
(“Il Testamento di Tito”)

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte,
ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male
(“Un Blasfemo”)

Filippine, Duterte ai suoi soldati: «Alle donne comuniste ribelli sparate ai genitali»

epa06270772 A handout photo made available by the Presidential Photographers Division (PPD) on 17 October 2017 shows Philippine President Rodrigo Duterte as he speaks during his visit in the war-torn city of Marawi, southern Philippines. The President of the Philippines declared the city of Marawi liberated after five months of fighting between the Philippine armed forces and rebels allied to the Islamic State terror group. Rodrigo Duterte's announcement came a day after the army killed Isnilon Hapilon, the self-proclaimed emir of the IS in Southeast Asia and leader of the Islamist rebels in southern Philippines. EPA/ROBINSON NINAL JUNIOR / PPD / HA HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Sparate alle comuniste nei genitali. Mutilate le donne. È l’ultimo ordine che il crudele, violento presidente machista delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha dato per fermare le donne della guerriglia del Paese. «Ci sono delle donne col fucile? Noi non vi uccideremo, vi spareremo solo nella vagina», perché le donne «senza “bisong”, senza vagina, sono inutili» ha detto il presidente alle divise. Perfino il Poco, – l’ufficio operativo della comunicazione presidenziale -, nella città di Malacanang, nella trascrizione ufficiale del suo discorso, ha censurato la parola con un trattino, mentre la folla di soldati che ascoltava Duterte, rideva.

«È l’ultima dichiarazione misogina, denigratoria, avvilente che ha fatto sulle donne» ha detto Carlos Conde, ricercatore di Human Rights Watch, che ha ricordato che il presidente «aveva già incitato l’esercito a commettere violenza sessuale durante il conflitto armato, una violazione della legge internazionale umanitaria».

Compito del governo è assicurarsi che le donne vengano protette dallo Stato e non che lo Stato compia violenza su di loro, ha ribattuto dall’ong Chr Jacqeline de Guia. «Incoraggia la violenza sulle donne, contribuisce all’impunità, si conferma come il più pericoloso macho-fascista al potere» ha subito dichiarato Emmi de Jesus, membro di Gabriela, un’organizzazione di sinistra e femminista delle Filippine: «Porta il terrorismo di Stato contro le donne e le persone ad un nuovo livello, è l’incarnazione del fascismo e della misoginia in una sola persona».

La Corte Criminale Internazionale ha aperto un’indagine preliminare contro il presidente per “crimini commessi contro l’umanità” per le migliaia di omicidi extragiudiziali commessi nelle Filippine su suo ordine, durante la brutale guerra alla droga dichiarata da quando è diventato Capo dello stato nel 2016: oggi, quasi due anni dopo, sono almeno 4mila i morti il cui sangue ha bagnato le strade del suo Stato. Adesso, per le nuove critiche piovute da ogni lato verso Manila, per la sua continua incitazione alla violenza e violazione dei diritti umani, Duterte ha fatto rispondere al suo portavoce Harry Roque: «le femministe stanno esagerando, era solo uno scherzo divertente, ridete e basta».

Amnesty international e Manconi: «Difendiamo i diritti umani dei detenuti italiani all’estero»

“La vicenda di Cavatassi non deve rimanere in quella folla anonima di oltre tremila italiani detenuti nelle prigioni di tanti Paesi del mondo”, dichiara a Left, il presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e direttore dell’Unar, Luigi Manconi, sulla vicenda di Denis Cavatassi, detenuto in Thailandia con l’accusa di essere il mandante dell’uccisione del suo socio in affari.
Troppo facilmente giustiziati e con processi penali iniqui, sono almeno tremila i cittadini italiani che, come Cavatassi, vivono il dramma della detenzione all’estero in luoghi orribili di privazione della libertà. “Detenuti spesso senza un avvocato, senza collegamenti con l’Italia, senza rapporti con le nostre rappresentanze all’estero. E’ una situazione drammatica e, nella gran parte dei casi, non risolvibile”, continua Manconi.
Nonostante la diversità dei casi, ad accomunare i detenuti italiani all’estero è la grave violazione dei diritti umani. Per esempio “Denis Cavatassi è vittima di almeno tre violazioni dei diritti umani: ha subìto un processo non in linea con gli standard internazionali sull’equità dei procedimenti giudiziari; è detenuto in condizioni che possono equivalere a trattamento crudele, inumano e degradante; infine, ha sulle spalle una condanna a morte emessa in primo grado e confermata in appello”, precisa il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury.
Violazioni sistematiche dei diritti processuali che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, fanno della detenzione degli italiani nelle carceri dei paesi esteri, un grave “problema sociale”. Sottoposti a umiliazioni e condizioni di vita incompatibili con un concetto di riabilitazione, questi detenuti sono prigionieri di insormontabili difficoltà. Per esempio, di comunicazione: nonostante la presenza di uffici consolari, questi sono, spesso, collocati a grande distanza dai luoghi di detenzione e la comunicazione con i propri legali o le famiglie diventa quasi impossibile. A ciò si aggiungono criticità linguistiche, se si considera che la documentazione riguardante arresto, accuse, eventuali confessioni è redatta esclusivamente nella lingua locale.
Un’incomprensione che li penalizza, anche, all’interno della realtà carceraria nei rapporti con il personale di controllo e con gli altri detenuti. Tutti in una condizione di sovrappopolamento con conseguenti situazioni di promiscuità sessuale, scarse condizioni igienico-sanitarie e alto tasso di violenza tra i reclusi. Oltre alla pressoché nulla assistenza sanitaria. E c’è un problema, spesso trascurato, che è la discriminazione di cui sono vittime i detenuti italiani nelle carceri straniere: soffrono, a seconda del Paese in cui vengono arrestati, degli stereotipi che, negli anni, si sono radicati nella mentalità di quello Stato, influenzandone notevolmente lo stato di detenzione nonché la loro sopravvivenza carceraria.
Ed è un problema sociale anche perché la maggior parte di loro non può contare sul sostegno economico delle famiglie che dovrebbero far fronte a spese legali corrispondenti a un ordine di grandezza superiore rispetto alle proprie realtà economiche. E’ in gioco la sovranità dell’Itlaia che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, non solo “dovrebbe mettere a punto un piano preciso per la salvaguardia economica degli italiani in stato di fermo o detenzione in paesi europei o extraeuropei” ma anche intervenire in tutti i modi possibili, soprattutto sotto il profilo politico, per garantire l’incolumità dei suoi cittadini.
“Quando uno spiraglio si apre – conclude Manconi – lì bisogna intervenire con la massima energia perché non si richiuda e, al contrario, si possa aprire un varco. E’ il caso di Denis Cavatassi, condannato a morte in Thailandia, del quale la Corte suprema deciderà la sorte nei prossimi mesi. La mobilitazione finalmente attivata in Italia e un rinnovato interessamento del ministero degli Esteri, alimentano una qualche, se pur esile, speranza”. E’ necessario perciò che “la Farnesina segua con alta priorità questa vicenda e utilizzi tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione per favorire l’annullamento della condanna a morte”, aggiunge Amnesty International. Perché non si può morire per una condanna. E nemmeno rimanere prigionieri dell’indifferenza.

Piccolo manuale per una pessima campagna elettorale

Matteo Salvini (L), leader of Lega Nord Party, Former Italian prime minister Silvio Berlusconi (C) and Giorgia Meloni (2-R)leader of the Brothers of Italy party in the restaurant 'La trattoria del Cavaliere' ('The Knight's trattoria') during the electoral dinner organized to support the center-right Forza Italia candidate for the presidency of Sicily Region Nello Musumeci, in Catania, South Italy, 02 November 2017 (issued 03 November 2017). ANSA/ PRESS OFFICE/ LIVIO ANTICOLI +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

Non vale la pena buttarsi sul pensiero, sulle idee e tanto peggio sugli idealismi. Fate una campagna elettorale sul presente. Anzi, meglio ancora: sulla cronaca. Per essere perfetti: sulla cronaca nera. C’è l’ammazzamento, il sangue, la sofferenza, l’empatia, un cattivo ancora tutto insanguinato e un morto con tutti i parenti piangenti intorno. Non hanno bisogno di grandi interpretazioni, i fatti di cronaca: irrorano tutti i nostri strati primitivi. Va bene così.

Prendete uno spicchio del fatto di cronaca scelta e trasformatelo nel paradigma dello stato attuale delle cose. Gli elettori ve ne saranno grati: la soddisfazione di avere capito perfettamente è il modo migliore per meritarsi il voto e la fedeltà di chi ha sempre vissuto il sapere e la complessità come barbosi ostacoli alla propria realizzazione. Quel manico di pugnale ritrovato sotto una siepe a pochi metri dal delitto è tutto il vostro programma elettorale.

Cercate spasmodicamente altri fatti (di cronaca nera, ovviamente, semplici semplici) che confermino il vostro programma elettorale, che rafforzino le emergenze che sventolate. Basta che ci sia anche solo un lontanissimo elemento in comune: una cuginanza di quinto grado tra due passanti, una stessa scarpa slacciata tra i due assassini oppure una comoda rappresentazione del “noi” e “loro”. Mi raccomando: “loro” sono quelli che mettono in pericolo “noi” e quindi dovranno votare “noi” così ci vendichiamo e mettiamo in pericolo “loro”.

Se non trovate altri fatti di cronaca inventateli. L’importante è che siano verosimili, mica veri.

Create unanimità. Ma non sprecate tempo cercando di mettere tutti d’accordo: l’unanimità ormai è come l’emergenza, basta percepirla.

Se gli altri vi pongono altre domande non rispondete. Anzi, indignatevi, ditegli che è una provocazione.

Se vi portano statistiche per smentirvi ripetetelo con forza: ce ne fottiamo dei libri, dei professori, dei numeri. Noi siamo fieri di non saperle leggere, le statistiche.

Se qualcuno vi accusa di essere violenti dichiaratevi violentati.

Se qualcuno vi chiede di approfondire voi ditegli che l’emergenza non permette troppo di approfondire. Inventatevi un fatto verosimile, se serve.

Poi passate all’incasso. Fine.

Buon martedì.

 

Le nuove mire di Kadyrov al confine con la Georgia

epa05654778 Ramzan Kadyrov, Head of the Chechen Republic, chats with an unidentified participants as they wait for Russian President Vladimir Putin to deliver an address to the Federal Assembly in the Grand Kremlin Palace in Moscow, Russia, 01 December 2016. Putin on 01 December is to give his annual state of the nation speech in the State Duma which is expected to touch on issues on both the national and international agendas. EPA/YURI KOCHETKOV

Imbarazzato dalle montagne ancora verdi giorni prima dell’inaugurazione, il caudillo ceceno ha ordinato che fossero trasportate subito 800 tonnellate di neve, per evitare l’imbarazzo all’apertura della pista sciistica a Veduchi, 15 chilometri dal confine della Georgia. Era una roccaforte di miliziani jihadisti nel cuore del Caucaso russo. Ora è un resort di lusso, nato da un progetto multimilionario, a una manciata d’ore d’auto dalla capitale, Grozny.

Ramzan Kadyrov, il tiranno del sud che il Cremlino spalleggia  – che ha schiacciato ogni forma di dissidenza nella regione da un milione e mezzo di abitanti, che è stato bloccato da Instagram il mese scorso per la violenza delle immagini postate, che fa pendere il suo ritratto da cavaliere medievale in ogni casa, scuola, edificio ceceno -, vuole che queste piste sciistiche diventino il simbolo di “prosperità e pace” del suo regno repressivo, che si dimentichino così, – seppellite da tonnellate bianche per turisti -, deportazioni politiche, sparizioni, omicidi extragiudiziali, persecuzioni.

Come ha detto Ruslan Timukayev, portavoce del governo, il turismo «renderà la Cecenia un brand». Per questo progetto Kadyrov ha ricevuto un prestito dalla banca statale Veb, Vneshekonombank, di 345 milioni di dollari. Anche il magnate ceceno delle costruzioni Ruslan Baisarov, nato in una casa povera di Veduchi, ha fatto copiosi investimenti nella stazione sciistica realizzata dove manca la neve. Dietro tutto questo c’è anche la compagnia statale North caucasus resorts, che cerca di costruire queste stazioni in tutte le aree musulmane del Caucaso, per incrementare il turismo in aree da tutti riconosciute come punti focali della rivolta armata indipendentista.

All’inaugurazione, ai giornalisti invitati, russi e stranieri, Kadyrov ha ribadito che la guerra è finita, su queste montagne di Itum Kale, solo pochi anni fa, i ribelli si nascondevano tra le rocce, ma ora la Cecenia è “stabile”: ora, ha detto ai reporter il tiranno musulmano, ci sono delle bellissime piste sciistiche di cui scrivere. E non della repressione in atto ancora nella repubblica. Degli abusi commessi dalle autorità. Delle case bruciate per punizione. Delle torture a cui la polizia fa ricorso ogni volta che ammanetta chiunque tenti di denunciare le atrocità.

L’ultima vittima è il dirigente dell’associazione per i diritti umani Memorial, Oyub Titiev, arrestato per possesso di droga. Natalia Estemirova, prima di lui, è rimasta a capo dell’organizzazione fino a quando è stata assassinata nel 2009. Oltre a Titov, sospetti arresti per possesso di droga sono arrivati per Zhalaudi Geriev, un giornalista, e l’attivista Ruslan Kataev.

«Come farà un resort a risolvere tutto questo? Come risolverà il problema di uno Stato nello Stato, dove l’assenza di legge e gli abusi sono la norma?» ha detto Tanya Lokshina, direttrice russa di Human right watch. «Non capisco dove sia il punto, perché aprire un resort sciistico dove c’è mancanza di neve, miliardi di rubli ci sono voluti per costruirla, molti di più ce ne vorranno per portare la neve qui», ha detto un’economista. Mancano i diritti, manca la neve, mancano i rubli: la Cecenia ha il Pil pro capite più basso di tutta la Russia, i cittadini comuni comunque non riusciranno mai a permettersi di mettere piede a Veduchi.

L’arte nasce dal meticciato. La bella avventura del Maam

Maam, Roma

Maam. Un acronimo che, per chi è avvezzo all’arte, ricorda sigle come Maxxi o Macro. D’altronde il riferimento, voluto, era proprio quello. E nel tempo, il Maam di Roma (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz) creatura ideata da Giorgio de Finis ha acquisito grande notorietà (Left se ne è occupato più volte e con un intervento dell’artista Alessio Ancillai, ndr). L’aver inserito nei locali abbandonati dell’ex fabbrica Fiorucci, accanto all’esperienza di occupazione della città meticcia di Metropoliz, un museo di arte contemporanea è un’operazione riuscita. Per l’attenzione che ha generato, per le opere presenti e per gli importanti riscontri che ha avuto. Proprio nei locali del Maam infatti, Michelangelo Pistoletto ha inviato, perché fosse esposta per un periodo, la sua celebre Venere degli stracci, mentre il Castello di Rivoli, uno dei più importanti musei d’arte contemporanea Italiani, ha regalato un’opera al Maam. Che nell’ottobre 2016 ha visto anche la visita di Luca Bergamo, assessore alla cultura e vice sindaco di Roma.
Alla base di tutto c’è però l’esperienza della città meticcia di Metropoliz.

La scintilla che ha dato il via al movimento artistico culminato nel Maam è proprio quell’occupazione partita nel 2009 ad opera dei Blocchi Precari Metropolitani (un collettivo che si batte per il diritto alla casa), che in quel periodo aiutò circa 200 persone ad occupare lo spazio abbandonato dell’ex salumificio Fiorucci sulla via Prenestina. La particolarità però era la provenienza di quella sessantina di nuclei familiari, già inseriti nel tessuto sociale della città ma che per via della crisi avevano perso la casa o versavano in condizioni difficilissime. Tra di loro c’erano infatti marocchini, peruviani, eritrei, etiopi, sudanesi, italiani, ai quali poi si sono aggiunte anche famiglie provenienti da una vicina comunità rom, creando così una vera e propria città meticcia, appunto Metropoliz. Con il risultato di una convivenza che, con tutte le difficoltà del caso (linguistiche, economiche) ha creato una vera e propria comunità, amalgamando tante diversità etniche e culturali.
E diversità è la parola chiave, quella che, dopo una prima visita nel 2009, ha attirato a Metropoliz Giorgio de Finis e Fabrizio Boni (antropologo e filmmaker) con un’intuizione artistica, o meglio la voglia di portare l’arte (o il “gioco” dell’arte come citato spesso da de Finis) dentro la città meticcia. Come? Inizialmente con un film documentario dal titolo “Space Metropoliz”, con il quale raccontare sogni e bisogni di quella comunità partendo da un’idea ben precisa e da un’opera d’arte collettiva che la rappresentasse. L’opera era un razzo, l’idea era quella di portare virtualmente, attraverso il razzo, gli abitanti di Metropoliz sulla luna. Una denuncia simbolica di come, per de Finis, la Terra e Roma fossero luoghi inospitali per gli abitanti della città meticcia, che provavano così a cercare fortuna altrove. Il tutto però andava fatto digerire ad una comunità che non aveva chiesto un’operazione di questo tipo e magari aveva altro per la testa (vedi la soddisfazione di bisogni materiali). “L’invasione pacifica” dell’arte però, come l’ha definita de Finis, riesce. Dopo un comprensibile scetticismo iniziale, gli abitanti si lasciano coinvolgere nella realizzazione del film e soprattutto dei vari manufatti artistici che arrivano a Metropoliz firmati da un numero sempre maggiore di autori (il telescopio di Gian Maria Tosatti, l’uscita di sicurezza per la luna di Hogre ed altri ancora). “Durante il lavoro del film – racconta de Finis – avevamo messo in campo tante discipline ma l’arte era quella che aveva funzionato meglio, gli artisti avevano una marcia in più nell’instaurare rapporti con gli abitanti”. L’arte era un linguaggio o un sentire universale, comprensibile a tutti i diversi “cittadini” di Metropoliz, con l’apporto dei quali si concretizza il documentario (visibile per intero su youtube). Si concretizza un’opera lontanissima da un’idea di utile in senso pratico. Un fatto per niente scontato in un contesto difficile come quello di Metropoliz.
Il movimento artistico ormai è in atto e quel mix meticcio che l’ha ispirato e accolto, ora non vuole lasciarlo andare. “Una volta finito il film – racconta de Finis – sono stati gli abitanti di Metropoliz a chiederci di restare”. L’esperienza del documentario però era terminata, bisognava dare una nuova forma alla permanenza dell’arte in quel luogo. Nacque così, sempre su intuizione di de Finis, il museo. Che ha come base i manufatti realizzati per il film ma comincia fin da subito ad attrarre numerosi artisti che realizzano opere in tutti quegli spazi della fabbrica non abitati dai cittadini di Metropoliz. Si inizia con la stanza dei giochi, intervento di Veronica Montanino per la ludoteca dei bambini di Metropoliz, ma il “virus” dell’arte contagia ben presto tutto l’edificio. E non solo. Il dialogo tra la diversità e l’arte ormai è così fitto, la vicinanza tra artisti e cittadini così naturale che alcuni abitanti chiedono agli artisti di abbellire anche le loro case, realizzando una delle definizioni principali del Maam, quella di essere “Il primo museo abitato – come lo descrive de Finis – e che in quanto museo abitato può essere considerato come una Lascaux contemporanea. All’origine infatti l’abitare e l’arte erano fusi insieme”. Un po’ come avviene (con le dovute differenze) a Metropoliz, dove l’arte ha avuto anche il merito di far conoscere le diversità della città meticcia. Ogni sabato infatti è possibile per tutti visitare il museo e di conseguenza Metropoliz, cosicché il Maam diventa anche “un dispositivo di incontro – come afferma de Finis – un luogo dove pezzi di città che magari abitualmente non si parlano, chi normalmente non sarebbe lì, ci va perché attratto dall’arte. E una volta dentro è inevitabile incontrare le persone che ci vivono, finendo per interrogarsi sull’emergenza abitativa, sulla presenza di immigrati ma anche di italiani”.
Una delle funzioni principali del Maam, come confermato dallo stesso de Finis, è però quella rappresentata dal muro dipinto da Stefania Fabrizi, posto più o meno all’entrata, sul quale sono raffigurati un esercito di guerrieri posizionati come a formare una barricata. È la barricata dell’arte. Di quelle opere che, idealmente, vogliono difendere l’esperienza di Metropoliz e dei suoi abitanti. Quella stessa diversità che ha ispirato un movimento politico ora può trovare una difesa proprio nell’arte. Le mura dell’ex fabbrica hanno ormai acquisito un indubbio valore artistico che si tramuta in un valore economico direttamente proporzionale alla quotazione di mercato degli autori delle opere. Un elemento che, se non dovesse rendere difficile un eventuale sgombero, pone sicuramente delle questioni nel momento in cui si volesse abbattere il complesso per destinarlo ad un altro uso. Senza contare che l’esperienza della città meticcia e del Maam ha dimostrato come l’unione di diversità umane e arte può ridare nuova vita ad uno spazio totalmente abbandonato, valorizzandolo con nuove forme. Più che barricata però de Finis preferisce la definizione, sicuramente più calzante, di “barriera corallina, che protegge gli abitanti con la sua bellezza, la quale coincide ovviamente con la diversità e la sua ricchezza”.
Basterà tutto questo per tenere al sicuro la città meticcia e lo stesso Maam? Nella realtà bisogna sempre tenere conto della causa intentata dal proprietario dello stabile, Pietro Salini (titolare di Salini Impregilo, il più potente gruppo italiano in materia di costruzioni e grandi ingegnerie nel mondo) che, incurante di quanto sia nato negli anni in quell’edificio abbandonato, richiede indietro lo stabile per destinarlo ad altro uso. E anche considerare una novità che potrebbe far scuola in tema di giurisprudenza su casi simili: la sentenza dello scorso dicembre riguardo allo stabile occupato di via del Caravaggio a Roma, dove il tribunale civile ha riconosciuto il diritto del proprietario di richiedere un risarcimento economico alle istituzioni per non aver eseguito lo sgombero. Mettendo in secondo piano i diritti di eventuali abitanti (esseri umani quindi) e di qualunque riflessione sul diritto alla casa o sull’emergenza abitativa. Ma sulla considerazione che le istituzioni hanno verso alcune persone sono sempre eloquenti e d’attualità le immagini dello sgombero di Piazza Indipendenza a Roma dello scorso agosto. Tornando invece a Metropoliz e al Maam possono essere ancora d’ispirazione le parole del suo ideatore: “distruggere Metropoliz e il Maam – conclude de Finis – oltre alla perdita dell’indiscusso valore artistico ed economico delle mura, vorrebbe dire soprattutto distruggere un sogno, non aver capito l’importanza sociale di un esperimento di questo tipo. Il ministero dei Beni Culturali potrebbe valutare l’idea di mettere una tutela sull’area. Se c’è un luogo con opere di interesse cultuale è più difficile per le ruspe entrare perché c’è un valore per la collettività”. Un valore ben rappresentato da Metropoliz e dalla sua “barriera corallina”. Per la quale facciamo assolutamente il tifo.

Maam metropolitz

 

Favino, Sanremo e due buone notizie

Italian actor Pierfrancesco Favino performs on stage during the 68th Sanremo Italian Song Festival at the Ariston theatre in Sanremo, Italy, 10 February 2018. The 68th edition of the television song contest runs from 06 to 10 February. ANSA/CLAUDIO ONORATI

Lasciamo perdere la politica, per ora, così com’è erroneamente intesa in quest’epoca in cui la gara ad essere immediatamente comprensibili continua a partorire banali banalizzatori, incapaci di raccontare la complessità. Parliamo di spettacolo, prima di tutto: perché il monologo di Pierfrancesco Favino nella serata di chiusura di Sanremo è soprattutto teatro, sia nella scrittura di Bernard-Marie Koltès sia nella scelta stilistica della recitazione. E il monologo di Favino (che sia piaciuto o meno dal punto di vista dell’interpretazione non è importante, ora) è stato un “evento” in grado di sconquassare il placido mondo della prima serata italiana: un artista sulla cresta dell’onda ha deciso di prendere una posizione su un tema che divide e inevitabilmente espone ad attacchi e giudizi. Incredibile, eh?

È così terribilmente fuori moda per gli uomini di spettacolo prendere posizione che alla fine serve Sanremo per scoprire che il teatro (e la letteratura, la pittura e le arti tutte) in realtà hanno tutte le parole che servono per leggere il nostro tempo:

«Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa
più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero
loro finiscono qua e io finirò laggiù
laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto: Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro
se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba
l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca,
ti devi nascondere in fondo alla foresta. Ma allora meglio così
almeno ti avrò detto quello che ti devo dire».

Scritto nel 1977, recitato negli anni in moltissimi teatri sparsi per il mondo: improvvisamente sbuca a Sanremo. Qualcuno dice che è stato recitato male, qualcuno dice che Favino non avrebbe dovuto “svendere” un testo del genere al mainstream (il reato sarebbe quello di avere recitato un testo bellissimo di fronte a troppe persone, una cosa del genere), qualcuno dice che i razzisti hanno applaudito Favino ma poi continueranno ad essere razzisti.

Io, nel mio piccolo, registro due cose due: in un momento in cui va di moda “tenere i toni bassi” (che è un modo elegante per arrogarsi il diritto di non prendere posizione), Favino invece parteggia e in più qualche milione di italiani hanno hanno sentito nominare un autore che difficilmente avrebbero potuto incrociare nella televisione nostrana. Mi paiono entrambe buone notizie.

Buon lunedì.