Home Blog Pagina 777

Carla Corsetti (Democrazia atea): «Il Concordato va abolito, senza Patti lateranensi saremmo un Paese civile»

Da sinistra, iI cardinale Attilio Nicora, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il bilaterale Italia-Vaticano nell'anniversario dei Patti Lateranensi all'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, Roma, 14 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

La xenofobia della Lega e di Forza Italia (con Berlusconi che parla impunemente di «mezzo milione di africani in giro a delinquere»). Formazioni minori più o meno dichiaratamente fasciste come Forza nuova e CasaPound che si guadagnano i riflettori mediatici e propagandano liberamente le loro idee xenofobe e razziste. E poi ancora, il candidato governatore leghista alla Lombardia che parla di razza italiana in pericolo. Insieme alla scarsa indignazione dell’opinione pubblica, sono i segnali più recenti della scarsa memoria – o conoscenza – che la politica italiana ha di quello che fu il Ventennio in termini di lesione dei diritti più elementari. Con questo desolante scenario sullo sfondo la Giornata della memoria ha assunto un significato particolare. Ancor di più se si pensa che cadono nel 2018 gli 80 anni dal Manifesto della razza e delle leggi razziali di Mussolini che contribuirono all’Olocausto. Per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto abbiamo rivolto alcune domande a Carla Corsetti, segretario nazionale di Democrazia atea (nb. al momento dell’intervista non c’era ancora stato l’attentato terroristico fascista di Macerata e relative reazioni).

Carla Corsetti che ne pensa?

Penso che siano tutti sintomi di un deficit culturale che non riguarda solo la politica. Viviamo in un Paese che ha dimenticato la sua storia e che nega il presente. Un presente che è nella società multiculturale che vediamo quotidianamente nelle scuole, negli asili, al supermercato. Ovunque. Per questo dico che il razzismo, manifesto o strisciante che sia, è un problema che va oltre la politica e riguarda la cultura. Una cultura che è conoscenza della storia e che comporta il rispetto della dignità umana. Certo, la politica in questo momento ha delle responsabilità enormi. Non sapendo dare risposte concrete, cavalcando l’onda xenofoba, e favorita dal vuoto di ideali e di ideologie, non solo a destra, ha scatenato una guerra tra poveri. Una misera politica che per mero calcolo elettorale parla al ventre molle del Paese e indica come colpevoli della crisi i migranti.

La sinistra non sembra più avere la forza necessaria per contrastare queste derive. Nelle periferie urbane ma anche in storiche regioni “rosse” avanza la destra se non all’estrema destra. Come mai?

C’è un fascismo che serpeggia nelle classi sociali in difficoltà economica. Ma c’è una forma ancora più grave che è il fascismo finanziario. Se ne sono fatti portavoce quei gruppi di potere che negli anni recenti hanno attaccato le storiche conquiste sociali nell’ambito del lavoro e dei diritti. Tra questi c’è il Pd. Il fascismo finanziario è l’altra faccia della stessa medaglia su cui campeggiano CasaPound e Forza nuova. Costoro rappresentano l’aspetto manifestamente violento e non è un caso che nessuno prenda concreti provvedimenti per fermarli. Ad esempio agendo sui flussi di denaro con cui si finanziano.

Si è arenato in Senato ma un tentativo c’è stato con la “legge Fiano”, no?

Con quella proposta il Pd ha concentrato l’attenzione sulla violenza di questi movimenti. Che è l’espressione percepita immediatamente dall’opinione pubblica. Ma ha anche tolto il fascismo finanziario dai riflettori.

Però il problema di CasaPound e Forza Nuova è reale.

A causa delle difficoltà economiche provocate dal fascismo finanziario, queste espressioni politiche diventano per alcuni ragazzi senza prospettive culturali, senza strumenti, senza futuro e senza alcuna capacità di costruirselo, un’occasione di ribellione e una illusione di riscatto.

Il 27 gennaio si è celebrata la Giornata della memoria. Mussolini promulgò le leggi razziali dando all’Italia un ruolo chiave nell’Olocausto. E prima ancora c’era stata la campagna d’Africa e lo sterminio della popolazione etiope. Come si può recuperare la memoria di questi fatti storici e tradurla in conoscenza, in impegno civile?

Bisogna ripartire sicuramente dalla scuola. I programmi sono privi di questi riferimenti. I ragazzi non sanno cosa sia stato il fascismo. C’è una carenza inaccettabile a livello ministeriale, nessuno si preoccupa di come declinare per le generazioni future le competenze rispetto ai diritti, all’antifascismo, alla Costituzione.

Mussolini è anche il firmatario dei Patti lateranensi (l’11 febbraio del 1929) con la Chiesa. Al primo punto del vostro programma politico ne chiedete l’abolizione. Ce ne può parlare?

Abbiamo sempre sostenuto che non dovessero essere inseriti nella Costituzione. La differenza tra democrazia e teocrazia passa per i Patti. L’Italia è una teocrazia di fatto. Gli italiani non si percepiscono autonomi sotto il profilo democratico a causa di questo accordo internazionale che dovrebbe essere stracciato. La deriva e l’ingerenza teocratica nella vita quotidiana e nella politica non è avvertita e di questo sono responsabili i media e certi politici, con i loro costanti riferimenti alla teocrazia confinante. Che si tratti di un altro Stato non viene percepito, che si tratti di uno Stato teocratico e di una monarchia assolutista non viene percepito. Basti pensare agli esponenti di sinistra che non si fanno scrupolo di prendere come riferimento Bergoglio: un peronista, ultra conservatore di destra e detentore del potere assoluto che gli è stato attribuito da una setta cattolica di soli uomini. E per costoro nemmeno conta che questo gesuita stia veicolando la teoria del popolo.

Vale a dire?

Basta ascoltare i suoi discorsi fino in fondo. Bergoglio vuole eliminare le “differenze”, cioè la lotta di classe, per sostituirla con l’alleanza tra le classi di matrice corporativista e fascista. È un messaggio che sta veicolando anche attraverso la sinistra italiana e nessuno approfondisce più di tanto.

Nel vostro programma si parla di Stato ateo, in che senso?

Noi siamo non per l’ateismo di Stato che è un crimine contro l’umanità, ma per uno Stato ateo: le istituzioni devono essere immuni da pregiudizi politici, razziali, sociali e religiosi. È questa la finalità di Democrazia atea, che si fonda sul principio di libertà dalla oppressione religiosa, di uguaglianza e pari condizioni. Anche l’imposizione di una religione, come accade con i Patti lateranensi e l’articolo 7 della Costituzione, è inaccettabile. Ma le religioni e il pensiero non religioso sono manifestazioni umane che una società democratica deve saper tutelare.

Alle Politiche 2018, Democrazia atea ha deciso di aderire alla coalizione di Potere al popolo, come mai?

Nel loro manifesto c’è una sostanziale assonanza con il nostro programma politico. Con una sola differenza. Mancava l’abolizione dei Patti lateranensi. Per entrare nella coalizione di Potere al popolo abbiamo posto questa come condizione. E loro l’hanno inserita. Siamo riusciti a far entrare nella campagna elettorale l’abolizione dei Patti di Mussolini con la Chiesa cattolica. Per quanto ci riguarda, la nostra battaglia politica è già vinta.

 

Cosa non si fa per manipolare la storia (e negare l’Olocausto): i falsi fotografici sulle foibe

Con la legge n. 92/2004 è stato fissato al 10 febbraio di ogni anno il Giorno del ricordo «in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale». La stessa ricorrenza è l’occasione per la «concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati». La data è stata scelta nell’anniversario della sottoscrizione del Trattato di pace con cui l’Italia regolò i suoi conti e concluse le vertenze aperte con la Seconda Guerra mondiale, specialmente riguardo alla Jugoslavia ed ai confini orientali. Non è stata una scelta casuale quella dei firmatari della proposta di legge: i deputati Roberto Menia, Gianfranco Fini, Mirko Tremaglia, Giuseppe Tatarella e Maurizio Gasparri, tutti di Alleanza nazionale, ex missini o fascisti repubblichini. In quanto tale, ogni anno il 10 febbraio dovrebbe essere un anniversario di festa. Al contrario, lo Stato italiano – sotto il governo Berlusconi – lo ha reso per legge una data per tutte le recriminazioni allo scopo di recriminare sullo stesso Trattato.

Per approfondire, le FAQ di diecifebbraio.info sul Giorno del ricordo, e il dossier sulle foto fake

Di fatto la legge ha scambiato aggrediti ed aggressori della II Guerra mondiale e delegittimato i confini riconosciuti internazionalmente. Insomma un’operazione di pura manipolazione della storia. E anche di strisciante negazionismo. Se pensiamo alla vicinanza temporale con il Giorno della memoria delle vittime dell’Olocausto nazista e alla parola “ricordo”, l’operazione politica appare un evidente tentativo di sminuire il senso della Shoah e le responsabilità dell’Italia fascista di Mussolini che attraverso le leggi razziali “alimentò” lo sterminio pianificato dalla Germania di Hitler.

Ogni anno, puntualmente, per sostenere questo impianto manipolatorio spuntano non solo nel web e sui social ma anche in tv sui canali nazionali Rai immagini che dovrebbero testimoniare l’orrore delle foibe. Peccato che siano tutte false come è stato ampiamente dimostrato.

Per approfondire, i dossier di Wu Ming sui falsi fotografici qui e sul Giorno del ricordo

Nonostante le smentite, fascisti di ieri e di oggi continuano imperterriti a mostrare le stesse foto per raccontare la “loro” storia.

Ve ne mostriamo alcune qui di seguito, tratte dal blog dei Wu Ming, affinché possiate riconoscerle:

 

Egitto, gli attivisti per i diritti umani contro il film su Al Sisi: «Ha distrutto il Paese e massacrato il suo popolo»

epa06286255 Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi attends a military ceremony at the Hotel des Invalides in Paris, France, 24 October 2017. Al Sisi is in Paris for bilateral talks and to witness the signing of 17 cooperation agreements between both countries. EPA/CHARLES PLATIAU / POOL MAXPPP OUT

Top secret. Estremamente confidenziale. Serry Le al-Gha’aya, in arabo. È il titolo del film di propaganda sulla vita del presidente egiziano Al Sisi, girato sotto la supervisione delle forze armate e finanziato dal Dipartimento per la moralità egiziana, che scuote adesso – dentro e fuori i social network – la società civile del Nilo.

Le riprese sono quasi terminate, ma le critiche sono appena iniziate. L’artista Ahmed el Sakka interpreta il ruolo del caudillo al potere al Cairo, ma gli attori della troupe sono stati avvisati dai servizi segreti: no comment deve essere la loro risposta ufficiale ad ogni domanda dei giornalisti che riguarda l’opera. La storia, sceneggiata da Waheed Hamed e diretta da Mohammed Sami, narra del periodo più complesso dell’Egitto contemporaneo, iniziato il 25 gennaio 2011, con la rivoluzione di piazza Tahrir, e terminato nel giugno 2013 con la destituzione del presidente Mohamed Morsi, mentre al Sisi era ministro della Difesa.

Gamal Eid, direttore esecutivo del Network arabo dei diritti umani per l’informazione, ha ricordato che «produrre un film su Al Sisi adesso non ha alcuna credibilità o valore, è un’ipocrisia. Il regime di Al Sisi permetterà solo un film di propaganda che critica i suoi oppositori. Per essere credibile, un film su di lui deve essere prodotto quando non sarà più al potere». Per il critico Amir Al Emari è un evento senza precedenti nella storia egiziana, «è propaganda del regime attuale, descrive eventi recenti che hanno bisogno di tempo per essere studiati».

«Interpreti una personalità che ha distrutto la più grande rivoluzione della storia, distrutto una generazione, venduto il Paese e commesso un massacro contro il suo popolo. Non solo perderai il tuo pubblico, perderai anche te stesso» ha detto l’attivista per i diritti umani Asma Mahfouz all’attore Ahmed el Sakka. Lo scrittore Alaa al Aswani ha scritto suTwitter che «chi produce qualsiasi film, opera o spettacolo che abbia lo scopo di glorificare un sovrano che è ancora al potere, è un burattino nelle mani del sultano, a prescindere da come giustifichi le proprie azioni. Questa è una regola universale costante».

Se l’esser profugo è una colpa

Negli ultimi anni, uno dei lavori più offerti a giovani diplomati è stato quello di operatore nei Centri di accoglienza. La struttura dei Centri, le direttive ministeriali, le interpretazioni peggiorative di molte prefetture hanno concorso a schiacciare questi giovani nella morsa contraddittoria tra gli scopi dichiarati dell’istituzione e quello che veniva loro chiesto o imposto. Ne è derivata una dequalificazione del loro lavoro, ma anche, in non poche parti d’Italia, un movimento di critica e messa in discussione di circolari e direttive, nel tentativo di dare senso sia al proprio lavoro sia ai luoghi in cui si opera.
Il contesto non aiuta. Le vicende dell’inchiesta “Mafia capitale” e di altre inchieste giudiziarie di minore impatto, la ricerca di Lunaria sul sistema dell’Accoglienza, Il mondo di dentro, la ricerca del Naga (Stra)ordinaria accoglienza hanno svelato molte contraddizioni, insufficienze, magagne frequenti in quest’ambito; ciò nonostante, a livello istituzionale si va avanti senza tenerne conto, e anzi peggiorando di continuo direttive e pressioni; se mai, qualche eco pubblica hanno trovato le accuse strumentali di politici e giornalisti di destra, volte a rinfacciare la cattiva gestione politica del governo di centrosinistra. È mancata a sinistra una consapevolezza della problematicità della situazione. Così come afone e sottotono suonano le flebili voci di richiamo alle severe condanne Onu della politica del ministro Minniti; che si può permettere (in Parlamento!) di ribadire la necessità del suo operato, con una battuta provocatoria: e che non lo sapevamo che la Libia non aderisce alla Convenzione di Ginevra? Questo è l’uomo. E sa che si preferisce attardarsi sulla sconfitta dell’Italia nelle eliminatorie dei mondiali di calcio, invece che osservare cosa accade in mare, in Libia, nei centri di accoglienza.
Non è la stessa cosa, certo: ma dare per scontato che l’accoglienza si faccia così non aiuta a percorrere pratiche di accoglienza efficaci e non discriminatorie. Sergio Bontempelli e io abbiamo incontrato per anni molti ospiti dei centri, e ascoltato le analisi di operatori, a volte sconcertate, altre ciniche. Abbiamo promesso, ai più critici di loro, sia a quelli che hanno continuato a lavorarci che ai non pochi che ne sono venuti via, di tornarci sopra, di mettere in ordine le nostre riflessioni su come si può lavorare nei centri, con tutti i loro limiti, ma senza accettare l’orizzonte chiuso che vi si impone a chi vi è trattenuto. E quest’estate ci siamo chiusi in una stanza e abbiamo scritto un manuale per operatori (v. box pag. 26).
Siamo partiti proprio dalla chiusura dell’orizzonte per chi c’è dentro, e la disparità tra uno staff di persone che la sera tornano a casa, e magari prima passano per altri luoghi, di svago e socializzazione, e l’insieme di chi invece quell’orizzonte, soprattutto mentale, non può mettere in questione. Di fronte a questa situazione, si scarica sugli operatori la contraddizione tra gli scopi dichiarati dell’istituzione e la pratica quotidiana; il loro frequente assoggettamento passa attraverso la dequalificazione delle mansioni, e conduce alla mortificazione dei profughi accolti; quest’ultima, è un elemento decisivo per la strutturazione di un centro di accoglienza. Sulla inferiorizzazione di chi viene “accolto” si costruiscono modelli di comportamenti e narrative, regole e strumenti di interpretazione di ciò che avviene. Che poi siano in molti a consentire su tali comportamenti e tali interpretazioni è il segno di una pervadenza delle formazioni discorsive (l’immigrazione, la sicurezza, il decoro etc.) messe in moto da chi ha tutto da guadagnare dalla paccottiglia concettuale e dalla miseria civile che regolano la vita degli ospiti forzati.
I primi tre capitoli del manuale sono dedicati a un’informazione di base su chi viene accolto (1), in base a quali norme internazionali e nazionali (2), le alternative spaziali e la dimensione istituzionale dell’accoglienza (3). Emerge, man mano che la riflessione procede, la necessità di deistituzionalizzare l’accoglienza per renderla più efficace e rispondente agli scopi che, dalla Convenzione di Ginevra alle varie circolari, vengono richiamati.
Si passa perciò a un altro gruppo di capitoli, il quarto e il quinto, che insistono sulla differenza tra accoglienza e sorveglianza, e sui vincoli che conducono a una precarizzazione e infantilizzazione degli ospiti (4); e sulla possibilità di una ecologia delle relazioni, che permetta l’agency degli ospiti e ne faccia uno strumento di soluzione delle problematiche che emergono nella vita quotidiana dei Centri (5).
Infine due capitoli sono dedicati a due attività di cospicuo interesse, che vengono affidate spesso a esperti, ma una cui sommaria conoscenza da parte di tutti gli operatori è cruciale per la buona riuscita dell’accoglienza: l’acquisizione della lingua italiana (6) e il diritto di asilo e la relativa procedura (7).
Forze sociali non conniventi spingerebbero perché i Centri siano chiusi o almeno profondamente trasformati. Nell’attesa che maturi la consapevolezza di una tale necessità, il manuale propone di costruire una cornice relazionale diversa, che sottragga l’operatore e il richiedente asilo al dispositivo stregato che li contrappone in ruoli diversi e confliggenti. Nella piena reciprocità, che presuppone la veloce attivazione di codici, procedure, dispositivi di comunicazione locali (cioè relativi a quella situazione), sarà più facile superare il pregiudizio della insormontabilità delle differenze e del peso delle appartenenze, che abbiamo visto rifare capolino anche presso operatori capaci e di buona volontà. Questo limite culturale impedisce che i richiedenti asilo ospitati nei centri si sentano accolti, e, come a casa propria, gestiscano in piena autonomia la struttura in cui vivono. Un riconoscimento pieno della loro agency sarebbe il primo passo verso un efficace inserimento nella società italiana.

Il libro. L’integrazione è come i bambini tiranni o la bomba d’acqua: una trovata linguistico-pubblicitaria che funziona, perché esime dalla riflessione e anzi induce le vittime a farsene portatrici. Pochi anni fa, sui media ci fu chi s’inventò, per un acquazzone particolarmente violento, l’espressione «bomba d’acqua», che ora viene ripetuta dalla mamma in vacanza in montagna o dal cugino lontano: e non ci sarebbe nulla di male, se la locuzione non si accompagnasse a sempre più frequenti disastri ecologici, che andrebbero spiegati, per poterli ridurre o almeno potersene difendere, e non ricondurli al mito. Perché se un lontano parente muore per un acquazzone ci si interroga se sarebbe stato possibile evitarlo, ma una «bomba d’acqua», via, è altra cosa: la natura ci fa guerra, perché scomodare il ministero dell’Ambiente o quello dei Lavori pubblici?

Lo stesso dicasi per la giovane cugina che insegna in una scuola materna: se trova difficoltà nel suo lavoro non sarà perché non si interroga sulla carenza o inefficacia dei dispositivi pedagogici messi in atto, quando potrà addossarne tutta la responsabilità ai bambini di quattro-cinque anni. «Sai, ho letto su un sito specializzato che si parla di ‘bambini tiranni’. È così, ti dico, arrivano a scuola che è già impossibile proporre loro un’attività didattica…». Chiudiamo la telefonata assai scoraggiati: ma non avrà sbagliato lavoro, la cugina?

Più subdolo è l’uso di ‘integrazione’, che ai più si presenta come una parola innocente e dal significato ovvio. Ma l’ovvietà, in questo caso, assomiglia a quella per cui si capisce il termine ‘badante’ senza far caso alla stigmatizzazione ineliminabile che comporta. L’uso di questi, e altri termini balordi muove dall’accettazione di recenti ‘trovate’ linguistiche, come quelle promosse dai pubblicitari per presentare come innovative le nuove merci offerte al consumo (l’aggettivo in -oso, lo slogan ‘chi vespa mangia le mele’ etc.). E infatti il termine ‘badante’ è stato lanciato durante un’intervista televisiva nel 2001 dall’on. Umberto Bossi, con una evidente dose di disprezzo. E il termine ‘integrazione’ fino a soli tre decenni fa significava altro, e continua a significare altro per chi esercita un po’ di controllo sulla qualità del linguaggio suo e altrui.

L’appuntamento. Accogliere richiedenti asilo e rifugiati. Manuale dell’operatore critico di Sergio Bontempelli e Giuseppe Faso, edito da Cesvot,  sarà presentato il 9 febbraio, alle 17,30 Arci Nazionale, via Monti di Pietralata 16, a Roma, con la partecipazione di Grazia Naletto di Lunaria,  Filippo Miraglia dell’Arci e Federica Marciano coop Alternata silos.  Per informazioni: www.cronachediordinariorazzismo.org

È Minniti “l’uomo nero”

Il ministro dell'Interno, Marco Minniti, durante la presentazione del servizio della Polizia postale contro le fake news presso il Centro Anticrimine Informatico a Roma, 18 gennaio 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Da Salvini ti aspetti le salvinate. È normale. Sai anche che Berlusconi ogni tanto, per dare un colpetto ai sondaggi, finisce per fare il razzistello per un pugno di voti. Di Forza nuova e CasaPound non ne scriviamo nemmeno per ecologia intellettuale. Ma forse sarebbe il caso, una volta per tutte, di aprire un dibattito serio (senza tifosi, serio davvero) sulle responsabilità del peggior ministro dell’Interno degli ultimi anni, marchiato come uomo di “centrosinistra”, che è Marco Minniti.

L’uomo è nero (cito il titolo di un bel libro di Catone e Maestri in uscita nei prossimi giorni) perché appare intoccabile e indiscutibile, ammantato com’è del fregio “di sinistra”, è nero perché scherza amorevolmente sulla scrivania di Mussolini per aizzare l’applauso dei presenti (il video eccolo qui) ed è nero perché viene consapevolmente usato da un pezzo del Pd per schiacciare l’occhiolino a destra.

Ma parliamo di politica, appunto. Minniti ha promosso i torturatori di Genova. Minniti ha legittimato il fango sulle ong offrendo una sponda istituzionale alla campagna di isolamento (a proposito, che fine ha fatto la salvifica inchiesta del prode Zuccaro?). Minniti si è inventato il reato di povertà chiamandolo «decoro urbano». Minniti è quello che oggi vergognosamente ha il coraggio di dichiarare di avere previsto il sangue di Macerata e per questo avrebbe bloccato gli sbarchi (ha fermato i migranti per fermare i fascisti, un po’ come ripulire la Germania dagli ebrei per non far vincere Hitler). Minniti è quello che difende l’accordo con la Libia («si tollerano le torture pur di gestire il fenomeno migratorio ed evitare gli sbarchi», erano state le parole durissime dell’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein. Che aggiunse: «La sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità». E pure: «Siamo scioccati dagli abusi nei campi»).

Minniti è quello che oggi vorrebbe convincerci che le manifestazioni fasciste e quelle antifasciste pari sono. Eccolo qui, Minniti.

Buon venerdì.

Left, una storia irrazionale

La copertina di questo numero fa riferimento al titolo della raccolta delle lezioni che Fagioli tenne all’Università di Chieti nel 2006. Abbiamo pensato a questo titolo perché ben rappresentativo della vita di Massimo Fagioli, di cui ricorre il 13 febbraio prossimo la scomparsa e a cui abbiamo deciso di dedicare un numero speciale. Nel febbraio 2006 è nato questo giornale dalle ceneri del settimanale Avvenimenti. Simona Maggiorelli, attuale direttore di questo settimanale, era a conoscenza della situazione difficile in cui si trovava Avvenimenti, dato che ne era una redattrice.

Simona conosceva e frequentava da tempo l’ambiente di persone che facevano riferimento alla teoria e alla pratica psicoanalitica di Massimo Fagioli. La pratica, che era articolata in 4 sedute settimanali con centinaia di partecipanti, si chiamava Analisi collettiva. La teoria era ed è quella contenuta nei 4 libri teorici della Teoria della nascita, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Teoria della nascita e castrazione umana, Bambino donna e trasformazione dell’uomo (L’Asino d’oro edizioni). Simona Maggiorelli si rivolse a Ilaria e Luca Bonaccorsi che facevano parte di quella storia. Insieme ad Ivan Gardini cambiarono il nome del giornale in Left che avrebbe avuto un doppio significato. Quello della parola inglese che significa sinistra e quello delle iniziali di 4 parole: libertà, eguaglianza, fraternità e trasformazione. La quarta parola, aggiunta a quelle della Rivoluzione francese e tolta al materialismo marxiano, voleva riferirsi alla realtà umana. Un’idea di trasformazione della realtà umana che non era mai esistita nella storia e che faceva dichiaratamente riferimento alla Teoria della nascita di Fagioli.

Fu chiesto a Fagioli di scrivere ogni settimana una rubrica. E così egli fece, per oltre 11 anni. Senza mai mancare nemmeno un numero. La rubrica si chiamava trasformazione. L’idea era quella di regalare idee e parole nuove alla sinistra. Soprattutto in riferimento ad un’idea di trasformazione intesa come cambiamento della propria realtà psichica interna verso un meglio e un di più e alla possibilità di comprensione profonda delle dinamiche di rapporto tra gli esseri umani, che dovrebbe essere prerequisito di ogni azione politica. L’idea era quella di dire alla sinistra di una possibilità di realizzazione personale e collettiva che poteva (e può!) permettere di costruire una realtà sociale nuova perché basata su idee che riguardano l’essere umano radicalmente nuove. La sinistra, anche quella attuale, non ha ancora elaborato la necessità di avere idee chiare e nette sulla realtà umana. Idee che non siano la ripetizione dell’idea religiosa di peccato originale oppure delle idee illuministiche che postulano un’originaria cattiveria e tendenza alla prevaricazione degli esseri umani oppure, in alternativa, una realtà amorfa che deve essere plasmata dall’educazione e dalla cultura. La sinistra non può pensare di affermare un modello nuovo di società, dove la prevaricazione dell’uno sull’altro possa essere combattuta in maniera radicale ed efficace, se non pensa prima ad una nuova antropologia in cui l’essere umano nasce sano e può, eventualmente, ammalarsi e quindi realizzarsi violento.

La grande idea di Fagioli è che ciò che forma la psiche di ogni essere umano è una dinamica reattiva che compare alla nascita, nel momento in cui la luce colpisce la retina per la prima volta. Questa dinamica è la reazione al rapporto con la realtà inanimata della luce cui la sostanza cerebrale dell’occhio reagisce con un non rapporto fantasticando il ritorno allo stato precedente. È la fantasia di sparizione, l’annullamento della situazione aggressiva in cui si trova il neonato alla nascita che simultaneamente realizza un pensiero su ciò che era prima di quell’istante per l’esistenza del corpo che “ricorda” ciò che era stato il rapporto con il liquido amniotico. Quel pensiero su ciò che è stato, che non è un ricordo perché il pensiero non c’era prima della nascita ma è una memoria-fantasia, è un pensiero di rapporto con un’altra realtà umana simile a se stessi. La certezza dell’esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto. Ed è una dinamica universale, uguale per tutti in tutto il mondo, che l’essere umano realizza in solitudine alla nascita.

Non esistono razze e non esiste differenza tra maschi e femmine. Ciò che in effetti qualifica gli esseri umani come tali è la nascita del pensiero con questa particolare dinamica. Perché in essa è la matrice della fantasia, del pensiero e del linguaggio, ciò che in età adulta distingue in maniera evidente l’uomo dagli animali. È ciò che fa l’uguaglianza tra gli esseri umani. Ciò che il pensiero di sinistra ha sempre pensato come fondamento dell’azione politica ma non ha mai saputo come qualificare e definire. Ciò che rende gli esseri umani sociali, perché all’origine c’è un’idea di rapporto con gli altri. Se non si comprende che l’uguaglianza è originaria e si pensa ad un’origine diversa allora deriva che l’uguaglianza è qualcosa di imposto, di non naturale, qualcosa che si impara. Alla quale si deve essere educati. Il lettore si potrebbe chiedere: dove sta la diversità di ognuno? Quando compare?

L’uguaglianza sta nella dinamica con cui compare il pensiero. Il neonato cerca il rapporto con l’altro perché è la nascita che fa un pensiero di esistenza e di rapporto con un altro essere umano. L’uguaglianza sta pertanto nella necessità di ogni essere umano di cercare un rapporto. Rapporto che gli permetterà di superare la propria alienazione, il proprio buio interiore legato all’annullamento del mondo inanimato che si realizza alla nascita. Ogni fine di rapporto dà modo al neonato di realizzare una nuova nascita che è inevitabilmente anche separazione dal se stesso precedente. Con la separazione si realizza un pensiero su ciò che è stato. Ed è una dinamica che non avrà mai fine, fintantoché si è in vita. Sono le realizzazioni, diverse per ognuno e ogni volta, che fanno la diversità di ogni essere umano.

Infiniti rapporti che fanno infinite separazioni che fanno identità tutte diverse. La libertà è l’obbligo di essere esseri umani. Che significa semplicemente che la realizzazione di libertà, ovvero la separazione, è reale quando essa non è un annullamento o una negazione di qualcosa o qualcuno. Allora è libertà. Che ogni volta ci fa riscoprire che siamo uguali nella diversità. La realizzazione è la parola che penso possa definire la vita di Massimo Fagioli. Ma non solo la sua. Anche quella di tutti coloro che hanno avuto rapporto con lui.

****

Per Massimo Fagioli la realizzazione è sempre stata per e con la realizzazione dell’altro. Lo ha dimostrato nel concreto dei 41 anni di Analisi collettiva. Le sedute settimanali erano i seminari, 4 ore (prima erano 2 poi diventate 3 ed infine 4) in cui Fagioli aveva rapporto “senza mediazioni” con i partecipanti. Non c’erano contratti prestabiliti ma solo una promessa: per 4 ore Fagioli apriva le porte del suo studio di via Roma Libera 23 e aveva rapporto con una moltitudine di sconosciuti interpretando ciò che accadeva nel rapporto con lui.

Non c’era un contratto perché non era stabilito alcun onorario né era stabilita una programmazione di qualche tipo. Era un rapporto libero e spontaneo senza alcun obbligo di pagamento né di partecipazione. Fagioli non conosceva nessuno e quand’anche conoscesse alcuni partecipanti era come se fossero ogni volta sconosciuti. Le persone venivano chiamate con nomi inventati da Fagioli. Era un rapporto libero, senza convenzioni sociali, professionali, culturali o di censo o di qualunque altra cosa riguardava la convivenza sociale. Era tutto messo da parte, non annullato. Dopo 4 ore, alla fine della seduta, ognuno ritrovava la propria collocazione sociale, il proprio vestito sociale. Non c’era alcun obbligo di pagamento. Ognuno pagava secondo le proprie possibilità e la propria personale scelta. Era forse un modo per spingere ad essere puliti, onesti prima di tutto con se stessi essendolo con lo psichiatra dell’Analisi collettiva.

Fagioli teneva molto a questa impostazione della seduta di psicoterapia. Era un luogo (il setting) con un tempo (le 4 ore per 4 volte la settimana). In quel luogo e in quel tempo c’era lo psichiatra scopritore della pulsione di annullamento e della nascita. Uno psichiatra che aveva speso la sua vita a comprendere la verità della realtà umana. Fagioli non ha mai creduto all’inconoscibile. Ogni cosa della realtà umana è conoscibile e la strada per la conoscenza è il rapporto con gli altri.

Lui raccontava sempre che la sua formazione profonda come psichiatra la doveva al rapporto con gli altri ed in particolare al rapporto con le donne. I titoli e la carriera brillante ed inequivocabile, senza macchie. Ma ciò che gli ha permesso di essere se stesso è stato quel suo particolare modo di avere rapporto con con gli altri e con le donne. Nei seminari di Analisi collettiva egli metteva a disposizione di sconosciuti la sua realtà più profonda, quella più delicata e sensibile. Quella che nessuno di noi “normali” mette a repentaglio nella vita quotidiana. Ma che magari rischiamo nel rapporto d’amore. Massimo Fagioli esponeva tutto se stesso. “Sono una scimmietta da esperimento” diceva. I partecipanti all’Analisi collettiva lo mettevano alla prova. “Mi chiedete di sapere, mi chiedete cose sempre più complesse… sono obbligato a rispondere”.

Non esisteva nemmeno in ipotesi la possibilità di non saper rispondere. Era tale l’interesse per l’altro che riusciva sempre a trovare la soluzione all’enigma presentato dal racconto del sogno. In quelle 4 ore era possibile ascoltare decine di volte l’interprete vedere il sogno raccontato con le parole e tradurlo nel linguaggio comprensibile della veglia. Sempre Fagioli chiedeva ai presenti l’interpretazione. “Allora…? Nessuno ci capisce niente…? Come al solito mi tocca fare da solo…”.

Penso che fosse per l’idea che l’interpretazione dei sogni è una possibilità che si può sviluppare con lo studio e con la formazione personale. Perché è una possibilità di rapporto che può realizzarsi tra due esseri umani che richiede un interesse profondo per l’altro. E così effettivamente è stato. Centinaia di psichiatri si sono formati nei seminari di Analisi collettiva e applicano quotidianamente la Teoria della nascita per interpretare i sogni e per curare ed eliminare la malattia mentale. Anche grave. I seminari di Analisi collettiva sono stati un’invenzione di una massa di persone indistinte che volevano l’interpretazione dei sogni e la cura della malattia mentale. Si sono rivolte a lui perché aveva scritto tre libri in cui era contenuta una teoria del tutto nuova e rivoluzionaria sulla realtà umana.

E Massimo Fagioli ha risposto. Per 41 anni non si è tirato indietro e ha incessantemente interpretato i sogni di migliaia e migliaia di persone. I partecipanti ai seminari tra di loro si chiamano compagni. Non colleghi o amici o seminaristi. Compagni. Perché l’Analisi collettiva è una storia di sinistra. È una storia della sinistra che è stata ed è una storia preziosa per la sinistra che verrà. I compagni dei seminari erano persone che avevano fatto il ’68 e magari anche il ’77… erano persone con storie drammatiche, storie di fallimenti e di sconfitte, storie di depressione e di tentativi di suicidio, storie di psicosi… storie di persone che erano destinate a non avere alcuna speranza per il futuro.

Fagioli ha affrontato la moltitudine senza mai tirarsi indietro, senza mai avere paura. Interpretava e curava le crisi e la malattia con il fine della cura per la guarigione. Non so quando ma la malattia ad un certo punto è scomparsa. La continua interpretazione alla moltitudine di sconosciuti ha realizzato ciò che sempre, nella storia, è stato pensato come impossibile: la cura della malattia mentale. Ricordo che un tempo Massimo Fagioli paragonava l’Analisi collettiva alla Rivoluzione francese. Così come la Rivoluzione francese è stato l’avvio di quel processo che ha portato l’illuminismo e le sue idee di democrazia in tutto il mondo così l’Analisi collettiva era la prima realtà che metteva in pratica le idee della teoria della nascita. 

L’Analisi collettiva è la storia di origine, l’inizio di qualcosa che si potrà e dovrà compiere nel futuro nel mondo. Perché solo così si potrà realizzare una nuova umanità e una nuova socialità che abbiano come scopo fondamentale la realizzazione degli esseri umani.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Dedicato a Massimo Fagioli

Ad un anno dalla sua scomparsa abbiamo voluto dedicare un secondo numero speciale di Left a Massimo Fagioli, colonna portante di questo settimanale fin dalla nascita, venerdì 17 febbraio nel 2006, con la sua rubrica Trasformazione. Già da oltre quarant’anni lo psichiatra Fagioli era un punto di riferimento imprescindibile, con la sua ricerca e teorizzazione scientifica, non solo per chi fa psichiatria. Ma anche per chi fa cultura, informazione e politica a sinistra. Perché solo la sua scoperta della dinamica della nascita permette di dare un fondamento universale e incontrovertibile alla parola uguaglianza, sgombrando il campo dal razzismo e dall’ipocrisia della carità. Perché solo scoprendo la nascita del pensiero dalla biologia, come capacità di immaginare, che poi si sviluppa nel rapporto umano irrazionale, senza coscienza, senza linguaggio articolato del primo anno di vita, ci possono essere identità e libertà, senza coercizioni e imposizioni dall’esterno.

Di quanto sia importante oggi rileggere i testi di Fagioli per costruire una vera sinistra scrive splendidamente Matteo Fago nel suo editoriale. Nel presentarvi con orgoglio questo numero ricchissimo di contenuti, vorrei tornare a sottolineare la straordinaria storia di Left, settimanale di sinistra e ateo (l’unico in Italia) che, avendo come faro il pensiero nuovo di Massimo Fagioli, è riuscito a evitare le secche dell’astratto spiritualismo ma anche quell’arido razionalismo che riduce la realtà umana a una sola dimensione, quella del rapporto con la realtà materiale, come vuole il capitalismo che vede l’essere umano solo come consumatore.

A partire dalla nuova visione della realtà umana proposta dallo psichiatra Fagioli, la nostra critica al modello neoliberista e a una mentalità fondata su religione e ragione si è sviluppata e si dipana di settimana in settimana dando molta importanza alla ricerca e all’arte in tutte le sue forme, come espressione del non cosciente, della fantasia, di quel mondo interno che gli artisti sanno esprimere con forme e colori, con la musica, con la poesia. Le immagini sono pensiero. Di più. Sono linguaggio, ha affermato Massimo Fagioli ribaltando una millenaria storia che condanna il mondo irrazionale, che condanna la donna e il bambino, considerato alla stregua di un piccolo animale da un pensiero filosofico che vede nel Logos il fondamento dell’identità umana.

Con le sue rivoluzionarie scoperte scientifiche Massimo Fagioli ha dato un futuro alla psichiatria, ma ha anche aperto nuove prospettive di ricerca in molti altri ambiti del sapere. Lo ha fatto – cosa del tutto inusuale – anche accettando di scrivere su un settimanale che si rivolge al grande pubblico, portando la ricerca psichiatrica nella discussione pubblica, aprendosi al confronto, al dibattito, rifiutando la violenza nascosta nella cultura dominante che ancora non si è liberata dell’oppressione della religione e dall’ombra lunga del freudismo, dell’esistenzialismo, dei pensatori della morte, che ancora è prigioniera della visione cieca dell’organicismo.

Di questo (e di molto altro) gli siamo profondamente grati. Anche per come l’ha fatto su queste pagine, regalandoci i frutti più alti della sua riflessione e della sua ricerca. Basta leggere le sue tre rubriche che abbiamo riproposto su questo numero. Gli siamo riconoscenti anche per come l’ha fatto. Ideando pagine che sembrano quadri, opere d’arte in cui scrittura e immagini trovano un’inedita composizione. La sua “Cascata del mare”, il disegno che campeggia nell’ultima versione della sua rubrica, ci appare come una straordinaria rappresentazione di un mondo irrazionale in cui le categorie della coscienza e della ragione sono del tutto sovvertite. Immagini e parole mostrano un’intima corrispondenza tra forma e contenuto, senza trascurare i minimi dettagli: la percezione delirante avrebbe potuto nascondersi, com’era accaduto, in un particolare dissonante che sfuggendo alla percezione della veglia poteva emergere dai sogni per quella stupefacente capacità di cogliere ciò che si muove oltre la superficie dei fenomeni avvertiti dalla coscienza. Anche la grafica doveva essere coerente con i contenuti, in un equilibrio suscettibile di rinnovamento e perfezionamento. Cura, formazione e ricerca erano la dorsale di tutto il suo lavoro. Ora abbiamo un patrimonio immenso di idee da sviluppare.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Il liceo che si vanta di non avere studenti poveri o stranieri: un fallimento culturale

Studenti e professori all'ingresso del liceo Ennio Quirino Visconti per l'inizio del nuovo anno scolastico a Roma 12 Settembre 2016, ANSA/GIUSEPPE LAMI

Poi ci si lamenta che il fascismo e il razzismo sono fenomeni striscianti e in qualche modo permeano la società italiana. Ma se una scuola prestigiosa, il più antico liceo classico della Capitale, ammette, nero su bianco, la diseguaglianza tra ricchi e poveri, allora di che cosa ci lamentiamo? Se la scuola, che dovrebbe essere il primo baluardo contro i pregiudizi, contro le diseguaglianze, contro la sopraffazione perché dovrebbe garantire il diritto al sapere, di conoscenza e quindi di possibilità di cambiamento per tutti, senza distinzione tra poveri e ricchi, invece si culla nel prestigio di censo delle famiglie dei suoi studenti e ne fa il suo fiore all’occhiello, che cosa dobbiamo dire? Che siamo al fallimento culturale e civile? Speriamo di no, ma l’allarme deve essere fortissimo, anche perché la scuola è davvero l’antidoto per garantire la vita democratica di un Paese.

«I veri mostri ce l’abbiamo dentro casa e mi riferisco a un sistema ideologico che ormai non solo ha fortemente intriso le nostre vite quotidiane ma evidentemente ha talmente tanto scalfito antropologicamente le persone che anche un’istituzione scolastica che dovrebbe garantire – come fatto valoriale di principio, ma anche di specificità identitaria – che la scuola sia aperta a tutti, non faccia dell’articolo 34 primo comma, un elemento significativo», dice a Left Marina Boscaino, portavoce nazionale dei comitati Lip che sta presentando in giro per l’Italia, come portavoce di Potere al popolo per la scuola, il testo di legge di iniziativa popolare per la scuola pubblica.

Ha sollevato molte polemiche il rapporto di autovalutazione del liceo Ennio Quirino Visconti di Roma. Come citato da Repubblica, nel “curriculum” della scuola si legge, a proposito degli studenti: «Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile». Il rapporto di autovalutazione è la carta di presentazione della scuola che ognuno può trovare, per tutti gli istituti italiani, nel sito del Miur “La scuola in chiaro”. Nell’ottica ormai imperante della concorrenza tra scuole per ottenere più iscrizioni possibili – perché i contributi privati ormai sono fondamentali  – ecco che quell’accenno alla nazionalità degli studenti forse avrebbe dovuto attirare ancora di più rampolli di famiglie altolocate e del centro storico. Se nelle periferie ci sono studenti di origine straniera, con disabilità oppure anche Dsa o Bes, che importa?

Nel centro storico della Capitale si respira un’aria diversa. Ecco cosa si legge, nel rapporto, oltre all’indicazione dell’assenza di stranieri e disabili: «La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente, mentre si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento, limitando gli interventi di inclusione a casi di Dsa, trasferimento in entrata o all’insorgere di Bes». Il rapporto di autovalutazione che dovrebbe essere uno strumento per far crescere la scuola al suo interno, per sviluppare reazioni a criticità, che dovrebbe innescare una ricerca educativa più forte, diventa, almeno in questo caso, una piatta sequela di cifre e classificazioni che sembrano più adatte a una fabbrica di auto che al luogo di formazione di esseri umani.

Per esempio la prima casella riguarda lo “Status socio economico e culturale delle famiglie degli studenti” . Ebbene, il livello mediano dell’indice Escs (parole testuali) e il background familiare mediano è “Alto”. Poi c’è un’altra casella: “Quota di studenti con famiglie svantaggiate”, che però stranamente presenta una cifra maggiore di studenti stranieri rispetto a quanto dichiarato nella breve nota. Le schede di valutazione riguardano poi l’età degli insegnanti, i risultati delle prove Invalsi, e naturalmente la percentuale degli studenti che si sono immatricolati (anno scolastico 2014-2015) che è, ovviamente alta: il 91% rispetto al 39,1% dell’Italia.

Nessuna intenzione di “criminalizzare” il liceo Visconti di Roma. Probabilmente vi saranno altri istituti che seguiranno questo stesso modus operandi, la costruzione cioè  di una vetrina per attirare nuovi iscritti. Ma utilizzare l’assenza di “studenti stranieri”e “studenti con disabilità” come elemento “attraente” della scuola non promette nulla di buono per l’istruzione pubblica e il rispetto dei principi costituzionali sanciti nell’articolo 3 e nell’articolo 34 sul diritto al sapere per tutti.

Anche questi principi servono per costruire gli anticorpi contro i fascismi di tutti i tipi. È la scuola pubblica e laica che tutela contro questa deriva antropologica. «Tutti, dalle voci della stampa ai partiti, dovrebbero contrapporsi a questa deriva. Invece mi sembra che l’assecondano. Questo significa che il danno è fatto ed è più grave di quanto ci possiamo immaginare», conclude Marina Boscaino.

«Tanti raccontarono i sogni e io risposi sempre»

Le piace la vita, professor Fagioli?

«La vita? Sì, sto benissimo».

Le è sempre piaciuta la vita?

«Sì, penso di sì. Anche quando ci sono stati momenti difficili…».

Così disse Massimo Fagioli durante un’intervista di Gigi Marzullo andata in onda il 10 ottobre 2005 su Rai 1 (cfr. Il Sogno della farfalla, 2/2006, L’Asino d’oro ed.). Tentare di raccontare la sua vita in poche battute è impresa ardua, per non dire impossibile. Perché impossibile è riassumere la vita di un uomo che ha fatto della propria una costante fonte di ricerca sulla realtà umana. Ogni evento, situazione, vissuto è stato per lui uno spunto per osservare, pensare e conoscere quello che è sempre stato invisibile agli occhi della veglia e della coscienza. E ce lo ha raccontato più volte:

«E senza che me ne rendessi conto ci fu una svolta nella primavera del 1945, in seguito a un incidente qualsiasi che può capitare a migliaia di persone. Evidentemente io ero maturo per l’apertura alla realtà non cosciente. Un compagno di scuola mi ferì un occhio. Ripeto: un incidente che succede a migliaia di persone, ma quello è stato un punto cardine per la svolta (…) invece di cadere nel vuoto, invece di avere avuto una reazione di annullamento, di negazione, di castrazione, di dissociazione (…) ho ritrovato un’immagine femminile. E un’immagine femminile che, senza che mi rendessi conto, deve essere stata alla base di tutto quello che ho fatto dopo, perché avevo conciliato, concordato, composto una mia lucidità mentale precisa per cui poi ho fatto tutta la mia strada dall’università alla specializzazione, alla ricerca psichiatrica» (L’uomo nel cortile, Lezioni 2005, L’Asino d’oro ed., pp. 191-2).

Negli anni successivi, infatti, si laurea in medicina ma, invece di proseguire la carriera come chirurgo, decide di diventare psichiatra, rifiutando l’idea di una incurabilità della malattia mentale. «Capitò uno, si sdraiò sul lettino, doveva fare un’iniezione endovenosa, arrivò il chirurgo e disse: “Che ci fa questo qui?”. “Deve fare un’iniezione endovenosa perché è stato dimesso dal manicomio, sta male…”. “Mandatelo in manicomio!” .Come, mandatelo in manicomio?! Lui opera gli altri e questo lo dobbiamo mandare in manicomio? No, questa storia non mi piace. E allora, io, invece di fare chirurgia faccio psichiatria. E lì decisi di fare psichiatria» (Storia di una ricerca, Lezioni 2002, L’Asino d’oro ed.).

È il gennaio del 1958 quando giunge a Venezia per il suo primo incarico presso l’Ospedale psichiatrico dell’isola di S. Clemente. «Il manicomio di Venezia era uno dei più antichi d’Italia; nella sua splendida, straordinaria biblioteca c’erano i testi e le cartelle di cent’anni prima (…). E vedevo che i nostri cari antenati, quegli illustri psichiatri (…) liquidavano tutti con una o due parole che erano quasi sempre le stesse. Una parola era “stolido”; qualcun altro più solerte, più intelligente, scriveva anche “anaffettivo”» (Il pensiero nuovo, Lezioni 2004, L’Asino d’oro ed., p. 75).

Dopo soli due anni però, insofferente alla realtà manicomiale basata su un’idea organicista della patologia mentale, lascia Venezia per recarsi all’Ospedale psichiatrico di Padova «alla ricerca di un pensiero che avesse avuto un interesse a comprendere, oltre l’anatomia del cervello, il funzionamento della mente umana» (“Ipnosi”, premessa a La storia di Anna O., L’Asino d’oro ed., p. XIII). «Quando poi andai a Padova il direttore dell’ospedale era Barison, un liberale molto aperto, che mi permise da sùbito, dal 2 gennaio 1960, di eliminare le regole. Abolimmo tutte le sorveglianze (…). A Padova mi furono affidati due reparti – uno anche di cronici. Lì fu l’inizio forte sulla terapia, perché cominciai sùbito a fare psicoterapia di gruppo. Vivevo con i malati, mangiavo con loro, uscivo con loro, facevo gite a Venezia con loro. Era un reparto circondato da mura e io le buttai giù. Parlavo sempre, in continuazione, con loro. Dovevo capire qual era il punto, il fatto della malattia, tanto che chiedevo spesso: “Perché sei matto?”. Sono rimasto tre anni, poi sono andato a fare la comunità terapeutica a Kreuzlingen, in Svizzera» (“Il problema è la cura non le mura”, intervista a M. Fagioli, Left del 28 febbraio 2015).

Tuttavia, nonostante l’ambiente padovano gli avesse permesso di effettuare una serie di interventi psichiatrici rivoluzionari e innovativi per l’epoca, e di scrivere due articoli che gettarono le basi per la futura ricerca sull’eziopatogenesi della malattia mentale e sulla prassi psicoterapeutica, dopo tre anni decide di andare in Svizzera, presso il Sanatorium Bellevue diretto da Binswanger. E qui, con l’incarico di direttore della comunità terapeutica, approfondisce ancora di più la ricerca sulla psicoterapia di gruppo e la prassi. Nel dicembre del 1963, poi…

L’articolo di Alice Masillo e Martina Patané prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

«Saremo a Macerata»: la base di Arci e Anpi si ribella ai vertici che disertano il corteo antifascista

Un momento di "Non è reato', la manifestazione nazionale contro il razzismo svoltasi in piazza della Repubblica a Roma, 21 ottobre 2017. ANSA/ MAURIZIO BRAMBATTI

Tra i circoli locali dell’Arci scoppia la rivolta. Molti, più di sessanta (ma il numero è probabilmente destinato a salire) hanno sottoscritto un appello che invita i propri soci a partecipare alla manifestazione antifascista a Macerata prevista per sabato 10, e la direzione nazionale Arci a tornare sui propri passi, riconsiderando la decisione di abbandonare il corteo. E anche la sezione Anpi Renato Biagetti di Roma e quella di Albano Laziale disobbediscono e si dissociano dalla indicazione dei vertici.

La decisione dei direttivi di Arci, Anpi, Cgil e Libera di prendere le distanze dal corteo di sabato è arrivata mercoledì pomeriggio, in seguito all’appello del primo cittadino di Macerata Romano Carancini, che invitava ad annullare qualsiasi manifestazione. Intervistata da Left, la presidente nazionale dell’associazione dei partigiani d’Italia Carla Nespolo ha parlato di una «scelta impopolare, che sarà compresa più avanti».

Nel frattempo, sia il Prefetto di Macerata Macerata Roberta Preziotti, che il ministro dell’Interno Marco Minniti, hanno dichiarato che provvederanno a vietare qualsiasi manifestazione sul territorio della città marchigiana. Insomma, dopo un attentato fascista, si proibisce agli antifascisti la libertà di manifestare.

Di seguito, i tre comunicati in versione integrale.

L’appello dei circoli Arci disobbedienti:

Abbiamo appreso nella giornata di ieri della decisione di sospendere la partecipazione alla manifestazione antifascista convocata per sabato 10 febbraio a Macerata, su invito del sindaco della città “per il clima di smarrimento, paura e dolore vissuto dalla comunità locale”. Riteniamo questa scelta un grave errore. Non possiamo cedere di fronte a una retorica che mette sullo stesso piano le convocazioni neofasciste e le manifestazioni solidali con le vittime. Non possiamo avallare l’approccio del Viminale e della prefettura di Macerata, pronti a “vietare ogni manifestazione”. L’intenzione, pur importante, di costruire presidi locali e future iniziative di mobilitazione unitarie rischia di venire schiacciata dai fatti degli ultimi giorni.

I fatti di Macerata rappresentano un salto di qualità, ma si inseriscono in una spirale di odio, razzismo e violenza fascista che da troppo tempo si sta sviluppando nel nostro Paese. Le realtà strutturate hanno il dovere di prendere parola e di riportare alla luce i valori dell’antifascismo, dell’antirazzismo e della concreta solidarietà. Il nostro statuto lo dice a chiare lettere: l’Arci è quotidianamente impegnata nello “sviluppo di forme di prevenzione e di lotta all’esclusione, al razzismo, alla xenofobia, all’intolleranza, al disagio, all’emarginazione, alla solitudine”. Revocare la partecipazione al corteo significa fare un passo indietro dai valori che ogni giorno proviamo a concretizzare all’interno dei nostri circoli e che sono stati al centro di importanti iniziative recenti dell’Arci. Significa non esserci quando c’è bisogno di rompere il silenzio e la paura, mentre tante persone che sono soci Arci o che si riconoscono nei nostri valori andranno comunque: semplicemente, saranno più soli.

Per questo, l’unica risposta che vediamo in linea con questi valori è prendere parte in tanti e tante al corteo del 10 Febbraio a fianco delle realtà che sul territorio costruiscono presidi di democrazia sostanziale, perché l’antifascismo è un valore universale che deve appartenere a tutti e non rientrare in scontri tra fazioni. La paura aumenta la paura e rischia di lasciare sempre più spazio alle forme di neofascismo che si sono manifestate anche nei fatti di Macerata.

Per questo, chiediamo alla dirigenza nazionale di riconsiderare la sospensione della partecipazione dell’Arci nazionale alla manifestazione, decisione in cui non ci sentiamo rappresentati, e, di partecipare sabato a Macerata, così come noi continueremo a partecipare alle future iniziative di mobilitazione e a quelle già in campo.

Per sottoscrivere l’appello, manda una mail a [email protected]

Primi firmatari:
Casa dei Popoli Rinascita – Pisa
Circolo Arci Pace e Lavoro – Pisa
Circolo ARCI E. Curiel La Vettola – Pisa
Circolo Agorà – Pisa
Circolo ARCI Il Botteghino – La Rotta – Pontedera, Valdera (PI)
Circolo ARCI Casciavola – Pisa
Circolo Arci San giuliano terme (Pisa)
Circolo ARCI Torre Giulia – San Romano – Montopoli Val d’Arno (PI)
Settembre Rosso – Empoli (FI)
Comitato Provinciale Avellino
Circolo ARCI Adelante – Melito Irpino (AV)
Enterprise – Avellino
Mente&Corpo – Torrioni (AV)
Circolo Arci Cespos Macondo – Avellino
Zona Franka – Bari
Fluxus Club Arci – Bari
Arci La Locomotiva – Corato (BA)
La Mancha – Ruvo di Puglia (BA)
Circolo Arci Cafiero – Barletta
RitmoLento – Bologna
Circolo Arci Guernelli – Bologna
Arci Brecht – Bologna
ARCI Melquiades – Catania
ARCI Faber – Catania
Circolo Culture in Movimento – Crotone
Circolo Le cento città – Crotone
Circolo ARCI Trenta Giugno – Genova
Circolo Amici Cacciatori Granarolo – Genova
ASU – Padova
Circolo Nadir – Padova
ARCI Casa della cooperazione – Palermo
ARCI Cerchio di Alice – Palermo
ARCI Stato Brado – Palermo
ARCI The Factory – Palermo
ARCI Porco Rosso – Palermo
ARCI Tavola Tonda – Palermo
ARCI Intona Rumori – Palermo
ARCI Teatro Atlante – Palermo
ARCI Il Girasole – Lascari (PA)
ARCI Collettivo Link – Monreale (PA)
ARCI Teatro Zeta – Termini Imerese (PA)
Arci Reggio Calabria
Sparwasser – Roma
Nonna Roma – Roma
Circolo ARCI Pietralata – Roma
Poppyficio – Roma
Arci solidarietà – Roma
Circolo Kino – Roma
Circolo Arci Artenoize- Roma
Circolo ARCI 30 Formiche – Roma
Cantiere Analogico Digitale – Roma
Fanfulla 5/a – Circolo Arci – Roma
Circolo Arci Concetto Marchesi – Roma
ARCI Montefortino 93 – Artena (RM)
Circolo Mediterranea – Formia (LT)
Comitato Provinciale Arci Siracusa
Marea – Salerno
Ferro 3.0 – Scafati (SA)
Officine Corsare- Torino
Circolo Arci Pop – Torino
Circolo Arci il Cosmonauta, Viterbo
Le città invisibili, Caprarola (VT)
Arci Capranica Claudio Zilleri, Capranica (VT)
Circolo Arci La Poderosa, Vasanello (VT)
Aucs Onlus, Viterbo
Associazione Culturale Percorsi, Viterbo
Arci Solidarietà Viterbo Onlus

 

Il testo della sezione romana “Renato Biagetti”, sottoscritto dal Comitato madri per Roma città aperta:

Sabato 3 febbraio eravamo in viaggio verso Genova, diretti alla manifestazione indetta da “Genova Antifascista” per l’accoltellamento di un’antifascista da parte di militanti di CasaPound. Lungo la strada lo sgomento e il paradosso ci ha travolto: un giovane fascista a Macerata aveva sparato da un auto contro 6 persone per il colore della loro pelle. Scelte come bersagli casuali per mettere in atto un piano razzista: “punire i negri” per la loro stessa esistenza e presenza in Italia. Fiumi di sdegno ci saremmo aspettati sgorgassero dalle bocche e dalle penne delle istituzioni e dei giornali; il solito bel colpo di spugna a coprire la connivenza e la legittimazione data non tanto alle formazioni di estrema destra e neofasciste, quanto ai loro mortiferi contenuti razzisti e forcaioli.

Ma qualcosa di nuovo si è prodotto: silenzio. O, ancora peggio, giustificazione per un atto che non esitiamo a definire terroristico, ovvero messo in atto per spaventare ed alimentare paura. A questo evento drammatico, le realtà sociali di Macerata e delle Marche, hanno risposto lanciando una manifestazione nazionale per esprimere solidarietà alle 6 persone in ospedale, all’intera città ferita e a tutta quella larghissima parte d’Italia che si è sentita colpita ancora una volta, e che ha visto concretizzarsi i deliri che, dalla Lega a Forza nuova, straparlano di invasione, sostituzione della razza e vari argomenti della peggiore tradizione nazifascista.

Avevamo accolto con favore che anche realtà come Anpi, CGIL, ARCI e Libera avessero deciso di aderire ed esprimere una posizione netta di condanna. Ma come si suol dire il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e nel giro di 24 ore abbiamo assistito ai seguenti atti: la manifestazione è diventata improvvisamente la “loro” manifestazione; il sindaco di Macerata ha invitato gli organizzatori ad annullare tutte le iniziative previste – equiparando quelle fasciste a quelle antifasciste – le dirigenze di ANPI, CGIL, ARCI e Libera, autoproclamatesi “nuovi proprietari” della manifestazione hanno accettato di ritirarsi nelle loro confortevoli sedi; il ministro Minniti ha ringraziato e vietato la piazza democratica ed antifascista.

Tra presunzioni personali e calcoli elettorali in Italia si stanno calpestando diritti civili e principi costituzionali. Quale sarebbe l’idea di democrazia e partecipazione che intendono il Partito Democratico e le segreterie centrali di ANPI, CGIL, ARCI e Libera? Quale idea di uguaglianza e avanzamento sociale possono promuovere?E’ sufficiente un nome o una sigla per giustificare e coprire le scelte delle dirigenze di queste organizzazioni operate nel chiuso delle loro segreterie?

O possiamo dire che gli atti prodotti in questi giorni sono vergognosi e rappresentano una delle pagine più miserabili della storia della sinistra italiana? Quando si affronterà un dibattito pubblico sulle responsabilità di chi è stato complice dell’avanzamento di politiche razziste e xenofobe? Per noi i fatti di questi giorni sono una riga tracciata con la spada di Minniti dietro la quale si nascondo istituzioni, realtà associative e sindacali.

Noi, da parte nostra, abbiamo i nostri limiti e la nostra scelleratezza di chi continua ostinatamente a voler rimanere lucido nelle proprie strade e nelle proprie piazze; armati solo della determinazione che le morti per mano fascista dei nostri compagni e fratelli, in questi ultimi 15 anni, ci hanno dato. Non abbiamo più voglia o tempo da perdere con la paura che quelle stesse organizzazioni hanno introiettato. La paura è una brutta bestia, ti entra dentro, ti piega e ti immobilizza. Noi scegliamo di affrontare quelle paure fatte di miseria, impoverimento e disuguaglianza senza nasconderci.

La nostra scelta non sarà un nuovo Aventino ma ancora una volta in strada, a volto scoperto, senza fare un passo indietro.

Per tutto questo e per tanti altri motivi come a Genova abbiamo scelto di portare il nostro striscione, raccogliendo il favore di molti aderenti all’ANPI, così, in aperto dissenso con la scelta della Presidenza nazionale dell’Anpi saremo a Macerata il prossimo 10 febbraio. E invitiamo gli iscritti e gli attivisti che costituiscono la base di Anpi, CGIL, Arci e Libera ad unirsi a noi.

Circolo Anpi Renato Biagetti
Comitato Madri per Roma Città Aperta

La nota della sezione Anpi di Albano Laziale “Moscati – Fagiolo”:

NESSUN PASSO INDIETRO

In riferimento al comunicato unitario delle segreterie nazionali di Anpi, Cgil, Arci e Libera nel quale si annuncia il ritiro della partecipazione alla manifestazione antifascista del 10 febbraio p.v. a Macerata, esprimiamo tutto il nostro dissenso e la nostra contrarietà.
L’Anpi sta denunciando da parecchi mesi una emergenza democratica spaventosa; a tal proposito, quanto accaduto a Macerata e le successive rivendicazioni da parte di partiti di estrema destra che concorrono alle libere elezioni politiche del 4 marzo prossimo, sono solo la punta dell’iceberg di un grave e pericoloso sdoganamento fascista.
Come antifascisti siamo basiti e offesi della richiesta del sindaco di Macerata che chiede la sospensione di qualsiasi manifestazione, mettendo sullo stesso piano coloro che incitano all’odio razziale e l’intolleranza e gli antifascisti che lottano quotidianamente per la tenuta democratica del Paese.
Non è questo il momento di fare passi indietro! C’è ancora tempo per riflettere e rivedere le ultime posizioni assunte. La nostra presenza nelle scuole, nelle istituzioni e in ogni ambito sociale non è più sufficiente. A questa escalation di violenza fascista e razzista è necessario rispondere con la militanza e con la presenza sui territori
L’Anpi è la casa degli antifascisti! La nostra sezione l’ha scritto ovunque e in ogni occasione.
E’ con questo spirito e con la Costituzione in mano che diciamo che, se il corteo verrà confermato dagli organizzatori, sabato 10 febbraio alcuni nostri iscritti e simpatizzanti saranno in piazza a Macerata, perché i Partigiani possano essere fieri di chi, con molta umiltà, porta il loro nome.
ORA E SEMPRE RESISTENZA

Il Direttivo
Anpi “M.Moscati – S. Fagiolo”
Sez. Albano Laziale – Castel Gandolfo

*AGGIORNAMENTO* di giovedì 8 febbraio alle 16:25
Anche la Fiom si smarca dalle indicazioni della Cgil, e sarà a Macerata «con la segreteria nazionale e le delegazioni territoriali in difesa del diritto costituzionale a manifestare», come si legge in una nota.
E la sezione Anpi piemontese di Foresto – Bussoleno – Chianocco si aggiunge alla lista di quelle “ribelli”.

Leggi anche: Macerata, lo stop dell’Anpi al corteo antifascista: «Scelta impopolare, sarà compresa più avanti»