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La salute psicofisica è un bene pubblico, basta con i tagli servono investimenti

Un momento della manifestazione "Sanità in Piemonte? Così non va", organizzata da Funzione Pubblica CGIL CISL e UIL davanti al palazzo del Consiglio Regionale del Piemonte, Torino, 16 dicembre 2015. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

La Ragioneria dello Stato ha pubblicato in questi giorni le tabelle del conto annuale nel pubblico impiego: in 8 anni il personale della sanità è calato di 45 mila unità, 5 mila in meno nel 2016 rispetto al 2015.
Da tre anni il fondo sanitario nazionale è fermo a 113 miliardi a fronte dell’aumento della spesa farmaceutica, delle nuove tecnologie diagnostiche, ma soprattutto della spesa per la cronicità.
Anche nell’ultima legge di bilancio il finanziamento del servizio sanitario nazionale non compare tra le voci prioritarie di investimento del governo.
Stiamo assistendo al depotenziamento della sanità pubblica con i tagli dei servizi e del personale, senza un vero programma di razionalizzazione della spesa.
Al cospetto di questi dati non è facile parlare di “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo”  senza cadere in discorsi demagogici; è evidente che non possiamo trascurare i problemi della sostenibilità economica di quello che un tempo era il servizio sanitario “più bello del mondo”.
In tempi di crisi economica determinata dal liberismo sfrenato, è difficile, per la pubblica amministrazione, coniugare l’economicismo fine a se stesso che mira solo al risparmio, con la cultura della difesa dei diritti della cittadinanza. E’ un rapporto impossibile in cui il privato lentamente sovrasta e corrode gli interessi della collettività.
Credo sia necessario recuperare il paradigma secondo cui la “tutela della salute” non sia esclusivamente un diritto da difendere, peraltro con armi spuntate, ma al contrario un bene indispensabile allo sviluppo, se volete anche economico, della società.
La salute psico-fisica delle persone costituisce la colonna portante di una nazione che vuole essere competetitiva nella globalizzazione.
Per l’art. 32 della Costituzione e per la legge 833 del 1978 la salute avrebbe dovuto essere un bene preziosissimo da difendere nell’interesse della collettività, secondo principi di “uguaglianza, equità e solidarietà”, al contrario per i governi che si sono succeduti dal 1990 è diventata una zavorra, ormai economicamente insostenibile.
La mancanza di una programmazione uniforme e condivisa su tutto il territorio nazionale, ha portato ad una situazione di frammentazione che è la causa principale dell’ingovernabilità del sistema, ormai abbiamo tanti servizi sanitari per quante sono le aziende che ragionano come monadi in concorrenza tra loro, le direzioni generali che rappresentano ormai delle monarchie con inarrestabile accentramento decisionale, intervengo esclusivamente a salvaguardia del risparmio finanziario a scapito di cittadini.
Gli operatori che dovrebbero essere i primi attori dei servizi, sono ormai emarginati e mortificati nella loro professionalità, costretti a carichi di lavoro insostenibili per i progressivi tagli al personale, in cui la sicurezza delle cure non può più essere adeguatamente garantita.
Oggi è indispensabile fermarsi e ripensare il sistema nella sua complessità, ripartire dalla responsabilizzazione e valorizzazione delle competenze professionali in un sistema articolato, in cui la multidisciplinarietà trovi espressione nell’integrazione delle aziende sanitarie, in una “visione” che recuperi prima di tutto la cultura della promozione della salute, cardine della 833 del 1978.
Investire oggi sugli operatori e sull’integrazione dei servizi è la strada che può rendere il sistema realmente sostenibile.

“La salute è ancora un diritto?”.  Questo è il tema dell’assemblea pubblica promossa dal Comitato per la democrazia costituzionale,  per sabato 10 febbraio alle ore 11 a piazza di Donna Olimpia, Roma.
Oltre ad Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Medici Cgil, intervengono Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dei sistemi sanitari e Luigi Galloni, Comitato per la Costituzione Roma XII. Modera Simona Maggiorelli, direttore responsabile di Left. L’assemblea fa parte del programma La Repubblica delle periferie promosso dal Coordinamento per la democrazia costituzionale.

L’antifascismo non è un orpello da sventolare quando il mare è piatto e non tira vento. Mi spiace. No

Provando a ricapitolare: a Macerata è avvenuto una «violenza» con una «spregevole ideologia alla base» in cui «sei persone sono state» bersaglio di una sparatoria «in Italia nel weekend a causa del colore della loro pelle. Vittime innocenti di una violenza causata da razzismo e xenofobia odiosi». Le parole sono del vicepresidente della Ue Frans Timmermans, tanto per chiarire quanto sia lapalissiano il fatto. Fascismo. Si dice così. Si pronuncia così. Si scrive così.

In un Paese che dal fascismo è uscito a brandelli (tanto da inserirlo come odioso pericolo nella propria Costituzione) dopo un fatto fascista verrebbe naturale pensare che ci sia da rispondere che la politica risponda con la schiena dritta e a voce alta. “Ma siamo in campagna elettorale!”, dice qualcuno. Tanto meglio. Politica nel tempo della massima manifestazione di intenti: essere antifascisti è un prerequisito da affermare anche e soprattutto in campagna elettorale. “Ma poi gli xenofobi potrebbero creare disordini!”, dice qualcun altro. E allora sarà l’occasione per lo Stato per ribadire la Costituzione e mostrarsi fermo nel rispetto delle regole, verrebbe da rispondere. “Ma la gente non vuole divisioni!”, bisbiglia il sindaco di Macerata. Male, sarebbe da rispondere: il contrario di fascismo è democrazia. Si tratta di difesa della democrazia. Mica di un parte politica. “Meglio aspettare, stare tranquilli”, dicono alcuni. Ma Macerata non è “tranquilla”: Macerata è una città sporcata dall’onta della vergogna. Non ha bisogno di “restare tranquilla” ma di tornare ad essere tranquillamente democratica.

E coma finisce? Finisce che  Anpi Cgil Arci e Libera dichiarano sospesa una manifestazione che in realtà è stata indetta da altri: come racconta Csa Sisma “una manifestazione che in pochissimi giorni ha ricevuto appelli, adesioni ed inviti alla partecipazione da tante realtà sociali e singoli cittadini, a livello locale, come a livello nazionale”. E l’appello di ANPI (e gli altri) viene smentito nelle decine di messaggi (e sezioni locali) che decidono comunque di non accettare la sospensione. E così, da fuori, si assiste allo spiacevole balbettio di chi crede che “la politica” si propaghi provando a galleggiare. Ed è un peccato. Alla fine (ovviamente) la Prefettura prende la palla al balzo per vietare “tutte le manifestazioni”. Non si manifesta l’antifascismo, in Italia, nel 2018: la normalizzazione del fascismo come “opinione” contraria è riuscita.

L’antifascismo non è un orpello da sventolare quando il mare è piatto e non tira vento. Mi spiace. No.

(A proposito: mercoledì a Macerata Casapound ha tenuto una conferenza stampa e oggi, giovedì 8 febbraio, Forza Nuova ha annunciato un presidio. Loro.)

Buon mercoledì.

Macerata, lo stop dell’Anpi al corteo antifascista: «Scelta impopolare, sarà compresa più avanti»

Un momento della contromanifestazione dell'Anpi contro il raduno dei movimenti di ultradestra europei a Genova. Oltre 600 i manifestanti si sono radunati in piazza Ragazzi del '99 per il presidio antifascista contro il convegno dei movimenti di ultradestra che si terrà nel pomeriggio nella sede di Forza Nuova a Sturla, quartiere nel levante di Genova, 11 febbraio 2017. ANSA/ LUCA ZENNARO

«Abbiamo assunto la decisione, non senza preoccupazione e inquietudine, di sospendere la manifestazione nazionale del 10 febbraio». Con queste parole Anpi, Cgil, Arci e Libera hanno comunicato di non partecipare al corteo previsto sabato a Macerata, la manifestazione organizzata in risposta all’attentato fascista di Luca Traini, ora accusato di strage aggravata dalla finalità di razzismo. La decisione – presa in seguito all’invito del primo cittadino del capoluogo Romano Carancini (Pd) a fermare tutte le manifestazioni previste in città – ha subito sollevato un vespaio di polemiche. Tra i primi commenti sul web, numerosissime critiche da parte dei militanti delle quattro realtà e semplici cittadini di sinistra, che non hanno compreso il significato di questo “passo indietro”. Ad ogni modo, diverse realtà politiche e sociali – tra cui Potere al popolo – hanno confermato che un corteo si terrà comunque. Nel frattempo, CasaPound oggi ha tenuto una conferenza stampa nel capoluogo marchigiano, e domani Forza nuova terrà un presidio in piazza Battisti, indetto sotto lo slogan aberrante: «Di immigrazione si muore». Abbiamo cercato di capire il perché di questo dietrofront, insieme a Carla Nespolo, presidente nazionale Anpi.

Non pensa che rispettare il volere di un sindaco che – di fatto – mette sullo stesso piano manifestazioni fasciste e antifasciste, chiedendo di sospenderle entrambe, sia un atto grave, che “legittima” questa tremenda equiparazione?
Capisco, e son anch’io critica col sindaco, nei modi e nella sostanza. Innanzitutto perché poteva avvertirci prima della sua richiesta, e poi perché le manifestazioni fasciste andrebbero tutte vietate a prescindere. Purtroppo, essendo CasaPound ammessa alle elezioni democratiche, non è facile… Noi tra l’altro avevamo già lanciato un appello insieme a 23 associazioni perché le liste fasciste non fossero ammesse alla competizione elettorale. Il punto è che Macerata è una città provata da tante cose , dal terremoto e da questi due terribili fatti di cronaca (l’attentato fascista di Luca Traini, e la tragica vicenda di Pamela Mastropietro, ndr). Perciò abbiamo ragionato: la scelta più semplice sarebbe stata dire «andiamo, i pullman sono già pronti e succeda quello che deve succedere». Ma sarebbe stata una decisione che non avrebbe tenuto conto della richiesta di un primo cittadino di una città, e il nostro sarebbe stato un atteggiamento antidemocratico, che non ci appartiene.

Dunque le richieste di un sindaco vanno sempre rispettate. E se il sindaco fosse stato di CasaPound?
Noi abbiamo tenuto conto dell’opinione di un sindaco democratico. Certo se fosse stato di CasaPound… Ma non ce ne sono di sindaci di questa forza politica, e per fortuna sarà difficile che ce ne siano mai, il popolo italiano è un popolo saggio.

Avete comunque intenzione di fare qualcosa, una manifestazione alternativa?
Si, faremo una grande manifestazione antifascista nel giro di poche settimane, chiameremo i cittadini a partecipare e ad essere con noi. Il sindaco scrive: «Credo che ci sia un tempo per il silenzio e un tempo per manifestare, tutti insieme, a favore della vita, per la nostra Costituzione, per i diritti alla legalità», chiedendo dunque una sospensione dovuta alla contingenza. Ripeto, noi avremmo potuto scegliere di andare, sarebbe stata la scelta più semplice, ma anche la meno rispettosa di una istituzione repubblicana eletta dai cittadini. Inoltre, il sindaco chiama in causa la Costituzione, che – lo ricordo – è antifascista, non a-fascista.

Ma allora, perché il sindaco non ha detto semplicemente “fermiamo le manifestazioni fasciste”?
A me hanno detto che oggi CasaPound sia stata costretta a fare una cosa al chiuso in un luogo privato (in realtà, il segretario nazionale di Cp Simone Di Stefano ha tenuto una conferenza stampa per le strade della città, insieme ad altri sostenitori e simpatizzanti del movimento di ultradestra, ndr). Ad ogni modo, la decisione di non misconoscere la richiesta del sindaco è stata fatta anche da Cgil, Libera e Arci: non abbiamo sottovalutato l’impatto terribile che questa scelta avrebbe prodotto su tanta nostra opinione pubblica, ma volevamo evitare una situazione di incomprensione e di violenza.

In che senso? Perché ci sarebbero dovute essere delle violenze?
No, credo anche io che quando gli antifascisti scendono in piazza si tratta sempre di giornate pacifiche. Ma decine di migliaia di persone, in una città di 41mila abitanti, avrebbero prodotto un grandissimo sconquasso e pochissima condivisione da parte dei cittadini, data anche la posizione del sindaco, secondo cui la tranquillità della sua gente sarebbe stata messa a repentaglio dalla presenza di tante persone.

Dunque, seguendo il suo ragionamento, la manifestazione che volete fare più avanti, non sarà a Macerata?
No, non la faremo lì. Penso ad una manifestazione con migliaia e migliaia di persone, da organizzare rapidamente, in un luogo più idoneo. Dovremo riunirci coi 23 firmatari dell’appello “Mai più fascismi”, lo faremo venerdì mattina. Nel frattempo, abbiamo assunto una responsabilità difficile e in un momento estremamente difficile. Esiste un fronte democratico che sa prendere anche posizioni impopolari, che saranno comprese più avanti. Noi vogliamo uno stato democratico, dove i sindaci vengano rispettati, i governi vengano rispettati, dove non ci siano forze politiche che predicano il razzismo… Ma le istituzioni si rispettano a prescindere da chi le governa.

Altre forze politiche hanno comunque confermato la loro presenza al corteo di sabato. Qualcuno, a parte voi, ci sarà.
Penso di si, può anche darsi che siano in tanti, non lo so. Ad ogni modo anche noi faremo una manifestazione più avanti, e i soci Anpi non si pentiranno di averci sostenuto fino ad ora. Certo, bisogna dire che ci sono sindaci non all’altezza del loro ruolo in questo Paese… Ma noi comunque rispettiamo le istituzioni.

*AGGIORNAMENTO* di giovedì 8 febbraio alle 00:25
Sia il Prefetto di Macerata Macerata Roberta Preziotti, che il ministro dell’Interno Marco Minniti, hanno dichiarato che, se tutte le manifestazioni nel capoluogo non verranno sospese, provvederanno a farlo loro d’imperio. Insomma, dopo un attentato fascista, si proibisce agli antifascisti la libertà di manifestare.

Marco Rovelli e il suo canto: la lotta per l’uguaglianza è viva più che mai

Ci vuol coraggio, temerarietà e grande bravura per misurarsi col lascito di Caterina Bueno.

Con Bella una serpe con le spoglie d’oro. Un omaggio a Caterina Bueno, un libro con cd per la casa editrice Squilibri, Marco Rovelli ci dà prova di possederne in grande misura.

Una bravura che non è mai esibizione virtuosistica dei pur superbi mezzi vocali che la natura e la pratica gli hanno offerto in dono, una temerarietà che non è mai tracotanza ma profondo, intimo, rispetto e vicinanza per le vicende narrate, un coraggio che è il coraggio di chi mentre canta trae nutrimento sia dalla radicale voglia di cambiare questo mondo sia dalla consapevolezza della caducità dell’esser uomini e donne di questo mondo.

L’aiuta, Marco Rovelli, esser tante e buonissime cose assieme: ricercatore di storie e di vita, scrittore, musicista, mente filosofica e docente di scuola, imbevuto di voglia di riscatto e di sapere, di riscatto del lavoro e dal lavoro.
Quello che abbiamo tra le mani e che possiamo ascoltare e leggere è il precipitato dello spettacolo teatro-canzone La leggera, un autentico viaggio nella cultura popolare toscana dove le vicende della vita di Caterina e la riproposizione dei suoi brani più importanti, da “Maremma” a “Battan le otto”, si intrecciano ai ricordi legati ad altri due autori, l’attore Carlo Monni e il poeta improvvisatore in ottava rima Altamante Logli alla Bueno profondamente legati.

E proprio nella reinterpretazione di “Maremma” e “Battan le otto” troviamo la cifra stilistica ed interpretativa di Rovelli, il modo con il quale il Nostro si è posto nei confronti di così imponente e rischiosa materia.
Un cimento rischioso, per il giudizio di tutti coloro che amano ed hanno amato Caterina Bueno e le tradizioni popolari venate d’amore e di sovversivismo della Toscana mai pacificata.
E il Rovelli ci si è accostato come soleva fare Michelangelo a fronte di un blocco di marmo di Carrara, con l’arte del levare, scalpellata dopo scalpellata, fino a liberare quel che la pietra imprigionava: discrezione, delicatezza, misura.
Una prova intensa con nuovi minimali arrangiamenti, come la chitarra ambient di “Maremma” che dilata leopardianamente il lamento in un canto a cifra della stessa intera umana condizione.

Anarchici e comunisti, assieme alla libertaria Caterina, sono i sodali di questo splendido lavoro: e forse un caso non è.
Il lavoro di Rovelli ci chiama e ci costringe a tornare a misurarci sul senso della cultura popolare, se essa abbia, ed in che misura, tratti propri ed autonomi che la distinguano dalle culture dominanti, se siano tratti progressivi o regressivi, come incrocino e tramandino i tanti tornanti della grande storia di cui troppo spesso le classi subalterne sono state spettatrici e vittime.

I moderati ed i conservatori, anche e soprattutto quelli toscani, dal Vieusseux dell’Antologia al marchese Gino Capponi, editore dei postumi Proverbi di un Giuseppe Giusti ormai spaventato dalla dimensione sociale che i moti del ’48 avevano preso anche nella Toscana Granducale, passando dalla scuola storica dell’Ateneo pisano di Alessandro d’Ancona e di Michele Barbi, hanno alacremente lavorato ad estirpare ogni tratto sovversivo dalla produzione popolare, censendo esclusivamente canti d’amore delle campagne, fuggendo i ben più preoccupanti prodotti delle città e degli operai, approntando raccolte e periodici nei quali di popolare ben poco c’era, se non quello che proprietari e finanzieri toscani speravano di forgiare.

Sarebbe interessante rileggere riviste e fogli volanti del ’48 e ’49 toscano, dove venuta meno la censura preventiva sulla stampa irrompeva la prima esperienza di politicizzazione che le classi subalterne granducali avessero mai sperimentato.
Si potrebbe utilmente riandare alle pagine de Il popolano, il foglio più radicale del periodo, dove si andavano riscrivendo i tradizionali “fiorin di pesco” in un’ottica assai meno bucolica, rifunzionalizzando stilemi “campagnoli” per parlare in infuocata maniera ad operai agricoli salariati e financo ai mezzadri.

E il pregio di questo lavoro di Marco Rovelli è anche questo: un invito a rileggere le nostre radici, a ritrovarle scegliendo il nostro essere nel mondo, a ricollegarci alle millenarie aspirazioni all’eguaglianza che hanno animato le masse contadine, gli artigiani delle città, i proletari delle fabbriche e degli opifici.
Senza alcun dio che possa risarcirci del male che ci è dato in sorte, senza speranze di appagamenti futuri né di solipsismi individualistici, con il piacere sensistico dell’amore come compagno nella lotta politica e sociale.
All’ascolto dunque, “con lo sguardo / rivolto all’Aurora”.

“Io obietto”, a teatro contro l’offensiva della Chiesa nella sanità

Valentina Milluzzo, ricoverata nell’ospedale Cannizzaro a Catania muore il 16 ottobre del 2016 perché nessuno le ha proposto di effettuare un aborto terapeutico alla diciassettesima settimana e le sono state rifiutate le cure in nome dell’obiezione di coscienza anche mentre ormai stava morendo per un’infezione generalizzata.
Non possiamo e non dobbiamo dimenticare la sua morte, perché deve fare da luce per tutte le donne che sono ogni giorno a rischio di ricevere cure inadeguate alle loro necessità in nome di un’ideologia religiosa che sostiene che la vita immortale è da preferire alla vita che abbiamo, e che quindi il peccato sia da rifiutare a costo della propria sopravvivenza, con mille sfumature usate per confonderci e non farci capire quello che sta succedendo.
Per esempio dire che – siccome anche la Chiesa afferma che salvare le donne dalla morte è giusto a qualunque costo – se non lo fanno e le lasciano morire non è semplicemente mai successo… è un salto mortale illogico difficile da capire per i laici ma chiarissimo per chi frequenta la Chiesa, casa madre della bugia, come sostenere di nascere da un povero e trasformarsi in un luogo di ricchezza e potere.
Dopo i roghi delle donne definite streghe non avremmo mai pensato che sarebbe ricominciato questo sproloquio senza senso sulla scissione fra il corpo mortale, e quindi di secondaria importanza, e l’anima immortale da salvaguardare a costo di perdere il primo. E invece, lasciando a qualcuno più bravo di me una valutazione del ritorno in questa epoca dei fondamentalismi nel mondo, è indispensabile fare una riflessione proprio su coloro che vogliono il controllo sul nostro corpo ritenendo i nostri interessi, le nostre scelte, i nostri dolori, persino la nostra sopravvivenza fisica, di secondaria importanza rispetto alla necessità di salvare l’anima. La loro o la nostra.
La presenza sempre maggiore della sanità religiosa nel nostro Paese, pagata con fondi pubblici, ma che non disdegna il Qatar nel proprio consiglio di amministrazione, getta un’inquietante ombra sulla possibilità di far valere i propri diritti, i diritti di scelta delle cure e l’applicazione delle Leggi dello Stato italiano. È come se questo Stato nello Stato, il Vaticano, avesse abbandonato la lotta parlamentare per la conquista dell’Italia, e ne avesse aperta un’altra, molto più subdola e sotterranea, per la conquista diretta delle nostre istituzioni, che provochi di fatto un collasso dei nostri diritti.
Sotto la bandiera della libertà di istruzione, da parte del Pd, si sono favoriti i voucher in modo che le famiglie ricevano il costo standard di un’istruzione e lo spendano dove meglio credono. Ma ovviamente la maggioranza delle scuole private italiane sono scuole confessionali in cui l’istruzione è gestita da religiosi. Sotto la bandiera della libera concorrenza in sanità si è favorita l’assistenza religiosa, che ha significato una – neanche tanto lenta – conquista delle cure da parte delle istituzioni religiose. L’ultimo convegno del ministero della Salute sui consultori familiari a Roma è stato aperto e chiuso dall’arcidiocesi alla presenza di Lorenzin.
Sotto la bandiera della bontà i fondi per il contrasto alla povertà non vengono impiegati per il reinserimento dei cittadini svantaggiati ma per favorire la crescita delle istituzioni religiose caritatevoli come la Caritas, la Comunità di Sant’Egidio e numerose altre più piccole che hanno tutto l’interesse a mantenere alto il numero di cittadini affidati alle loro cure e privi di autonomia.
Abbiamo avuto l’esperienza della legge 194/78, svuotata dalla progressiva obiezione di coscienza e dalla presenza di direttori dei reparti di maternità pubblici laici legati a istituzioni religiose: in Lombardia Comunione e liberazione, grazie a Formigoni e alla Lega, nel Lazio il Vaticano e l’Opus dei, grazie al Pd.
Ora dobbiamo prepararci alla battaglia sul testamento biologico. L’Associazione delle ospedalità religiose chiese nell’aprile 2017 di poter non assistere i pazienti che abbiano firmato le Dat (in occasione dell’approvazione alla Camera avvenuta il 20 aprile, ndr), e di poterli trasferire in un ospedale laico (ammesso che nel frattempo ne esistano ancora) in caso di conflitto con la religione.
La legge, nella sua ultima stesura approvata al Senato in dicembre non parla di possibilità da parte del medico di rifiutarsi, ma il ministro Lorenzin ha promesso di incontrare le strutture ospedaliere religiose per valutare le opportune modalità applicative.
D’altra parte dovremo essere pronti ad affrontare medici come il dottor Paolo Maria Rossini (ordinario di neurologia all’Università Cattolica e direttore dell’Area neuroscienze della fondazione policlinico Gemelli) che il 19 aprile 2017 ha dichiarato al Corriere della sera: «Il corpo umano non è proprietà del singolo, che non ne può quindi disporre a piacer suo. Il corpo umano appartiene a Dio e io per questo motivo cercherò sempre di salvarlo, finché è possibile».
Nella lotta secolare, ben descritta da Ermanno Rea nel libro La fabbrica dell’obbedienza fra Stato del Vaticano e cittadini italiani, per la conquista delle istituzioni, stiamo attraversando uno dei momenti più bassi, grazie sostanzialmente al Pd, che si è rivelato la longa manus delle istituzioni religiose (ricordiamo Binetti? Sappiamo davvero chi è Lorenzin, ministra inossidabile di governi Pd?).
Pensando a Valentina Milluzzo, morta perché il problema fondamentale del personale che la assisteva era non compiere peccato mortale e non farlo commettere a lei, io ritengo che sia necessario e urgente prendere coscienza collettivamente e individualmente di ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Anche per questo ho scritto un testo teatrale ispirato alla sua vicenda, con la collaborazione del Teatro Causa. Lo spettacolo si intitola Io obietto e andrà in scena a Roma il 9 e il 10 febbraio al teatro del Quarticciolo, con le attrici Laura Nardi, Gaia Insenga, Gemma Carbone e Daniela Giordano. Per spiegare come è possibile che accada ancora. Che sia accaduto ieri, che accada oggi, e che sia ancor più possibile che accada domani.
È importante che ci siamo tutti, che prendiamo coscienza del problema, che ci difendiamo da questo attacco fondamentalista religioso sempre più visibile.

Siria, nuovi raid aerei. E l’Onu chiede una tregua: «La situazione è estrema»

Children gather on the rubble of a residential building. Nearly 400,000 people remain trapped in the area which has been under siege since mid-2013. Half of them are estimated to be children. ANSA/ UFFICIO STAMPA UNICEF ++HO-NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Cessate il fuoco immediato. Sono le Nazioni unite a chiederlo stavolta. «Non possiamo più rimanere in silenzio». Con queste parole il coordinatore umanitario regionale Panos Moumtzis ricorda al mondo ciò che il mondo ha dimenticato: il “drammatico deterioramento” della situazione in Siria. La percezione che la guerra nel Paese di Assad sia finita o stia per finire è sbagliata, con tre processi di pace separati – a Ginevra, ad Astana e a Sochi – i risultati sperati non sono stati raggiunti.

Esodo di massa e assedi. Fame. Bombe. I morti sono più di 500mila, secondo le ultime stime attendibili, che risalgono però al 2016. L’Onu ha chiesto ieri il cessate il fuoco immediato per un mese: «la situazione è estrema», «una situazione mai vista prima», peggiore di quella dei precedenti periodi di guerra, che dura ormai da quasi otto anni.

Nella periferia di Damasco e a Ghouta est, roccaforte dell’opposizione ad Assad, continuano a esserci 400mila persone senza accesso al cibo, medicine, acqua, dallo scorso novembre. I bombardamenti dei caccia russi e siriani continuano, come nella provincia di Idlib, dove due milioni di persone si sono rifugiate da altre zone del paese. Gli aerei russi attaccano dall’alto, le divise iraniane sono sul terreno: da Idlib 300mila persone sono scappate da metà dicembre. In totale sono tredici milioni le persone che hanno bisogno d’aiuto nel paese.

La scala di sofferenze in Siria ha raggiunto un livello senza precedenti. L’accesso agli aiuti è bloccato per la maggior parte della popolazione e gli sfollati interni sono in crescita, ribadiscono le Nazioni unite, che negli ultimi due mesi non sono riuscite a far arrivare i convogli degli aiuti. «C’è la percezione errata che le aree di de-escalation siano in pace, stabili. Ci sentiamo oltraggiati, gli sviluppi sono così tragici che non possiamo più rimanere in silenzio» ha concluso Moumtzis.

 

Leghisti e Casapound, cognatini con sequestro dei beni in casa. E ‘ndrangheta nello sfondo

Sono i patrioti che vorrebbero difendere l’Italia dall’invasione dell’illegalità straniera ma chiudono un occhio (quasi due) sulla mafia di cosa nostra. Solo che qui non si tratta nemmeno dello spaccio di qualche piazza di provincia e nemmeno di quella criminalità minore che riempie le pagine dei giornali.

Qui si parla di Domenico Furgiuele e Massimo Cristiano. Il primo è addirittura il coordinatore regionale calabrese di Noi con Salvini (pieno di foto del leader con la felpa) nonché capolista in due diverse provincie per la Camera  mentre il secondo è candidato di Casapound nel collegio uninominale della Camera di Catanzaro.

Ieri le loro mogli (le sorelle Stefania e Maria Concetta Mazzei) sono state coinvolte nel maxi sequestro di beni che ha coinvolto il loro padre (nonché suocero dei valenti patrioti) che ha portato alla confisca di 200 milioni di euro. Avete letto bene: 200 milioni di euro. Stando alle indagini Stefania e Maria Concetta Mazzei, le mogli dei due candidati, “unitamente al proprio nucleo familiare (la famiglia Mazzei, ndr), – scrivono i carabinieri – hanno contribuito ad occultare, al fine di evitare sequestro e confisca, i beni del proprio genitore”. Mafia nello sfondo. ‘Ndrangheta, per la precisione.

A leggere così le accuse verrebbe da pensare che questi nostri destrorsi sempre pronti a mostrare i muscoli per qualsiasi reato anche minimo di fronte alla mostruosa gravità delle accuse (e del danno economico) di questo caso scenderanno in milioni in piazza contro la ‘ndrangheta calabrese, fenomeno tutto italiano e ben più costoso di qualche negretto con un sacchetto di marjuana. E verrebbe da pensare che questi nostalgici fascisti (che si fingono democratici) si rifacciano al pugno di ferro del loro mitico prefetto Mori per riportare il problema delle mafie al centro dell’attenzione di questa penosa campagna elettorale.

E invece, vedrete, niente. Niente di niente.

Buon mercoledì.

 

Limitare le libertà dei fascisti per preservare la libertà di tutti

Luca Traini, 28 anni, l'autore della sparatoria

C’è chi avrebbe preferito che l’autore della sparatoria a Macerata, Luca Traini, che ha ferito sei persone, fosse stato straniero, magari musulmano e che dopo gli spari avesse urlato «Allah Akbar», Dio è grande. Negli ultimi anni c’è stato chi ci ha riempito la testa dicendoci che il nemico musulmano era in agguato e che prima o poi avrebbe colpito le nostre famiglie, le nostre case. Dai giornali, anche quelli più insospettabili, sono giunti proclami del tenore: “La nostra vita sta cambiando a causa loro, della paura che ci fanno”. Quel “loro” si riferiva – e, purtroppo, si riferisce – agli immigrati. Quegli stessi sei immigrati feriti a Macerata, affetti dalla colpa di condividere il colore della pelle con lo spacciatore nigeriano che, pochi giorni prima, ha ucciso e ridotto in pezzi Pamela Mastropietro, ragazza romana di 18 anni.

«Faccio giustizia per lei» si ripeteva Traini, 28 anni e un passato da candidato nelle fila della Lega Nord, mentre tornava a casa per prendere la pistola e il tricolore con cui si è avvolto, dopo aver compiuto l’attentato, aspettando in cima al monumento dei caduti l’arrivo delle forze dell’ordine, accolte con un saluto romano. È forse un pazzo, Traini? Oppure è il risultato delle parole con cui è stato colmato un certo vuoto nella nostra società?

Matteo Salvini e altri leader hanno condannato, timidamente, il gesto del giovane, sostenendo che bisogna capovolgere la prospettiva e guardare a monte del problema: alle politiche sull’immigrazione clandestina. «La razza bianca è in pericolo» ha dichiarato nei giorni scorsi Attilio Fontana, 65 anni, candidato con il centrodestra in Lombardia. La minaccia è quella di una presunta sostituzione etnica. Tutti argomenti reperibili nella rivista fascista La difesa della razza, pubblicata dal 1938 al 1943, in cui si sosteneva la supremazia della razza ariana. Chi difende il diritto – sancito da convenzioni internazionali, sottoscritte anche dall’Italia – degli immigrati in fuga dalla guerra a essere accolti viene bollato come un “buonista”, una parola diventata dispregiativa. Chi è buonista è stupido, perché non sa vedere l’altra faccia della medaglia.

I fascisti di oggi lamentano la mancanza di libertà di espressione in Italia a causa di un “politicamente corretto” che li censura. Eppure abbiamo assistito e letto ogni genere di dichiarazione in questi ultimi anni. Finanche un comizio, a Busto Arsizio, in cui dei giovani in camicia verde hanno dato alle fiamme un fantoccio con le sembianze della terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Forza nuova, movimento fascista, è lasciato libero di continuare, insieme a CasaPound, la sua opera di proselitismo in sfregio alle leggi Scelba e Mancino. Tutto ciò continua a essere possibile perché non abbiamo mai fatto davvero i conti con il fascismo. Quanto detto diventa evidente a Predappio, dove la tomba dell’ultimo “uomo della provvidenza” continua a essere meta di pellegrinaggio, sopratutto dei più giovani.

l dato allarmante è proprio questo: la crescita dei movimenti studenteschi di estrema destra, come tracciato nel numero di Left, “Il fascismo non è un opinione. È un crimine”, del 16 dicembre scorso, dalle inchieste di Carmine Gazzanni e Elisabetta Amalfitano. Un proselitismo reso possibile da diversi fattori, gli stessi che hanno poi spinto Traini a compiere l’attentato. Il vuoto nella nostra società, svuotata di ogni riferimento morale e afflitta da una crisi economica senza soluzione. La promessa, da parte di questi movimenti neofascisti, di ricostruire un senso di comunità dopo che questo è stato messo in crisi dallo straniero. Il nuovo capro espiatorio di tutti i mali, erede diretto degli ebrei. Ma per fare ciò bisogna guardare al passato, rivisitandolo. E Traini è il primo risultato di questa opera di sgretolamento. Limitare le libertà dei fascisti non significa scendere a un compromesso morale, ma preservare la libertà di tutti.

Hijab obbligatorio? Per metà degli iraniani è ora di abolirlo

Un'immagine tratta dal profilo Twitter My Stealthy Freedom di Masih Alinejad mostra una ragazza iraniana senza il velo che sventola il suo 'hijab' bianco nel mezzo di una strada affollata durante le sanguinose proteste antigovernative in Iran, 01 gennaio 2018. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Teheran sta cambiando. Lo dice il report del Centro iraniano per gli studi strategici, la cui stesura ha richiesto tre anni e ora è nelle mani del presidente Hassan Rouhani: quasi la metà degli iraniani si oppone al velo obbligatorio per le donne, come impone la legge.

Nel 2014 il Centro sondaggi studentesco iraniano ha cominciato a chiedere per strada a donne e uomini, vecchi e giovani, cosa ne pensassero dell’hijab obbligatorio: deve essere una legge o una scelta? Una questione personale o una statale? Quel sondaggio è finito al centro del report appena pubblicato con una cifra chiara: il 49% dei 1167 intervistati la riteneva una questione privata. I dati comparati risalgono al 2006, 2007, 2010 e 2014: nel 2006 solo il 34% si esprimeva a favore della scelta personale, quasi dieci anni dopo la percentuale è aumentata di oltre dieci punti. Forse oggi, nel 2018, il numero sarebbe ancora maggiore.

Nello stesso studio si legge che se nel 2006 il 54% degli iraniani riteneva che le donne dovessero indossare lo chador, nel 2014 lo pensava ancora solo il 35% degli intervistati. E ancora: si devono perseguitare le donne che si svelano in pubblico? No, nel 2014, per il 39% del campione. Il report è stato reso pubblico domenica, dal centro che compie ricerche per l’ufficio del presidente, solo qualche giorno dopo i 29 arresti delle donne che hanno deciso di scoprirsi la testa in pubblico per protesta contro il codice islamico di abbigliamento. Quelle ragazze hanno preso il loro velo e lo hanno legato a un bastone, da agitare come una bandiera e sono finite prima in manette, poi in carcere.

Non è detto che sia stata l’ultima volta, non è stata nemmeno la prima. Nel 1979 migliaia di donne nelle strade di Teheran manifestarono contro l’hijab, una restrizione che è diventata più severa col passare degli anni. Oggi, decenni dopo, il governo deve fronteggiare la campagna di piazza dei “mercoledì bianchi”, i giorni in cui le donne sfidano il potere, l’arresto e la prigione, con un solo gesto: togliendosi l’hijab.

La società civile iraniana sta continuando ad interrogarsi sulle “ragazze della strada della rivoluzione”. Alcune di loro, sicuramente le più giovani, hanno dato il loro voto a Rouhani, per le promesse di cambiamento su cui si era espresso prima di diventare il capo dello Stato. «Le persone apprezzeranno che il Centro abbia pubblicato le informazioni, ma si chiederanno se questo darà dei risultati», ha detto Sanam Vakil, studioso dell’Iran della Chatham House. Altri studiosi, specialisti delle questioni che si agitano a Teheran, si chiedono perché lo studio pubblicato non sia stato accompagnato da una dichiarazione presidenziale. Si tratta di certo di una calcolata decisione politica del presidente, per dare un segnale di sostegno a quelle riforme sociali che aveva promesso al suo insediamento nel 2013. O almeno, per dare l’impressione di farlo.

«Collaboratore o praticante in studio commerciale. Astenersi cercatori di stipendio e posto fisso»

L’annuncio di lavoro proviene da Bari e lo ha scovato Marta Fana, che di diritti e di lavoro se ne occupa da tempo: si tratta di uno studio di contabilità e di affari legali. Poche righe, secche. Si “cerca collaboratori baresi o domiciliati a Bari, con laurea specialistica o magistrale in economia che debbano svolgere il praticantato o l’abbiano già svolto o che siano già iscritti all’albo dei Dottori commercialisti di Bari”, si specificano le norme di legge (“Il presente annuncio è rivolto ad entrambi i sessi, ai sensi delle leggi 903/77 e 125/91, e a persone di tutte le età e tutte le nazionalità, ai sensi dei decreti legislativi 215/03 e 216/03”) si offre un contratto di lavoro “tempo pieno” e si richiede una laurea magistrale.

Ciò che colpisce però è una frase: “Astenersi fuori piazza di qualunque distanza e cercatori di stipendio e posto fisso”.

Smettetela quindi, voi neolaureati, di non capire che il lavoro, il posto di lavoro, è una donazione che vi viene concessa in un mondo già saturo non per mancanza di posti ma per l’ingordigia dei già presenti. La progressiva perdita dei diritti (e della cultura dei diritti, che è ancora peggio) ha trasformato il lavoro in un’elemosina concessa su cui non è possibile discutere.

Firmiamo un patto di ecologia lessicale: se non permette di programmare più del fine mese, se non è buono nemmeno per un’illusione di casa o di famiglia, se non concede un infortunio, se se ne fotte della dignità delle persone, se considera inefficienza il riposo non è un lavoro.

Buon martedì.