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Strette di mano per Erdogan, manganellate per i curdi

Scontri e cariche tra attivisti e forze dell’ordine alla manifestazione di protesta a Castel Sant’Angelo a Roma, un presidio contro la visita del “sultano” Recep Tayyip Erdogan a Roma e in Vaticano, iniziato alle 11. Quando poi un gruppo di manifestanti, dietro lo striscione “Erdogan boia” ha provato a spostarsi verso San Pietro, dove Erdogan ha tenuto un colloquio con papa Bergoglio, la polizia in tenuta antisommossa ha risposto con una carica.

Un manifestante è rimasto ferito. Le immagini lo ritraggono a terra, col volto insanguinato. Due persone sarebbero state fermate. Le forze dell’ordine, per il momento, sono intenzionate a bloccare in quella posizione il presidio, che si sarebbe dovuto sciogliere alle 14, mentre risulta tutt’ora circondato dalla polizia.

Manifestante ferito al presidio anti-Erdogan, Roma, 5 Gennaio 2018.
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Non andremo via finché non rilascerete il nostro compagno che avete fermato», hanno urlato i manifestanti al termine della carica. «Ecco la vostra democrazia – ha urlato una attivista curda – noi siamo qui a difendere le nostre madri e i nostri figli. Oggi avete perso voi e anche il Papa. Il popolo curdo è qui a chiedere la pace. Avete perso l’umanità».

«Elicotteri italiani venduti alla Turchia uccidono bambini e donne, per questo siamo in piazza per protestare, per dire basta alla guerra in medio oriente, basta alle armi vendute in Turchia», ha dichiarato una manifestante intervistata da Radio onda rossa, che sta fornendo aggiornamenti in diretta dal presidio.

Oltre a papa Francesco – che ad Erdogan ha regalato un medaglione raffigurante un angelo della pace -,  il capo di Stato turco incontrerà il premier Paolo Gentiloni e il presidente Sergio Mattarella.

La stretta di mano tra Recep Tayyip Erdogan e Jorge Mario Bergoglio, Città del vaticano, 5 febbraio 2018. ANSA/L’OSSERVATORE ROMANO

Il sit in è stato lanciato dalla rete Kurdistan Italia. Numerose le adesioni, tra cui quelle di: Articolo 21, Rete no bavaglio, Fnsi, Reporter senza frontiere. Presidi contro l’arrivo del presidente Erdogan in Italia si sono tenuti anche in altre parti d’Italia, come Venezia, Milano e Bologna.

«Dalla notte del 19 gennaio – recita il comunicato stampa della Rete Kurdistan – l’esercito turco, con strumentazione militare dei paesi europei tra cui l’Italia, che fornisce i famigerati elicotteri Augusta Westland che fanno strage di civili nei villaggi del cantone di Afrin, una regione nel nord delle Siria dove curdi, cristiani, arabi, turkmeni, yazidi e profughi, convivono pacificamente praticando la cooperazione sociale e l’autogoverno, ispirati dal confederalismo democratico ideato dal leader Ocalan, segregato da 19 anni in galera, senza che da 2 anni si sappia della sua sorte. Afrin è stata in questi anni uno dei luoghi più sicuri, dove i profughi in fuga dalla orrori siriani hanno trovato accoglienza e pace. I crimini di Erdogan sono tali che proprio i campi profughi e i villaggi curdi sono il bersaglio preferito dei bombardamenti.  Ad Afrin è in corso un nuovo crimine contro l’umanità pari a quelli compiuti dalle milizie di Isis in questi anni tra Siria e Iraq, quell’Isis a cui Erdogan non ha mai mancato sostegno logistico ed economico».

«Le mani di Erdogan sono sporche di sangue – proseguono gli attivisti -, chi le stringe è complice dei crimini contro l’umanità. Sembra incredibile che nessuno abbia messo in discussione questo incontro. Nemmeno papa Francesco cosi spesso preoccupato, a parole, della pace e della giustizia nel mondo. Che non ci sia un critica sui media sull’opportunità di questa visita, e nei confronti del capo di stato Mattarella più volte dichiaratosi antifascista, che contro il governo dimissionario volto a legittimare di fatto una visita di stato a un criminale di guerra, addirittura perdurante un genocidio, che non ci sia una ferma presa di posizione di nessun partito politico, troppo impegnati con la campagna elettorale».

Nel frattempo, i Paesi Bassi hanno deciso di ritirare il proprio ambasciatore in Turchia.

 

Pedofilia, l’orrendo primato italiano nel “turismo” che distrugge i bambini

Dopo armi e droga, è l’affare economico più consistente al mondo. E soprattutto il più violento. Primo, perché lede mortalmente la realtà psico-fisica di tantissimi bambini. Secondo, perché li sfrutta, per una manciata di euro, in quanto figli della povertà economica e sociale. E terzo, ma non ultimo, perché è (quasi sfacciatamente) tollerato. Stiamo parlando del cosiddetto “turismo sessuale”.
Gli italiani, stando ai dati più recenti diffusi da Ecpat, si collocano al primo posto tra i violentatori di bambini nei Paesi del terzo mondo. E dire che l’Italia è tra i pochi Paesi dell’Unione europea a essere in una posizione di avanguardia sul contrasto al fenomeno dello sfruttamento sessuale dei minori nel turismo, per essersi dotato di strumenti legislativi specifici in grado di rispondere in maniera concreta.

Purtroppo le azioni di contrasto a questo tipo di crimine sono inficiate dall’assenza di una giurisdizione univoca e dalla mancata attuazione di azioni specifiche e interventi mirati. Ma ha molta responsabilità la cultura che ha smarrito il senso dei rapporti e che nega la realtà umana del bambino. E nasconde il proprio fallimento umano chiamandolo evasione. Se si pensa che il 95 per cento di questi ‘turisti’, non solo pensionati ma anche uomini d’affari o piloti d’aereo, professionisti all’apparenza irreprensibili alla ricerca di “un’esperienza trasgressiva”, allora “il turismo sessuale è il frutto marcio di una cultura (distorta) dello svago, forte, oltretutto, della convinzione di portare ricchezza economica nei paesi in difficoltà”, spiega a Left, Giorgia Butera, presidente di Mete Onlus, l’associazione palermitana che, in Senato, in collaborazione con Fiori di Acciaio, ha presentato il progetto Stop Sexual Tourism con l’obiettivo di sensibilizzare capillarmente l’opinione pubblica che partire per abusare i bambini è un crimine contro l’umanità.
“E’ inaccettabile: è una condizione conosciuta e tollerata perché non intervenire equivale a tollerare l’abuso da parte delle istituzioni che non possono non fare il primo passo, autorizzando l’accettazione passiva di tutti”, continua Butera. Ne consegue il declino dell’attenzione sul fenomeno quando non, addirittura, l’intermediazione delle agenzie di viaggio (Tour Operator) volta a promuovere, con tanto di brochure, le destinazioni più adeguate allo scopo. Che, per oltre un milione di turisti del sesso all’anno e a seconda delle situazioni ottimali alla pratica, sarebbero il Kenya – con tremila bambini, fra i dodici e i quattordici anni, nel mercato del sesso a tempo pieno e circa quindicimila nel giro di quello occasionale -, Santo Domingo, la Colombia e il Brasile.
“A conferma del fatto che gli abitanti del Belpaese siano i principali fruitori del turismo sessuale con i minori, in alcune strade dell’Africa non è difficile trovare sulla strada cartelli che intimano di non toccare i bambini, scritti in italiano”, conclude la presidente di Mete Onlus, ed esponente di Fiori di Acciaio. Ed è per questo che è dai cinquantasette aeroporti italiani che è partita la Campagna Stop Sexual Tourism, sostenuta da Enac, Assaeroporti ed il Comune di Palermo, e già precedentemente sostenuta dalle presidenze di Camera e Senato, per lanciare “una messaggio di civiltà contro la pedofilia tollerata”.

Kenya, «Spegnete le tv». Storia di ordinaria battaglia per la libertà di stampa

epa06489825 A Kenyan man sits in front of black screens showing a 'No Signal' message on what is supposed to be three of Kenya's local TV channels taken off air, at an electronics shop in Nairobi, Kenya, 01 February 2018. Kenya's three private TV stations -- NTV, KTN and Citizen TV -- reportedly were taken off air on 31 January following their live coverage of the oppositionâs ceremony to 'swear-in' their leader Raila Odinga who lost a disputed presidential election in late 2017. Interior minister Fred Matiangi said the broadcasters will remain shut until the investigations into their links with opposition is completed. The country's High Court on 01 February suspended the shutdown for 14 days until the case is determined, local media reported. Kenyan media industry has denounced the move, terming it 'unprecedented'. EPA/DANIEL IRUNGU

Quando si è accorto di essere nell’occhio del ciclone, Linus Kaikai si è chiesto come sarebbe andata a finire: «quante possibilità abbiamo prima che facciano irruzione qui dentro?».

Lo ha domandato ai collaboratori, mentre i suoi giornalisti si trinceravano in redazione e si preparavano a passarci la notte. Kaikai è il direttore della redazione della Ntv keniana. Mentre era in ufficio una delle sue fonti lo ha avvertito che sarebbe stato arrestato insieme ai colleghi Larry Madowo e Ken Mijungu. Per difendersi delle manette, ha deciso di non tornare a casa, non abbandonare l’edificio dell’emittente. La polizia non gli avrebbe letto le accuse per le quali sarebbe finito in prigione, ma Kaikai sapeva benissimo cosa gli avrebbero imputato le autorità: l’emittente tv di cui è a capo aveva trasmesso il giuramento di protesta dell’opposizione governativa, – la manifestazione più grande degli ultimi tempi avvenuta la scorsa settimana – , contravvenendo all’ordine del presidente Uhuru Kenyatta, che aveva ordinato la censura totale dell’evento.

Dopo le elezioni di novembre, con il 98 per cento dei voti a suo favore, Kenyatta ha giurato come presidente per il suo secondo mandato, nonostante Rail Odinga, l’oppositore, avesse organizzato il suo “giuramento personale”, accusando l’avversario di aver manipolato la scelta elettorale. Odinga ha deciso di autoproclamarsi “presidente del popolo” ad un secondo giuramento, di piazza, durante le proteste nel Paese.

Kenyatta, prima che succedesse, aveva richiamato nella sua residenza tutti i proprietari di media, tv, giornali del Kenya per ordinare che alcuna notizia, foto, video della cerimonia di giuramento di Odinga fosse diffusa. Kakai, anche a capo dell’associazione degli editori del Kenya, aveva denunciato il presidente eletto, raccontando delle sue minacce e intimidazioni ai media con una lettera aperta. Poi ha deciso di dare luce verde ai suoi reporter. È più o meno a quel punto che Kakai ha capito che sarebbe finito al centro dell’uragano.

I suoi giornalisti per almeno un paio d’ore sono riusciti a trasmettere notizie della manifestazione di Odinga, prima che la polizia arrivasse ad arrestarli a una ventina di miglia da Nairobi, requisendo tutta la loro attrezzatura. Poco dopo l’intera stazione tv è stata bloccata, insieme a quella di Citizen Tv, KTN, NTV, InooroTV.

Fred Matiang, ministro dell’Interno, ha annunciato che un’indagine era stata aperta e la stazione televisiva sarebbe rimasta chiusa definitivamente: una decisione, ha continuato Matiang, presa «per proteggere i kenioti dall’istigazione, un massacro di proporzione catastrofiche stava per accadere, la loro intenzione era di farlo succedere e poi accusare la polizia. Gli individui e le organizzazioni coinvolti nella faccenda rimpiangeranno di averlo fatto».

Un paio d’ore dopo le parole del ministro, le forze dell’ordine in borghese circondavano la redazione della Ntv, rimanendo fuori dall’edificio. Dentro, invece, Kaikai e i giornalisti, riempivano le stanze di coperte, acqua e cibo per rimanere dentro, fino a che non sarebbero stati capaci di evitare l’arresto. «Mi hanno chiesto, scherzando, cosa volessi per la mia ultima cena» ha detto Kaikai, mentre in altri punti della città membri dell’opposizione finivano in carcere.

Alla fine la polizia non ha fatto irruzione. Il ministro dell’Interno ha negato il suo coinvolgimento, così ha fatto anche il portavoce della polizia. L’arresto non è avvenuto perché la Corte del Kenya ha sospeso la decisione governativa: «come richiesto dal governo, le stazioni tv saranno oggetto di investigazione, ma possono trasmettere mentre l’indagine è in corso». La stazione tv è tornata on air e on line. Kaikai, Madowo e Mijungu hanno già depositato preventivamente la loro cauzione, nonostante non siano stati ancora arrestati. Questo è stato solo un comune giorno a Nairobi, dove, ha detto Kaikai, se fai il giornalista «dici la verità, non nascondi le cose, non le ricopri di zucchero».

La lezione la dà la mamma di Pamela

Avviso a tutti quelli che dicono che la morte di Pamela Mastropietro giustifichi la violenza del povero ebete fascista e razzista di Macerata. Le parole qui sotto sono di Alessandra Verni, madre di Pamela. Leggetele bene, tenetele a mente, ripetetele a voce alta ad ogni piccolo razzista vi capiti di incrociare. Ditegli che il “vendicatore” disgusta anche le vittime: è un capolavoro di idiozia.

Dice la madre di Pamela: «Chiediamo solamente giustizia. Pene esemplari per chi ha ucciso e fatto a pezzi nostra figlia. Ma condanniamo fermamente l’attacco di ieri, non siamo razzisti e anche Pamela se fosse ancora viva sarebbe inorridita per questo atto di odio»

E poi: «Condanniamo questo gesto. Il presunto colpevole per la morte di nostra figlia Pamela si trova in carcere, e ieri il gip ha convalidato l’arresto. Vogliamo che paghi per quello che ha fatto: ha ucciso la nostra piccola e distrutto la nostra vita. Detto questo noi non vogliamo altro sangue sulle strade e non cerchiamo questo tipo di vendette. Siamo brave persone». 

Ce n’è anche per tutti quelli che parlano di “immigrazione fuori controllo”. Leggete bene cosa dice Alessandra: «Esiste una politica di accoglienza sana, e il 4 marzo ognuno di noi andrà alle urne sapendo come votare. Noi siamo per la non violenza assoluta e non vogliamo essere strumentalizzati.»

E io, non so voi, quando mi capita di incrociare così tanta dignità davanti al dolore mi inchino. E penso che ci sia davvero il Paese per resistere a tutto questo.

Buon lunedì.

La disfida dei reperti, Pechino alla ricerca del “cinese doc”

BEIJING, CHINA: A propective buyer admires a Chinese relic on display prior to an auction in Beijing, 18 June 2005. Driven by demand from overseas, the smuggling of Chinese relics has become a lucrative business, mainly heading to Europe, Japan and the United States but are also turning up in private art collections in major Chinese cities, while according to the Chinese Antiquity Protection Law, a licence has to be issued by the State Bureau of Cultural Relics for the export of relics produced before 1949 and it is forbidden to export cultural relics produced before 1795. AFP PHOTO (Photo credit should read STR/AFP/Getty Images)

«Quando la Gran Bretagna finalmente ci restituirà i manufatti illegalmente depredati?». È la domanda poco ortodossa avanzata, via Wechat, dal rinomato think tank China centre for international economic exchanges alla vigilia della visita dell’ex premier britannico David Cameron oltre la Muraglia nel dicembre 2013. Il saccheggio perpetrato dall’Alleanza delle otto nazioni ai danni della Città proibita e del Palazzo d’estate con lo scopo conclamato di sedare la rivolta anticoloniale dei Boxer ha lasciato una cicatrice profonda nell’orgoglio cinese. A distanza di oltre un secolo, gli eventi tragici vissuti da quella che allora veniva considerata la “malata d’Asia” vengono declinati al perseguimento della «grande rinascita nazionale» invocata dal presidente Xi Jinping nel 2012, un paio di settimane dopo aver assunto l’incarico di segretario generale del Partito comunista, nel luogo che meglio sintetizza il glorioso passato cinese offuscato dagli anni dell’umiliazione occidentale: il Museo nazionale di piazza Tian’anmen.

Dando per buone le stime riportate dalla stampa ufficiale, 1,64 milioni di pezzi storici si trovano attualmente sparpagliati in 200 musei di 47 Paesi diversi, di cui 23mila soltanto presso il British museum di Londra. Cifre che la China cultural relics academy porta a 10 milioni se si considerano le collezioni private. Ma mentre ogni ottobre Pechino ricorda l’anniversario dell’invasione del Palazzo d’Estate rivendicando urbi et orbi quanto le sia dovuto, questo tuttavia non ha impedito alla conservazione dei beni storico-artistici di diventare silenziosamente laboratorio di scambio tra il gigante asiatico e il resto del mondo. Dal 2014, Cina e Stati Uniti lavorano in tandem per il rimpatrio dei cimeli trafugati sulla base di un memorandum d’intesa culminato un anno più tardi nella restituzione di 22 pezzi, tra cui 17 dischi di giada. Un evento celebrato con tanto di cerimonia presso l’ambasciata cinese di Washington.

D’altronde, se gli studi archeologici hanno raggiunto la Muraglia è proprio grazie a…

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


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Fascismo: La mappa delle aggressioni e degli attentati terroristici in Italia dal 2014 al 2018

Mappa cronologica e geografica delle aggressioni fasciste, con indicazione dei gruppi responsabili o presunti tali, e relative fonti. Dal 2014 ad oggi. La mappa è a cura di Info Antifa, un progetto nato all’interno del network Isole nella rete, ed è aggiornata continuamente.

Consulta la mappa su Google e il relativo elenco delle aggressioni e degli attentati > http://bit.ly/2GNnMKn

Per segnalazioni e comunicazioni: [email protected]. Su Twitter: @InfoAntifa

L’architettura del riscatto africano

Ha sette anni Francis Kéré quando lascia il suo piccolo villaggio di Gando per raggiungere la scuola più vicina, a circa quaranta chilometri di distanza. È il figlio maggiore di un capo villaggio del Burkina Faso (letteralmente Terra degli uomini integri) e l’esigenza di suo padre è quella di avere qualcuno che possa leggere e tradurre la sua corrispondenza in un contesto in cui l’analfabetismo è circa al 90 percento. È questo l’inizio della sorprendente storia con cui l’architetto Kéré affascina l’uditorio di un affollato convegno dal titolo Costruire, abitare, pensare, che si è svolto a margine del Cersaie 2017 di Bologna.

Sebbene poco conosciuto in Italia, Francis Kéré è un uomo dall’eccezionale talento, che ha oggi acquisito fama internazionale ed un posto originale nell’architettura contemporanea. Ha fondato uno studio a Berlino, insegnato alla Harvard graduate school of design e alla prestigiosa Accademia di architettura di Mendrisio. Dal 2017 ha la cattedra di Architectural design and partecipation presso l’università Tum (Technische universität München, ndr) di Monaco. Ha conseguito prestigiosi riconoscimenti internazionali e le sue opere sono state esposte sia in mostre monografiche che collettive. Al culmine della notorietà, nel 2017, è stato chiamato a Londra a realizzare il padiglione temporaneo della Serpentine gallery, incarico che tradizionalmente viene assegnato a personalità emergenti particolarmente significative ed ha partecipato, assieme ad altri architetti di levatura internazionale alla Chicago architecture biennal che si è appena conclusa.

Quaranta chilometri sono, nella realtà di un piccolo villaggio dell’Africa sub sahariana, una grande separazione, ma anche l’inizio di un percorso personale che lo condurrà alla scoperta del mondo “sviluppato”, molto distante da quello delle sue origini che comunque non abbandonerà mai, ma anzi reinterpreterà coniugando innovazione e storia. Un percorso che, attraverso lo studio, affiancato a umili lavori, lo porterà a fare il carpentiere e poi, grazie ad una borsa di studio in Germania, a frequentare una scuola tecnica e quindi l’università Tum di Monaco. È sempre Kéré che ci racconta in un’intervista: «Voi non potete immaginare l’emozione di vedere per la prima volta, incollato al finestrino, il proprio Paese dall’alto ed il paesaggio che gradualmente passa dai toni del rosso della terra a quelli del verde della vegetazione».

È ancora studente quando, a trent’anni, torna in Burkina Faso con il progetto di realizzare una scuola a Gando con i fondi da lui stesso raccolti. Lo farà mettendo assieme i principi della bioedilizia, appresi in Occidente, con quelli dell’architettura sostenibile: strutture in terra cruda o pietra locale e legno, doppie coperture ventilate in muratura e acciaio a proteggere le aule dalle piogge che periodicamente costringono gli abitanti a ricostruire le case tradizionali.

La storia di Kéré non nasce da un progetto prestabilito. Quando qualcuno gli chiede quando ha deciso di diventare architetto dapprima non risponde, poi dice: «Tutto è venuto da sé. Manca una scuola a Gando? E allora facciamo una scuola a Gando!» Mancano i fondi? Allora vanno cercati e a tal scopo fonda un’organizzazione no profit con lo scopo di accompagnare e sostenere lo sviluppo del suo Paese coniugando l’esperienza acquisita in Europa con la realtà ed i bisogni del territorio da cui proviene. Suoi grandi alleati sono i bambini. Racconta: «Se chiedi soldi agli adulti per costruire una scuola in Africa la gente non si fida e non ti dà nulla. Ma se organizzi attività sportive per i bambini e poi parli dell’Africa… i bambini amano l’Africa… e se poi racconti loro che i bambini di un piccolo villaggio non hanno una scuola dove andare sono pronti ad aiutarti».

Si stupisce Francis quando, realizzata la scuola, un professore dell’università di Monaco lo sollecita a completare gli studi. «A che mi serve un diploma in Burkina Faso?» Ma poi si laurea e poco tempo dopo lo ritroviamo lettore presso la stessa università. Il nucleo originario della piccola scuola di Gando è costituito solo da tre aule separate da alcuni spazi per stare assieme. Lo stare assieme è fondamentale in tutti i progetti  di Kéré. Lo dice lui stesso. «Nel mio Paese costruire è un importante evento sociale». Tutto il villaggio, compresi i bambini e le donne, partecipano alla costruzione della scuola, come è radicato nella cultura locale. Ma condivisione è anche consapevolezza, è apprendere un modo diverso di costruire. È quindi formazione l’operazione stessa del costruire ed è anche la condizione necessaria per poter realizzare qualcosa coi pochi fondi disponibili.

L’edificio, pur nella sua essenzialità, contiene già tutti i principi delle numerose sue opere che seguiranno. È ancora una volta lui stesso che ci racconta della delusione degli abitanti del suo villaggio nel sentirsi proporre una costruzione in terra cruda dall’uomo che era andato a formarsi nella tecnologica Germania. Ma lui spiega che, pur essendo la nostra cultura un modello, particolarmente per lui che si è formato in Germania, non la vuole riproporre tale e quale ma la vuole utilizzare per risolvere i problemi del suo Paese. Di qui l’utilizzo della “terra” perché ha una buona inerzia termica, è abbondante in loco e quindi molto economica.

Del resto le scuole che solitamente si costruiscono in Burkina Faso sono in cemento armato, delle scatole opprimenti, poco illuminate e ventilate, che raggiungono temperature insopportabili nelle estreme condizioni climatiche del Paese. Lui stesso ne ha avuto esperienza, come spesso racconta nelle numerose interviste. I mattoni crudi, sono il materiale tradizionalmente usato nel villaggio, ma sono sinonimo di precarietà, visto che vengono periodicamente danneggiati dalle piogge e quindi richiedono agli abitanti continui interventi di riparazione.

Kéré, grazie agli studi condotti in Europa, realizza una struttura mista in cemento armato e mattoni crudi. Aggiunge all’argilla dei mattoni una piccola percentuale di cemento, rendendoli stabili e più uniformi. Racconta di essere stato svegliato una notte da un grande vociare di persone che si stavano dirigendo verso la sua casa. Cosa era successo? Aveva iniziato a piovere e le donne venivano a rincuorarlo. «Non ti preoccupare, la ricostruiremo!». Ed è allora, con la constatazione che la costruzione aveva invece retto alla pioggia, che Kéré conquista definitivamente la fiducia della sua gente. Nonostante ciò sovrappone al solaio in cemento e mattoni un largo tetto in lamiera sopraelevato da capriate metalliche, in modo che, oltre a proteggere l’edificio, si crei un’ampia zona d’ombra e di sosta attorno alle aule. In Burkina Faso l’uso delle coperture in lamiera è piuttosto diffuso rendendo i locali insopportabili per il caldo. Ma qui un sistema di ventilazione e di raffrescamento passivo, realizzato con l’adozione di semplici accorgimenti, ha reso inutile l’uso dell’aria condizionata, peraltro improponibile in un Paese allora ancora privo dell’energia elettrica.

Completata nel 2001, la scuola elementare è diventata punto di riferimento e motivo di orgoglio della comunità e, nel 2004 ha vinto l’Aga Khan award for architecture. L’enorme popolarità dell’intervento ha dato l’avvio alla realizzazione di un ampliamento ed di altri progetti finalizzati all’educazione ed ai servizi sociali, sviluppando sempre più le caratteristiche di eco-sostenibilità.

La sua figura si pone come ponte tra diverse culture. Osserva lo storico dell’architettura Fulvio Irace: «Potrebbe essere il manifesto di quello di cui abbiamo bisogno nei nostri tempi, dell’integrazione tra culture diverse. La maggior parte dei suoi progetti nasce per lo sviluppo della sua terra. Una sorta di grande circolo virtuoso in cui la vocazione sociale dell’architettura non è slogan politico ma pratica di progettazione. È una storia che comincia in Africa, si forma e si sviluppa in Europa, ritorna con i suoi frutti in Africa, non con spirito coloniale ma innovando la tradizione che è identità».

Ma il suo grande impegno sociale si unisce al fascino di opere che uniscono alla freschezza del linguaggio dell’architettura moderna la morbidezza delle architetture “primitive”. Le sue opere non sono mai vernacolari. Anzi, un altro aspetto che merita di essere sottolineato, e che oggi appare particolarmente significativo, è che, nel suo caso, fare le cose assieme, avere una dimensione sociale, non vuol dire assolutamente rinunciare alla propria fantasia. In questo appare tutta l’originalità del modo di essere di Francis Kéré che, mettendosi al servizio degli altri, lo fa creando profonde immagini di fantasia, che nascono proprio all’interno di questo rapporto.

E così le finestre dell’ambulatorio diventano cornici ad inquadrare il paesaggio ed a colorare la vista di chi è ricoverato. E così, con la collaborazione del regista tedesco Christoph Schlingensief, quasi un novello Fitzcarraldo, progetta l’Opera house nella savana a trenta chilometri dalla Capitale. Ma qui nessuno sforzo estremo per gli operai, anzi il complesso è ancora occasione per realizzare servizi tra cui la prima scuola a carattere artistico nella storia del Burkina Faso. E quando un’alluvione lascia senza ricovero ben 150mila persone, viene modificato il programma degli interventi e i suoi moduli abitativi diventano non solo sistemazioni d’emergenza ma anche prototipi per la ricostruzione abitativa, con un’ulteriore ricerca verso l’innovazione e l’ottimizzazione nell’uso dei materiali locali.

Emblematico è il padiglione per la Serpentine gallery. L’idea nasce dall’Africa, dalla gente che per stare assieme si mette al riparo del Grande albero (ma, che l’architettura nasca quando la gente comincia a stare assieme, è un’idea che accompagna da sempre la storia dell’umanità). Qui a Londra questa immagine diventa un canopy, una copertura che offre riparo, sotto il quale si può sostare fra pareti curve di mattoni di legno tessuti con un disegno derivante dai graffiti delle case senza tempo del Burkina. Utilizza un blu profondo, colore raro in Africa, ma che spesso, come spiega orgogliosamente Kéré, indossano i giovani al loro primo incontro amoroso. Un colore che non passa certo inosservato nel deserto. E per ribadire che il mondo non ha confini, dalla copertura si raccoglie l’acqua, a ricordare quanto questo elemento sia prezioso ed essenziale in certe regioni e soprattutto a ribadire quanto i problemi che gli esseri umani devono affrontare siano realmente globali.

 

L’articolo di Caterina Calzini e Flavio Vitale è tratto da Left n. 5 del 2 febbraio 2018


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La Norvegia non è più un Paese per migranti

Oslo, Norway - April 6, 2015: Two girls playing with a pink scarf, and people sitting and standing in front of the Norwegian Opera and Ballet House in early spring.

Quando alla fine degli anni 60 cominciavano ad arrivare gli emigrati italiani in Norvegia, un posto di lavoro si poteva trovare nel giro di un giorno. Camerieri, pasticceri, imbianchini, manovali, piastrellisti, infermieri, falegnami, ciabattini, cuochi, queste erano le occupazioni principali, oppure operai nelle fabbriche come la Christiania Spikerverk, che conservava l’antico nome della capitale scandinava e produceva chiodi di qualità, dove lavorò sulle trafilatrici e tra il ferro incandescente, il poeta marchigiano Luigi Di Ruscio, amato da Quasimodo e Volponi. Legò la sua epica a questa città, soprattutto in un libro memorabile, La neve nera di Oslo (oggi in “Romanzi”, Feltrinelli). Quelli come lui, s’incontravano il fine settimana sulla Karl Johans gate, la strada principale, bevevano un caffè e potevano parlare in italiano con i connazionali venuti soprattutto dal sud d’Italia, ma anche da altre parti, andavano a ballare al Regnbue, dove all’uscita poteva succedere che facessero a cazzotti con i giovani del luogo per via delle ragazze o perché, per deriderli, li chiamavano in modo dispregiativo dego, oppure facevano serata al Circolo degli italiani per bere un bicchiere di vino e sentire l’aria di casa.

Quelli che lo scrittore marchigiano chiamava “paradisi socialdemocratici”, oggi non ci sono più neanche qui, proprio in questi giorni si è insediato in Parlamento il nuovo governo conservatore, rieletto di recente, una coalizione con dentro anche la destra populista del Partito del progresso, e le sue sono politiche molto ostili a nuovi ingressi di immigrati. Ne parlo con il mio vecchio amico Domenico Trivilino nel suo appartamento luminoso a ridosso della fermata della metropolitana di Majorstuen, col parquet lucido e alle pareti molte opere di arte contemporanea, nel cuore della città e vicino al Vigeland Park. Lui è venuto qui mezzo secolo fa da Ortona, ha sposato Marit, una donna norvegese, e lavorato per L’Enit e l’Istituto di cultura, adesso è un pensionato ma da molti anni presidente del Circolo degli italiani, fa parte della Consulta per l’immigrazione del Comune di Oslo ed è un’autorità riconosciuta tra i nostri connazionali.

«Il sistema del welfare è sotto attacco, pensare che una volta lo Stato pagava ai cittadini anche…

Il reportage di Angelo Ferracuti prosegue su Left in edicola


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Charles Darwin, antischiavista non per caso

Il 12 febbraio si celebra il Darwin Day, la giornata dedicata al naturalista inglese e alla sua “figlioletta”, le teoria dell’evoluzione biologica fondata essenzialmente, ma non solo, sulla selezione naturale del più adatto. Occasione della celebrazione è la data di nascita di Charles Darwin, il 12 febbraio 1809. Lo medesima di Abramo Lincoln. Strana coincidenza, perché in modo diverso l’uno in Inghilterra e l’altro negli Stati Uniti diventeranno campioni della lotta alla schiavitù. La vicenda antischiavista di Lincoln è ben conosciuta. Quella di Darwin forse un po’ meno. Anche se ha avuto effetti che, sul piano culturale, non sono stato certo meno importanti.

Esistono molte biografie di Darwin. Tra queste ve ne segnaliamo due, affatto diverse, scritte dai medesimi autori: Adrian Desmond e James Moore. Nella loro prima opera, Desmond e Moore hanno raccontato la vita del grande naturalista e hanno spiegato “come” il padre della teoria dell’evoluzione biologica ha generato la sua creatura. Quel lavoro, uscito in italiano nel 1992 per la Bollati Boringhieri con il titolo Darwin, si proponeva come (e certamente era) la più documentata biografia dell’evoluzionista nato a Shrewsbury, della contea di Shropshire, al confine tra Inghilterra e Galles. E tuttavia, per quanto importante, quel libro non proponeva una lettura “con occhiali nuovi” della vita di Charles Darwin.

Nella loro seconda biografia di Darwin, La sacra causa di Darwin, pubblicata in italiano con l’editore Raffaello Cortina nel 2012, Desmond e Moore spiegano “perché” il naturalista di Shrewsbury si è messo alla ricerca di una teoria dell’evoluzione biologica. Ed è il “perché” che, più della medesima data di nascita, accomuna Darwin a Lincoln: l’antischiavismo.

«Questa è la storia, mai raccontata, di come l’orrore di Darwin per la schiavitù abbia condotto alla nostra attuale comprensione dell’evoluzione», scrivono Desmond e Moore nell’introduzione a La sacra causa di Darwin. La “causa prima” che ha spinto Charles Darwin a elaborare la sua teoria e a pubblicare nel 1859 il capolavoro che divide le epoche, Sull’origine delle specie, è la medesima che ha portato Lincoln due anni dopo, nel 1861, a non tirarsi indietro di fronte all’apertura di una guerra civile: la “lotta alla schiavitù”. Una causa non strettamente scientifica, dunque, ma piuttosto un valore: culturale, morale, politico. Un valore che oggi definiremmo “progressista”.

Ciò non significa certo che Charles Darwin possa essere iscritto d’ufficio alla sinistra. Ma è certo, come documentano Desmond e Moore, in 700 pagine e con documenti alla mano, è stato un valore ascrivibile alla sinistra, l’orrore per la schiavitù, che ha portato Charles Darwin a elaborare e poi a difendere la sua teoria dell’evoluzione biologica. E poi a spiegare perché le “razze umane” non esistono e, dunque, non esiste alcuna base scientifica per il razzismo (che invece, purtroppo) esiste.

Quel 12 febbraio 1809, in cui sono venuti al mondo due campioni della lotta alla schiavitù: Abramo Lincoln e Charles Darwin, sono una coincidenza che tuttavia spiega come l’avversione per la schiavitù tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo fosse un sentimento tutto sommato abbastanza diffuso. Più in Inghilterra che in America, per la verità.

Ebbene, Charles Darwin nasce in una famiglia di antischiavisti militanti. Sia il nonno paterno, Erasmus Darwin, medico e poeta, sia il nonno materno, Josiah Wedgwood, esponente della nuova ed emergente classe degli industriali manifatturieri, erano antischiavisti. Antischiavisti militanti, appunto. E anche piuttosto coraggiosi, visto che la loro azione politica era contestata, spesso con violenza, dai reazionari del tempo. Non fosse altro perché l’uno e l’altro erano persone molto famose e non solo nello Shropshire.

In realtà, i nonni di Charles avevano una connotazione culturale molto precisa. In Inghilterra il sentimento antischiavista a cavallo tra XVIII e XIX secolo aveva, infatti, due anime. Una di matrice religiosa e tendenzialmente conservatrice, come quella di William Wilberforce. L’altra laica e progressista: è a questa che aderiscono Erasmus Darwin e anche Josiah Wedgwood.

Quando Charles nasce, le due correnti di pensiero sono alleate eppure sono destinate a divergere e, nell’arco di due generazioni, a contrastarsi. Anche e soprattutto a causa del nipote di Erasmus e Josiah. E il motivo risiede nel ruolo che ciascuna di loro assegna all’uomo rispetto alla natura. La corrente religiosa dell’antischiavismo considera l’uomo distinto dalla natura e pone l’intera umanità su un piano incommensurabilmente superiore a ogni altro essere vivente. La corrente laica di pensiero considera invece l’uomo parte della natura e – senza distinzione alcuna e con pari dignità – si trova in una rete di relazioni col resto della natura.

È con questa intima convinzione che il giovane Darwin intraprende quel celebre viaggio sul Beagle, nel corso del quale non solo ha modo di vedere coi propri occhi e di toccare con mano l’orrore della schiavitù, ma anche di raccogliere le prove della rete di relazioni che lega l’uomo alla natura. Prove che sono sotto gli occhi di molti, se non di tutti. Ma che Darwin legge con gli specialissimi occhiali dell’antischiavismo laico che gli consentono di “vedere” le trame dell’evoluzione biologica per selezione naturale che si fondano sulle relazioni di tutti con tutti tra i viventi. Corollario di questa rete di relazioni che si estende nello spazio ma si snoda anche nel tempo profondo, è l’origine comune di tutte le specie.

Certo, quando pubblica L’origine delle specie, nel 1859, Darwin non fa esplicita menzione dell’origine che accomuna l’uomo a tutte le altre specie viventi. Le conclusioni le trarrà pubblicamente solo undici anni, quando pubblicherà il libro dedicato a L’origine dell’uomo e la selezione sessuale. Tuttavia le conseguenze sono chiare a tutti. Compreso il vescovo Samuel Wilberforce, figlio di William, che sbotterà, rivolto a Thomas Huxley, il mastino di Darwin: «Lei, di grazia, discende dalle scimmie per parte di madre o di padre?».

Sia Samuel Wilberforce sia Charles Darwin sono e continuano a essere antischiavisti militanti. Ma la visione dell’uomo che porta ciascuno di loro a “provare orrore per la schiavitù” è ormai irrimediabilmente diversa. Ed è proprio questa diversità che impone una nuova e più avanzata “militanza”. Il religioso Wilberforce nega l’evoluzione biologica. In nome della scienza che impone spiegazioni naturalistiche, Darwin si difende ed è costretto a scendere in campo per spiegarla l’origine naturale e non soprannaturale, come vorrebbe Wilberforce, dell’uomo. Ed è a questo punto, nel 1870, che affronta il tema delle razze umane.

Quattro gli argomenti portanti. Le relazioni tra tutti gli esseri viventi e la logica dell’evoluzione dimostrano che la discendenza comune di tutti gli esseri viventi. Anche tutti gli uomini sono nati da un comune antenato. «L’uomo – scrive – è stato studiato più estesamente di qualsiasi altro animale, eppure vi è la più grande diversità possibile di opinioni tra gli studiosi eminenti circa il fatto che l’uomo possa essere classificato come una singola specie o razza, oppure come due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory St. Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawford), o sessantatre, secondo Burke». Nessuno è in accordo con nessun altro. Nessuno riesce a dare una definizione precisa di razza. Ultimo, ma non ultimo, Darwin stesso ha verificato, in Brasile per esempio, la completa interfertilità tra indios, negri ed europei che dà luogo a individui “meticci” altrettanto fertili. Ma l’argomento di gran lunga più importante «contro l’idea che le razze umane siano specie distinte» sono le gradazioni naturali di ogni fattore preso in considerazione, compreso il colore della pelle, anche in assenza di incroci.

Oggi sappiamo che la genetica fornisce la piena conferma dell’ipotesi di Charles Darwin: le razze umane non esistono. Il naturalista e militante antischiavista inglese, dunque, ha falsificato l’idea di razza umana e destituito di ogni fondamento scientifico il razzismo. In questa sua dimensione “politica”, la vicenda di Darwin mostra molte analogie con quella di altri grandi scienziati, come Galileo e di Einstein. Come loro, Darwin ha un progetto politico forte. E “progressista”. Nel suo caso, un mondo senza schiavitù e senza razzismo. Quello di Galileo è un mondo che accoglie e non si scontra con la scienza. Quello di Einstein, un mondo in pace. Ciascuno di loro dedica una parte importante del proprio tempo e del proprio impegno nella realizzazione del proprio progetto politico. Ma mentre in Galileo il progetto politico (e teologico) viene dopo le grandi scoperte astronomiche, quasi come una loro conseguenza; mentre in Einstein il progetto politico (un mondo in pace) marcia in parallelo a quello scientifico (la ricerca dell’intima unità e razionalità della natura); in Darwin il progetto politico, la lotta alla schiavitù, precede e, in qualche modo, indirizza la stessa ricerca scientifica. Tutti dimostrano che la cura dei rapporti con la società, lungi dall’essere indifferente, come sostengono alcuni, o addirittura fonte di distrazione, come sostengono altri, contribuisce a rafforzare l’impegno scientifico dei grandi.

DARWIN DAY tanti eventi in Italia organizzati dalla Uaar, dal Cicap e da Pikaia

L’11 febbraio  a Rimini il convegno dal titolo Mostri degli abissi tra mito e realtà con la naturalista Manuela Travaglio e lo zoologo Lorenzo Rossi, entrambi del Cicap Veneto. Nella giornata del 12 febbraio tre sono gli appuntamenti previsti: a Firenze, dove si terrà un incontro con Fausto Barbagli, del Museo di Storia Naturale, e Roscoe Stanyon e Gregorio Oxilia – entrambi del Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Firenze; a Milano, dove Marco Ferraguti, della Società italiana di Biologia Evoluzionistica, e Claudio Bandi, docente di Evoluzione biologica all’Università degli Studi di Milano, sfateranno errori e preconcetti su Charles Darwin in un incontro intitolato appunto “Che cosa non ha detto Darwin?”; a Pordenone, infine, si ricorderà il grande scienziato attraverso la lettura e la presentazione di una selezione di documenti sulla sua attività scientifica. Ma gli eventi in programma non finiscono qui. Tra gli altri segnaliamo: il 14 febbraio a Modena, Mauro Mandrioli, docente del Dipartimento di Scienze della Vita – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, terrà una conferenza su “Genomi umani in evoluzione: il DNA per capire origine, migrazioni e futuro della nostra specie”. A Venezia il 16 febbraio “L’uomo sta creando l’uomo. Le nuove frontiere per modificare il genoma”, giornata di studio con la collaborazione dell’Ateneo Veneto ed il patrocinio della Facoltà di Scienze Università di Padova: partecipano Piero Benedetti (Biologia Molecolare, Università di Padova), Anna Meldolesi (specialista in comunicazione scientifica), Luigi Perissinotto (Filosofo del linguaggio, Università Ca’ Foscari di Venezia); sempre il 16, a Torino, conferenza sull’evoluzione del volo con Alberto Massi, ornitologo e musicista, e Giorgio Pozzo, ingegnere aerospaziale; e ancora, a Ravenna, presentazione del libro “Evoluzione al femminile. Il contributo delle femmine all’evoluzione dell’Homo sapiens” della biologa Bruna Tadolini; a Palermo il 18 febbraio “Darwin Family Day” al Planetario (Villa Filippina), con laboratori didattici gratuiti e una tavola rotonda per avvicinare i cittadini alla ricerca scientifica; sempre il 18 febbraio, ad Ancona, conferenza “Umanesimo Darwiniano. Una nuova prospettiva su uomo e natura” con Roberto Verolini, docente di Scienze naturali; il 19 febbraio, a Padova, “Introduzione all’epigenetica”: lezione divulgativa del prof. Giuseppe Macino, ordinario di Biologia Cellulare presso l’Università di Roma La Sapienza.

Per il calendario completo e in continuo aggiornamento degli eventi Darwin Day Uaar

Per altri Darwin Day organizzati in Italia: Link a pikaia.eu

Per quelli previsti a livello internazionale: Link 

Professioni ultra fortunate: l’insegnante di religione

«Gli insegnanti di religione cattolica sono una risorsa per la scuola italiana. Ci sono 4mila posti vacanti». Nell’ottobre scorso il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi, annunciava così la creazione di un tavolo tecnico sul concorso per l’assunzione dei nuovi docenti destinati all’Insegnamento della religione cattolica (Irc). Ovviamente «interloquendo con la Conferenza episcopale», sottolineava Toccafondi. E così è stato.

Il 25 gennaio il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, ha emesso una nota annunciando che il concorso è imminente: «I membri del Consiglio permanente Cei hanno condiviso alcune considerazioni sulle caratteristiche della certificazione dell’idoneità diocesana degli insegnanti di religione cattolica, in vista di un concorso nazionale, che nell’anno in corso dovrebbe essere svolto su base regionale e poi articolato secondo i numeri necessari in ciascuna diocesi». Vale a dire che la Chiesa ha stabilito i criteri necessari per poter aspirare a uno di quei 4mila posti vacanti. Già perché, in virtù del Concordato del 1929 firmato da Mussolini e il card. Gasparri, e poi ribadito nelle modifiche del 1984 (Craxi e mons. Casaroli), la Cei potrà mostrare il pollice verso se la vita privata di uno dei vincitori non dovesse rispettare i suddetti parametri.

Basti ricordare il caso della professoressa di una scuola media di Firenze in gravidanza “non canonica”, cioè rimasta incinta al di fuori del matrimonio, che fu per questo…

L’articolo di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


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