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Quella zona grigia che alimenta il razzismo

Vent’anni fa, mentre stavo scrivendo Attenti al cane, un romanzo a cornice, non pensavo che la provincia vera e marchigiana di Fermo, così profondamente distante dai centri, ancora claustrofobica, potesse diventare molto simile a quella descritta in quel libro. Periferie desolate, nelle quali viveva un’universale classe media immersa nella violenza e la solitudine di quartieri anonimi dove stava finendo la civiltà comunitaria. Ferrovieri con mogli depresse e figli tossici, gente che perdeva il lavoro da un momento all’altro, mentre sugli schermi televisivi di quei tinelli rabbuiati andavano in onda altre tragedie, le guerre lontane e la pulizia etnica, la resistenza cecena e l’Afghanistan.

La cosa che sgomenta è come ormai la maggior parte della gente si sia completamente adattata a stili di vita da provincia americana profonda, l’umanità inquieta e perduta dei racconti di Carver o di Richard Ford, che in quel libro cercavo di spostare nel mio piccolo mondo. Gente talmente assuefatta alle merci e alla tv spazzatura, da non rendersi più nemmeno conto della mostruosa normalità in cui si sono ficcate, ma alla quale le nuove destre hanno dato un nemico, lo straniero, il profugo, persone scappate da guerre, miserie e geografie saccheggiate dal capitalismo mondiale, sul quale scaricare le frustrazioni prodotte dalle nuove povertà create dalla crisi. Depredare globalmente e respingere localmente, questo è la missione del capitalismo occidentale. Con i fatti del 5 luglio del 2016 è come se quell’intuizione angosciosa si fosse tragicamente conclamata, come se il mondo globalizzato fosse arrivato anche a Fermo. Due anni prima un imprenditore uccise a colpi di pistola due carpentieri kosovari ai quali doveva salari arretrati, poi furono picchiati due lavoratori somali davanti a un bar, per non parlare delle bombe contro le parrocchie fermane e la Comunità di Capodarco, accusati di accogliere gli immigrati o di farne un mercato, orchestrati sempre da gente vicina alla curva della squadra locale. Quel 5 luglio Amedeo Mancini, un altro ultras confusamente fascistoide, 4 Daspo all’attivo, dopo una lite con Emmanuel Chidi Namdi e sua moglie Chinyere, colpì il ragazzo nigeriano uccidendolo, dopo aver apostrofato la moglie come “scimmia africana”. I due erano richiedenti asilo, cristiani scappati dalla Nigeria dopo l’assalto degli jihadisti di Boko Haram a una chiesa dove avevano perso i genitori e una figlia, e nella traversata drammatica dalla Libia fino a Palermo la donna aveva anche abortito un altro figlio in arrivo.

Da vittime iniziali, diventarono in poco tempo loro i provocatori nella narrazione strisciante della piccola città, soprattutto sui social network inveleniti, gli avvocati difensori consigliarono l’assassino di mostrarsi pentito e offrire la casa alla vedova, e invocarono la legittima difesa, mentre le gazzette di destra, “Libero” e “Il giornale” in testa, aggredivano il dibattito mediatico, spingendosi persino a dire che al funerale erano presenti esponenti della mafia nigeriana. Dopo il patteggiamento, quattro anni per omicidio a sfondo razziale, l’assassino finì agli arresti domiciliari, quindi a piede libero. Ormai la polvere era stata messa sotto il tappeto, l’onore della piccola città era salvo, il dibattito evitato, tanto che nessuna forza politica intervenne pubblicamente, a parte il “Comitato 5 luglio”, mentre la lista civica “Piazza pulita”, al governo della città, dal nome dichiaratamente localistico e post-ideologico, per codardia politica cercò di schivare la discussione abdicando alla magistratura. Anche qui come altrove il misto di consumismo e sottocultura hanno provocato negli ultimi 30 anni una ulteriore mutazione antropologica, seguita ai crolli delle ideologie novecentesche, l’abbassamento del senso critico e della cultura, la scomparsa della politica, l’avvento della società dello spettacolo, sagre nazionalpopolari e al pecoreccio; a questo si aggiunga la lunga stagione del berlusconismo, che ha riattivato in tutto il paese quella cultura popolare di destra sopita e di senso comune, “l’autobiografia della nazione”, che si è diffusa e radicata nelle sue molteplici metastasi diventando sotterraneamente egemone.

I nuovi Emmanuel che abitano il territorio sono ghanesi e nigeriani, senegalesi e del Mali, si spostano a piedi e in bicicletta nei saliscendi della piccola città medievale. Come Buba Sanna Darboe, 25 anni, che viene dal Gambia e abita nel quartiere di Campoleggio, sguardo intenso e svelto di lingua. Era un maestro, scappato da una dittatura sanguinaria che lo perseguitava perché militante del partito di opposizione Unità democratica, adesso fa il traduttore per il Tribunale di Ancona. Era amico di Emmanuel, lo aveva incontrato poco prima che succedesse il fattaccio, «un ragazzo tranquillo, gentile, calmo» dice, «non me l’aspettavo, sono rimasto molto deluso, noi abbiamo lasciato l’Africa per cercare protezione, all’inizio ho avuto paura». Adesso si trova bene, ma alcuni suoi amici hanno ancora timore di essere aggrediti. «Tanti pensano che i neri siano inferiori», dice divertito, «pensano che l’Africa sia un posto brutto, povero, ma è solo ignoranza, mancanza di conoscenza. L’Africa, invece, è un posto bellissimo, ma i dittatori la stanno distruggendo insieme agli occidentali», dice serio. Djibriel Thiounie è senegalese, abita in centro storico, arrivò qui un mese dopo l’assassinio. «Quando mi hanno detto che dovevo trasferirmi a Fermo mi sono impaurito, come fanno gli stranieri che stanno lì? Ho pensato». Lui è in stato di protezione umanitaria, scappato da Casamance, al sud del Senegal, dove l’esercito indipendentista arresta i ragazzi nei piccoli paesi per arruolarli e farli combattere. Si è ribellato, è fuggito con un suo amico, presto freddato dal fuoco dei soldati. Nella piccola cucina al pianoterra della sua abitazione ha appeso la cartina con il percorso del suo lungo viaggio. «Arrivato in Gambia ho proseguito per il Senegal del Nord, poi sono andato nel Mali, Burkina Faso, Niger, fino in Libia dove mi sono imbarcato a Tripoli». Ma prima di riuscire a partire è stato in carcere due anni, vittima di maltrattamenti e violenze. «La gente non capisce perché siamo qui» dice arreso, gli occhi lucidi e acquosi.

Altri Emmanuel si chiamano Camara Ousman, scappato anche lui dal Gambia, magazziniere all’hotel Timone di Porto San Giorgio, o Diallo Elhadj Moustapha, di 19 anni, arrivato qui dalla Guinea minorenne. È un ragazzo mite che si porta addosso una sofferenza invincibile che gli ha quasi tolto il sorriso. Suo padre era un militante dell’Ufdg, la Union of democratic forces of Guinea, morì insieme a suo fratello durante una manifestazione politica, ammazzati a colpi di fucile, sua madre fu fatta sparire, «un giorno è andata a lavorare e non è tornata più» dice addolorato. Solo e senza più affetti, è scappato. «Sono andato nel Mali, due giorni di viaggio in auto, poi in Burkina Faso, ancora sei giorni a piedi e in bicicletta verso il Niger». Ha vissuto la prigione in Libia, poi è evaso. Miracolosamente un pastore incontrato per strada l’ha portato a casa sua, dandogli da mangiare e da dormire, poi ha pagato per lui il viaggio della speranza affidandolo a un trafficante di migranti. Secondo Alessandro Fulimeni, coordinatore del progetto Sprar, dopo la morte di Emmanuel le cose sono persino peggiorate a Fermo: «Non credo di esagerare dicendo che siamo in presenza di una doppia tragedia. Da una parte, un uomo che per salvarsi la vita l’ha messa nelle mani della nostra città e ha trovato una morte brutale; dall’altra una parte non piccola della comunità che invece di avviare una severa riflessione e autocritica su come, al suo interno, sia potuta maturare una simile barbarie, ha reagito con un abbarbicamento identitario improntato a intolleranza o a complice indifferenza». Allora, ai tempi di quel mio romanzo a cornice, vent’anni fa, solo le badanti qui erano le figure dell’avvenire. Poi arrivarono i lavoratori calzaturieri e delle campagne, gli allevatori macedoni, i muratori russi e albanesi, adesso i rifugiati e richiedenti asilo. Come scrisse Max Frisch della nostra emigrazione in Svizzera: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini». Il problema è che ancora oggi sembra che gli italiani, “brava gente”, vogliano solo nuova forza lavoro da assoggettare e sfruttare, il prezzo amaro da pagare per diventare cittadini, ma solo cittadini considerati da molti provvisori, e senza diritti.

Leggi ancheMacerata, spari contro migranti. Arrestato l’autore mentre fa saluto fascista

Il reportage di Angelo Ferracuti è stato pubblicato su Left del 23 settembre 2017


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Macerata, spari contro migranti. Arrestato l’autore mentre fa saluto fascista

Un frame di un momento dell'arresto di Luca Traini, 28 anni, incensurato e originario delle Marche, Macerata, 3 febbraio 2018. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Sabato mattina un uomo ha esploso numerosi colpi da una Alfa Romeo 147 nera in corsa per le vie di Macerata nelle Marche. I feriti sarebbero diversi, almeno sei (ma secondo alcune fonti 4) tutti di origine straniera. Uno di loro sarebbe in gravi condizioni ma cosciente, gli altri sarebbero fuori pericolo.

Un giovane 28enne è stato arrestato in piazza della Vittoria, dinanzi al Monumento ai Caduti. Dopo aver sparato all’impazzata seminando il panico in varie zone della città, è sceso dall’auto, lasciando l’arma a bordo, con indosso una bandiera tricolore sulle spalle, e si è avvicinato al Monumento. Lì è stato bloccato da una pattuglia di Carabinieri, che lo stava inseguendo. Prima di essere fermato, di fronte alle forze dell’ordine, ha fatto il saluto fascista.

Il giovane, Luca Traini, testa rasata sarebbe incensurato e originario di Tolentino, nelle Marche. Portato in caserma, ha subito ammesso le sue responsabilità. Sulla fronte ha un tatuaggio di Terza Posizione un’organizzazione di estrema destra eversiva fondata nel 1978 tra gli altri da Roberto Fiore, segretario nazionale di Forza Nuova. A bordo della vettura, oltre alla pistola, aveva una tuta mimetica. Secondo la Repubblica, «nel 2017 era candidato alle elezioni comunali di Corridonia, in lista con la Lega Nord: prese “zero” preferenze».

Luca Traini, 28 anni, l’autore della sparatoria

Dopo il raid in città, il giovane pare si stesse avvicinando alla zona in cui è stato rintracciato il corpo smembrato di Pamela Mastropietro, chiuso in due trolley. Dell’omicidio è accusato il nigeriano Innocent Oseghale. Nei giorni scorsi, nella bacheca Facebook della madre, Alessandra Verni, numerosi erano stati i commenti di odio contro immigrati e persone di colore.

«Non bisogna alimentare il senso dell’odio che può emergere di fronte a fatti gravi come quelli di Pamela», ha dichiarato il sindaco di Macerata Romano Carancini ai microfoni di Rai News 24. «Occorre abbassare i toni, la politica deve immaginare che siamo in un contesto di persone, e indipendentemente dalle critiche nei confronti delle politiche sulla immigrazione, non dobbiamo alimentare la violenza», ha concluso.

«Chiunque spari è un delinquente, a prescindere dal colore della pelle» ha ribadito invece  Matteo Salvini. «È chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale».  Insomma, per il leader della Lega nord, i problemi, anche oggi, sono: «chiunque spari» e «l’immigrazione». Dichiarazioni che, purtroppo, si commentano da sole.

Il capo politico di Potere al popolo, Viola Carofalo, ha sottolineato l’uso strumentale del termine “folle”, che già fa capolino nei media. «Si tratta di un pazzo? – scrive in un post su Facebook -. Non lo so, so però che la “follia” assume in ogni contesto storico-sociale forme diverse e non mi stupisce che in questo momento abbia assunto quella del razzismo più feroce. Sono anche queste le conseguenze di una politica che semina odio, che prova a dividere i poveri provando a scaricare su chi sta più in basso le responsabilità di chi sta in alto».

https://www.facebook.com/viola.carofalo/posts/515763912156624

I drammatici fatti di Macerata richiamano inoltre alla memoria una vicenda simile accaduta sempre nelle Marche, a Fermo, a 40km dal capoluogo: l’omicidio del 36enne nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, picchiato a morte da Amedeo Mancini, ultrà vicino ad ambienti fascisti. Era il 5 luglio del 2016. Alcuni mesi fa Angelo Ferracuti è tornato nelle strade di Fermo dove si è consumata la tragedia, palcoscenico di una provincia smarrita che si aggrappa all’intolleranza per trovare una identità.

Leggi anche: Quella zona grigia che alimenta il razzismo, il reportage da Fermo per Left di Angelo Ferracuti

Raffaele Guariniello: La flessibilità aumenta i rischi di incidenti sul lavoro

RAFFAELE GUARINIELLO MAGISTRATO

«Me lo ricordo ancora. Quando ho cominciato a lavorare in questo settore, un procuratore generale della Cassazione nel suo discorso inaugurale disse: «Gli infortuni sul lavoro sono una fatalità». Il clima era questo, racconta Raffaele Guariniello. Da allora, primi anni Settanta, di passi in avanti a proposito dei diritti dei lavoratori in tema di sicurezza, ne sono stati fatti. E in questa attività della magistratura il procuratore torinese è stato un protagonista fino al 2015, quando è andato in pensione. Dall’inchiesta sulle schedature dei dipendenti Fiat nel 1970 al processo Eternit e a quello ThyssenKrupp, Guariniello è sempre in prima fila. «Facendo certi processi non ho risolto il problema, ma l’ho messo in luce», dice, consapevole che c’è ancora molto da fare. E infatti continua a dare il suo contributo. Ora per esempio, è consulente della IV Commissione parlamentare sull’uranio impoverito che riguarda la salute dei dipendenti del ministero della Difesa. E naturalmente continua a proporre il suo progetto di Procura nazionale per la sicurezza sul lavoro.

Dottor Guariniello, partendo dai dati di cronaca, le morti sul lavoro sono aumentate. Come lo spiega?
Sì, è vero, c’è stato di nuovo un rialzo degli infortuni mortali. Ma al di là dei livelli di occupazione e delle variazioni minime, alla fin fine c’è uno zoccolo duro di casi che purtroppo non tende a diminuire drasticamente. Un altro dato su cui è il caso di meditare è che gli infortuni interessano soprattutto le persone più anziane.

Che cosa significa?

Se si prende in considerazione l’età, si potrebbe obiettare – e molte imprese lo fanno – che la causa determinante può essere il comportamento del lavoratore. Ma il comportamento incauto e negligente ha rilevanza solo se il datore di lavoro ha fatto tutto quel che doveva fare. Quindi l’eventuale negligenza del lavoratore non porta mai ad escludere la responsabilità del datore di lavoro. Ma c’è un altro punto importante.

Quale?

Nel testo unico sulla sicurezza sul lavoro, il decreto 81/2008, l’articolo 20, al comma 1 stabilisce l’obbligo generale del lavoratore a tutelare la propria salute e sicurezza. Il lavoratore è non solo creditore ma anche debitore di sicurezza, ma a condizione che sia adeguatamente formato. Naturalmente per formazione non si intende quella formale, burocratica che viene spesso praticata dalle imprese, ma quella che si chiama effettiva, cioè che per esserlo comporta la verifica dell’apprendimento nell’ordinaria prassi di lavoro. Cosa che purtroppo non accade e qui ritorna sempre l’importanza del comportamento delle imprese.

Lei lo scrive anche nel suo libro La giustizia non è un sogno, le leggi ci sono. Che cosa manca?

Mancano soprattutto due cose. La prima è che sì, ci sono le leggi, ma per farle applicare dalle imprese bisogna che ci sia un’azione di vigilanza. E poi c’è il problema dei processi che sono troppo lunghi. Partiamo dalla vigilanza: se ne devono occupare le Asl, ma purtroppo gli ispettori sono pochi. Quando un ispettore va in un cantiere, per esempio, non si può limitare a dare uno sguardo e a vedere, che so, se in un ponteggio manca qualcosa. No, bisogna capire quali sono le responsabilità, in quel cantiere, in tema di sicurezza, e già questo significa fare prevenzione. Bisogna studiare il piano di sicurezza, il coordinamento, il piano operativo: non basta certo una giornata. Vede, io li ho visti i verbali di contravvenzioni: spesso vengono riportate due o tre violazioni, ma non i problemi profondi, reali. Il dramma del nostro Paese sono proprio i cantieri: ci sono tante figure, il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, il committente, l’eventuale responsabile dei lavori, il coordinatore. L’ispettore deve capire quali provvedimenti nella realtà sono stati adottati, deve studiare i retroscena del cantiere.

Cosa bisogna fare perché la prevenzione funzioni?

Occorre un numero congruo di ispettori che siano però adeguatamente formati. Poi bisogna superare il problema della frammentazione della vigilanza: il rischio è che ogni Asl diventi una repubblica autarchica. Adesso c’è questo nuovo organismo su cui si faceva un grande affidamento, l’Ispettorato nazionale del lavoro, ma gli operatori sono pochi e i mezzi sono scarsi. Perché la vigilanza funzioni ci sono altri aspetti da considerare. Gli ispettori non devono mai mescolare l’attività di vigilanza con quella di consulenza. Un altro è che quando un ispettore è molto incisivo deve essere premiato. E poi è fondamentale il rapporto tra ispettori e magistrati che non devono operare a compartimenti stagni. Noi una volta al mese facevamo una riunione con tutti gli ispettori e ci si confrontava su tutti i problemi.

E perché l’azione della magistratura sia efficace?

Questo è il secondo aspetto fondamentale. Le cose, devo dire, non stanno andando molto bene. Leggendo le sentenze della Cassazione in tema di sicurezza sul lavoro si vede che molte volte si esamina l’infortunio quando il reato ormai è già prescritto. Il problema è drammatico. Questi sono processi complicati ma c’è troppa lentezza e purtroppo ci sono settori e zone in Italia in cui nemmeno si riescono a fare. La maggior parte delle procure della Repubblica non è in grado di operare, non perché i magistrati non siano bravi, ma perché manca un’organizzazione specializzata. Se esistesse, si eviterebbe l’archiviazione. Ma ci vorrebbe una filosofia completamente diversa. Oggi purtroppo la magistratura non può dare un intervento sistematico in tutte le parti del Paese e così si diffonde un senso di giustizia negata per quando riguarda le vittime. E per quanto riguarda le imprese, si diffonde l’idea che se violi le norme te la puoi cavare.

Perché la sua proposta di una Procura nazionale per la sicurezza sul lavoro non viene concretizzata?

Io mi sono fatto un’idea e le posso rispondere con una battuta: c’è il timore che funzioni.

Si va a toccare qualcosa di estremamente delicato?

Eh sì… Comunque per me è stata molto importante l’esperienza della ThyssenKrupp. Dopo un processo durato quasi dieci anni, alla fine però è stata scritta una sentenza di condanna definitiva per queste persone. Quindi, nessuna prescrizione. Il segreto qual è? Il fatto che le indagini sono state concluse in due mesi e mezzo e questo grazie a un’organizzazione specialistica. Questi processi sui temi del lavoro che poi si sono estesi anche all’ambiente – perché un disastro sul lavoro lo è anche sull’ambiente – sono complicati. Ma se non si vuole fare una Procura nazionale si faccia almeno un’agenzia nazionale. E poi c’è un ulteriore aspetto che va toccato. Non servono nuove leggi, ma quando si fa una legge in questa materia, il lavoro, la si faccia bene.

A quale legge sul lavoro si riferisce?

È la legge 81 del 2017 che introduce una nuova forma di lavoro che viene chiamata lavoro agile. Ora va detto che l’Unione europea ci sta mettendo di fronte una serie di rischi che chiama emergenti e che sono legati all’esternalizzazione del lavoro. Molte sentenze infatti si occupano di infortuni di lavoratori al di fuori della loro azienda. Chi tutela la sicurezza di un dipendente distaccato? Questo è il problema che oggi sta tormentando le aziende. Stando alla giurisprudenza prima di distaccare un dipendente presso un’altra azienda un datore di lavoro dovrebbe andare in quell’azienda e valutare i rischi, se non lo fa è responsabile. La legge 81 introduce questa nuova forma di lavoro subordinato che si può svolgere in parte nei locali aziendali e in parte fuori, ma non chiarisce come si debba tutelare la sicurezza dei lavoratori. Il datore di lavoro deve dare un documento in cui descrive i rischi che avrà, ma per dirlo cosa deve fare? Non si capisce.

Più il lavoro è precario e flessibile e meno c’è sicurezza. È giusto il nesso?

È giustissimo. La legge dice che bisogna valutare i rischi tenendo conto del tipo di contratto. Quindi quando si parla di lavoratori somministrati, gli ex interinali, che possono lavorare una settimana in un’azienda e poi in un’altra, con lo stesso lavoro ma in un ambiente diverso, c’è bisogno più che mai di formazione. Invece accade il contrario. La durata del lavoro rende ancora più pesante la gravità dell’inadempimento e infatti gli infortuni che capitano ai lavoratori somministrati sono le cose peggiori, perché non vengono formati. E sapesse quanti infortuni capitano nei primi giorni di lavoro!

Dottor Guariniello, i diritti a salute e sicurezza di un lavoratore saranno tutelati?

Io spero che si cominci a metter in luce questa serie di mali, a cui bisogna porre rimedio, della pubblica amministrazione, della giustizia e della sede parlamentare. Quando comincerò a vedere che questi argomenti si trattano, allora comincerò a dire che ci si sta pensando… Ma finché non si occupano di questo problema il ministro della Giustizia e nemmeno il ministro del Lavoro e le Regioni, allora è inutile che tutti piangano quando capita una tragedia sul lavoro. È il solito rituale, poi il giorno dopo è già finito tutto.

L’intervista di Donatella Coccoli a Raffaele Guariniello è uscita su Left del 2 febbraio 2018


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Ricordando il giorno della memoria

Lo scorso numero Left ha dedicato la copertina al giorno della memoria. Il giorno in cui si ricordano le vittime della Shoah nel giorno della liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Come ogni settimana abbiamo promosso la copertina su Facebook per farla conoscere ai nostri lettori. Abbiamo avuto un grande riscontro con oltre 4.500 like. E questo è senz’altro un fatto molto positivo. Come sempre però, accanto agli apprezzamenti, abbiamo ricevuto moltissimi commenti negativi e in alcuni casi anche molto violenti, contrari alla nostra copertina. Niente di insolito, succede sempre. Accettiamo il confronto e la dialettica anche se molto aspra. In questo caso però non era in nessun modo accettabile. Abbiamo deciso di cancellarli. Non era possibile discutere con persone che di fatto giustificano quell’orrore accusando noi e chi celebra la giornata della memoria di non parlare dei crimini “dell’altra parte politica”.

Cioè siccome noi abbiamo dedicato la copertina alla giornata della memoria e non abbiamo detto “però anche tutti gli altri crimini sono altrettanto gravi” non siamo corretti e quindi siamo in effetti “fascisti”. Sappiamo bene quali siano stati i crimini dei regimi comunisti e non li giustifichiamo affatto. Così come non giustifichiamo mai, in nessun caso, qualunque tipo di sopraffazione violenta di un essere umano su un altro. Noi sosteniamo che la verità umana, la vera realtà profonda di realizzazione di ognuno, è la realizzazione degli altri. Mai e poi mai la morte.

Ha risposto straordinariamente bene un lettore, Claudio Contin, in un bellissimo commento: «… Mai nella storia, si è visto progettare a tavolino, con totale freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo, studiando le possibili forme di eliminazione, le formule dei gas più letali ed efficaci, allestendo i ghetti nelle città occupate, costruendo i campi, studiando una complessa logistica nei trasporti e molto altro. La soluzione finale non è stata solo un atto di inaudita violenza, ma soprattutto un progetto collettivo, un sistema di morte. Il giorno della memoria non vuole misconoscere gli altri genocidi di cui l’umanità è stata capace, ne sostenere un’assai poco ambita superiorità del dolore ebraico. Non è infatti un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà dei morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quello che è accaduto. Perché quello che è successo non debba più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi, nella civile Europa, milioni di persone hanno permesso che tutto ciò accadesse».

Quello che scrive il lettore riflette in pieno il mio pensiero ed è per questo che l’ho riportato integralmente. Mi preme però sottolineare che nello sterminio nazista c’è una differenza rispetto agli altri genocidi. I nazisti hanno cercato di realizzare, di rendere reale, la pulsione di annullamento, scoperta e teorizzata nel 1971 da Massimo Fagioli nel suo Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro). Essa pulsione realizza la non esistenza di un rapporto e dell’oggetto del rapporto. Tale non esistenza è un pensiero, non è una realtà. È un’idea di non esistenza. Ed è esattamente quanto pensavano i nazisti nei confronti degli ebrei. Gli ebrei non dovevano esistere. Dovevano scomparire. Come se non fossero mai esistiti. I forni crematori erano necessari per eliminare fisicamente i corpi. Non doveva rimanere nessuna traccia. Qui sta la differenza. I nazisti hanno realizzato materialmente la pulsione di annullamento. Chi agisce la pulsione di annullamento rende inesistente la realtà con cui ha rapporto. Gli esseri umani non lo sono più, umani. Diventano “cose” da eliminare.

Nella mente di chi agisce la pulsione di annullamento non c’è omicidio perché non c’è rapporto. Non esiste l’altro. Si può eliminare perché già eliminato mentalmente. È un pensiero schizofrenico. È un pensiero malato che non è di tutti gli esseri umani. Ciò che spaventa, che rende lo sterminio nazista intollerabile, è questo processo prima di annullamento e poi, conseguentemente, di omicidio di milioni di persone. È lo sgomento di fronte alla mamma schizofrenica che uccide il bambino. È lo sgomento di fronte alla violenza incomprensibile e inumana del malato di mente. C’è un incomprensibile, un inumano che è della pulsione di annullamento ed è ciò che rende il nazismo e il fascismo crimini contro l’umanità.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Musei, nuovo stop ai direttori stranieri di Franceschini

Il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, al termine della presentazione del progetto Cinecittà Futura presso i Cinecittà Studios a Roma, 31 gennaio 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Musei italiani: direttori stranieri sì, direttori stranieri no. Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, incassa un nuovo duro colpo, questa volta dal Consiglio di Stato. Dopo il niet ricevuto il 25 maggio 2017 dal Tar quando il Tribunale amministrativo regionale si è pronunciato contro la selezione di cinque dei nuovi direttori, di cui uno straniero (secondo la legge in vigore, si legge nella sentenza del Tar, “il bando della selezione non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani”), ora il Consiglio di Stato pur ribaltando parzialmente quella sentenza (regolare la nomina dei direttori) ha messo in discussione la scelta di affidare musei italiani a direttori stranieri.

Il tutto, a quasi un mese di distanza dalla firma da parte di settanta tra cattedratici, archeologi, magistrati e giornalisti del Manifesto per la tutela contro la “Riforma Franceschini”.

«La cultura non può essere consegnata alle logiche di mercato. Un prodotto può essere di grande valore culturale ma non essere redditizio, e quindi occorre mettere confini fra ciò che si fa al servizio dell’umanità e ciò che si fa per profitto. La cultura è un servizio». Parlava così il ministro nel giugno del 2014. Ma sono rimaste belle parole (vedi Left del 15 luglio 2017).

Molte cose sono andate in una direzione molto diversa. Musei e pinacoteche – denunciano – sono diventati sempre più palcoscenico di feste ed eventi.  Due giorni dopo la diffusione del Manifesto, per fare un esempio, l’affitto della raggia di Caserta per un matrimonio da 30mila euro. E di fronte all’accusa di molti per la concessione del monumento, il direttore Mauro Felicori ha risposto: «Io non ci vedo niente di male, avremo un ricavo da usare a fini culturali».

Perché se è vero che la cultura non deve sottostare alle logiche del mercato, è altrettanto vero che se fa monetizzare è meglio, sostiene il segretario del Pd Matteo Renzi, per il quale «Gli Uffizi sono una macchina da soldi». Così  ha detto fin dal novembre 2012. E di fronte a chi – come l’ex direttore degli Uffizi Antonio Natali – ritiene che i musei debbano essere gratuiti, c’è chi – come il ministro – da luglio 2014 ha reintrodotto il pagamento al botteghino per gli over 65.

«Davvero difficile fare le riforme in Italia. Dopo 16 decisioni del Tar e 6 del Consiglio di Stato, quest’ultimo cambia linea e rimette la decisione sui direttori stranieri dei musei all’Adunanza Plenaria. Cosa penseranno nel mondo?», ha twittato Dario Franceschini dopo aver appreso della pubblicazione della sentenza. Non sappiamo cosa si dirà all’estero, ma possiamo scrivere quello che si pensa qui in Italia. Nel “Manifesto per la tutela” infatti si legge: «Le denunce sullo stato penoso della tutela piovono ormai da tutta Italia e quindi il nostro elenco potrebbe continuare a lungo… Chiediamo con forza ai partiti, al futuro Parlamento che questa deriva disastrosa venga fermata e ai media di ogni genere di cominciare almeno ad indagarla, a raccontarla seriamente – non limitandosi alle cifre di facciata, sempre più discutibili – ridando voce alle più collaudate competenze tecnico-scientifiche».

Joyce dell’esilio

James Joyce (1882-1941), irischer Schriftsteller, u.a. "Ulysses" / Portrait Portr‰t Personen, Autor, Literat, Literatur, writer, author / HisPer

Il primo febbraio del 1922, un’ansia inattesa scosse il precario equilibrio nervoso di James Joyce. Ulysses, il libro a cui lavora da 7-8 anni, ma che aveva in mente da 16, non arrivava. Ne aveva sognato l’uscita per il giorno dopo, la Candelora, quando avrebbe compiuto quarant’anni; ed era ancora a correggerne le bozze il 27 di gennaio. Ma poi lo stampatore Darantiere riuscì a stamparne un paio e a farle recapitare per tempo all’autore, che viveva a Parigi. Diciassette anni dopo si ripetè la stessa storia. A gennaio del 1939 Finnegans Wake non era ancora pronto. Sarebbe uscito il 4 maggio, ma la Faber riuscì a inviare a Joyce una prima copia, in bozze rilegate, in tempo per il suo cinquantasettesimo compleanno, il 2 febbraio.

A distanza di settantanove anni, si conclude il 2 febbraio all’Università di Roma Tre, l’undicesima edizione del convegno annuale organizzato dalla James Joyce Italian foundation, e quest’anno dedicato al tema cruciale dell’esilio. Presenti, una trentina di relatori da tutto il mondo, per lo più giovani, e di personalità di assoluto rilievo negli studi joyciani nazionali e internazionali. Il titolo di queste due giornate di studi avrebbe potuto essere “Joyce scrittore dell’esilio”, a giudicare da quelli degli interventi. Ma gli organizzatori hanno voluto giocare con le parole e con il nome dell’autore: The Joys of Exile. Gioie dell’esilio che potranno sembrare ironiche, ma senza le quali l’opera di uno dei più grandi demiurghi del linguaggio non avrebbe mai visto la luce. Di fatto, quasi tutte le sue opere, e certamente le più importanti, sono nate in…

L’articolo di Enrico Terrinoni prosegue su Left in edicola


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Il coraggio delle ragazze di via Enghelab

Una nuova ondata di proteste scuote l’Iran. È donna la folla che chiede libertà a Teheran. La polizia della capitale ha arrestato 29 ragazze, che si sono tolte il velo in pubblico contro l’obbligo di indossarlo, come vuole la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979.

Per le forze dell’ordine disturbavano “l’ordine sociale e sono state consegnate alla giustizia”. Questa protesta, stando alla propaganda istituzionale, sarebbe istigata dall’estero con canali visibili da satelliti illegali: “Rispondono alla chiamata satellitare di quelli che chiamano i “mercoledì bianchi”, 29 donne sono state “ingannate” e hanno deciso di togliersi l’hijab in pubblico, sono state arrestate dalla polizia”, scrivono le agenzie iraniane affiliate alle Guardie della Rivoluzione.

Di quel velo che copre i capelli, le donne di Teheran e altre città, in tutto il Paese, ne hanno fatto una bandiera, legandolo ad un bastone da sventolare in pubblico. È una lotta che va avanti da quattro decadi, ma questa volta l’attenzione dell’opinione pubblica è massima. Soheila Jolodarzadeh, membro femminile del Parlamento, racconta che le proteste “avvengono per il nostro approccio sbagliato, abbiamo imposto restrizioni alle donne, le abbiamo poste sotto costrizioni non necessarie, ecco perché le ragazze di via Enghelab legano le loro sciarpe a un bastone”.

Adesso le chiamano così, le ragazze di via Enghelab, le ragazze della strada della Rivoluzione. Non solo chi si svela, ma anche chi le fotografa o le filma finisce in manette. Narges Hosseini è stata arrestata dieci minuti dopo essersi tolta il velo, insieme a due amici che registravano il suo capo scoperto. Tra di loro c’era Nasrin Sotoudeh, un avvocato dei diritti umani attivo nel paese. “Il suo messaggio è chiaro, le ragazze sono stanche di indossare l’hijab, lasciate che le donne decidano del loro corpo”. Hosseini rischia di rimanere in carcere per due mesi e una multa di 500mila riyal. Eppure altre come lei hanno seguito l’esempio e, proprio come lei, sono state arrestate dalla polizia religiosa. Una dopo l’altra, finiscono in carcere, ma questo non frena molte altre, ogni giorno, dal replicare quel coraggio.

Una delle più potenti immagini sui social network postate nelle ultime ore arriva dalla città di Mashhad, è quella di una donna che indossa un chador, che a capo coperto, sventola un hijab in solidarietà di chi – a differenza sua – non vuole più indossarlo.

Due, tre domande alle attrici del “manifesto” contro “il sistema” della molestie

In alto da sin: Ambra Angiolini, Sonia Bergamasco, Cristina e Francesca Comencini, Paola Cortellesi. In basso da sin: Anna Foglietta, Valeria Golino, Isabella Ragonese, Giovanna Mezzogiorno, Kasia Smutniak. Da Ambra Angiolini a Paola Cortellesi, da Sabrina Impacciatore alle sorelle Comencini e Rohrwacher 124 attrici e lavoratrici dello spettacolo hanno firmato una lettera manifesto firmata Dissenso comune, ospitata su Repubblica.it, che parte dal caso Weinstein sulle molestie sessuali. ANSA

Le attrici italiane (non in ritardo, perché sono mesi che cerchiamo di spiegare che ogni denuncia ha i suoi tempi naturali) riescono finalmente a produrre un documento sul cinema italiano e sul tema delle molestie (fino a ieri sembrava che solo qui da noi l’industria cinematografica fosse un parco giochi di nuvole sorridenti) e scrivono una lunga lettera in cui accusano il «sistema» e dichiarano di essere «quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo». Scrivono cose sensate e il fatto che abbiano deciso di scriverle è una cosa positiva. Pare però che scrivano come se fossero esterne. Osservatrici. E questo distacco è abbastanza impressionante. Ecco perché questa lettera non emoziona, non tocca nessuna corda in particolare.

È un primo passo, dice qualcuno, rispetto al mortificante silenzio di questi ultimi mesi (o ancora peggio: il mortificante sostegno ai presunti molestatori piuttosto che alle vittime) ma dentro il documento ci sono alcune questioni che forse sarebbe la pena porre.

«Non appena l’ondata di sdegno si placa, – scrivono le 120 attrici – il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare». Bene. È possibile sapere perché siete mancate durante «l’ondata di sdegno»?

Poi. «Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza. Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse». È sempre piuttosto facile essere solidali con tutti perché, come diceva quel geniaccio antipatico di Dario Fo, poi è come non essere solidale con nessuno. Questo documento quindi dice che è vero ciò che hanno raccontato Asia Argento, Miriana Trevisan, le diverse ragazze su Brizzi (e poi Giorgia Ferrero, Giovanna Rei, Alessandra Ventimiglia e tutte le altre)? E perché non citarle? È stato importante il lavoro de Le Iene e di Dino Giarrusso? E, soprattutto, hanno quindi cambiato idea Nancy Brilli e Cristiana Capotondi che nella furia di difendere Brizzi (basta leggere qui, per citare un articolo a caso) scrivevano «assisto con dolore alle accuse che stanno rivolgendo in queste ore a Fausto Brizzi» o «non può essere la paura che ti venga bloccata la carriera a non farti parlare»? E che dicono quelle che se la prendevano con chi denuncia «senza metterci la faccia» ora che invece preferiscono non accusare il singolo ma piuttosto il «sistema»?

«Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema», scrivono, nel Paese (ricordiamolo) in cui tutti sottoscriverebbero un manifesto per dire che “la mafia è brutta” ma sempre troppi pochi fanno i nomi dei mafiosi, nel Paese in cui si dice che “la politica fa schifo” ma si è sempre timidi a specificare quale politico, nel Paese in cui la corruzione “è il male” ma guai a fare i nomi dei corrotti. Hanno letto, le sottoscrittrici della lettera, come è stato “rovesciato” il mondo del cinema (e gli altri) negli Usa e negli altri Paesi (civili) del mondo? E soprattutto: se è vero che loro sanno i nomi e i cognomi sono convinte davvero che gli orchi smetteranno di essere orchi solo grazie a questa lettera che archivia il passato? E, ancora, che ce ne facciamo delle vittime che sono state? A posto così?

È un primo passo, dicono in molti. Tardivo e poco coraggioso, dico altri. Eppure sarebbe stato bellissimo (sarebbe quasi un Nuovo cinema paradiso) avere il coraggio di ammettere di avere paura. Scrivere nero su bianco che fare i nomi costa. C’è più forza nell’ammettere la paura che nel proclamarsi paladine di una battaglia che nasce già piuttosto spuntata.

Se è il primo passo di un cammino, bene. Se è l’unico passo allora ha l’odore di un condono.

Buon venerdì.

Meno spreco alimentare, più salute e tutela dell’ambiente

Una giornata al MAXXI dedicata alla Prevenzione dello spreco alimentare, che dal 2014 si svolge il 5 febbraio. L’iniziativa, promossa dal ministero dell’Ambiente/progetto Reduce Sei Zero, con l’Università di Bologna e quella della Tuscia, fa il punto e traccia il quadro dello spreco alimentare reale. A farci da guida è l’agroeconomista Andrea Segrè, fondatore di Last minute market e della campagna Spreco Zero, per la quale sono stati ideati i Waste notes: quaderni di economia domestica per appuntare cause e quantità del cibo gettato e liste della spesa. La giornata sarà arricchita dalla mostra inedita di Altan, che illustrerà lo spreco formato vignetta; dalla videoinstallazione “Centogrammi” dell’artista Paolo Scoppola, che ha l’intento di mostrare il giusto equilibrio nell’acquisto del cibo e della sua consumazione attraverso un grande schermo. I lavori di questa giornata saranno condotti da Massimo Cirri, voce storica del programma radiofonico Caterpillar. Lo scopo dell’evento, oltre a fornire i numeri della rilevazione italiana, che rispetto al 2016 parla di una diminuzione, del ben 40%, dello spreco alimentare, è anche quello di sensibilizzare sulla prevenzione. Ma quanto costa, oggi, alle famiglie italiane sprecare il cibo? A rispondere alle domande di Left, Andrea Segrè, professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata dell’Università di Bologna, ma anche presidente del Centro agroalimentare di Bologna, della Fondazione Fico per l’educazione alimentare e alla sostenibilità e della Edmund Mach-Istituto Agrario di San Michele all’Adige. A Segrè, autore di numerosi saggi sull’argomento, si deve l’ideazione, insieme al Ministero, della giornata sulla prevenzione, che il vero antidoto allo spreco.

Professor Segrè, i dati dell’ultimo monitoraggio sugli sprechi alimentari, ci mostrano una considerevole diminuzione. A cosa la dobbiamo?
Questa diminuzione ha due significati: uno dal punto di vista metodologico perché abbiamo allargato il campione di indagine, abbiamo monitorato 400 famiglie che fossero rappresentative dell’Italia. I progetti di stima precedenti erano un campione molto più ridotto. Il secondo è legato all’effetto positivo delle campagne di comunicazione che abbiamo fatto, Spreco Zero per esempio, ma anche alla legge che è stata approvata proprio per facilitare il recupero. Su tutto, credo che le famiglie siano più sensibili. È una buona notizia, ma se guardiamo il dato assoluto, quello di uno spreco, pro capite, di 100 grammi al giorno, capiamo che il margine di riduzione è ancora molto, molto alto.

Un’attività di sensibilizzazione, attraverso alcune campagne, che ancora può migliorare i risultati. Cosa altro è possibile fare?
Sì, ancora c’è molto lavoro da fare. La giornata, appunto, è della “prevenzione” dello spreco alimentare e la prevenzione si fa con l’educazione alimentare. Quindi, dovremmo continuare a insistere perché l’educazione alimentare sia inserita nelle scuole, soprattutto in quelle primarie. Il dato in contrasto, diremmo così, è che rispetto a questo tema, che è importante e che da anni combattiamo, con il motto “la miglior prevenzione è lo spreco che non fai”, è che si può agire facendo educazione alimentare, insegnando soprattutto ai bambini il valore del cibo, il valore di non sprecarlo. Però, è paradossale perché, sempre dalla stessa indagine che abbiamo fatto con il Ministero dell’ambiente, viene fuori che proprio nelle mense scolastiche si getta via ben 1/3 del cibo che viene dato ai bambini. Questo fa riflettere, è un dato abbastanza inquietante perché se dove devi fare educazione alimentare c’è un grande spreco, si capisce che ancora qualcosa non va.

Rispetto all’Europa, l’attenzione italiana come si pone?
Sul dato precedente, in linea perché usavamo la stessa metodologia, adesso non ci sono altri Paesi che abbiano fatto un’analisi quantitativa. Quindi, noi siamo i più virtuosi, ma lo potrebbero essere anche gli altri se avessero questa indagine. Io sono molto contento che il nostro Paese sia stato il primo a fare un’indagine dal punto di vista metodologico sullo spreco domestico perché, al momento, sullo spreco non si può fare alcuna legge.

A proposito di metodi, non crede che questa spiccata, e giustissima, attenzione al biologico, anche nel fare la spesa, come del resto il seguire alcune tipologie di diete, prive di carni, non possano essere di ausilio alla prevenzione?
Queste tendenze, che siano vegetariane, vegane o crudiste, hanno un approccio particolare, molto attento al cibo e, certo, sono tendenzialmente meno sprecone perché chi le adotta ha fatto un ragionamento, un percorso, comunque ha una certa attenzione rispetto al cibo. Non entro nel merito se sia una scelta giusta o sbagliata, ma questi mondi un po’ estremi, queste “tribù alimentari”, come le definisce il mio amico Marino Niola, in realtà rappresentano ancora una nicchia della gran parte delle persone che, invece, mangia cibo spazzatura, acquistando cibo che costa poco; che va a fare spese abbondanti, ricche di calorie, e non si pone il problema se ha fatto un acquisto in eccesso, tanto, al massimo, lo butta via e basta. Doppia spazzatura, quindi: quella che finisce nello stomaco, perché è cibo cattivo; e quella che finisce nel secchio.

Il suo libro Il gusto per le cose giuste. Lettera alla generazione Z è una lettera aperta sul giusto approccio all’acquisto e alla consumazione del cibo, per far capire quanto sia importante non solo per l’uomo, e la sua salute, ma per l’ambiente che lo circonda, trovare un equilibrio. A chi rivolge, esattamente, le sue parole?
In particolare a ragazzi tra i 14/15 e i 28 anni, soprattutto ai ventenni, a quelli che non studiano e non lavorano, che sono la maggior parte. A loro mi rivolgo come target primario; in realtà, anche agli altri e ai genitori. Parlo, quindi, a una parte del nostro mondo, pensando al loro futuro; vorrei che partecipassero un po’ di più alle scelte che stiamo facendo noi, la mia generazione, per loro.

In che cosa differisce la sua generazione?
La mia viene dal baby boom, anche economico, adesso, invece, c’è una stasi demografica. Erano gli inizi degli anni Sessanta, un mondo che rinasceva dopo la guerra. Adesso dopo settant’anni di pace, parlo di Italia e di Europa, c’è una crisi, anche molto forte, che stiamo vivendo da dieci anni. Allo stesso tempo, assistiamo a un rapido progresso, soprattutto nel mondo digitale del lavoro che ha cambiato le coordinate. Non voglio accusare le scelte che abbiamo fatto noi, c’erano delle condizioni che adesso sono cambiate e che dobbiamo essere in grado di interpretare. Chi avrà la nostra età, tra venti o trenta anni, deve partecipare di più adesso e condividere le scelte che si fanno, che stiamo facendo noi.

Sempre in questa Lettera, lei ha coniato il termine “stilmedio”, un vademecum, uno strumento per insegnare il modo giusto per vivere bene, meglio. Lo spiega in “dieci mosse”: crede stia trovando applicazione?
Non mi pare che abbia preso molto, ma io continuo a insistere, secondo me funziona. Lo spiego con una grafica che lo rende comprensibile e applicabile. Dico di metterlo in pratica per cercare un equilibrio. Appunto, uno stile medio, una via intermedia tra la super nicchia, il prodotto di élite e il cibo spazzatura. Ci sarà una via di mezzo che è alla portata di tutti e che fa bene? Per me, il giusto modo è una vita equilibrata. La dieta non è solo restrizione calorica, ma nel suo significato etimologico, fa riferimento proprio allo stile di vita, che deve essere equilibrato. Mangiare bene fa bene alla salute, all’ambiente, al reddito degli agricoltori. Questa “medietà” ti porta fuori dagli eccessi.

Qual è la ragione principale per cui si spreca così tanto?
L’indifferenza! Abbiamo perso la consapevolezza del valore del cibo e questo produce danni all’ambiente, alla salute ma anche all’economia.

È il giorno dei dati ufficiali, professore. Conti alla mano: quanto sprechiamo in Italia?
Ogni famiglia, nel corso, dell’anno getta via 85 kg di alimenti e se si moltiplica il valore, prendendo un costo medio degli alimenti, vengono fuori 8 miliardi e mezzo, che sono lo 0,6% del PIL. Questo è solo un dato economico senza calcolare l’impatto che ha sulle risorse naturali. Per produrre cibo ci vuole terra, acqua e energia, quindi il costo sarebbe molto più alto e le cifre aumenterebbero.
Il 5 febbraio è alle porte: qual è il suo augurio per questa giornata?
Che faccia riflettere sul contrario dello spreco, cercando di capire quale sia il giusto valore da dare al cibo.

Per uscire dalla giungla del precariato

Sempre più precario, senza tutele, il lavoro in Italia è drammaticamente sfuggente. Aumentano i contratti a tempo determinato, a part-time involontario, a progetto, a rimborso di scontrini, aumenta il lavoro povero e perfino gratuito. È un dilagare di contratti a chiamata e di micro-occupazioni. Che impongono di mettere a valore anche il proprio privato, i rapporti, tutte le proprie risorse, fisiche ed emotive. Perché la flessibilità è diventata una giungla di liane che si spezzano. Perché i livelli di sfruttamento e la pretesa di una disponibilità assoluta e totale da parte del lavoratore evocano scenari di nuove schiavitù. In questa congiuntura il tempo libero dal lavoro praticamente non esiste più e con esso la possibilità di dedicarsi a esigenze di vita più profonde, agli affetti, allo studio, all’arte. In estrema sintesi, alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri.

A denunciarlo in modo articolato è il docente di economia politica Andrea Ventura, autore de Il flagello del neoliberismo (L’Asino d’oro edizioni) ma – su questo nuovo numero di Left – anche il segretario della Cgil Toscana Maurizio Brotini, segno che anche il sindacato avverte sempre più l’urgenza di ripensare il lavoro rimettendo al centro la persona nella sua complessità, alla luce di una nuova antropologia, lontana dalla narrazione tossica imposta dal neoliberismo incentrato sul modello dell’Homo oeconomicus, tutto teso alla massimizzazione del profitto, povero d’affetti, e senza scrupoli nello sfruttamento degli altri, ridotti a nuovi schiavi. Come gli operai che lavorano per il mercato del lusso e della moda raccontati nell’inchiesta di Sara Capolungo. Di fronte all’accelerazione imposta dalla globalizzazione e all’impatto ambientale del turbo capitalismo, in una società sempre più contrassegnata da diseguaglianze e ingiustizia, la sinistra non può sottrarsi alla sfida di ripensare un tema come quello del lavoro. Proponendo modelli alternativi di sviluppo. Lottando per i diritti di chi il lavoro non ce l’ha, per condizioni più umane di lavoro, ma anche per il diritto a un tempo di “non lavoro”, quello che Marx chiamava tempo liberato, con bella intuizione, che poi però rimase tale. In Italia, per portare avanti questa battaglia, abbiamo già un fondamentale strumento: la Carta costituzionale, che tratteggia una moderna Repubblica fondata sul lavoro. Ma non solo.

Pensiamo per esempio all’articolo 3 e in particolare al secondo comma dove è scritto che la Repubblica è chiamata a rimuovere gli ostacoli al «pieno sviluppo della persona umana». Articolo lungimirante e rivoluzionario. Ma aspetta ancora una piena applicazione. La ricostruzione della sinistra può ripartire da qui e chiede un progetto di ampio respiro, che va ben oltre il 4 marzo. Con questo non vogliamo incoraggiare l’astensione. Tutt’altro. Così, dopo aver dedicato la storia di copertina alla scuola e al carcere, abbiamo chiesto alle forze politiche che si presentano alle elezioni di argomentare le proprie proposte sul tema del lavoro. L’abolizione della riforma Fornero e del Jobs act, il ripristino dell’articolo 18, sono punti dirimenti, a nostro avviso. Su questo numero Simone Fana ricostruisce puntualmente il quadro dei danni provocati dal provvedimento renziano. Che oltre a Potere al popolo anche Liberi e uguali punti il dito contro il Jobs act, ci pare un segnale importante. Vi leggiamo la volontà di una salda collocazione a sinistra della nuova formazione politica guidata da Grasso. In cui, tuttavia, militano molti esponenti politici che votarono quel provvedimento in Aula.

Quando nel novembre scorso Roberto Speranza, ex capogruppo del Pd alla Camera, in qualità di segretario di Mdp è andato a fare volantinaggio davanti alle fabbriche dell’Fca di Melfi è stato accolto con queste parole dai lavoratori: «Si trovi un lavoro dignitoso». Beninteso, cambiare idea è legittimo. E in questo caso auspicato. Ma la credibilità passa anche attraverso l’analisi argomentata dei propri errori. Non si può far finta di non avere un passato. Purtroppo come dimostra l’ossimorica lista Bonino-Tabacci il trasformismo è un male annoso della politica italiana di lungo corso, attaccata alla poltrona. Fare domande puntuali e stringenti, pretendere chiarezza anche sulle future alleanze, a poche settimane dal voto, ci appare quanto mai cruciale. Insisteremo.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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