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Jobs act, che bel regalo: lavoro temporaneo. E povero

Giovani della CGIL manifestano sotto Palazzo Chigi contro il Jobs act e il governo Renzi a Roma, 26 novembre 2014. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il 4 marzo è alle porte. Poco più di un mese e la campagna elettorale lascerà il posto ad un Parlamento rinnovato nella composizione politica, senza probabilmente maggioranze certe e con una sensazione di déjà vu che comincia a maturare nel corpo vivo dei cittadini italiani. Chiuso l’affaire candidature con annesse polemiche e colpi di scena, Renzi e il gruppo di fedelissimi, si presentano agli elettori portando in dote il magro bottino di questi anni di riforme. Dalla Buona scuola alla pessima riforma della Costituzione, bocciata dagli elettori, sino allo Sblocca Italia, la distanza tra la narrazione del leader di Rignano e il Paese si è allargata vistosamente.
Il punto più dolente dell’azione di governo rimane la riforma del lavoro, meglio nota come Jobs act. Presentata con enfasi, come preludio del cambiamento promesso, chiave di volta di una modernizzazione che avrebbe trascinato l’Italia fuori dalle macerie della lunga crisi, iniziata nel biennio 2007/2008, il Jobs act non ha mantenuto nessuna delle sue promesse.

I dati confermano la sensazione che si sia trattata di una massiccia operazione di precarizzazione del lavoro, volta ad indebolire il potere e i diritti dei lavoratori a fronte di un rafforzamento della libertà di licenziamento delle imprese. La caduta vertiginosa dei contratti a tempo indeterminato dalla metà del 2016 sino a tutto il 2017 e il saldo negativo tra contratti attivati e quelli cessati nello scorso anno che tocca quota -350 mila (fonte Inps), confermano quanto la crescita del lavoro fosse fortemente collegata alle robuste decontribuzioni alle imprese. Appena gli incentivi fiscali per le assunzioni sono diminuiti, di quasi un terzo a partire dal 2016, a crescere sono stati solamente i rapporti di lavoro temporanei, quelli precari, spesso privi delle tutele standard (ferie, malattia, tredicesima).

Nell’alveo dei contratti precari crescono vistosamente i contratti di lavoro in somministrazione e i contratti a chiamata. I primi aumentano del 20 per cento nel 2017, i secondi sono cresciuti di circa il 119 per cento solo lo scorso anno. La crescita di questi due rapporti di lavoro impone…

L’articolo di Simone Fana prosegue su Left in edicola


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Contro i nominati del Rosatellum, ora c’è la legge elettorale che nasce dal basso

Ettore Rosato abbraccia Emanuele Fiano dopo il via libera al Rosatellum nell'Aula della Camera, Roma, 12 ottobre 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Mentre i partiti sfornano i candidati scelti nel chiuso delle segrete stanze, con risultati talvolta raccapriccianti, c’è qualcuno che non ci sta. Non ci sta ad aspettare l’ennesimo esito di leggi elettorali dal sapore di incostituzionalità (si veda anche l’articolo di Felice Besostri, l’“avvocato anti – Italicum”, su Left).

Chi sono? Sono coloro – giuristi e insegnanti soprattutto – che hanno dato vita al Coordinamento per la democrazia costituzionale, erede del Comitato del No al referendum costituzionale. Quei «professori», come li chiamava Renzi, sbeffeggiandoli, che passo dopo passo hanno trascinato i cittadini verso la sonora bocciatura della riforma Renzi-Boschi.

In attesa che si formi il nuovo Parlamento, che sarà, a giudicare il modus operandi delle segreterie dei partiti, di nominati, e che quindi impedirà ai cittadini di esercitare in pieno, a causa degli assurdi vincoli del Rosatellum, il loro diritto di essere rappresentati e di scegliere liberamente i loro rappresentanti, si sta pensando e ci si sta organizzando a esercitare quel potere democratico e costituzionale dal basso. Come? Con le leggi di iniziativa popolare (Lip).

Tre sono le proposte depositate negli ultimi mesi in Cassazione per le quali tra pochi giorni partirà la raccolta di firme. Ne occorrono 50mila in un arco temporale di sei mesi. L’ultima ad essere depositata in Cassazione, il 19 gennaio scorso, è quella che prevede una modifica dell’attuale legge elettorale. Così, accanto ai ricorsi che presto arriveranno nelle aule dei tribunali, c’è anche la Lip a ricordare che il Rosatellum è una pessima legge. Il testo si intitola non a caso «Modifiche alla legge elettorale 165/2017 per consentire agli elettori di scegliere direttamente i deputati e i senatori da eleggere in proporzione ai voti ottenuti; previsione del voto disgiunto nel rispetto della differenza di genere; garanzie di correttezza, trasparenza, democraticità nella selezione delle candidature in attuazione dell’art.49 della Costituzione». Come si vede, una risposta chiara contro quel Rosatellum che disegnerà il nuovo Parlamento.

Tra le altre due leggi di iniziativa popolare c’è quella che prevede la modifica della Buona scuola attraverso un nuovo testo della Lip redatto dai comitati che già nel 2006 avevano presentato una proposta di legge per la scuola pubblica, laica e gratuita. Nel 2014, quando in Parlamento arrivò il testo della Buona scuola, la Lip era l’alternativa sottoscritta da parlamentari di Sinistra italiana e del M5s. Poi, abbiamo visto come è andata a finire, con la capitolazione del Pd – anche se alcuni, pochi, esponenti della minoranza o votarono contro o non parteciparono al voto – e il varo della riforma Renzi-Giannini.

E infine la legge di iniziativa popolare che chiede la modifica dell’art.81 della Costituzione per eliminare la modifica dello stesso articolo effettuata nel 2012 sotto il governo Monti. Una modifica pesantissima perché il pareggio in bilancio scritto in Costituzione, in obbedienza ai diktat europei, ha inciso e sta incidendo – è in vigore dal 2014 – nella politica economica e nei diritti dei cittadini. Allora, nell’aprile 2012, votarono i due terzi del Parlamento e quindi la legge costituzionale non venne sottoposta al referendum popolare. Adesso c’è la possibilità che i cittadini si possano esprimere firmando la Lip.

Il pareggio in bilancio significa che un macigno grava su tutte le amministrazioni pubbliche, costrette a far rispettare quel vincolo che, secondo alcuni esperti, non eravamo in obbligo di inserire in Costituzione. Ma qualche volta la regola economica non va d’accordo con i diritti dei cittadini. Se n’è accorta la Corte costituzionale che nella sentenza 275/2016 si è pronunciata a proposito della controversia tra provincia di Pescara e regione Abruzzo su una legge regionale che appellandosi al pareggio in bilancio dell’art.81 limitava al 50 per cento il finanziamento per il trasporto riservato ai disabili.

La Consulta ha dichiarato illegittima la legge regionale motivando il no proprio perché i diritti dei cittadini vengono prima del pareggio in bilancio. «È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione», scrivono i giudici costituzionali.
La parola adesso passa ai cittadini.

Domenica 4 febbraio a Roma vengono presentate le tre leggi di iniziativa popolare con il via alla campagna di raccolta firme. Marina Boscaino presenta la Lip scuola, Gaetano Azzariti la Lip articolo 81 e Massimo Villone la Lip legge elettorale.

Nuova Zelanda, mezzo secolo di abusi sui minori: la premier Jacinda Ardern vuole l’inchiesta

epa06324072 New Zealand's Prime Minister Jacinda Ardern (R) waves as she arrives at the Clark International Airport in Pampanga province, north of Manila, Philippines 12 November 2017. The Philippines is hosting the 31st Association of Southeast Asian Nations (ASEAN) Summit and Related Meetings from 10 to 14 November. EPA/ROLEX DELA PENA

«Un confronto con la storia». Jacinda Ardern, premier di Wellington, ha definito così il lavoro che compirà la più grande commissione di inchiesta del suo Paese. Sull’isola sta per cominciare l’indagine sugli abusi commessi su minori e adulti sotto la tutela dello Stato della Nuova Zelanda. «Ogni abuso commesso su un bambino è una tragedia», ha detto l’ex dj, ora primo ministro della Nuova Zelanda, «ma che un abuso sia stato commesso sui più vulnerabili mentre erano assistiti dallo Stato, è intollerabile. Questo è un modo di confrontarci con la storia, per non commettere lo stesso errore, un passo importante per imparare dalle esperienze di chi è stato violato».

Per la Nuova Zelanda si tratta della più grande commissione della storia, che riceverà 12 milioni di pound neozelandesi all’anno per le ricerche. Questa scelta del governo Ardern ha ricevuto il plauso della Commissione per i diritti umani. L’inchiesta della commissione – che la neoeletta primo ministro ha promesso sarà attiva per tutto il suo mandato – ha il compito di investigare gli abusi commessi dal 1950 al 1999 nei centri di detenzione, ospedali psichiatrici, orfanotrofi e tutte le altre istituzioni statali in cui cittadini neozelandesi hanno subito minacce, traumi fisici o psicologici, abusi di natura sessuale. Anche i casi di bambini che hanno subito violenza in istituzioni religiose o scolastiche a cui lo Stato li aveva destinati, finiranno nello stesso dossier.

Circa 5mila bambini ogni anno finiscono nelle maglie dell’assistenza statale neozelandese, l’anno scorso, il 61% di loro era Maori. «Ogni individuo di cui lo Stato aveva il dovere di prendersi cura, indipendentemente da dove era stato collocato, sarà incluso nell’indagine. Stiamo provando a focalizzarci sulle singole persone, non sulle istituzioni» ha detto il ministro dell’Infanzia del governo Ardern, Tracey Martin.

Una commissione simile era stata istituita anche in Australia, su richiesta delle Nazioni Unite. Il report finale sui casi investigati dalla commissione di Sydney, dopo oltre cinque anni di lavoro di ricerca, è stato raccolto in 17 volumi e una definizione più breve e coincisa: «Una tragedia nazionale». Degli 8mila testimoni ascoltati dalla commissione, il 62% ha raccontato di violazioni subite in istituzioni religiose cattoliche.

«Regeni è stato ucciso per danneggiare le relazioni tra Italia e Egitto» dice (ancora) Al Sisi al capo dell’Eni

People during a march and torchlight procession in memory of the Italian researcher Giulio Regeni, who was abducted, tortured and murdered in Cairo (Egypt), in Turin, Italy, 25 January 2018. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

“Sa perché volevano danneggiare le relazioni fra Egitto ed Italia? Affinché non arrivassimo qui”: sono queste le parole pronunciate a Port Said dal presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi rivolgendosi (badate bene) all’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, che era tutto contento di inaugurare il maxi-giacimento di gas Zohr a Port Said. Si riferiva ovviamente all’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano che per il faraone d’Egitto è diventato uno straccio da sventolare buono per ogni occasione, senza nemmeno un alone di giustizia.

E in quella fotografia di potere (egiziano) e interessi (italiani) c’è tutta la crosta che da mesi nessuno riesce a rimuovere su una vicenda che è un buco nero politico, imprenditoriale e giudiziario. Giulio è morto, la verità è lontana e la sua famiglia continua con fatica a tenere alta l’attenzione ma dal governo non si alza una sola flebile voce per chiedere almeno rispetto.

“Non ci dimenticheremo del caso Regeni e non ci fermeremo finché i responsabili non saranno consegnati alla giustizia”, ha detto Al Sisi, aggiungendo: “L’Italia è rimasta al nostro fianco anche dopo il fatto di Regeni, anche perché c’era chi puntava proprio a rovinare i nostri rapporti”. E la frase, se possibile, è ancora più velenosa di tutto il resto: Al Sisi quindi sta dicendo che l’Italia concorda con la sua versione dei fatti? Quindi dobbiamo credergli mentre ci spiega che anche l’Italia crede che l’uccisione di Regeni sia un “complotto” teso a “rovinare i rapporti” (che è un modo eufemistico per non dire “affari”)?

Diceva qualcuno che “le parole sono importanti”. Ma i soldi, si sa, seppelliscono le parole in modo piuttosto sbrigativo. I morti, invece, li commemora senza sentire l’obbligo di raccontarne la storia.

Buon giovedì.

Lavoro, a dicembre meno occupati e più irregolari

È (quasi) storia ormai: un mese fa il governo Gentiloni si faceva bello con il rapporto Istat su Occupazione e disoccupazione, vantando di aver raggiunto il miglior risultato degli ultimi quarant’anni: dal 1977 l’occupazione non aveva mai raggiunto numeri così alti. In realtà erano aumentati solo i dipendenti a termine.

Ora con il nuovo rapporto, relativo a dicembre 2017 emerge che il numero di occupati è diminuito sia tra gli uomini (-0,2%) che tra le donne (-5,4%), per un totale di 66mila persone in meno rispetto al mese precedente. Nel rapporto del mese scorso, chi festeggiava, lo faceva perché vi era stato un aumento di 65mila occupati: la notizia – quella sottolineata – era l’aumento dello 0,3% rispetto al mese precedente. Lo stesso 0,3% che abbiamo perso nel periodo tra il 4 e il 31 dicembre quasi a sottolineare la precarietà che caratterizza gran parte dei contratti esistenti.

Del resto a gennaio bastava leggere il glossario del rapporto Istat per capire che non erano tutte rose e fori: «Occupati: le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento hanno svolto un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura». Non solo: secondo l’Istat sono occupati anche coloro che «hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente». «In campagna elettorale contano i risultati, non le promesse», aveva twittato il segretario del partito democratico Matteo Renzi all’indomani della pubblicazione del rapporto Istat riguardo al mese di novembre. E già. Proviamo a rispondere con i dati del nuovo rapporto alla mano. Nel secondo paragrafo si legge: «Il calo dell’occupazione nell’ultimo mese interessa entrambe le componenti di genere e tutte le classi di età ad eccezione degli ultracinquantenni».

Torniamo al rapporto odierno. Qualcuno sottolinea che su base annua, si registra un aumento degli occupati (ricordando la definizione data dall’Istat nel glossario), +0,8%, equivalenti a 173mila persone. Si legge però: «La crescita si concentra tra i lavoratori a termine mentre calano gli indipendenti e in misura minore i permanenti». Meno 105mila indipendenti; meno 25mila i permanenti. Altro dato. Aumentano drasticamente gli inattivi, coloro che non possono essere qualificati né come occupati, né come disoccupati: «Le persone che non fanno parte delle forze di lavoro», si legge nel glossario del rapporto.

Una generazione di sfaticati, verrebbe da pensare. Fino a quando non si legge il focus di Censis – Confcooperative “Negato, irregolare, sommerso: il lato oscuro del lavoro” presentato a Roma lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto Istat. Tra il 2012 e il 2015 – si legge – «l’occupazione regolare è scesa del 2,1%, mentre quella irregolare è salita del 6,3%, portando a oltre 3,3 milioni i lavoratori che vivono in un cono d’ombra non monitorato». Il lavoro nero, si denuncia nella nota, costa alle aziende la metà: il salario medio orario per retribuire un lavoratore regolare dipendente è di 16 euro, quello per un lavoratore irregolare corrisponde a circa 8 euro.

Chissà che alcuni di questi non siano tra le persone valutate come inattive dall’Istat.

Al tema del lavoro, abbiamo dedicato il numero di Left in edicola dal 2 febbraio


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Anagrafe antifascista, migliaia di iscrizioni in poche ore

L’Anagrafe antifascista istituita dal Comune di Stazzema e dal Parco nazionale della pace, ha preso il via registrando oltre 13mila adesioni in poche ore sul sito anagrafeantifascista.it.

Come è noto, a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) fu commesso uno dei crimini più vigliacchi perpetrati dalle SS naziste e dai collaborazionisti fascisti nei confronti della popolazione civile italiana tra il 1943 e il 1945. All’alba del 12 agosto 1944 fino al pomeriggio, la 16. SS-panzergrenadier-division reichsführer SS, comandata dal generale Max Simon, e la 36ª brigata Mussolini, i cui militi erano travestiti con divise tedesche, fucilarono 560 persone, tra cui 130 bambini. È dunque molto più che simbolica l’istituzione dell’Anagrafe antifascista in difesa dei valori della Costituzione, la cui proposta era stata lanciata dal sindaco Maurizio Verona, a settanta anni dalla entrata in vigore della Carta (1 gennaio 1948).

«L’obiettivo è diventare il comune più grande d’Italia» aveva detto Verona, intervistato da TgRegione.it. Questa iniziativa arriva peraltro nel momento in cui si diffondono sempre più episodi di intolleranza, di razzismo, di discriminazione, oltre alla rievocazione del Ventennio persino nella scuola pubblica a opera di movimenti neofascisti “giovanili” (vedi Left del 16 dicembre 2017) nel solco dei totalitarismi dello scorso secolo, che fecero della violenza lo strumento di affermazione contro oppositori politici, minoranze etniche e religiose. Per entrare a far parte del Comune virtuale antifascista basta sottoscrivere un form on line.

«Il nostro riferimento è la nostra Costituzione – dice ancora il sindaco Verona -, i cui valori da tempo abbiamo espresso e recepito nel nostro statuto comunale con un riferimento chiaro a questi principi che devono e sono di tutti coloro che si riconoscono nella nostra democrazia. Da anni parliamo ai giovani sulla necessità di ricordare per costruire un mondo in cui non si ripresentino i totalitarismi. Lo facciamo nel Parco nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema che è un luogo di dialogo, di incontro e di confronto e non di scontro».

Link per iscriversi all’Anagrafe antifascista

Curdi sotto l’attacco. Erdogan ha lanciato l’offensiva ramo di ulivo

Più di 300 persone sono state arrestate dalle autorità turche per aver criticato sui social media l’offensiva ad Afrin in Siria. È accaduto solo un giorno dopo che il presidente turco Erdogan ha accusato i medici che si oppongono alla campagna militare di “tradimento”, di essere “sudici, amanti del terrorismo”. Il giudice che si occupa della vicenda ha ordinato che gli 11 membri del Ttb, associazione medici turchi, che avevano apertamente denunciato l’operazione in corso ad Afrin, venissero arrestati.
L’avvocato dell’associazione, Ziynet Ozcelik, ricorda che il loro messaggio, – quello che gli è costato la detenzione e l’accusa di tradimento – , era semplice: “no alla guerra, pace immediata. Siamo membri di un ordine professionale che ha giurato di prendersi cura della salute della gente, ricordiamo che sostenere la vita e la ricerca della pace è nostro dovere primario. Ogni scontro, ogni guerra, causa problemi fisici, psicologici, ambientali alla salute e tragedie umane. Il modo per contrastare la guerra è difendere la vita pacifica, egualitaria, democratica. No alla guerra, pace subito”.

Mentre i turchi avanzano nell’enclave curda in Siria e a Sochi cominciano i colloqui di pace sotto egida russa, da Ankara alle province, la polizia di Erdogan ha dato il via alle operazioni di ricerca e detenzione. Giro di vite per la Siria anche fuori dalla Siria: i quattro giornalisti turchi Hayri Demir , Nurcan Baysal, Ihsak Karakas, Sibel Hurtas, sono stati arrestati nei giorni scorsi in varie zone del Paese, anche loro dopo aver criticato l’incursione. Il CPJ, il Comitato protezione giornalisti, ha condannato l’ultimo capitolo “dell’attuale saga dei tentativi turchi di censurare la copertura delle azioni militari e politiche”, la Turchia “intimidisce i giornalisti, il governo non può arrestarli solo perché non ama i loro editoriali”.

Mentre i missili cadono sulle milizie curde siriane – “ramo d’ulivo” è il nome scelto dall’esercito turco per l’operazione che ha avuto inizio dieci giorni fa – le autorità di Ankara ordinano l’arresto di tutti quelli che osano criticare o si oppongono all’incursione: sono 311 le persone che hanno le manette ai polsi per “aver diffuso propaganda terroristica” sui social media nell’ultima settimana. Tra di loro ci sono attivisti, reporter, politici. La loro accusa è simile a quella rivolta ai medici: “provocazione pubblica e propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”.

Gli attivisti, i medici, i cittadini che chiedono pace per Erdogan sono “servi dell’imperialismo, una gang di schiavi, non intelligenti per niente, questo no alla guerra è nient’altro che il tradimento delle loro anime”, come ha detto ad una manifestazione nella provincia di Amasya. Ahmet Demircan, ministro della Salute, ha detto che i medici “hanno fatto un grande errore, le azioni necessarie verranno prese secondo la legge”. Intanto si è mobilitata la Wma, World medical assotiation, che riunisce 111 associazioni mediche mondiali, per condannare gli arresti con una dichiarazione: “chiediamo alle autorità turche l’immediato rilascio dei medici e la fine della campagna intimidatoria contro di loro”.

Sono centinaia i no alla guerra della società civile turca: 170 artisti hanno sottoscritto una lettera pubblica per chiedere l’immediata fine dei bombardamenti. Il no si leva in coro dagli ospedali da campo fino ai campi di calcio. Adesso anche Deniz Naki è stato bandito dalla TFF, la Federazione calcistica turca. L’atleta aveva incoraggiato le persone a partecipare alle proteste contro Ankara a Colonia, condividendo un video sui social media, rivolto ai curdi e non curdi che abitano in Germania, per mettere fine all’operazione ad Afrin,. La condanna è stata immediata, la pena è una multa di 273mila lire turche e un divieto di gioco che durerà tre anni e sei mesi per “propaganda ideologica separatista”.

In divisa sputi sulle vittime e ti guadagni un posto sicuro nelle liste di Salvini

Il segrettario generale del Sap (Sindacato autonomo Polizia), Gianni Tonelli, da 42 giorni in sciopero della fame, durante la conferenza stampa con il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini alla Camera dei Deputati, Roma, 02 marzo 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

“Esprimo piena soddisfazione per l’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi. In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”.

E poi.

Su Federico Aldrovrandi: “La condanna è ingiusta, si tratta di un errore giudiziario. Di fronte al dolore della madre non abbiamo nulla da eccepire ma non possiamo confondere verità con pietismo. Tutti i giorni muoiono giovani sulle strade, ma non diamo la colpa alle strade. C’è più di un ragionevole sospetto, le cause della morte di Aldrovandi sono altre. Non è il fermo di polizia la causa”.

A proposito della legge sulla tortura: “L’obiettivo della legge è difendere non la brava gente, ma fornire strumenti ai delinquenti. Le vera vittima di questa legge sono le persone perbene”. E poi: “Acute sofferenze psicologiche. Cosa significa sofferenza psicologica verificabile? Da che cosa, da una ricetta medica per farmaci ansiolitici o da una perizia a pagamento? Ogni delinquente può lamentare sintomatologie avendole apprese da Internet”.

Sono le parole non di un Giovanardi qualsiasi ma di Gianni Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di Polizia, candidato blindato nella Lega di Salvini. Uno che è riuscito addirittura a beccarsi le rimostranze dei suoi stessi colleghi che giusto ieri hanno detto: “Ora è tutto chiaro: la maglietta della polizia di Stato regalata a Salvini aveva un obiettivo politico”, in riferimento a una maglietta della divisa indossata da Salvini durante un comizio. “Ci prepariamo ad una campagna elettorale che vedrà sicurezza e lavoro tra le priorità dell’agenda sociale e politica. Un rappresentante dei poliziotti tra le file di un partito che parla di sicurezza in termini di paura mirando alla pancia della gente, senza pensare minimamente ai problemi reali della nostra categoria”.

Bravo Tonelli. Salvinista da così poco (eppure così uguale da sembrare un gemello separato alla nascita) è già riuscito nel miracolo di beccarsi le reprimenda dei suoi colleghi ancora prima di sedersi sulla poltrona.

Buon mercoledì.

Neri Marcorè: «Questa politica, quanti passi indietro»

Si ispira alle opere di Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini, lo spettacolo teatrale che Neri Marcorè porta in tournée da tre anni e che, in questi giorni, arriva al Brancaccio di Roma per poi approdare in tutta Italia fino ad aprile. Dal 31 gennaio al 4 febbraio, cinque serate per Quello che non ho, diretto da Giorgio Gallione, con l’attore, ma anche imitatore, conduttore e brillante showman affiancato dai musicisti Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini per una performance di brani recitati e cantati. Nella forma del teatro canzone, attingendo al concept album Le Nuvole del cantautore genovese, ma anche ai testi del poeta friulano i quattro artisti offrono un affresco del presente, delineandone problemi e utopie.

«Cantami di questo tempo l’astio e il malcontento di chi è sottovento e non vuol sentir l’odore di questo motore…» diceva, appunto De André: che senso ha oggi interrogarsi sulla nostra epoca, attraverso storie emblematiche?
La prima scintilla nasce dal mio desiderio di prendere in considerazione le sue canzoni, il suo pensiero, il suo sguardo sul mondo. Con Giorgio Gallione, con cui lavoro da cinque anni, abbiamo pensato di giustapporre a De André la figura di Pasolini per i vari punti di contatto che ci sono tra i due e sviluppare così una riflessione, un ragionamento partendo dalle loro opere, e provocazioni, per parlare del nostro presente, ma soprattutto del nostro futuro. Non è tanto per dire che Pasolini o De André avessero, o meno, ragione, o che avessero scorto un possibile sviluppo antropologico della nostra società, quanto per dire che loro lo avevano detto, come dire, ci avevano preso. Adesso, noi riusciamo ad avere ancora un’idea di coscienza critica di pensiero che ci consenta di guardare al nostro presente, appunto, senza pregiudizio e senza convenienze?

Un’attenzione al presente attiva, che ci renda responsabili, vigili, per realizzare un futuro migliore?
Sì, dovrebbe esserci un certo comportamento etico, declinato a vari livelli: nell’ecologia, nel sociale, per i diritti verso i rom, popolazione verso cui De André guardava con vicinanza e affetto, e che, soprattutto, considerava, spogliandosi di qualsiasi pregiudizio. Quindi, questo non è uno spettacolo dedicato a loro due, ma è un punto di partenza che viene proiettato sul nostro futuro.

Parole e suoni per parlare dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, di guerra, di emarginazione. Pare che siamo messi abbastanza male…
Ci sono spunti che dicono che la nostra epoca è tutt’altro che negativa, che anzi ci sono opportunità enormi. È cambiato molto dal punto di vista della qualità della vita, ma anche nella medicina, visto che ad esempio la mortalità infantile o materna si sono ridotte notevolmente. Ci sono pure contraddizioni enormi: abbiamo più telefoni cellulari che bagni! Il finale poi è legato all’articolo sulle lucciole che aveva scritto Pasolini, che diceva che l’umanità era uccisa dalla modernità e la prova era che non c’erano più lucciole. Qui, però, abbiamo un ribaltamento: poiché le lucciole ci sono, anche i profeti sbagliano.

Quali possibilità abbiamo, quindi, per non far diventare il nostro presente un’ “orrenda preistoria”, appunto?
Abbiamo, forse, ancora la possibilità di cambiare qualcosa, di sovvertire questo baratro che abbiamo davanti, come umanità. A supporto di questo ragionamento, cito il documentario di Salgado che nella sua azienda agricola in Brasile, credendo nella terra, e quindi nella capacità della vita di riprendersi il suo spazio, pianta tante specie diverse e ricrea quella foresta amazzonica che c’era quando lui era piccolo. C’è sempre tempo per invertire le tendenze. Sta a noi farlo, non è qualcosa che piove dall’alto, ma possiamo interrogarci cercando di capire cosa possiamo fare nei gesti quotidiani e poi sperando di delegare persone che abbiano un certo tipo di sensibilità.

A proposito di “delegare” e, quindi, di governare, De André, che dalle “nuvole” di Aristofane aveva ripreso il discorso sull’attuale e sul sociale, diceva che le “sue” di nuvole sono da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; coloro che hanno terrore del nuovo, che potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Non le sembra un affresco socio-politico che ci riguarda da vicino? Il suo spettacolo non potrebbe essere anche una guida per le prossime elezioni del 4 marzo?
Sì, perché ci sono dei passaggi che riguardano la politica italiana a cui si fa riferimento. Non mi sembra sia cambiato molto dal passato, anzi. Si riflette anche su questo, sull’assurdità che la classe dirigente, che dovrebbe fare gli interessi comuni, ottiene il consenso e poi fa quello che gli è più comodo. Abbiamo varie manifestazioni di questo atteggiamento, non ultima anche l’incapacità di trovare delle regole del gioco condivise, che permettano a chi vince le elezioni di governare e a chi perde di stare all’opposizione. Abbiamo fatto molti passi indietro rispetto al periodo in cui si stava quasi arrivando al maggioritario e poi, per veti incrociati e giochi di interesse, siamo arrivati a un proporzionale stranissimo che non dà la possibilità di decidere a chi ha piccolissime rappresentanze.

De André, comunque, prendeva molto in considerazione il popolo, che quelle “nuvole” sembra subirle, senza dare nessun segno di protesta. Il nostro popolo che sta facendo?
Mi piacerebbe essere più fiducioso, ma non so se succederà qualcosa, siamo ancora troppo obnubilati e confusi nei ragionamenti politici. In fondo, l’elettorato siamo noi, è il popolo. Quel che è certo è che c’è una certa distanza con la politica in questo momento, la si è scavata anno dopo anno. Forse bisognerà toccare un fondo, che non è ancora questo, per riemergere.

Inquisizione a Milano, censurata la campagna Uaar sul diritto alla libertà di pensiero

Vuoi lanciare una campagna che sfiori argomenti religiosi sui mezzi pubblici? A Milano, l’Azienda trasporti milanese non te lo permette. A meno che non li tocchi dalla parte “giusta”, quella dei cattolici. Figuriamoci quindi se il referente fa dell’ateismo la propria cultura di riferimento e lancia un messaggio che, velatamente, mette in discussione, ad esempio, il battesimo dei neonati e l’iscrizione “coatta” all’ora di Insegnamento della religione cattolica. «Posso scegliere da grande?», è la domanda che si pone una bimba di due anni nel manifesto inoltrato dalla Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar) all’agenzia pubblicitaria Igpdecaux per farla circolare sui mezzi pubblici del capoluogo lombardo. Sì? No? Non importa. Che si sia d’accordo o no con il messaggio della campagna, poco interessa. È la censura che fa riflettere, ora. L’Atm infatti si è rifiutata di veicolare il messaggio elaborato dalla più grande associazione italiana di atei.

Perché? «È questione di argomento, non di immagine», ha spiegato il referente di Igpdecaux  al suo scomodo cliente. «La campagna sta girando in 54 città italiane: a Roma non ci sono ma Milano è l’unica metropoli in cui abbiamo avuto problemi di questo genere. A Bologna, Padova e Palermo, ad esempio i manifesti circolano tranquillamente», racconta a Left Alessandra Stevan, coordinatrice del circolo Uaar di Milano. E continua: «Noi ci siamo presentati subito come Uaar, non ci siamo nascosti. Teoricamente viviamo in un Paese laico, ma nei fatti non sembra essere così. Promuoviamo la libertà di scelta, che è una cosa positiva – per noi – ma penso che possa essere vista come un po’ fastidiosa, da alcuni».

Ma andiamo per ordine: l’Uaar contatta Igpdecaux per comprare spazi pubblicitari sui mezzi pubblici milanesi. Non sembra esserci alcun problema, all’inizio. Offerta e via libera. Ma c’è un “ma”: «Apprendo ora che trattandosi ovviamente di una campagna legata alla vostra associazione, entrerà nella sfera del controllo Atm attraverso i loro organi preposti». Chiede celerità, quindi, il referente: «Vi chiedo di avere al più presto almeno una bozza di quella che sarà la vostra comunicazione».
Si vuole far partire la campagna a gennaio perché è il periodo in cui si fanno le iscrizione scolastiche e «per promuovere l’ora alternativa a quella di religione cattolica», chiarisce Alessandra Stevan: «L’Uaar ha deciso di lanciare in questo periodo la campagna “Posso scegliere da grande” sulla libertà di scelta dei bambini. A Milano abbiamo contattato Igp decaux. Il nostro obiettivo era far girare la campagna sugli autobus. Nel momento in cui noi abbiamo mandato l’immagine della campagna, ci è stato risposto che, essendo la campagna dell’associazione, avrebbe dovuto essere sottoposta al vaglio degli organi di Atm, al loro consiglio per stabilire se fosse idonea».

Di idoneità, si parla. L’Igpdecaux dichiara quindi che il manifesto dovrà essere giudicato dall’Atm, azienda con la quale l’Uaar non è mai riuscita a entrare in contatto: «Noi non abbiamo mai avuto contatti diretti con Atm, abbiamo sempre parlato con Igp come intermediari. Quindi ci è arrivata una comunicazioni in cui ci chiariscono che Atm confermava il divieto di manifesti a carattere religioso sui mezzi di superficie. Ho parlato a voce con il referente di Igp per provare a spiegare che in realtà questa campagna non ha assolutamente nulla di religioso». Nel manifesto, sopra alla domanda che si pone la bambina, sono elencate le religioni tra cui potrà scegliere da grande, in ordine decrescente di fedeli. Ma non solo: alle religioni, in seconda e terza posizione nell’elenco sono aggiunti anche “ateismo” e “agnosticismo”. Non si mina quindi ad attaccare una fede – quella cattolica ad esempio – ma a garantire il diritto al bambino di scegliere tra le varie: induismo, ateismo, buddismo, islamismo.

«La campagna è equidistante da tutte le religioni, nella campagna citiamo anche l’ateismo e l’agnosticismo. Non c’è stata possibilità di parlare direttamente con Atm. Allora Igpdecaux ci ha fatto un’altra proposta: visto che sugli autobus non era possibile esporre questa campagna, ci hanno proposto le giostre in metropolitana (gli spazi tra un vagone e l’altro). Noi abbiamo accettato, anche se eravamo rimasti molto colpiti da questo rifiuto». Ma c’è un però. Continua Alessandra Stevan: «In una seconda mail, ci hanno detto che il divieto si estendeva anche sulla pubblicità dinamica, quella in movimento. Niente da fare, quindi. Ci hanno proposto la pubblicità statica (cartelloni fissi). Solo che quando ho chiesto se c’erano degli spazi disponibili, mi è stato comunicato che non ce ne erano, neanche in periodi successivi».
L’Uaar storce il naso, ma icassa. Pensa quindi di proporre un manifesto nuovo «più soft»: «Abbiamo pensato di proporre un altro manifesto, impossibile da rifiutare. Ho scritto a Igpdecaux dicendo che la nostra associazione aveva realizzato un altro manifesto, senza però allegarglielo». La risposta è inequivocabile: «Non è questione di immagine, ma di argomento».

La Uaar chiede di visionare il regolamento in cui viene espresso il divieto di pubblicità religiosa. Nulla da fare: «Poi però ci siamo ricordati che l’anno scorso, in occasione della visita di Papa Francesco, c’erano degli autobus che giravano a Milano in cui veniva promossa la santa messa. L’Uaar non può circolare sui mezzi di superficie, il papa sì. Questa è censura. Ed è discriminazione», conclude Alessandra Stevan.

«Questa è una campagna di promozione sociale. Non religiosa».

AGGIORNAMENTO, mercoledì 31 gennaio ore 9:46

«Nessuna preclusione o discriminazione» ci scrive Atm su twitter. «Si è trattato di un errore del concessionario a cui è seguita una mancanza di spazi, come abbiamo spiegato qui: bit.ly/2npPG6U».

Per completezza di informazione, leggiamo nel link indicato da Atm: «Il regolamento interno di ATM prevede, da diversi anni, il divieto di affiggere campagne pubblicitarie di carattere politico, sindacale, religioso o relative a movimenti di opinione, sui mezzi pubblici in movimento, quindi su tram, bus e metropolitane».

25 marzo 2017, un autobus Atm

25 marzo 2017, un tram Atm

AGGIORNAMENTO, venerdì 2 febbraio ore 16:46

La Uaar presenta istanza formale di accesso agli atti

«Sul rifiuto della nostra campagna “Scegliere da grande” da parte del trasporto pubblico di Milano vogliamo vederci chiaro» annuncia Adele Orioli, portavoce e responsabile iniziative legali dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar). «Per questo – aggiunge – i nostri legali hanno inviato una formale istanza di accesso agli atti al fine di capire su che basi sia stata presa questa decisione».

Al centro della questione la seconda fase della campagna Uaar “Scegliere da grande” che sta interessando decine di comuni su tutto il territorio nazionale con manifesti, volantini, affissioni su strada e bus che invitano, in questo periodo di iscrizioni scolastiche, a scegliere un’educazione senza indottrinamento religioso. Campagna che ha visto il rifiuto del trasporto pubblico milanese.

«Quello di Milano è stato un caso unico in Italia», spiega Roberto Grendene, responsabile campagne Uaar: «Il manifesto della campagna “Posso scegliere da grande?” ha trovato spazio e accoglienza in 53 comuni, tra cui piccoli e grandi centri del sud, come Scicli e Palermo, e del nord, come San Donà di Piave e Genova. E su bus del trasporto pubblico come ad Ancona, La Spezia, Padova, Verbania. Non così sui bus del trasporto pubblico di Milano che ha rifiutato la nostra campagna adducendo ragioni inerenti a un regolamento interno. Il nostro stupore e la nostra determinazione a vederci chiaro – prosegue Grendene -, nascono dal fatto che quegli stessi autobus milanesi solo l’anno scorso erano tappezzati di manifesti di papa Francesco, con invito esplicito alla santa messa. Possibile che il diritto di esprimersi nello spazio pubblico venga negato alle istanze laiche di atei e agnostici mentre viene concesso e promosso a quelle religiose? Delle due l’una: o esistono regolamenti che permettono di privilegiare il cattolicesimo e il papa, inaccettabili in una democrazia liberale, oppure questi regolamenti non sono discriminatori e qualcuno li ha volutamente forzati per motivi tutti da chiarire».

«L’associazione – conclude Orioli – rimane impegnata a diffondere la campagna “Scegliere da grande” su tutto il territorio nazionale, ma profonderà altrettanto impegno a tutela della fondamentale libertà di pari diritto di parola negli spazi pubblici».