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È arrivato il nostro Momentum

Birkenhead è una città di quasi centomila abitanti, posta proprio di fronte a Liverpool. Ma, a differenza della vicina metropoli, Birkenhead non ha avuto né i Beatles né una squadra di calcio famosa in tutto il mondo. Tranmere rovers F.c., il nome della squadra di football locale, dice probabilmente qualcosa solo agli appassionati di calcio inglese. E anche il festival musicale che si tiene in città, il Wirral live, non ha il richiamo di altri ben più rinomati. Ciononostante, proprio al Prenton Park, lo stadio della squadra di casa, è nato uno dei cori più “virali” della campagna di Jeremy Corbyn.

Maggio 2017, c’è il festival di musica. Corbyn esce sul palco, malgrado i suoi collaboratori lo abbiano sconsigliato. Temono fischi e un effetto boomerang. Corbyn insiste e «il suo coraggio paga», come ci racconta Lewis Bassett, trentenne organizzatore di Momentum a Lambeth e Southwark (Londra). «A Birkhenhead – prosegue Lewis – è stato scritto un piccolo pezzo di storia del Labour». Mentre Jeremy Corbyn si avvia a concludere il suo breve discorso, infatti, nasce il coro che avrebbe poi caratterizzato tutta la campagna elettorale. Quel «oh, Jeremy Corbyn» che dopo qualche settimana in migliaia e migliaia avrebbero gridato a Glastonbury. Altro festival, altro successo.

Ma chi è che canta il coro, che acclama Corbyn come fosse una rockstar, a Birkenhead come a Glastonbury, a Islington come nel resto del Regno Unito? In grande maggioranza sono giovani, fino a poco tempo fa completamente disillusi. Della politica non ne volevano sapere nulla. Gli anni del “blairismo” prima – di quella third way che in Italia in tanti si ostinano a voler presentare come novità politica – e dei governi Tories (conservatori) poi, avevano contribuito ad allontanare percentuali sempre più ampie di popolazione dalla partecipazione politica.

«Entusiasmo» è la parola che, per farci capire cosa si sia generato in questi ultimi anni in Inghilterra, utilizza Laura Parker. L’abbiamo incontrata…

L’articolo di Giuliano Granato prosegue su Left in edicola


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Se la campagna elettorale si ricorda della scuola

Dopo giorni di polemiche e confronti, Matteo Renzi "sale" in cattedra. E con i gessetti, illustra su una lavagna i punti principali della riforma in un video, girato a Palazzo Chigi, di 18 minuti. Il video Ë diviso in 9 punti e il presidente del consiglio spiega la riforma e gli obiettivi, dall'autonomia all'alternanza Scuola-Lavoro. Roma, 13 maggio 2015. ANSA/YOUTUBE PRESIDENZA CONSIGLIO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli l’aveva annunciata a settembre 2017 proprio su Left: «Una Conferenza programmatica sulla scuola entro la fine dell’anno che chiami in causa tutti i soggetti coinvolti, al di là del colore politico, dell’orientamento o di qualsiasi divisione partitica». Ma non c’è stata nessuna Conferenza programmatica e, anzi, l’anno si è chiuso mestamente, tra la polemica sui licei brevi, l’attesa del contratto nazionale dei docenti e la protesta delle maestre cui il Consiglio di Stato ha ricordato che occorre la laurea per insegnare. Nessun dibattito pubblico, nessuna Costituente della scuola come aveva proposto a settembre Francesco Sinopoli, segretario Flc Cgil.

E invece di riflessioni approfondite l’istruzione pubblica avrebbe un gran bisogno. La Buona scuola, partita al suono della grancassa – «una rivoluzione strepitosa», l’aveva definita Matteo Renzi nel 2015 davanti alle celebri slides -, si è rivelata la prova evidente di un fallimento che però continua a provocare danni. E non solo a livello organizzativo, come si è verificato per il caos dei trasferimenti degli insegnanti o per l’improvvisazione che ha caratterizzato l’alternanza scuola lavoro. La legge 107 ha introdotto un’idea di scuola “aziendalistica”, appiattita sul lavoro e con un input meritocratico che mina la condivisione e la collegialità delle decisioni da prendere. Adesso, calato il sipario sul governo Gentiloni, erede delle politiche scolastiche renziane, cosa ne sarà di…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola


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Una scuola che accenda la passione per il sapere

Qualche giorno fa parlavo con un ragazzo che si dispiaceva di aver abbandonato l’università, dove aveva provato a fare veterinaria. «È che avevo fatto l’istituto tecnico, e quando mi sono trovato a fare fisica, o chimica, non mi ci trovavo più. Troppo astratte, non ero abituato a studiare in quel modo. Ero abituato alle cose pratiche, a vedere i risultati pratici. Quella roba mi sembrava inutile, e non riuscivo proprio a stare sui libri per studiarla». In questa breve conversazione che ho avuto, ho visto dispiegarsi due questioni decisive del sistema scolastico italiano e della sua trasformazione in atto: il classismo che storicamente lo affligge, e che oggi trova una nuova declinazione; il danno che farà l’applicazione pratica del fumoso concetto teorico di competenza.

Sul classismo, è presto detto: in Italia il numero degli abbandoni scolastici (ovvero, di chi non si diploma) è più alto che negli altri Paesi occidentali, quelli dell’Ocse. Questo a causa del ritardo della scolarizzazione di massa nel nostro Paese (quindi: niente nostalgia della scuola pre-sessantottina, quella basata sull’autorità, i voti, la disciplina, i contenuti, perché l’analfabetismo funzionale allora era assai maggiore), e – peggio ancora – del fatto che il conseguimento del diploma (o, ancora di più, della laurea) è legato in maniera assai più massiccia che altrove alla famiglia di provenienza: l’Italia del resto è il Paese in Europa col minor tasso di mobilità sociale, ovvero il figlio dell’operaio ha assai più probabilità che altrove di fare l’operaio a sua volta, per la gioia della scandalizzata contessa della canzone di Pietrangeli. Il divario tra le scuole di serie A e di serie B, però, invece che sanarsi si è allargato e si allarga: non solo tra licei e scuole professionali, ma, in virtù dell’autonomia, anche tra scuole del centro e della periferia.

Detto questo: qual è il senso complessivo delle trasformazioni della scuola dalla riforma Berlinguer del 2000 alla Buona scuola del 2015? È quello di rendere subordinata la formazione culturale degli studenti alla spendibilità dell’apprendimento nel mercato del lavoro. La retorica delle competenze, con gli annessi concetti dei problem solving, con i test di valutazione che trovano il proprio culmine nel rendere le prove Invalsi prove d’esame, con la necessità del “portafoglio degli studenti”, con l’ideologia della “auto imprenditorialità”, non significano altro che centrare la scuola sulla costruzione di abilità pratiche finalizzate all’inserimento rapido nel mondo del lavoro.

Si prendano come esempio i test di valutazione, test a crocette: i saperi richiesti escludono spirito critico, educazione all’autonomia, cooperazione attiva, approccio pluridisciplinare – cose che invece costituiscono il senso primo e ultimo di una didattica finalizzata invece alla formazione etica e sociale di un individuo. Scriveva un giornalista americano, con un’ottima sintesi: «I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati». L’alternanza scuola lavoro in cui lo studente, strappato per due settimane al lavoro in classe, apprende di fatto che il lavoro è un privilegio e non un diritto, e che l’adattamento alle richieste del mercato è la prima virtù di un cittadino, è il luogo dove questa logica si rende più visibile, e visibilmente odiosa.

Dopodiché, il paradosso è che la logica della spendibilità delle competenze è una contraddizione assoluta, perché le trasformazioni nel mercato del lavoro sono talmente rapide, oggi, che rendono quelle abilità operative obsolescenti in un batter d’occhio. Se il ragazzo di cui parlavo all’inizio avesse appreso più conoscenze culturali, meno spendibili e apparentemente “inutili”, forse non avrebbe abbandonato veterinaria, perché avrebbe saputo sviluppare un apprendimento diverso, meno immediato, dai tempi più lunghi, ma proprio per questo più solido e radicato.

C’è un appello che circola in questi giorni, redatto da alcuni docenti liceali, e in pochi giorni sottoscritto da 4mila persone, che rileva una serie di punti critici, a cui oppone un altro modello di scuola. Il che non significa che la scuola attuale vada bene. Ma il modello secondo cui essa viene riformata è profondamente sbagliato. Si tratterebbe allora di immaginare una scuola non secondo un asfissiante paradigma economicistico, e senza, va da sé, tornare alla scuola fondata su autoritarismo, didattica normativa, nozionismo, cosa che in parte la scuola è ancora.

Ci vuole, al contrario, un modello educativo basato sull’autonomia e non sulla centralità della valutazione. Un modello educativo basato su un percorso attivo nell’apprendimento, in cui lo studente non sia il mero recettore passivo di una trasmissione di conoscenze, ma un soggetto attivo che le elabori e le comprenda. Meno cose ma meglio (una testa ben fatta piuttosto che una testa piena, per dirla con Montaigne: ed è in questo senso che una scuola basata sulle “competenze” ci piacerebbe). Ma per far questo la scuola avrebbe bisogno soprattutto di investimenti, di aumentare la quota del bilancio statale ad essa destinata, che a tutt’oggi è ben sotto la media europea: e qui la politica dovrebbe pensare, ad esempio, a come cessare di dare finanziamenti esorbitanti alle scuole paritarie e ai “diplomifici”, a fronte peraltro del fatto che l’Italia è l’unico Paese europeo dove le prestazioni degli studenti delle scuole private sono peggiori di quelle pubbliche.

Aumentare le risorse per la scuola non significa, evidentemente, solo aumentare il misero stipendio degli insegnanti (cosa necessaria, insieme a un maggiore riconoscimento sociale, laddove oggi la loro funzione è svalutata ovunque), ma anche e soprattutto diminuire gli alunni per classe, ché solo in classi dal numero di studenti ridotto si può fare un lavoro decente di didattica personalizzata, attenta ai bisogni e alle specificità di ciascuno, non certo nelle classi pollaio a cui troppo spesso gli insegnanti italiani sono abituati. In un contesto del genere (magari in edifici dove si possa spendere degnamente una parte considerevole della propria esistenza, e non in edifici fatiscenti, poveri, brutti) ci sarebbe spazio per una didattica diversa, non più centrata esclusivamente sulla valutazione, e per una reale educazione a uno spirito critico e a una cittadinanza attiva. Dopodiché si potrebbe pensare anche a singole riforme disciplinari (a me, ad esempio, che insegno filosofia e storia, piacerebbe pensare a un passaggio dalla storia della filosofia, che è quel che facciamo oggi, a una filosofia fatta, magari non esclusivamente, per temi). Tutto con un unico obiettivo: non solo lo sviluppo di un sapere critico, ma anche della passione del sapere, perché, come scriveva il situazionista Vaneigem, «una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie», e «imparare senza desiderio significa disimparare a desiderare».

Certo, è una lotta difficile: del resto la scuola è specchio della società: e in una società dove la democrazia è stata svuotata di senso dell’egemonia onnipervasiva del capitale, la scuola stessa non può che rispondere a quelle istanze egemoni. Ma se è vero che in una società dove il potere è diffuso, la resistenza è diffusa a sua volta, pensare di proporre un modello di scuola diverso si può e si deve.

L’articolo di Marco Rovelli è tratto da Left n. 2 del 12 gennaio 2018


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Tagliare le tasse in base al reddito, questa è l’urgenza

Andrea Orlando, Rossella Muroni e Pietro Grasso durante l'Assemblea Nazionale di Liberi e Uguali, Hotel Ergife, Roma, 7 gennaio 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Il presidente del Senato leader di Liberi e uguali Pietro Grasso ha proposto: «Aboliamo le tasse universitarie, una misura che costa 1,6 miliardi: è un decimo dei 16 miliardi che ci costa lo spreco di sussidi dannosi all’ambiente, secondo i dati del ministero. Avere un’università gratuita significa credere davvero nei giovani e rendere l’Italia più competitiva». Secondo l’ex ministro Vincenzo Visco di LeU «…da noi sono così basse che non è che abolendole succeda molto. È un segnale importante ma è chiaro che è un tema marginale», mentre secondo il renziano Marattin «quella che sembra una proposta di sinistra, è in realtà una proposta di destra». Insomma abolire le tasse universitarie è di destra o di sinistra? Passiamo in rassegna qualche dato di fatto.

Punto 1 Le tasse universitarie in Italia (media 1500 euro/anno) sono le più alte in Europa dopo Regno Unito (9mila euro/anno) e Olanda (2mila euro/anno). In Germania e nei Paesi scandinavi non ci sono tasse e in Francia ammontano a 200 euro all’anno. Il modello zero-tasse per l’università è dunque relativamente comune in Europa e la proposta di azzeramento può scandalizzare solo chi non conosce le comparazioni internazionali.

Punto 2 In Italia le entrate degli atenei per tasse universitarie sono raddoppiate dal 2000: se nel 2000 rappresentavano il 16% del finanziamento statale (Fondo di finanziamento ordinario) degli atenei, nel 2014 hanno raggiunto il 26%.

Punto 3 In Italia solo nove studenti su 100…

L’articolo di Francesco Sylos Labini prosegue su Left in edicola


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Migranti, il “Trump fiammingo” mette in crisi il governo belga con lo scandalo Sudan

epa06410110 A man holds a placard saying 'Attention, watch dog' during a protest against the policy of Belgium's State Secretary for Asylum Policy, Migration and Administrative Simplification, Theo Francken, in Brussels, Belgium, 30 December 2017. Around 250 people gathered to protest against the nationalist Belgian state secretary member of NVA party and blame that Sudanese refugees deported from Belgium were tortured upon their return. Francken invited Sudanese officials to Brussels in September to help authorities identify Sudanese migrants to support their forced repatriation. EPA/OLIVIER HOSLET

Chi è Theo Francken? Se lo stanno chiedendo tutti da quando il New York Times l’ha battezzato il il Flemish Trump, il Trump fiammingo. Cioè europeo. Francken è uno xenofobo e le sue dichiarazioni fanno pensare che non ci trovi niente di male, che non debba nasconderlo. La sua è una storia politica che parla dell’Europa più che del Belgio, e ancora di più, è simbolica delle sue divisioni interne.

Theo ha 39 anni, viene dalla destra estrema dell’Alleanza neo fiamminga e in Belgio è diventato segretario di Stato per l’Asilo e l’Immigrazione. Chi è Theo Francken? O cosa è? «Francken è tossico per la democrazia», scrive l’Echo. Scrive l’Express invece che Francken era «consapevole del rischio». Il rischio a cui si riferisce il magazine francofono è quello che Francken conosceva già all’incontro con le autorità sudanesi avvenuto nella capitale belga: foto e stretta di mano postata su Twitter, si è accordato con i vertici africani per far rimpatriare migranti, gettati in pasto ai loro torturatori. È così che fino a Bruxelles è arrivato lo scandalo di quel Paese governato da 28 anni da un uomo su cui pende un mandato di cattura dalla Corte penale internazionale, il Sudan di Bashir.

Ecco cosa è accaduto: risale a settembre l’incontro del segretario belga con le autorità sudanesi, per far rimpatriare oltre dieci persone che si trovavano nel territorio del suo Stato senza documenti, autorizzazione e per questo sono state rispedite nello Stato di Omar al Bashir. Francken sapeva che una volta in Patria, quei sudanesi sarebbero stati abusati. Erano nove, tre di loro hanno denunciato quello che gli era successo al Tahrir institute for Middle east policy a Washington. I sudanesi sono stati detenuti, interrogati, minacciati, picchiati e poi torturati. A fine dicembre il quotidiano Het Laatse Nieuws ha riportato le testimonianze raccolte dal think tank Tahrir institute, secondo cui i sudanesi fatti rimpatriare da Francken sono stati abusati appena arrivati in Sudan. Quei rifugiati erano stati scelti proprio dalla commissione africana che rivoleva indietro i suoi oppositori. Con l’appoggio placito del segretario.

Il primo ministro Charles Michel ha detto allora al Parlamento, il 21 dicembre scorso, che la procedura dei rimpatri dei rifugiati sudanesi era stata sospesa, ma a gennaio, ha poi scoperto, che Francken aveva pianificato altri voli verso il Sudan, per altri rifugiati e senza dirglielo. È questo l’incidente che occupa le pagine dei giornali in Belgio adesso. Il premier non vuole le dimissioni del Trump fiammingo, perché sa che ha bisogno, per mantenere la maggioranza, dell’appoggio dell’ala politica di Francken, che ha descritto come «duro, ma giusto». Il partito di destra fiammingo minaccia infatti di ritirare il sostegno al governo se si deciderà di rimuovere il suo ministro, ma le sue dimissioni le vuole fortemente la piazza, molti cittadini, organizzazioni non governative per i diritti umani e, più di tutti, l’opposizione. Ma il Trump delle Fiandre non se ne andrà. «Non sono il Trump fiammingo, non sono mai stato anti-migrazione, sono per la migrazione controllata, con regole severe da rispettare, con intervento risoluto quando le circostanze lo richiedono» ha replicato Theo sorridendo sornione.

A capo di un governo formato dopo 138 giorni di trattative, il premier ha ora ordinato un’indagine al Commissariato generale per Rifugiati e apolidi, che collabora con Onu e Commissione europea. L’articolo 3 della Convenzione dei diritti umani proibisce la tortura, ma anche l’estradizione verso Stati stranieri qualora possa condurre alla tortura dei rifugiati. «Se l’indagine in corso dimostrerà che si fa uso di tortura sistematica» a causa dei rimpatri, ha detto Carl Devos, politologo dell’università del Ghent, allora «non solo il Belgio, ma anche altri Stati europei, l’Unione europea tutta, potrebbero essere ritenuti colpevoli di violare l’articolo 3».

È che non ci “provano”, sul tram, con la diva Deneuve

epa05793135 French actress Catherine Deneuve poses during the press conference for 'Sage Femme' (The Midwife) during the 67th annual Berlin Film Festival, in Berlin, Germany, 14 February 2017. The movie is presented in the Official Competition at the Berlinale that runs from 09 to 19 February. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Come sottolinea giustamente Lauren Collins sul New Yorker (ma qui, si sa, l’informazione si consuma al massimo su una cartolina appesa a Facebook) la diva Deneuve ha vergato il suo accorato appello contro il movimento #MeToo e l’ondata di denunce di molestie sessuali in calda compagnia di «donne bianche professioniste o artiste: giornaliste, curatrici, artisti, professoresse, psicologhe, medici, cantanti. Non ci sono governanti o autisti di autobus nella lista, e non v’è nessuna conferma che le cose potrebbero essere più complicate quando una donna non è il leader del suo team di professionisti, come spesso succede».

Non stupisce nemmeno che in Italia gli ululati in difesa del diritto di “provarci sempre e comunque” (come se l’uomo sia maschio solo o soprattutto in maniera direttamente proporzionale ai suoi rigonfiamenti), come scrive Ilda Dominijanni su Internazionale «dallo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance».

Il giochetto sporchissimo di confondere una molestia con un corteggiamento fingendo di non sapere che il consenso sia il discrimine fondamentale è tipico di chi ancora dopo secoli finge di non capire che si sta parlando di abuso di potere e di situazione ricattatorie. Che poi di mezzo ci sia anche il sesso (quello del potente, turgido, che si basta da solo e anzi impazzisce di gioia nello scavalcare un rifiuto) è solo la patetica conseguenza di una sessualità che per i fallocrati è il mezzo preferito nell’esercizio di potere. Sarebbero molestatori anche da eunuchi, per intendersi: solo più in difficoltà nell’inventarsi altre strade verso la soddisfazione.

Ma che la diva Deneuve (come le aspiranti dive borgatare che la applaudono per provare a stare in scia) intenda tutto questo gioco di approcci spinti come il sale della mascolinità forse potrebbe essere dettato da un contesto che le converrebbe (a lei e ai machi nostrani) abbandonare per tornare nella vita reale: scoprirebbe, ad esempio, che “la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale” (come lei la definisce) nella vita reale non si consuma tra le ostriche, i festival o i Mastroianni ma è fatta di palpatine strappate nella ressa di un tram, masturbazioni e conati che stanno dietro alla svolta di una marciapiede, battutine svilenti di capi ufficio dalla virilità insicura, assoggettamenti richiesti da un datore di lavoro o da qualcun altro indispensabile per il proprio sostentamento economico, urlacci da mercato delle vacche sputati fuori da un finestrino e (forse i più odiosi) favori richiesti da chi tiene in mano le carte delle opportunità possibili. Non c’è erotismo giocoso, no: si tratta di un forte che chiede al debole di leccare la sua superiorità. Che il primo sia preferibilmente maschio è la normale conseguenza della storia dei tempi.

Ci è arrivato perfino Pierluigi Battista che scrive: «ci sono momenti della storia in cui quello che appariva normale un minuto prima, un minuto dopo appare come una porcheria. Il momento attuale è uno di questi e non credo che ne venga messa a rischio la nostra virilità o la libertà sessuale di tutte e di tutti. Fare i minimizzatori su questo punto è sbagliato».

Che poi la diva Deneuve abbia avuto il lusso di giocare a farsi rincorrere dal fascino del potere è un suo diritto incontestabile. Ma non insegni le molestie qui fuori. Almeno questo. No. Poi finisce per meritarsi anche l’applauso di quell’importuno di Berlusconi.

Buon venerdì.

Il peccato originale di volere la conoscenza

Vorrei fare i complimenti a Pietro Grasso di Liberi e uguali per la prima proposta politica di questa campagna elettorale che ha un valore strategico e di lungo respiro, al contrario di quanto proposto da chiunque altro fino ad oggi. L’eliminazione delle tasse universitarie è una proposta più che lodevole e senz’altro di sinistra. Certamente dovrebbe essere solo il primo tassello di una strategia di rilancio dell’università e del sistema scolastico in generale.Io credo che l’investimento vero dovrebbe essere perlomeno di 10 miliardi l’anno e non soltanto dei 2 miliardi necessari ad abolire le tasse universitarie. (Per esempio quei 10 miliardi sprecati da Renzi con l’elemosina degli 80 euro). Una strategia che permetterebbe finalmente di togliere l’Italia stallo, economico, sociale e culturale, in cui si trova da ormai più di 30 anni. Perché promuove l’idea che la conoscenza sia ciò che può fare la differenza nel mondo sempre più competitivo in cui viviamo. Solo i Paesi che investono tanto (e hanno investito tanto) nella formazione universitaria delle nuove generazioni, sono uscite brillantemente dalla crisi. Penso alla Germania e alla Corea del Sud. Ma anche alla Cina, che sforna oltre 8 milioni di laureati ogni anno.
La competizione economica sarà sempre più sul cosidetto “soft-power”, il potere dato dalla conoscenza e non dalla quantità di braccia da impiegare.

La Cina, da grande produttore manifatturiero del mondo, sta spostando la propria capacità produttiva verso un sempre più alto valore aggiunto.Per farlo ha programmi di reclutamento di tecnici e scienziati da tutto il mondo mettendo a disposizione enormi quantità di soldi per ricerca e formazione. Sono investimenti sul futuro. I politici cinesi sanno bene che investire oggi in ricerca e formazione, apparentemente senza un ritorno immediato, significa guadagnare tra 20 anni un enorme vantaggio competitivo. Perché quei ragazzi che si formeranno avranno competenze uniche al mondo. Investire nell’università e nella ricerca scientifica è la proposta corretta per invertire la strada del declino verso l’irrilevanza economica del nostro Paese nel contesto mondiale. L’evidenza economica, potremmo dire materiale, dell’importanza della conoscenza è evidente. Ci si potrebbe chiedere allora perché la politica, sostanzialmente tutta, da Forza Italia al Pd passando per i 5stelle, non si pone questo tema come sostanziale e fondante. Nessuno infatti ha risposto alla proposta di LeU. Tranne Renzi per dire una cosa falsa, ossia che sarebbe una proposta discriminatoria per chi è povero. Tra l’altro Renzi, con una proposta diametralmente opposta a quella di Grasso, ha proposto l’abolizione del canone Rai. Come dire “meglio non spendere per la tv che dare accesso libero all’università”. Che dà l’idea di quale brutta idea abbia Renzi dei suoi elettori. Gente a cui dare un soldino per farsi eleggere, senza minimamente pensare al loro futuro o a quello dei loro figli. È l’elemosina, che non serve a nulla e che non cambia nulla. L’accesso alla conoscenza non deve avere nessun tipo di limitazione, né in un verso né nell’altro. Esistono solo persone che vogliono sapere e formare la propria identità sociale. Così come non è possibile stabilire a priori qual è il percorso di formazione ideale. Ognuno ha il suo, perché ognuno di noi è diverso.

Perché questa semplice idea non passa nemmeno nell’anticamera del cervello dei nostri politici? Perché in Italia c’è ancora un’idea della formazione che ha la sua matrice nel pensiero cattolico. Essa viene intesa come educazione e non come istruzione. La differenza è sottile ma sostanziale. L’educazione dà per scontato che l’essere umano è materia informe da plasmare. Dà per scontato che l’essere umano “non è” e deve quindi essere costruito. L’identità degli esseri umani non esiste ab origine e quindi deve essere stabilita tramite l’identificazione con il padre o con il maestro. Il maestro è l’esempio cui l’allievo deve conformarsi. Non c’è dialettica. C’è solo qualcuno che bisogna prendere ad esempio, cui bisogna somigliare. Bisogna essere come l’altro. Perché? Perché in realtà la natura umana sarebbe informe e cattiva e va quindi repressa e nascosta. Questa non è altro che la solita idea del peccato originale. L’idea di educare invece di istruire è un’idea molto fortemente presente nel sistema scolastico e universitario italiano. Il problema è evidentemente culturale. L’istruzione dovrebbe invece essere ciò che dà all’allievo la possibilità di formarsi nella maniera più congeniale e senza imporre modelli. L’idea è che la realtà profonda di ogni essere umano aspira alla conoscenza del mondo, in particolare degli altri esseri umani, e di se stessi. È una ricerca che ogni essere umano fa sin dalla nascita. Nessuno ha il peccato originale, la cattiveria innata. Peccato originale che poi sarebbe la colpa perché Eva ha voluto cogliere la mela della conoscenza. Il peccato dell’uomo, la sua maledizione, sarebbe la voglia di sapere e di conoscere, il poter distinguere autonomamente, senza l’aiuto di dio, la differenza tra il bene e il male, la possibilità di conoscere ciò che è vero da ciò che è falso. Allora è evidente che se si pensa in questo modo, se i nostri politici hanno questi pensieri verso gli altri, la scuola e l’università saranno costruite in modo da NON dare conoscenza! Perché la conoscenza è ciò che fa l’uomo malvagio…

In verità la conoscenza è ciò che l’uomo aspira ad avere. Lo Stato deve mettere tutti in condizione di accedere liberamente e gratuitamente ad essa, senza condizioni. Perché sapere è vedere e quindi potere. È quel potere che il pensiero religioso non vuole che gli esseri umani abbiano.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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La scuola dove tutto ha un prezzo

ROME, ITALY - OCTOBER 13: Thousands of students demonstrate as part of a nationwide mobilization, against the "good school" reform of the former government Renzi that provides for students to work for free for companies during the school period and in defence of public educationon October 13, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

Pagare subito lauti contributi “volontari” per iscriversi alla scuola pubblica. Pagare di nuovo, spesso, per poter sostenere una materia obbligatoria quale l’alternanza scuola lavoro, entrata ormai a regime nelle scuole superiori, mentre dall’anno prossimo sarà  tema d’esame alla maturità. Pagare ancora di più, infine, se si desidera godere di un percorso di alternanza di eccellenza, evitando di finire a servire colazioni all’Autogrill o panini al McDonald’s, se sei fortunato. È un quadro davvero poco confortante quello che emerge prendendo in considerazione l’“esperienza tipo” di un giovane studente italiano. Un quadro in cui i termini “pubblica” e “gratuita”, intorno ai quali la sinistra – al di là delle varie differenze – è sempre riuscita a fare quadrato quando si parla di scuola, escono piuttosto malconci.

«Abbiamo portato avanti un’inchiesta, che ha portato alla luce casi “estremi” di alternanza scuola lavoro a pagamento, in senso negativo». A parlare è Aurora Anzalone, studentessa di liceo scientifico, e militante degli Studenti autorganizzati campani, autori dell’indagine. «Alcuni episodi sono stati denunciati da pochissimo, come quello dell’istituto nautico Duca degli Abruzzi di Napoli, dove per l’alternanza si arrivava a dover sborsare cifre fino a 400 euro e oltre». Già, perché in quell’istituto gli stage prevedono periodi di esperienza a bordo di navi cruise. Ma l’accesso non è gratis. I prezzi andavano dai 200 ai 400 euro, solo per il viaggio, come denunciato dal rappresentate d’istituto del Duca degli Abruzzi a Fanpage. Il trucco? Far figurare i periodi come viaggi di istruzione. Che, proprio come tutte le gite, si pagano. Ma trattasi di gite molto particolari, in cui si lavora. E, per farlo, è indispensabile dotarsi di una attrezzatura adeguata, scarpe, tuta, guanti, casco: tutto a carico degli studenti. Le aziende, che beneficiano di manodopera gratuita, non forniscono nemmeno il vestiario.

«Ma le cose peggiori si sono viste negli alberghieri – prosegue Anzalone – perché lì la distanza tra scuola e mondo del lavoro era già molto ridotta, e spesso gli studenti vengono di fatto mandati nei ristoranti a sostituire dipendenti». All’alberghiero Lucio Petronio di Pozzuoli, ad esempio, le classi sono state smistate e gli alunni, a gruppetti, indirizzati in giro per l’Italia in hotel e ristoranti, dall’Emilia Romagna alla Sardegna, per affrontare il periodo di alternanza. «Al ritorno, le esperienze che hanno raccontato erano terribili. Il rappresentante d’istituto del Petronio – riferisce la studentessa – ci ha parlato di condizioni pessime, al limite del paradossale, di alloggi predisposti dalle aziende in scantinati umidi, sporchi e fatiscenti, di pasti che provenivano dal cibo avanzato nei giorni precedenti, per risparmiare. Ma anche di intimidazioni da parte del proprietario di una struttura in Sardegna, che vietava ai ragazzi di uscire anche al termine dell’orario di impiego». Una esperienza ben poco formativa, insomma. Difatti «gli studenti sostengono in generale di non aver imparato assolutamente nulla». Con un ulteriore paradosso: «Negli alberghieri si sono sempre potute fare esperienze lavorative, esistevano infatti tirocini facoltativi; ora invece, con l’alternanza, non c’è più possibilità di scelta, ed alcuni studenti hanno persino dovuto abbandonare lavoretti retribuiti per ottemperare alle ore obbligatorie previste», chiosa Anzalone.

Ma la lotta, anche stavolta, paga. «Al Petronio hanno combattuto tanto che il preside, quando ha preparato le convenzioni per l’alternanza in vista del nuovo anno scolastico, ha stilato un documento per le aziende nel quale si chiarisce che gli studenti stanno andando ad imparare e non a lavorare, che le ore giornaliere di impegno sono al massimo sei…». Un passo in avanti. Ma siamo ancora ben lungi da quello Statuto dei diritti degli studenti e delle studentesse in alternanza chiesto a gran voce dall’Unione degli studenti, insieme ad un Codice etico per le aziende ospitanti che fissi parametri minimi di qualità sotto ai quali non si possa scendere. E ancora più lontani dalle rivendicazioni degli Studenti autorganizzati campani che, su questo fronte, hanno una posizione più radicale. «Noi siamo per l’abolizione totale dell’alternanza – spiega la militante -. Nel movimento studentesco abbiamo spesso discusso con chi ha punti di vista differenti, e ci rendiamo conto di quanto sia difficile estirpare del tutto l’alternanza in questa fase politica, per questo proviamo in ogni scuola a trovare mediazioni al rialzo, chiedendo ad esempio di poter sostenere gli stage in associazioni benefiche o di promozione sociale. Però restiamo dell’idea che il momento della formazione e quello del lavoro dovrebbero essere ben divisi. A breve uscirà anche un nostro opuscolo dove argomenteremo la tesi nel dettaglio».

Certo non per tutti gli studenti “alternanza” significa per forza spalare letame (si, è successo davvero, a Castelfranco veneto in provincia di Treviso, e il caso è finito pure in Parlamento grazie ad una interrogazione di Sinistra italiana alla ministra Valeria Fedeli, lo scorso novembre). Perchè il modo per sottrarsi a mansioni ben poco formative esiste, ed è sempre quello: pagare. Si, perché vacanze studio, corsi di lingua all’estero, ma anche un anno di superiori fatto lontano dall’Italia all’interno del progetto Intercultura: tutto ciò può essere in teoria riconosciuto come alternanza scuola lavoro, chiaramente per chi se lo può permettere (v. l’inchiesta di P. Marchetti su Left n.46/2017).

Ma, sempre più spesso, c’è un’ulteriore gabella da versare se si vuole usufruire di tutti i servizi offerti dalla scuola dell’obbligo. Si paga ad inizio anno scolastico, e si chiama contributo volontario. Si tratta di un versamento che finisce direttamente nelle casse dell’istituto, detraibile dalla dichiarazione dei redditi, formalmente utile a finanziare l’ampliamento della offerta formativa e culturale. In pratica, con quei soldi la scuola può pagare svariate cose: dagli stage all’estero, alla carta igienica, dalla Lim (la lavagna interattiva) all’intervento di potenziamento di musica o teatro nelle classi. La cifra da corrispondere? La media nazionale è di circa cento euro, ma può arrivare fino ai 180 euro richiesti dal liceo classico D’Azeglio di Torino. «Perlomeno negli ultimi anni la quota non è aumentata», commenta ironica Maria Lucia Manca, responsabile del sindacato Gilda del capoluogo piemontese. «In altre scuole superiori della città le quote oscillano tra i sessanta e i centotrenta euro, dipende da ciò che offrono gli istituti. Mentre alle scuole medie la cifra scende tra i trenta e i quaranta euro, e all’interno della quota è solitamente compreso il diario; può infine essere richiesta una quota anche alle elementari, e va dai dieci ai quindici euro».

Pur essendo un contributo di carattere facoltativo, come il ministero dell’Istruzione ha ribadito in circolari emesse dal 2012, diverse scuole continuano a lasciare intendere che il versamento sia in qualche modo collegato alla frequentazione dell’istituto, se non a “imporlo” esplicitamente. Ma c’è di più. «Il pagamento diventa una questione etica, un “ricatto morale” nel quale i genitori rimangono intrappolati – ci dice Fabrizio Reberschegg, della direzione nazionale della Gilda degli insegnanti -. Perché una persona può anche decidere di non sborsare, ma a quel punto che succede? Il figlio di un genitore che non paga ha diritto a godere degli stessi servizi di chi ha corrisposto la quota? È un tema che accende gli animi in molti consigli d’istituto». A Pisa, alcuni docenti iscritti alla Gilda hanno provato ad opporsi al pagamento della quota. Ma l’istituto gli ha prontamente risposto che “se nessuno paga la scuola si ferma”, e la resistenza è stata presto piegata.

Ma qual è la genealogia di questo tributo (non troppo) volontario? «Risale ad una prassi consolidata nel mondo della scuola, in particolare di quella primaria, come quella di donare periodicamente agli istituti materiali di consumo, portare cioè da casa i pennarelli o i fazzoletti, per intenderci. Il punto è che la cosiddetta “autonomia scolastica” voluta da Berlinguer ha permesso anche contributi in denaro, finendo col far nascere scuole di serie A, serie B e serie C, con differenze da territorio a territorio, quando gli studenti, dalle Alpi a Pantelleria, dovrebbero avere tutti le stesse occasioni, le stesse opportunità».

E, per l’ennesima volta, a passare all’incasso sono i privati, che in una scuola alla costante ricerca di fondi si presentano offrendo laboratori, corsi di formazione per i docenti e gite, tutto rigorosamente gratis ma griffato col loro brand, grazie al quale portano a casa un bel ritorno di immagine, e anche una fidelizzazione della azienda rispetto alla scuola (spesso decisiva, quando di parla di tecnici e professionali). Il problema, insomma, viene da lontano. E la Buona scuola non è altro che l’ultima pennellata di un disegno iniziato venti anni fa.

 

L’inchiesta di Leonardo Filippi è tratta da Left n.2 del 12 gennaio 2018


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Egitto, le serie tv fanno paura ad Al Sisi. Scatta la censura

epa06286263 Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi attends a military ceremony at the Hotel des Invalides in Paris, France, 24 October 2017. Al Sisi is in Paris for bilateral talks and to witness the signing of 17 cooperation agreements between both countries. EPA/CHARLES PLATIAU / POOL MAXPPP OUT

Non solo giornalisti. Non solo attivisti. Non solo artisti. Adesso anche gli sceneggiatori delle serie tv in Egitto non avranno più vita facile. Accade specialmente durante il Ramadan. Le controversie tra Stato e autori televisivi aumentano: i programmi sono in linea con la nostra idea di famiglia? Con la religione? Con la nostra tradizione? Riflettono la nostra società? Danno una buona immagine di noi all’estero?

Se la risposta è no, anche i programmi di intrattenimento vengono oscurati. Il dibattito è ricorrente e così ripetitivo al Cairo che la Corte Suprema egiziana per l’amministrazione dei media ha istituito qualche settimana fa un comitato speciale, solo per monitorare le serie tv e i telefilm, per censurare quelle che sono «contro i costumi e le tradizioni del Paese». La Corte Suprema egiziana per l’amministrazione dei media è stata formata ad aprile 2016, con un decreto presidenziale di Al Sisi, ed è autorizzata a sospendere o multare, temporaneamente o per sempre, i canali tv che vengono classificati come “immorali”.

Il comitato per le serie tv si è riunito il 3 gennaio, per comunicare ai dirigenti delle tv arabe del Nilo che sui loro canali non sarà autorizzata la messa in onda di alcuna produzione di finzione – film, serie tv, telefilm – che non rispetti il codice di condotta statale e che a dare il nulla osta sarà il Direttorato generale della censura dei lavori artistici, un corpo istituzionale dedito solo a leggere le sceneggiature delle fiction e dare il permesso di procedere.

Film, serie, pubblicità: non dovrà esserci nessuna «scena di violenza, droga, nessun cattivo esempio». Nel 2017 sono diversi i programmi tv che hanno chiuso i battenti, uno è scomparso dagli schermi degli egiziani solo perché parlava della difficoltà di trovare acqua pulita nel Paese. Anche parlare di sport in modi che lo Stato non gradisce è vietato: un comitato per monitorare i media dello sport è stato creato su misura per riportare al Consiglio Supremo tutto quello che si dice nelle trasmissioni sugli atleti.

Per il critico d’arte Tariq El Shennawi sotto la dicitura «sviluppare e migliorare le serie» c’è uno scopo preciso: avere controllo su ogni media, imporre una censura sempre maggiore. «Il Consiglio Supremo per l’amministrazione dei media vuole che l’arte e i lavori artistici si allineino alla politica dello Stato, alla natura conservatrice della comunità; col tempo il loro obiettivo segreto verrà rivelato: imporre la censura». La scrittrice Fatima Naoot ha detto che il comitato è un tentativo dello Stato di imporsi su arte e creatività, di ergersi nel ruolo «di padre del popolo egiziano: considerano gli egiziani come un bambino che va monitorato, così i suoi show vanno censurati».

Adesso Mohamed Fadel, a capo del comitato, ha cambiato idea. O almeno ne ha avuta un’altra. Ha deciso non solo di censurare gli altri, ma creare e trasmettere programmi propri, con serie tv che verranno pensate e girate in base ai valori del nuovo Egitto di Al Sisi.

Il Pd lombardo vuole convergere a sinistra? Bene, c’è Cecilia Strada

La presidente di Emergency, Cecilia Strada durante la conferenza stampa sul medico di ricoverato presso l'ospedale Spallanzani di Roma per aver contratto il virus Ebola in Sierra Leone, Roma, 25 novembre 2014. ANSA/CLAUDIO PERI

I “rancorosi di sinistra”, i “gufi”, i “traditori”, quelli che “faranno vincere la destra” alle prossime elezioni nazionali inspiegabilmente diventano indispensabili per le prossime regionali. Nel Lazio il governatore Zingaretti insiste per non rompere lo schema del passato (e fa niente se intanto s’è rotto un Paese, tutto intorno) e chiede a Liberi e uguali di partecipare alla coalizione per le elezioni regionali nel Lazio. Qualcuno giustamente gli ha fatto notare che viene difficile immaginare un’alleanza che vada da Sinistra italiana alla Lorenzin (fedele alleata del governatore). Si attende risposta.

In Lombardia invece siamo addirittura oltre: la non ricandidatura di Maroni ha acceso gli animi come non mai (si esulta per poco, da quelle parti) e il Partito democratico lancia appelli a sinistra (trovando terreno fertile) in nome del “voto utile”. Avete letto bene: del voto utile. In pratica l’arma con cui bastonano Liberi e uguali nella campagna elettorale nazionale è l’amo della campagna elettorale regionale. Verrebbe da ridere, se non fosse tragica.

Eppure a pensarci bene sarebbe un’ottima notizia che il Pd ritenga veramente indispensabile la sinistra in Lombardia. Sarebbe un inizio. E volendo vedere c’è anche una soluzione: se davvero è il caso di “mettere da parte i personalismi” per strappare la Lombardia a Lega e Forza Italia sono sicuro che il Pd in testa sia disponibile a essere generoso e rivedere i suoi piani. Si metta da parte Gori (che il Pd non avrà problemi a convincere, avendolo incoronato senza passaggi con le altre realtà politiche) e si candidi in Lombardia la brava Cecilia Strada che proprio Liberi e uguali ha contattato nei giorni scorsi.

Poiché, come dice il Pd, non è il candidato presidente a “definire la squadra” sono certo che convergere su un candidato “civico” sia la soluzione migliore per dimostrare la reale volontà di trovare una sintesi. Per qualcuno del resto Gori rimane quello che ha preso posizioni piuttosto distanti dalle anime di LeU e (come ricorda bene Alessandro Gilioli) fu lo stesso che nei primi anni ’90 fece politica, da direttore di Canale 5, per opporsi strenuamente al referendum che il Pds indisse per modificare la legge Mammì (proposta, tra gli altri, da Roberto Benigni, Ettore Scola, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Nanni Loy, Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci, Marco Ferreri, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Luigi Magni, Francesco Rosi, Gabriele Salvatores e Beppe Grillo). Gori fu colui che nel maggio del 1991 propose di «andare con gli striscioni a San Siro e organizzare un corteo davanti al Parlamento» per fermare «questi referendum assurdi».

Cecilia Strada, negli anni, ha provato a fermare le bombe.

La scelta viene facile. Che dite?

Buon giovedì.