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Reggia di Caserta, il gioco delle tre carte del direttore Felicori

Fino a qualche tempo fa il folkloristico direttore della Reggia di Caserta, Mauro Felicori, rispondeva in modo piccato a chi lo tirava in ballo in merito alla assurda e scandalosa vicenda dell’Archivio di Stato: «Ed io che c’entro». Il 6 gennaio in una lunga intervista su Repubblica, per reagire con foga alle critiche di quelli che lui definisce suoi detrattori, è uscito allo scoperto. Ecco cosa ha dichiarato con la solita enfasi: «E annuncia che presto avrà a disposizione 30mila mq di locali prima occupati dall’aeronautica. Li userò per eventi, in quanto servono soldi per la manutenzione e per i restauri. Chi è contro i matrimoni i matrimoni alla fine è contro la tutela. Lo Stato da solo non può fare tutto, dovrebbe essere chiaro a tutti» (sono parole sue).

E qui casca l’asino, direbbe il saggio. Questa affermazione del direttore non tiene conto, anzi la contraddice, di una norma prevista dal “Progetto di riassegnazione e di restituzione degli spazi del complesso della reggia alla loro esclusiva destinazione culturale, educativa e museale ai sensi dell’art. 3, comma 1, del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83 – convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106”. In base a questa norma, da alcuni mesi sono iniziati i lavori di trasloco dei documenti e materiali dalla palazzina alla periferia della città, dove si trova il grosso (più del 95% del materiale archivistico), tra l’altro in condizioni di precarietà, non più accessibili ed usufruibili da studiosi e visitatori – che vi si recano da tutto il mondo per ricerche storiche, ai nuovi spazi della Reggia.

Come si osserva nella nota di accompagnamento al suddetto progetto, nel corso degli ultimi decenni il patrimonio documentario dell’Archivio di Stato di Caserta è stato incrementato notevolmente a seguito dei versamenti effettuati, in attuazione della normativa vigente, dalle amministrazioni periferiche dello Stato della provincia, rendendo necessaria l’individuazione, all’interno dell’edificio della reggia, di nuovi spazi da destinare a deposito.

La nota si conclude in modo chiaro: «Considerato che l’Archivio storico della Real Casa, sul quale l’Archivio di Stato esercita le proprie competenze, è indissolubilmente connesso, al pari della Biblioteca Palatina, al Museo storico della Reggia ed è attualmente allocato al primo piano ammezzato del palazzo, si ritiene opportuno soddisfare le esigenze correlate alla consultazione di tali fondi archivistici (nonché di quelli storicamente correlati al predetto Archivio Storico) assegnando all’Archivio di Stato di Caserta alcuni locali (attualmente – nel 2014 – in consegna all’Aeronautica militare) ubicati nell’angolo sud orientale del piano terreno e del soprastante piano ammezzato, destinando a deposito la parte del piano interrato sottostante (tavole 35, 36 e 37)».

Di questa norma il direttore Felicori e i suoi colleghi del Mibact e della soprintendenza Campania devono tener conto, in particolare in riferimento ai finanziamenti già stanziati per lavori di manutenzione e di rafforzamento dei locali. Con tutto il rispetto per le dichiarazioni di Felicori, è giunto il momento che gli organi competenti ed i progettisti incaricati diano avvio ai lavori di consolidamento – anche con un funzionale cronoprogramma dei lavori – per poter consentire finalmente la riapertura di tutto l’Archivio, per salvare parti fondamentali della nostra memoria storica, della nostra identità e civiltà.

Un drastico provvedimento, l’archivio chiude – Aggiornamento del 15 gennaio 2018

La direttrice dell’archivio di Stato di Caserta ha comunicato in modo secco che da ora i servizi al pubblico saranno sospesi, fino a nuova data. Da cui  non si capisce bene il motivo di un provvedimento così drastico, che in pratica sancisce la chiusura di una struttura così importante. Ad esclusione di alcune voci isolate, ancora più sorprendente appare il silenzio assordante e l’indifferenza quasi totale da parte delle forze politiche e delle istituzioni locali, a partire dal Comune di Caserta che in diverse occasioni si era impegnato ad intervenire a fianco del Comitato.

Prendendo a prestito il titolo del recente saggio dello storico Gianni Cerchia, ci viene da commentare che la nostra identità culturale e la memoria storica viene “tradita”, anzi viene “abbandonata” al suo destino da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla in sede istituzionale.

Per queste ragioni come Comitato abbiamo avanzato – con oltre trenta firme, aperte da quella del VE R. Nogaro – la richiesta di un incontro di merito in primo luogo al ministro Franceschini ed al direttore generale Mibact per chiedere un incontro sulla vicenda assurda e sconcertante che da anni tiene in bilico uno dei beni comuni fondamentali per la memoria storica ed identità civile di Terra di Lavoro. Allo stato il nostro Archivio risulta smembrato, senza una sede adeguata ed agibile, nonostante l’avvio del trasferimento degli uffici nella prestigiosa sede della Reggia Vanvitelliana.

Nello stesso tempo rinnoviamo la nostra richiesta al sindaco e presidente del consiglio comunale, al prefetto ed alla airettrice dell’Archivio Per chiedere il rispetto e l’attuazione di una norma di legge stabilita con il Piano Soragni di destinazione nei locali della Reggia Vanvitelliana. In particolare abbiamo chiesto di fare chiarezza sui tempi per il progetto di fattibilità e sul crono-programma dei lavori di sistemazione e rafforzamento dei nuovi locali dell’ex Aeronautica, per i quali sono previsti finanziamenti per oltre 2 milioni di Euro.  Ci aspettiamo che il Sindaco di Caserta (insieme con le altre istituzioni del territorio)  si occupi con serietà del futuro del nostro Archivio, anche portando all’odg del consiglio comunale la situazione  dell’archivio di Stato di Caserta.

Di fronte ad un provvedimento così drastico, ora ci auspichiamo che almeno il sindaco e le altre istituzioni locali ci diano una risposta e manifestino la loro disponibilità per approfondire insieme con le associazioni ed i cittadini consapevoli, da tempo impegnati su alcune battaglie di civiltà per il futuro di Terra di Lavoro (come quelle dell’Archivio e del Museo Campano). 

Pasquale Iorio è il fondatore dell’associazione Le piazze del sapere

Irina morta per difendere la giustizia in Ucraina. Lo Stato sotto accusa

epa06413712 Ukrainian activist holds a placard during their rally near of central police office in Kiev, Ukraine, 02 January 2018 as they demand a fair investigation of the Iryna Nozdrovska murder. The dead body of human rights activist Iryna Nozdrovska, 38, was found naked in a river outside Kyiv on January 1 after she had reportedly received death threats at hearings on her sister death case, which she assisted as a lawyer. Nozdrovska was reported to have regularly received death threats from friends and relatives of Dmytro Rossoshansky, who was convicted of causing the death of Nozdrovska`s sister, Svitlana Sapatanyska, 26, in September 2015 when he hit her while driving his car under the influence of drugs. Rossoshansky is a nephew of a judge who headed the Vyshgorod district court at that time. After two-year litigation in Obukhiv, Rossoshansky was sentenced to seven years in prison but expected amnesty on December 27, 2017, yet Nozdrovska`s efforts resulted in a ruling by Kyiv region`s court of appeals to return the case to the court of first instance and in the extension of the convict`s arrest for another 60 days as UNIAN news agency report EPA/INNA SOKOLOVSKA

Chi aveva combattuto per la giustizia e l’aveva ottenuta, ha pagato nell’Ucraina 2018 con la morte. I funerali dell’attivista e avvocato di 38 anni, Irina Nozdrovska, di cui Left ha già scritto, si sono svolti ieri nel sul villaggio natale, Demydiv, in Ucraina.

Irina è riuscita a vedere l’omicida di sua sorella Svetlana – investita nel settembre 2015 – dietro le sbarre, ma non vedrà l’arresto del suo assassino, che l’ha pugnalata e gettata da un ponte senza vestiti nel paesino a nord di Kiev, dove abitavano i suoi genitori. Il suo corpo tumefatto e pallido galleggiava nel fiume della capitale quando è stato ritrovato pochi giorni fa, il primo giorno del nuovo anno. Quando Dmytro Rossoshansky, nipote del giudice della corte Sergey Kurprienko, è stato arrestato, gli è stato dato il tempo di tornare sobrio per testimoniare, grazie a una tangente pagata alla polizia. La tangente è stata pagata da un uomo che lavorava per suo zio, il giudice della corte del distretto. Dmytro, che consumava abitualmente stupefacenti, era ubriaco alla guida quando ha investito Svetlana e invece di chiamare la polizia, davanti al suo corpo, aveva digitato il numero di suo zio.

Irina si era battuta anche per far cambiare la corte che lo avrebbe giudicato. «Vincerò questo caso a costo della mia vita» aveva detto, prima che la sentenza contro Dmytro fosse emessa il 27 dicembre 2017. Irina aveva vinto, l’omicida di sua sorella sarebbe rimasto dietro le sbarre, ma è stato il padre di Dmytro, Yuri, a toglierle la vittoria, la giustizia e la vita, almeno secondo i giudici che lo hanno arrestato come sospetto. Ora i due Rossoshansky sono nella stessa prigione per l’omicidio di due sorelle della famiglia Nozdrovska.

Irina, che è diventata un simbolo della lotta per la giustizia nel Paese, è nei titoli di tutti i media e televisioni dello Stato di Poroshenko che non riesce a controllare il sistema della giustizia del suo Paese, nonostante i 718 milioni di dollari di aiuti dati dall’Unione Europea per stabilire e organizzare una corte anti-corruzione, che nel Paese rimane dilagante. Secondo un recente sondaggio, solo lo 0,5 % della popolazione ucraina ha fiducia nei suoi giudici e nel sistema della giustizia.

La nuova corte anti corruzione avrebbe dovuto mettere fine alla “giustizia telefonica”, retaggio di quel mondo sovietico, in cui bastava la telefonata di un politico per uscire dal carcere senza pena. Al funerale di Irina, dove anche chi non la conosceva di persona ha partecipato, sua figlia ha detto: «mia madre era una combattente, e voleva che lo fossi anche io».

Bravi, inetti, avete perfino resuscitato Berlusconi

epa06389037 Former Italian prime minister and leader of 'Forza Italia' party Silvio Berlusconi arrives for an European People's Party (EPP) leaders meeting ahead of the European Council meeting in Brussels, Belgium, 14 December 2017. EU leaders gather to discuss the most compelling matters in terms of migration, defense foreign affairs, education, culture, social issues and 'Brexit' negotiations. EPA/JULIEN WARNAND

Se qualche anno fa qualcuno ci avesse raccontato al bar che un giorno sarebbe accaduto che il simbolo di un partito contente la dicitura “Berlusconi presidente” avrebbe fatto guadagnare voti ci saremmo scompisciati dal ridere fino a scioglierci per terra. Berlusconi? Davvero? Quello che inventava parentele presidenziali per giustificare una scappatella? No, dai davvero.

E invece il panorama politico attuale ripropone Berlusconi come rassicurante leader in uno scenario di mentecatti per quella vecchia storia del gigante in mezzo ai nani per cui basta solo un po’ di sbadataggine per salire i gradini del comando.

Rendere potabile uno che fu amico di Cosa nostra (è sentenza, ahimè, nonostante i servetti che ancora difendono Dell’Utri), che ha corrotto (o cercato di corrompere) chiunque si sia avvicinato ai suoi processi, che mantiene le testimoni chiavi dei suoi processi in corso, che ha ridicolizzato l’Italia nel mondo facendo il Trump prima ancora di Trump (anche lui con la vanteria del pulsante più grosso degli altri) e che è riuscito a rendersi incandidabile è uno dei capolavori del centrosinistra renziano che ha fatto rimpiangere la destra a forza di imitarla e è un capolavoro della destra salviniana e meloniana che si è subito rimessa a cuccia. Roba da non credere, la riabilitazione di Berlusconi.

Eppure lui è solo il brufolo, il fenomeno evidente e persistente, delle abbuffate di inettitudine e superficialità che hanno pervaso questi anni di promesse promesse male e mantenute peggio e di bullismo macho di quart’ordine rivenduto come autorevolezza.

Alla fine ti scappa di credere che forse davvero è meglio lui, che sappiamo bene di che pasta è fatto, con tutte le sue mirabolanti cazzate, rispetto ai promessi berluschini che potrebbero esagerare per amore di emulazione.

Di fondo rimane un dato politico certo: resuscitare Berlusconi è un capolavoro di cialtroneria.

Bene. Bravi. Bis.

Buon mercoledì.

La critica teatrale ritrova energia in rete

Come autore, devo molto alla critica teatrale in rete. Da quando mosse i primi passi al Premio scenario il nostro fortunatissimo L’uomo nel diluvio, nell’ormai lontano 2013, io e il mio socio Valerio (Malorni) abbiamo ricevuto una grandissima eco dalla rete. Forse l’ottanta per cento delle recensioni sono arrivate da lì e con esse un grosso interesse per il nostro lavoro, che è rimasto anche per lo spettacolo successivo.

Quella dei critici online è una realtà talmente concreta e strutturata, che in qualche maniera,  quando il lavoro viene fatto con passione, può già decretare la storicizzazione di un testo o di uno spettacolo. Di contro, come ironicamente faceva notare l’attore/autore Oscar De Summa: « una volta dovevi avere paura solo delle grandi città, in cui c’erano i critici importanti… oggi in qualunque provincia vai sei costretto a dare il massimo, perché potresti trovare un blogger che ti smonta in cinque minuti...». La questione è dunque più viva che mai e il capolavoro del 1977 di John Cassavetes, Opening Night/ La sera della prima, nel 2018 andrebbe forse ripensato sulla base di questa riflessione. Per capire meglio che cosa significhi oggi occuparsi di teatro in rete, e non morire di “Mi piace”, hanno condotto una riflessione sul tema due studiosi: Giulia Alonzo, giovane appassionata critica, e Oliviero Ponte di Pino, una lunga carriera nell’editoria, nel giornalismo e curatore della manifestazione milanese Bookcity.

Dal loro dialogo – e dalle loro discussioni – è nato Dioniso e la nuvola. L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici pubblicato da FrancoAngeli.

Venerdì 19 gennaio gli autori scenderanno a Roma per presentare il loro volume come evento di riapertura di Blue Desk (www.bluedesk.it). Dalle 18,30.

A parlarne con loro ci saranno tre ospiti che proveranno ad intrecciare punti vista paralleli e convergenti: il critico teatrale Sergio Lo Gatto, il regista e autore  Jacopo Gassman e lo scrittore Paolo Di Paolo.

In attesa di incontrarli dal vivo, abbiamo provato a farci dare un assaggio della loro ricerca:

Giulia Alonzo, come è nato questo libro?

Dalla mia tesi di laurea, dedicata alla critica teatrale online. Forse non si è mai scritto tanto di teatro come oggi: la rete offre una tribuna straordinariamente democratica. Però alla fine della ricerca restavano per me tante questioni irrisolte. Qual è la preparazione necessaria a un critico? Da dove viene la sua autorevolezza, se “uno vale uno”? E come può essere sostenibile, se in rete è tutto gratis? Se i critici vengono pagati da teatri e festival, emergono subito i conflitti di interesse…

Oliviero Ponte di Pino, in questo scenario quale può essere il ruolo della critica?

Siamo partiti dal teatro per una riflessione di carattere generale sulla mediazione critica, ovvero l’attività che mette in contatto i creatori con il loro pubblico. Nell’apparente democrazia della rete, contano solo i numeri: i contatti, e le visualizzazioni, i “mi piace”. Gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social conoscono i nostri gusti meglio di noi, e ci inondano di consigli per gli acquisti. La critica invece costruisce scale di valori. Non calcola ma giudica. Non offre la verità, ma pone domande, inizia a dialogare con le opere e con gli autori. In  questo percorso la rete offre una opportunità straordinaria di discussione e di incontro.

E la critica del futuro?

Non saranno i consigli degli acquisiti. Assistenti digitali come Siri o Alexia sono molto più bravi di noi, come sanno quelli di Amazon: con le loro statistiche decidono quello che ci piace e ce lo fanno comperare. La critica del futuro dovrà suscitare curiosità, contagiare con la sorpresa. Dovrà emancipare l’opera dal “presente continuo” in cui ci immerge la rete, restituendo il contesto in cui è nata. Non dovrà fare l’ufficio marketing di un prodotto, ma sarà testimone di un processo creativo e di un’esperienza estetica. Dovrà lottare contro le false verità, per trovare punti di vista ogni volta diversi.

Per chi fosse interessato, l’incontro con loro e con i loro ospiti sarà venerdì 19, ore 18.30, presso Blue Desk (Roma, via Orazio Coclite, 5).

In India, l’omosessualità non sarà più un reato. Storico annuncio della Corte suprema

epa06352241 Participants of the Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender initiative (LGBT) walk in a pride march in Bangalore, India, 26 November 2017. Hundreds of members of sexual minorities and their supporters waved flags, beat drums and danced to local tunes as they took out the Bengaluru Namma Pride March on the busiest streets in the city and called to end violence and oppression based on gender identity and sexual orientation and to end gender decriminalization. EPA/JAG NV

Il reato di omosessualità in India sarà depenalizzato. Confermato con un pronunciamento dell’11 dicembre 2013 dopo la sentenza del tribunale di Nuova Delhi del 2009 che aboliva l’articolo 377 del codice penale è ora messo in discussione dalla Corte suprema: «La nostra precedente ordinanza deve essere riconsiderata» ha fato sapere tramite una nota. Reato sanzionabile con il pagamento di una multa e con la reclusione, il “crimine” di omosessualità è in vigore in India dal 1860, mutuato dai colonizzatori inglesi. Nel 2009 la sentenza del tribunale della capitale parlava chiaro: «Il sesso in luogo privato tra due adulti consenzienti non costituisce reato». L’articolo 377 del codice penale indiano era stato considerato anticostituzionale perché viola i diritti fondamentali previsti dagli articoli 14 e 27: «Lo Stato non deve negare a nessuno l’uguaglianza di fronte alla legge o il medesimo rispetto delle leggi all’interno del territorio dell’India».

«Chiunque abbia volontariamente relazioni carnali contro l’ordine naturale con qualsiasi uomo, donna, o animale sarà punito», si legge nell’articolo 377 del codice panale indiano. Nel 2013 il giudice G.S. Singhvi, nel suo ultimo giorno di incarico prima del pensionamento, aveva cassato la sentenza del 2009, dichiarando che spetta al parlamento legiferare in materia. «Verdetto inatteso, giornata nera per la comunità gay», era stato il commento della comunità Lgbt indiana. Pronunciamento, quest’ultimo, arrivato in un momento in cui il governo si era dichiarato favorevole a legalizzare l’omosessualità perché il Paese, prima del dominio coloniale inglese era «molto più tollerante verso relazioni omosessuali». Rappresentanti delle religioni musulmana, cristiana e indù si erano schierati contro. Con loro anche un famoso guru, Baba Ramdev.

“Allah loves equality”: a novembre scorso c’è stato il decimo corteo Lgbt in India, a cui hanno partecipato centinaia di attivisti. Pochi, se si pensa che solo New Delhi conta più di 15 milioni di abitanti. Anche se qualcuno riesce a manifestare solidarietà nei confronti degli omosessuali, la cronaca non smette di segnalare episodi di violenze. La legge incoraggia le forze di polizia a maltrattare i gay: le lesbiche, in una società patriarcale come quella indiana, sono ostracizzate, messe ai margini della società più di quanto si faccia con gli uomini. Sono obbligate dalla famiglia a vivere in segreto la propria sessualità, a reprimere i propri sentimenti. Costrette a sposarsi. Agli uomini, invece, si fa di tutto per orientarli verso il sesso femminile: alcuni medici consigliano lo stupro di gruppo. Come è successo a un ragazzo di 20 anni il 23 gennaio scorso: i genitori, dopo aver scoperto la sua relazione con un coetaneo, hanno fatto torturare il figlio. Essendo fuorilegge, non godono neanche dell’accesso alle strutture mediche. Per prevenire l’Aids, ad esempio.

L’India è uno dei 73 Paesi nel mondo in cui l’omosessualità è un reato: in Asia, insieme a lei, il Bangladesh, il Myanmar, l’Indonesia e la Malesia. Con loro, alcuni Paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Solo la Guyana in America. In questi Stati le pene possono andare da multe di natura economica, ad anni di reclusione. Ci sono Stati in cui il carcere e l’ergastolo non sono sufficienti. In 11 Paesi l’omosessualità è punibile con la pena di morte: Arabia Saudita, Pakistan, Afghanistan, Emirati Arabi, Somali, Sudan, Iran, Nigeria, Mauritania e Yemen.

Israele vs Palestina, prove tecniche di censura su Facebook

La magistratura di Tel Aviv potrà ordinare ai social network di cancellare i contenuti che ritiene incitino “alla violenza”. È difatti passata alla Knesset la prima approvazione di una legge relativa alla possibilità di imporre ai social network di ripulire le pagine che riportano “incitamenti all’odio”, e che “rappresentano un pericolo per la sicurezza di individui, del pubblico, del Paese”. Ora la norma dovrà fare altri due passaggi in Parlamento e salvo imprevisti sarà approvata. Già soprannominata “legge Facebook”, è stata voluta da due ministri dal pugno di ferro: Ayelet Shaked, ministro della Giustizia, e Gilad Erdan, titolare della Sicurezza. Sebbene l’opinione pubblica israeliana sia sempre stata molto sensibile al tema della sicurezza, non tutti hanno accolto favorevolmente il provvedimento. Molte organizzazioni non governative e numerosi attivisti per i diritti umani vi hanno intravisto una ratio censoria e contro la libertà di espressione che poco ha a che fare con i rischi del terrorismo.

Contro la legge Facebook è entrato a piedi uniti, dagli Usa, anche il premio Pulizer Glenn Greenwald. «Facebook cancella gli account su indicazione del governo israeliano e nordamericano» ha scritto su Intercept. «Il 96% dei palestinesi usa Facebook per aggiornarsi» e seguire quello che sta accadendo dalla West Bank a Gaza. Quindi, scrive Greenwald, «questo vuol dire che gli israeliani vogliono bloccare una forma di comunicazione chiave nei forum palestinesi».

Perplessità sono state manifestate anche altrove. La federazione dei giornalisti arabi, la FAJ, si è appena fatta sentire dal Cairo: gli israeliani possono scrivere indisturbati quello che vogliono, mentre gli account dei palestinesi vengono chiusi «senza una ragione convincente», è «una palese violazione della libertà di opinione e di espressione». Tra i post già cancellati, la Faj ha rilevato che non c’era alcun «incitamento all’odio, ma notizie, opinioni che condannavano l’occupazione israeliana.

«Facebook collabora con i governi più potenti del mondo, quello israeliano e quello americano, per determinare chi può parlare, chi ne ha il diritto e chi no. Mi risulta difficile immaginare chi altro possa minacciare di più, in questo modo, la libertà su internet» scrive ancora Greenwald. «L’idea che i manager della Silicon Valley e gli ufficiali del governo americano censurino gruppi marginali è assurda, in ogni caso vediamo che quando tenti di censurare un movimento, favorisci il potere dominante. Ecco perché Facebook blocca i palestinesi, non gli israeliani: i palestinesi non hanno potere, gli israeliani si. Più permettiamo a queste entità di censurare, più mettiamo a rischio di marginalizzazione le minoranze che finiranno soppresse».

Confedilizia Firenze recluta cittadini per eseguire gli sfratti

''Con 700 euro al mese non si paga l'affitto - Sunia'' si legge su un cartello esposto al corteo indetto dalla Cgil per lo sciopero generale, Bologna, 6 maggio 2011. ANSA / CARLO PERAZZOLO - BOLZONI

Confedilizia Firenze cerca squadre di supporto per gli sfratti. In un annuncio apparso nel mensile dell’associazione dei proprietari si legge l’inconsueta richiesta di formare «gruppi di sostegno per i locatori che si trovano in difficoltà» che «dovranno recarsi sull’appartamento oggetto di sfratto nel giorno e nell’ora fissata per liberare l’immobile perché, come si legge nell’annuncio, «troppo spesso gli sfratti vengono rimandati con motivazioni futili grazie anche alla presenza di “sostenitori” del conduttore moroso».

La vicenda è stata segnalata dal segretario del Sunia (Sindacato Inquilini Cgil) di Firenze, Laura Grandi, che si è dichiarata sorpresa e amareggiata dalla «richiesta grave, e dai toni ancora più gravi utilizzati da un’organizzazione che, almeno a Firenze, è seria e responsabile e con la quale abbiamo sempre collaborato nel rispetto reciproco».

L’annuncio sui generis è stato pubblicato sul mensile cartaceo della Confedilizia nazionale, del mese di dicembre appena trascorso, e invita tutte le sedi di Confedilizia a seguire l’esempio fiorentino, “Un esempio da imitare (dove necessario)”, e chiarisce anche quali dovrebbero essere i compiti della “squadra di supporto sfratti”: «La nostra squadra avrà il compito di dare tutto il supporto morale al locatore e potrà far sentire la sua voce da troppo tempo dimenticata dallo Stato e dalle Istituzioni».

«Alle esecuzioni degli sfratti il Sunia non ha mai fatto “squadracce”, ma abbiamo sempre cercato una mediazione per le persone in difficoltà. E sempre da soli -commenta ancora Grandi- senza supporter inquietanti. Spero che si tratti di uno scivolone, con una pronta e doverosa retromarcia da parte dell’associazione dei locatori, che so essere corretta e seria».

Una smentita che molto probabilmente non arriverà. L’avvocato Nino Scripelliti della Confedilizia Firenze infatti parla di “equivoco” causato da un annuncio che risalirebbe addirittura a dieci anni prima: «Quell’annuncio è datato nel tempo e riguarda un periodo ormai lontano».
Secondo Scripelliti, inoltre, nessuna squadra si è mai formata in concreto e l’annuncio in questione è rimasto di fatto lettera morta. Anche Grandi conferma la mancata attuazione delle squadre e, pur capendo le difficoltà degli stessi proprietari costretti alle volte a «farsi carico di responsabilità sociali che non sono di loro competenza», chiede una decisa marcia indietro da parte della Confedilizia su quella che definisce «una pessima uscita che alimenta una sorta di guerra di posizione tra proprietari e inquilini contrapposti».

Scripelliti sembra però di altro avviso: «Meglio chiudere qui la polemica. Per fortuna quel tipo di contenziosi non esiste più e la situazione è molto diversa rispetto a dieci anni fa. Al giorno d’oggi gli sfratti sono diminuiti».
Eppure, secondo i dati del Sunia, a Firenze esiste una drammatica emergenza abitativa che non sembra rispecchiare le parole confortanti della Confedilizia: «Sono centinaia gli sfratti mensili con la forza pubblica e centinaia le famiglie che ogni mese non riescono ad avere una soluzione abitativa, con la capacità di risposta del Comune di Firenze molto bassa rispetto alla grande richiesta di un alloggio pubblico- commenta Grandi- la media cittadina è infatti di 130 sgomberi con forza pubblica calendarizzati ogni mese».

«È giunto il momento di fare ognuno la propria parte, usando i percorsi legali e democratici previsti per le esecuzioni degli sfratti – conclude infine Grandi – evitando azioni che rimandano a pratiche pericolose».

Non essere i più forti ma rovesciare i rapporti di forza

No, mi spiace, le rivoluzioni non consistono nel trovare la chiave per interpretare il ruolo dell’avversario politico e non consistono nemmeno nel disinnescare i prepotenti lasciando intatte le prepotenze, semplicemente sguarnite per il tempo che serve a scovare nuovi interpreti.

Se la sinistra vuole fare la sinistra, sul serio, deve avere il coraggio di rovesciare i rapporti di forza piuttosto che incaponirsi contro questo o quel “forte” che è solo il maggiordomo di turno di un sistema che assiste quasi divertito al susseguirsi dei governi, ben sicuro di trovare sempre le stesse sponde qualsiasi siano le parti al comando.

Ci sarebbe da chiedersi, ad esempio, perché siano diventate scandalose le proposte di una scuola ancora più gratuita, ancora più a lungo degli 8 anni di scuola dell’obbligo stabiliti dalla Costituzione, nel Paese che negli ultimi anni ha cancellato la tassa sulla prima casa (a tutti, indistintamente), poi quella sugli yacht, poi ha regalato 20 miliardi di sconti fiscali alle aziende con il Jobs Act (riuscendo a peggiorare le condizioni dei lavoratori) e infine ha speso 9 miliardi per un bonus (quello degli 80 euro) più simile alla campagna punti di un supermercato piuttosto che di un Paese in cui dovrebbe vigere la progressività fiscale.

Ci sarebbe da capire, per esempio, se ci sarà un leader che davvero riesca a raccontare le crisi delle nostre aziende (meglio: le crisi delle famiglie degli operai schiacciati dagli interessi capitalistici e finanziari delle aziende) declinandole sullo sfascio domestico, lo sbriciolamento personale e la sconfitta delle persone coinvolte. Ci sarebbe da augurarsi, ma davvero, qualcuno che mostri sempre le persone che stanno dietro ai numeri, quelle che subiscono un Pil della dignità sempre in decrescita nonostante l’alzarsi del fatturato  oppure quelle che diventano nel poco tempo libero infermieri emotivamente sgretolati di qualche loro genitore morituro dietro al semplice taglio percentuale della spesa per la sanità.

Non è solo una questione di metodo, è questione di sensibilità politica. Di buonismo, verrebbe da scrivere. E quello non si può simulare a lungo.

Buon martedì.

Trump il fabbricatore di notizie. I media Usa alla prova con il presidente

epa06417090 US President Donald J. Trump speaks during a meeting in the Roosevelt Room of the White House, Washington, DC, USA, 04 January 2018. President Trump met with Republican members of the Senate to discuss immigration. EPA/ALEX WONG / POOL (AFP OUT)

Fire and Fury. Le parole con cui minacciò Kim Jong-un in Nord Corea dopo un test missilistico. Fuoco e Furia: adesso non più fuori, ma dentro la Casa Bianca, per il libro che è uscito in anticipo e sta sconvolgendo la presidenza americana. Mentre l’ex stratega della casa Bianca Steve Bannon fa marcia indietro a proposito delle sue dichiarazioni apparse nel libro in questione, il polverone sollevato sul presidente Trump non cessa. Per avere una copia dell’ultima opera di Michael Wolff la gente fa la fila davanti ai negozi in America anche fino a notte fonda. Gli avvocati del presidente hanno tentato di bloccare la pubblicazione, ma non ci sono riusciti. Dunque Trump è intervenuto pubblicamente dicendo di non aver mai parlato con il giornalista e che il libro è full of lies, pieno di bugie.

Un uomo che insulta tutti, che è capace di tutto e non ascolta nessuno: “un fottuto idiota”, come lo ha definito Rupert Murdoch e come riporta Wolff. Trump è come «un bambino, che ha bisogno di gratificazione immediata, deve essere satisfied in the moment, soddisfatto al momento, ha bisogno di attenzione costante». Trump era sconvolto, – quanto il resto del mondo, ma soprattutto come sua moglie in lacrime e non di gioia -, quando si è accorto di aver veramente vinto le elezioni americane nel 2016. E sì, continua ancora Wolff: l’incontro tra il figlio di Trump, Donald Junior, con un gruppo di russi durante la campagna elettorale, è davvero avvenuto nella Trump Tower.

Media corrotti, bottoni rossi, cospirazioni e minacce nucleari: dall’Iran alla Corea del Nord. Nessun presidente americano che lo ha preceduto gli assomiglia. E questi sono solo i primi giorni del Potus – President of The United States – nel 2018. «Il nuovo anno è cominciato con una dozzina di tweet contro i suoi nemici e complimenti per se stesso e i suoi amici» scrive il New York Times, che ha calcolato che nel suo primo giorno di lavoro a Washington il presidente ha spedito 17 tweet, parlando di Kim Jong e dei media più corrotti e disonesti di sempre.

Nel 2017 il presidente ha promosso messaggi di neonazisti e neofascisti britannici dal suo account, ha minacciato il mondo con la catastrofe nucleare solo con il suo pollice sul telefono. Cosa farà quest’anno? «Delegittima ogni forma e fonte di informazione che lo critica, è immunizzato da ogni storia che lo riguarda», dice un esperto che gli dedica la maggior parte del suo tempo. Ma soprattutto il presidente è questo: «una sfida al giornalismo americano, che non sono sicuro che abbia capito come gestirlo» continua Charles Sykes, autore del libro How the right lost his mind, come la destra ha perso la testa.

Trump è un fabbricatore seriale di slogan populisti. L’Iran. La disonesta Hillary. Il muro, i migranti, il Messico. Gerusalemme. Il suo messaggio principale è: tutti mentono, tranne me. È un manipolatore e un fabbricatore seriale di slogan. I giornalisti americani non riescono più a seguirlo: «mente così spesso, che non riusciamo a stargli dietro. Ma la notizia è questa: cosa sta facendo agli americani? Non solo mente, ma è sconnesso dalla realtà. Passa la maggior parte del suo tempo a pensare a teorie cospirazioniste, quello che sconvolge è che i repubblicani non ci fanno caso».

Tre bugie al giorno è la cifra calcolata dai think thank che hanno analizzato le dichiarazioni e le conferenze stampa di Trump. Il presidente ha creato una struttura parallela di notizie, di cui lui è la fonte assoluta. «Alcuni presidenti sono stati disonesti su alcune cose, come Bill Clinton per esempio. Ma un presidente come lui, che mente su tutto, che ti tiene costantemente distratto, non è mai esistito». Gwenda Blair, autrice di Donald Trump, il candidato, dice che la sua è «performance, non politica. Si vende da quando la sua carriera è cominciata. Sa compiere l’inaspettato, per distrarre costantemente, per avere sempre sugli occhi su di sé, è questo il suo potere».

 

Orfani di femminicidio, ecco come lo Stato si occuperà di loro

Eredi di un padre assassino e di una madre assassinata, sono orfani due volte. E sono orfani speciali, rimasti soli con modalità che lasciano il segno. Se ne contano oltre 1.600 in Italia. Spettatori silenti di un crimine tanto efferato, sono la parte dimenticata che ha pagato il prezzo più alto. Vittime collaterali alle quali, oggi, lo Stato restituisce una presenza, garantendone diritti finora negati. Perché dal 21 dicembre scorso, con la licenza definitiva del Senato – 165 favorevoli, 5 contrari e un astenuto – sono finalmente tutelati dalla legge in favore degli orfani per crimini domestici. Nata dal lavoro di Anna Maria Busia, avvocato e consigliera regionale della Sardegna, la riforma è frutto di una battaglia di sensibilizzazione intrapresa seguendo un caso concreto, quello di Vanessa Mele, la cui mamma è stata uccisa, a Nuoro nel dicembre del 1998, per mano del marito.

«Ho pensato e scritto materialmente le modifiche al codice civile e penale sul tema, osservando l’insorgere di una serie di problematiche: per il mantenimento di Vanessa (che all’epoca dei fatti, aveva sei anni), per il suo affido, per il risarcimento dei danni», racconta a Left, Busia. Che continua: «In sedici anni abbiamo intrapreso una decina di procedimenti penali per ottenere queste cose. Perché, prima che io redigessi queste norme, nel nostro sistema penale non era previsto l’automatismo dell’esclusione dall’asse ereditario». Evidenti storture, burocrazia lenta e anni passati senza risposte fanno scoprire ad Anna Maria Busia «una costante di questi uxoricidi: nessuno vuole provvedere al mantenimento dei figli rimasti. Perché, è noto a tutti, ormai, che raptus non è, alla base c’è un piano distruttivo e quindi una volontà che ha a oggetto anche i beni famigliari».

D’ora in poi, però, annullare con la più cieca violenza il nucleo di affetti e di sicurezze avrà delle conseguenze certe e le pretese dei padri uxoricidi saranno fermate senza l’intervento del giudice. Dall’approvazione di questa legge, infatti, il pubblico ministero procederà automaticamente al sequestro conservativo dei beni per evitare, nel frattempo, il depauperamento del patrimonio, e alla loro confisca a condanna avvenuta. Saranno garantiti un automatismo anche dell’indegnità a succedere e la sospensione immediata, non corrisposta nemmeno in via provvisoria, della pensione di reversibilità. Sarà riconosciuto subito il 50 per cento del presumibile danno, accertato successivamente. Ai figli vittime di crimini domestici verrà assicurato il gratuito patrocinio per i procedimenti penali e civili derivanti dal reato subìto, potranno cambiare il cognome ed essere affidati, privilegiando la continuità delle relazioni affettive consolidatesi tra il minore e i parenti fino al terzo grado, snellendo tutte le forme, istituti farraginosi, di affido e di adozione.

Siccome «siamo di fronte ad una situazione eccezionale – spiega Annamaria Busia – perché questi minori si portano dentro una violenza estrema e crescono con un’idea di rapporto che va trattata adeguatamente», la legge prevede, pure, un’assistenza gratuita medico-psicologica, a carico del Sistema sanitario nazionale, per tutto il tempo necessario al recupero. Così come «devono essere supportati i genitori affidatari, carichi anche loro di dolore, per poter sostenere i bambini feriti da quella inaudita violenza».

E, oltre ai risultati giuridici raggiunti, questa legge rompe quel solidissimo tabù culturale che è la negazione dell’esistenza della violenza domestica. «Sono convinta – conclude Anna Maria Busia – che questa riforma porti due cose: la prima, il cambiamento dell’impostazione del nostro sistema penale che è tutto orientato alla punizione del reo senza considerare le vittime mentre questo complesso di norme è finalizzato proprio a occuparsi di loro; poi, un’efficacia deterrente perché a chi ha in mente di pianificare, premeditandolo, questo genere di omicidio si presenta un ostacolo in più consistente nel vedere che, nonostante il suo disegno criminale, nulla cambierebbe».

La battaglia di Vanessa è vinta: dove è servita una causa legale per diseredare l’assassino di sua madre, adesso, agli altri orfani speciali, ci pensa la legge.