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La Befana fascista e la memoria che desiste piuttosto che resistere

«Questa mattina festa di CasaPound in piazza a Roma, quartiere Magliana, per festeggiare l’Epifania. Perché il popolo italiano deve tornare ad essere una comunità organica di destino»: il messaggio campeggia in testa alla pagina Facebook di CasaPound Italia (che non linko per una questione di igiene intellettuale) insieme alle foto di bambini sorridenti mentre scartano i regali che i neofascisti hanno deciso di distribuire ieri a Roma. Ogni pacco un logo del partito: così la felicità di scartare un gioco diventa subito testimonial inconsapevole di politica turpe.

Qualcuno si è scandalizzato (sempre troppo pochi, sempre troppo poco) mentre altri hanno cercato di minimizzare dicendo che non c’è nulla di male nel fare propaganda distribuendo regali. Dicono che non ci sia nulla di vergognoso nel rendere felici i bambini.

Il problema è che il fascismo (così come altri mali storici di questo Paese) trova terreno fertile quando scova l’occasione di infilarsi nelle dimenticanze di un Paese che studia troppo poco, che ricorda troppo poco e che fiero della propria ignoranza minimizza eventi che non riesce a comprendere in pieno.

Allora ecco qui il Giornale Luce B0399 di gennaio, 1934. Guardatelo bene. Poi, da soli, domandatevi se eravate a conoscenza di una pratica che ha un preciso significato politico, riproposta oggi. Rispondetevi da soli, non è questo il punto. Ma non dimentichiamo che il “male”, spesso, ha un’ottima memoria che gli permette di riemergere quando la memoria degli altri invece è fiacca. Quando si desiste, al posto di resistere.

Marica Branchesi, la scienziata che ha messo d’accordo fisici e astronomi

L'Aquila - Marica Branchesi (Gssi)

Marica Branchesi, 40 anni, da Urbino, sposata con due bambini, è tra i dieci scienziati più influenti del 2017, secondo una classifica proposta dalla rivista Nature. E il motivo non è perché è stata un’attenta “early warner”: capace, al primo segnale di cattura di un’onda gravitazionale da parte della collaborazione Ligo/Virgo, il 16 agosto 2017, di far puntare i più diversi tipi di telescopi da parte di 70 diversi team internazionali verso la galassia lenticolare Ngc 4993, a 130 milioni di anni luce da noi, per seguire in diretta due stelle a neutroni si stavano scontrando e fondendo. In quel frangente Marica Branchesi ha dimostrato tutta la sua bravura tecnica. È stata, appunto, una precisa ed efficiente “early warner”. Ma Nature l’ha premiata per ben altro. Perché l’italiana è una straordinaria “merger maker”: una signora capace di realizzare fusioni.

E il riferimento non è (solo) alle due stelle a neutroni che si sono per l’appunto fuse lì nella galassia Ngc 4993 – evento mai osservato prima in diretta dalla comunità scientifica del pianeta Terra – ma a un altro e più profondo capolavoro: aver dato un contributo decisivo a fondere due comunità scientifiche. Come sostiene la sua amica Gabriela González, fisico docente alla Louisiana state university di Baton Rouge, negli Stati Uniti, e in passato portavoce della collaborazione Virgo che detiene l’interferometro per onde gravitazionali di Cascina, nei pressi di Pisa: «Marica è stata la comunicatrice chiave tra astronomi e fisici».

E, in effetti, nel ricostruirne il ritratto Davide Castelvecchi, redattore di Nature, sottolinea…

L’articolo di Pietro Greco prosegue su Left in edicola


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Cartoline dall’inferno yemenita

FILE - In this Wednesday, March 23, 2016 file photo, boys look through a hole made by a Saudi-led airstrike on a bridge in Sanaa, Yemen. Egypt's reluctance to send ground troops to Yemen to fight on the side of a Saudi-led coalition against Shiite rebels has significantly added to Cairo's differences with the Saudis. That Egypt maintains channels of communications with Yemen's rebels, Iran, Iraq's Shiite-led government and Lebanon's Iranian-backed Hezbollah _ all of whom are at sharp odds with Saudi Arabia _ has contributed to the tension with the Saudis and highlighted Cairo's insistence on pursuing an independent foreign policy. (AP Photo/Hani Mohammed, File)

La prudenza non è mai troppa ma Osama al-Fatkih e gli altri dieci attivisti dell’organizzazione Mwatana prima di chiudere la porta del loro ufficio a Sana’a, sanno bene quali sono i rischi per loro: irruzione delle milizie Houti, confisca di hard disk e materiali, rapimento, arresto arbitrario e possibile uccisione. A questi rischi più vicini e immediati, se ne aggiungono altri che non sono inferiori: morte per un bombardamento sui luoghi di rilevazione degli attacchi sauditi, sia a Sana’a, che nelle altre località del Nord dello Yemen; detenzione ai check point, incidenti non accidentali, rapimenti da parte di milizie salafite o qaediste nel Sud.

Per loro e per i 26 attivisti dell’organizzazione sul campo in tutte le altre città dello Yemen, si tratta di una scelta radicale, ed è questa: rimettere insieme pezzi di verità e raccontare la cronaca della guerra, prima che il tempo insabbi la Storia con le sue prove schiaccianti. Gli attivisti di Mwatana sono tra coloro senza i quali l’inchiesta del New York Times sulle bombe di fabbricazione italo-tedesca, lanciate sul Nord dello Yemen dalla coalizione a guida saudita, non sarebbe mai stata portata a termine. Senza la rilevazione del codice A447 sulle bombe sganciate nelle località yemenite, non si sarebbe giunti a una attribuzione precisa. E quel codice non può essere fotografato o rilevato se non da attivisti sul posto. Così come i certificati di nascita o le carte di identità delle vittime.

«Una delle problematiche dell’attivismo, in Yemen, al momento, è il problema all’accesso a informazioni non polarizzate, non schierate – spiega Osama -. La ragione del nostro successo e, credo, anche del fatto che ancora non ci abbiano fatto fuori, è che diamo fastidio a tutti e, allo stesso tempo, siamo utili a tutti. Entrambe le parti in guerra hanno interesse affinché si conoscano le violazioni sui diritti umani degli opponenti. Certo, non nascondo che per noi è come vivere in un senso di precarietà e di pericolo costanti. Cambiamo sede e ufficio spesso, lavoriamo su un ambiente informatico criptato, facciamo sistematicamente sparire faldoni e hard disk. Lavorare in Yemen è come camminare su un tappeto di mine. È faticosissimo, ma è meglio che fare gli struzzi». Il team di Mwatana ha infatti randellato le parti in guerra senza fare sconti a nessuno. Il lavoro…

Il reportage di Laura Silvia Battaglia prosegue su Left in edicola


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Giorgio de Finis: L’artista e il pubblico vivono insieme il museo

Macro, museo d’arte contemporanea di Roma photo Luigi Filetici

Il Macro asilo, progetto di Giorgio de Finis, nuovo direttore del Macro, ospiterà centinaia di artisti. E il pubblico potrà interloquire con loro: al «pittore si chiederà di parlare» per rendere il museo “vivo”, ecco l’idea. Domande e commenti del pubblico e risposte dell’artista. È questa la filosofia che c’è dietro il progetto in partenza a ottobre, per «stare nel museo come si sta nella piazza», un luogo in cui il pubblico può vedere la nascita dell’opera, può comunicare con l’artista, può diventare parte del museo. Nessuna mostra, una sola installazione permanente. Nel Macro diretto da De Finis c’è spazio per tutti gli artisti che «hanno qualcosa da dire».

In cosa consiste il progetto Macro asilo?

Si tratta di un progetto sperimentale: è un museo che abbiamo chiamato “vivo”, “reale”, un museo contaminato dalla vita, più leggero, più attraversabile, dove le opere si fanno e non si guardano solamente. Il Macro esporrà una collezione permanente che proverò a realizzare come installazione unica, dove tutte le opere saranno una vicina all’altra per far capire che in questo spazio gli artisti sono invitati a stare insieme e a collaborare. Con loro proveremo a capire cosa sta succedendo a Roma e nel mondo. Durante la settimana ci concentreremo lavorando con gli artisti del territorio, che saranno lo zoccolo duro di questo progetto e che spero “abiteranno” il museo in maniera, non posso dire permanente, ma quasi. Il week-end invece ospiteremo i grandi nomi dell’arte internazionale e della riflessione teorica. Il mio invito è non solo a dipingere, a fare, a parlare, a proporre progetti, ma a stare nel museo come si sta nella piazza, incontrando le persone, ascoltando quello che hanno da dire.

Da dove nasce questa sperimentazione?

Quello che propongo lo imparo sul campo prendendo suggerimenti, indicazioni. Acquisisco tutto ciò dalla frequentazione con gli artisti, comprendendo la grande solitudine in cui operano, perché viviamo nell’epoca dell’arte espansa, con produzioni sempre più singolari e staccate dalla società. Ogni artista assomiglia un po’ al…

L’intervista di Giorgio Saracino a Giorgio de Finis prosegue Left in edicola


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Le carte che inchiodano il governo

June 15, 2017 - Rome, Rome, Italy - Europe, Italy, Rome, june 14, 2017: Rome, migrants in the street after the eviction of Via di Vannina..In the east of the capital, two old industrial warehouses were cleared, where some 500 migrants lived, including some families with children. Now they live camped in the adjacent streets. (Credit Image: © Danilo Balducci via ZUMA Wire)

Dal confine tra la Libia e i Paesi a sud – come il Niger – fino agli hotspot italiani, dove vengono trattenute le persone strappate alle onde del mare, destinate sempre più spesso a procedure sommarie di respingimento: lungo la rotta del Mediterraneo centrale i migranti subiscono violazioni dei diritti umani di ogni tipo. E di questo si è parlato a Palermo, nell’ultima sessione del Tribunale permanente dei popoli (Tpp). Dati e testimonianze alla mano. Il Tpp non è un’assise “tradizionale”: si tratta di un tribunale di opinione, fondato nel 1979 dal socialista Lelio Basso e composto da giuristi e politologi di livello internazionale, il cui scopo è documentare e denunciare le violazioni massicce dei diritti dei popoli. Ma la “sentenza” viene emessa sulla base di solidi elementi, tutt’altro che astratti.

I lavori di questa sessione si sono concentrati in particolare sugli effetti del Memorandum d’intesa stipulato il 2 febbraio 2017 con le autorità del Gna (il governo di “riconciliazione nazionale” di Tripoli) sostenuto dalle Nazioni unite. Effetti che si sono verificati sia a terra, con l’aumento del blocco delle partenze da parte di alcune di quelle stesse milizie (come a Sabratha) che in passato avevano largamente profittato del traffico di migranti, che a mare, con il finanziamento, l’assistenza e le forniture alla Guardia costiera libica, collegata con il governo di al-Serraj a Tripoli, ma ancora priva di una effettiva capacità di intervenire in attività Sar (di ricerca e soccorso, ndr) in acque internazionali.

Alla vigilia dell’inizio dei lavori del Tribunale, giungeva la notizia da parte dell’Imo…

L’articolo di Fulvio Vassallo Paleologo prosegue su Left in edicola


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Si dice anarco capitalismo ma è solo Far west

epa04854446 Dan Schulman (L), CEO of PayPal, takes a selfie after PayPal's Initial Public Offering (IPO) to list on the Nasdaq, in New York, New York, USA, 20 July 2015. EPA/ANDREW GOMBERT

Negli stessi anni Sessanta alla fine dei quali lo slogan «Vietato vietare» incrociava la sua fortuna, ma in ambienti del tutto diversi da quelli “sessantottini”, si consolidava negli Usa una teoria economica tra le meno citate nel dibattito pubblico mainstream. Una dottrina che auspica l’abolizione dello Stato e manomette il concetto di “libertà” fino a farlo coincidere con l’assoluta libertà capitalistica di fare profitti. Un’idea stravagante che possiamo registrare e poi gettare senza problemi nel dimenticatoio dei manuali? Meglio di no, visto che tale teoria irrora le arterie delle tecnologie che usiamo ogni giorno, da Facebook a Paypal, fino ai Bitcoin.

Si chiama “anarco capitalismo”, e si inserisce nel filone del “libertarianesimo”, un ventaglio di teorizzazioni per le quali l’essere umano deve essere assolutamente libero di poter disporre di sé e degli oggetti di sua proprietà, senza autorità superiori (dogmi del Capitale esclusi), in un contesto sfrenato di libero mercato. Tra i padri dell’anarco capitalismo, figura Murray N. Rothbard: classe 1926, economista, discepolo di Ludwig von Mises, ha rielaborato le idee che costituivano la cosiddetta “scuola austriaca”, restando però fedele ad una antropologia dell’uomo inteso come homo oeconomicus e ad un feroce odio anti-socialista.

Pur presenziando nella radice del termine che lo definisce, l’anarco capitalismo ha ben poco a che fare con l’anarchia, perlomeno con quella di matrice europea, alla cui base insiste un’imprescindibile critica di proprietà e modi di produzione capitalistici, intesi come dispositivi di dominio sull’essere umano. Mentre per Ruthbard «capitalismo è la piena espressione di anarchismo e…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Luciana Castellina: «I militari italiani in Niger gestiti da un dittatore»

TOPSHOT - A migrant holds his head as he stands in a packed room at the Tariq Al-Matar detention centre on the outskirts of the Libyan capital Tripoli on November 27, 2017. / AFP PHOTO / TAHA JAWASHI (Photo credit should read TAHA JAWASHI/AFP/Getty Images)

Luciana Castellina è tornata da Palermo ancora più determinata a continuare la strada del Tribunale permanente dei popoli. Fino a portare direttamente in Africa quella singolare corte di giustizia d’opinione inventata da Bertrand Russell e poi trasformata in organismo permanente da Lelio Basso. «Ci tengo molto a preparare una nuova sessione in uno dei Paesi di origine dell’immigrazione, perché, mentre si conoscono le ragioni delle partenze dei migranti dalle aree di conflitto, tutte le altre rimangono sconosciute. E sono tante, da quelle climatiche a quelle economiche che vanno viste in loco. Non dimentichiamoci poi che quello che accade adesso in Africa porta la responsabilità dell’Occidente, a partire dal colonialismo».

L’esponente di Sinistra italiana, più volte eurodeputata, ha fatto parte della giuria del Tpp a Palermo, ma sono ormai molti anni che segue i lavori del Tribunale. Ricorda ancora una sessione organizzata a Berlino: «Era il 1986 e decidemmo di tenere una sessione, imputati il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale che riunivano i loro summit proprio in quella città e negli stessi giorni. Chiamammo persone da tutto il mondo per testimoniare sulle conseguenze delle vere politiche dei due organismi e la gente fu sbalordita, non ne sapeva nulla. Ecco, così spostammo l’attenzione su un avversario che fino a quel momento era invisibile».

Luciana Castellina, che impressione le ha fatto la sessione di Palermo?

È stata molto interessante. Nonostante le udienze fossero lunghe, dalle 9 di mattina fino a sera, la partecipazione è stata amplissima. L’aula era sempre affollata, con tantissimi ragazzi, moltissime associazioni e numerosissimi migranti. È stato straordinario l’apporto di documentazione: per me che di questi problemi mi sono sempre occupata, sono stati di enorme interesse i rapporti su…

L’intervista di Donatella Coccoli a Luciana Castellina prosegue su Left in edicola


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La politica con le gambe corte

Il 2018 sarà l’anno delle elezioni politiche in Italia. Matteo Renzi perderà senz’altro. D’altra parte ha fatto terra bruciata attorno a sé. La tecnica dell’asfalto ha portato il Partito democratico ad isolarsi sempre di più. Ma non nel senso di non volere alleanze, che anzi vorrebbe. Ma nel senso di pensare che con le bugie sia possibile fare politica. Qualche giorno fa un amico mi ricordava che Renzi era soprannominato da ragazzo “Il bomba”. Lo avevo già sentito ma non essendo toscano non avevo capito quale era il senso. Pensavo solo ad un soprannome un po’ canzonatorio. Invece no, il soprannome significa “quello che le spara grosse”, che dice bugie insomma. Ed in effetti in cinque anni di legislatura, in cui non è stato eletto ma è stato segretario del Pd e presidente del Consiglio, Renzi di bugie ne ha dette parecchie.

Niente di grave per carità. È senz’altro una questione di dialettica politica. Ma perché la politica deve essere dire le bugie e quindi, in ultima analisi, prendere in giro le persone? Perché poi credo andrebbero distinte due modalità di dire il falso, di dire le bugie. Quelle più palesi, più evidentemente delle panzane a cui non crede nessuno. E quelle più nascoste, nei comportamenti e nel pensiero generale sulle persone. Cosa succede infatti se un politico con grandi responsabilità ha delle idee non corrette sulla realtà umana? Se ad esempio nei comportamenti di fatto autorizza il pensiero che la realtà più intima di ogni essere umano è l’aggressività e non, al contrario, il voler stare con gli altri? È facile visualizzare che la politica che ne deriverà sarà una politica che discrimina e che autorizza l’aggressione dell’uomo sull’uomo. In effetti si può pensare che la politica, intesa non come ciò che modifica la realtà ma come ciò che induce le persone a fare o non fare alcune cose, non sia solo azione politica ma sia soprattutto pensiero politico. L’azione è l’esito finale. È il pensiero sottostante che conta. Gramsci lo aveva teorizzato come “egemonia culturale” e d’altra parte tutti i dittatori sanno bene come funziona…

Le masse si controllano prima di tutto con il pensiero e più raramente con l’azione di polizia. È anche vero che qualunque società troppo dittatoriale non regge a lungo. Perché le persone spontaneamente si ribellano. Perché la sopraffazione, il mors-tua vita-mea non è la verità umana. Il nostro giornale ha un sottotitolo che è sinistra senza inganni. Quello che per noi significa è che vogliamo trovare e proporre idee che non abbiano in sé idee false sulla realtà umana e sullo stare insieme degli esseri umani. Lo stare insieme degli esseri umani è quello che la politica dovrebbe regolare, fermando l’aggressione e favorendo lo stare insieme per la realizzazione di tutti. Questo è ciò che potrebbe (e dovrebbe!) caratterizzare in maniera certa la sinistra rispetto alla destra e ai populismi: idee sull’essere umano senza incertezze, di cosa sia il senso del nostro essere al mondo e della realizzazione di ognuno.

Concludo con una novità per il 2018: dal prossimo numero Left non uscirà più il sabato, come accade dal 2013 ad oggi, ma torneremo all’uscita il venerdì. Questo tra l’altro migliorerà la distribuzione in tutte quelle località dove fino ad oggi non siamo ancora riusciti ad arrivare puntuali il sabato. Buon 2018!

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Dove fallì il Sessantotto?

Magazzino of Italian Art Photograph by Marco Anelli New York, 2017

Nella calza della Befana gli italiani hanno trovato una matita truccata che li obbliga a votare con la legge elettorale detta Rosatellum. Ma oltre al carbone e all’aumento del costo della spesa (a tutto vantaggio di chi produce la bioplastica dei sacchetti Mater-Bi) trovano anche l’amarissima sorpresa di una missione in Niger. A Camere sciolte sarà votato il via libera. Il premier Gentiloni ha detto che serve per «fermare i terroristi». Quali? Non è uno Stato terrorista quello che nega i diritti degli italiani senza cittadinanza e fa accordi con i libici che gestiscono lager per migranti?

A denunciare il ministro dell’Interno Minniti e l’Italia, dopo il rappresentante Onu per i diritti umani, ora è anche il Tribunale dei popoli. Lo documentiamo in un ampio speciale. Ma non solo. In questa Italia che il 4 marzo andrà a votare (mentre il Pd e Forza Italia apparentemente si sfidano, e sotto banco valutano possibili accordi) suona strano parlare di rivolta e rivoluzione. Quelle parole che risuonavano quotidianamente nelle strade e nelle piazze cinquant’anni fa, oggi sembrano desuete. Fu una follia pronunciarle allora? Il ‘68 sembra lontanissimo. Una distanza siderale ci separa dalle istanze di quegli anni. Il centrosinistra di oggi le rende quasi inimmaginabili.

Eppure in una società ancora arretrata, contadina e castrata dal cattolicesimo ci fu una rivolta spontanea di giovani all’insegna dell’antimilitarismo, del pacifismo (almeno nella prima stagione beat). Lottavano contro una scuola autoritaria e dogmatica, contro una società perbenista, lottavano per i diritti dei lavoratori, per il divorzio, perché non fossero più proibiti gli anti concezionali. Quei giovani di allora portavano avanti i loro ideali criticando la politica tradizionale anche quella dei partiti di sinistra.

Gran parte della redazione di Left non ha vissuto quegli anni. Avvicinandosi la ricorrenza del cinquantenario ci siamo accorti che ci serviva uno sforzo di immaginazione per comprenderli, non bastavano i libri, i film, la musica. Allora abbiamo chiesto a chi li ha vissuti di raccontarceli e di aiutarci a capire che cosa non funzionò. Perché la rivolta pacifista sfociò nella lotta armata? Perché il rifiuto di un’uguaglianza di regime che uccideva la creatività e l’identità personale non divenne libertà di pensiero, ma rivolta anti-identitaria, suicidio nella droga? Perché il sogno di una sessualità libera e aperta finì nell’anaffettività di Porci con le ali?

Il vento del ’68 che travolse tutti

Negli anni Sessanta, in Italia, accanto ai profondi cambiamenti strutturali che avvenivano in campo sociale, civile, economico, paesaggistico e urbano, alcuni pensatori fuori dall’establishment culturale e politico proponevano un tema nuovo, una ricerca sull’idea di assenza e di sparizione, tema trascurato in una “Italietta” impegnata alla sola conquista di un benessere materiale che mai aveva conosciuto in misura così diffusa. L’antropologo Ernesto de Martino, il regista Michelangelo Antonioni, lo psichiatra Massimo Fagioli, negli anni Sessanta, in modi assai diversi, proposero ricerche originali nell’ambito dell’antropologia, delle immagini, della fisiologia dello sviluppo psichico e della cura della malattia mentale che alludevano o esplicitamente parlavano di assenza e di sparizione.

De Martino aveva parlato di crisi della presenza come dramma umano che incombe sul singolo e sulla collettività nei momenti esistenziali critici, di passaggio, come la nascita, la pubertà, la sessualità, la malattia, la morte. Crisi della presenza che cimenta l’uomo nell’alternativa tra la realizzazione individuale e collettiva da cui deriva la specificità stessa delle culture e dei “mondi” che l’uomo ha vissuto e vive o, al contrario, nella perdita del mondo umano con impossibilità del divenire nella storia e nella cultura, e conseguente pazzia di non poter essere in nessun possibile mondo culturale.

Antonioni – che già nell’Avventura nel 1960 aveva proposto il tema della sparizione della donna senza alcuna ragione apparente – nella swinging London di Blow up mostra…

L’articolo di Mariopaolo Dario prosegue su Left in edicola


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