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L’uccisione di un’attivista per i diritti umani riaccende le proteste contro la corruzione in Ucraina

epa06413705 Ukrainian activist holds the Iryna Nozdrovska portrait during their rally near of central police office in Kiev, Ukraine, 02 January 2018 as they demand a fair investigation of the Iryna Nozdrovska murder. The dead body of human rights activist Iryna Nozdrovska, 38, was found naked in a river outside Kyiv on January 1 after she had reportedly received death threats at hearings on her sister death case, which she assisted as a lawyer. Nozdrovska was reported to have regularly received death threats from friends and relatives of Dmytro Rossoshansky, who was convicted of causing the death of Nozdrovska`s sister, Svitlana Sapatanyska, 26, in September 2015 when he hit her while driving his car under the influence of drugs. Rossoshansky is a nephew of a judge who headed the Vyshgorod district court at that time. After two-year litigation in Obukhiv, Rossoshansky was sentenced to seven years in prison but expected amnesty on December 27, 2017, yet Nozdrovska`s efforts resulted in a ruling by Kyiv region`s court of appeals to return the case to the court of first instance and in the extension of the convict`s arrest for another 60 days as UNIAN news agency report EPA/INNA SOKOLOVSKA

Il suo cadavere è stato ritrovato, denudato e riverso nel fiume a nord della città, sotto ad un ponte, nel quartiere di Demydove, a Kiev, il primo giorno del nuovo anno. Iryna Nozdrovska era un avvocato e un’attivista dei diritti umani, scomparsa il 29 dicembre, prima che il suo corpo fosse ritrovato brutalmente massacrato.

Il suo omicidio è stato la miccia della rabbia contro il sistema della giustizia ucraino, una rabbia che risale ai tempi delle proteste di Maidan, diretta anche contro la corruzione quotidiana, l’ineguaglianza sociale, l’ingiustizia del sistema del potere.

E la corruzione della giustizia in Ucraina sta alla base della drammatica vicenda dell’attivista 38enne che ha perso la vita in un quartiere settentrionale della Capitale. I cartelli che i cittadini scesi per strada adesso agitano nei dintorni dell’edificio della polizia nazionale, a via Volodymurska, nel gelo, dicono: «nessuna indagine, nessuna giustizia, cioè nessuno Stato».

Iryna da due anni cercava giustizia per sua sorella, Svetlana Sepatinska, investita ed uccisa il 30 settembre 2015 dall’auto guidata da Dmytro Rososhanskiy, il nipote del giudice della corte di Vyshgorod. Invece di chiamare la polizia o l’ambulanza, quella notte Dmytro chiamò suo zio, Serhi Kuprienko, per evitare la galera o qualsiasi tipo di responsabilità. Ci sono voluti due anni per far valere le prove che lo hanno mandato in prigione e sono evidenze che gli investigatori hanno trovato solo grazie ad Iryna. La sentenza per lui è arrivata solo nel maggio del 2017. Il motivo per cui Svetlana è morta è che il nipote del giudice, che faceva uso abituale di stupefacenti, era ubriaco al volante. Condannato a sette anni di prigione, Rososhanskiy stava per abbandonare il carcere con un’amnistia il 27 dicembre, pochi giorni fa, se Iryna non si fosse opposta, combattendo per sua sorella, e per il resto d’Ucraina, dove i diritti valgono solo per alcuni e sono rari quanto i privilegi, perché il sistema è uno dei più corrotti d’Europa.

Solo due giorni dopo che la sentenza è stata confermata e la domanda d’appello del giovane respinta dalla corte di Kiev, Iryna, minacciata in questi anni dalla famiglia del giudice e del giovane, il 29 dicembre, è scomparsa. Prima aveva scritto su Facebook: «il killer di mia sorella celebrerà il nuovo anno dietro le sbarre». Le ultime immagini che esistono di lei sono quelle della tv che la riprende mentre impreca contro l’uomo bruno nella gabbia di vetro al tribunale, prima di scoppiare in lacrime, sotto il trizub, il tridente simbolo della giustizia e del paese, mentre veniva rinnovato lo stato d’arresto per altri 60 giorni. L’ultima che ha avuto sue notizie il 29 dicembre è stata sua madre, che abita nel villaggio di Semydiv, a Vyshgorod. Lo stesso paese del giudice, lo stesso paese del fiume, del ponte e della morte. L’avvocato Mustafa Nayyem ha confermato che la famiglia di Rososhansky minacciava da anni apertamente Iryna e che il padre del giovane le aveva recentemente promesso che avrebbe fatto «una brutta fine».

Ora la pressione aumenta e la testa che vuole la piazza di Kiev è quella del ministro dell’Interno, Arseny Avakov, di cui si chiedono le dimissioni. In queste ore, mentre è in corso l’autopsia sul corpo di Iryna, il ministro degli Esteri Pavlo Klimkin ha detto che l’omicidio è «una sfida per la società, per lo Stato, per la protezione delle attiviste donne, per la giustizia in generaleı». Sotto quel ponte da cui è stata gettata nuda, non c’è solo la vicenda di una ragazza bionda della provincia della Capitale, dicono i manifestanti. La storia di Iryna è la storia d’Ucraina.

Luca, Alex e il perbenismo. Anche da morti

Alex Ferrari, in primo piano, con Luca Bortolotto alle sue spalle, in una foto del profilo Facebook di Alex Ferrari. 2 gennaio 2018. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Leggete l’attacco di questo pezzo de Il Gazzettino:

«È previsto un funerale unico per l’addio di Alex Ferrari e Luca Bortolaso, i due amici vicentini di 21 anni morti martedì scorso per le esalazioni di monossido di carbonio in una villetta di montagna a Ferrara di Monte Baldo (Verona), dove stavano trascorrendo le vacanze natalizie assieme a due amiche, loro coetanee, una residente in provincia di Verona e l’altra di Mantova. Per volere dei familiari dei due ragazzi, tra loro legati da un’amicizia molto profonda, il rito funebre si terrà domani pomeriggio (venerdì), con inizio alle 14.30, ad Arzignano, nella chiesa di San Giovanni Battista, una delle più capienti del comprensorio».

E poi ancora:

«La scelta di celebrare insieme i funerali di Alex e Luca – dichiara don Alessio Graziani, portavoce della diocesi berica – risponde ad una precisa richiesta delle loro famiglie a cui la Chiesa in questo momento di immenso dolore desidera essere vicina con le parole della fede. Di fronte alla morte di due giovani, ogni altro commento ci pare quantomeno inopportuno».

L’amicizia molto profonda di cui si parla in questo articolo è una relazione: amore, fidanzamento, quelle cose che nel Paese dei benpensanti non si riesce nemmeno a scrivere. E così l’amore di Alex e Luca, anche da morti, diventa qualcosa di cui tacere perché «ogni altro commento ci pare quantomeno inopportuno».

Il perbenismo è quella pratica che annichilisce anche le cose belle (e in fondo anche rivoluzionarie, in un Paese bigotto come il nostro) e tinge di grigio anche le storie colorate benché tragiche. Così si livella tutto e si livellano tutti e alla fine anche i mediocri si illudono di fare la loro bella figura.

Intanto buon viaggio, Alex e Luca.

Buon venerdì.

Un sogno a Gaza

La cover story di Left in edicola fino al #5gennaio

Dalla Cisgiordania alla Striscia, i giovani guidano la rivolta, tra proteste e nuove espressioni artistiche. L’oppressione religiosa, l’offensiva israeliana e le provocazioni di Trump riaccendono la lotta dei palestinesi per la libertà.
Il racconto di Tahar Lamri e Suad Amiry e le testimonianze dai Territori di Luisa Morgantini, Chiara Cruciati e Franca Marini (artista e autrice del video da cui abbiamo tratto queste immagini)

LIBERI DI PENSARE L’editoriale di Simona Maggiorelli  http://bit.ly/2BRZDiQ
SORVEGLIATI SPECIALI. A CASA LORO di Tahar Lamri ➡️http://bit.ly/2BTNwBF
Il sommario del n. 52 ➡️ http://bit.ly/2Ch5Aqq

Iran, appunti sulla protesta

epa06415052 Dozens of protesters demonstrate against the Iranian regime and in support of the Iranian anti government demonstrators near the Iranian embassy in Paris, France, 03 January 2018. Media reports that after several days of ongoing anti-regime protests in Iran, the country's Islamic leadership has now organized pro government rallies nationwide. EPA/ETIENNE LAURENT

1. “Il dibattito attorno all’Iran e a ciò che succede in questo paese viene complicato dalla malsana abitudine degli intellettuali e dei media occidentali che consiste nel mettere qualsiasi protesta, opposizione o manifestazione in Iran, sempre e comunque nella casella del “regime change”. Questi intellettuali e questi media considerano il cittadino iraniano che scende in piazza come un loro personale portavoce, un loro rappresentante o peggio un rappresentante dei loro “valori”. Dicono che sono mossi dalla solidarietà. In realtà non si tratta di solidarietà con il popolo iraniano ma di una falsa solidarietà, una specie di solidarietà narcisistica con se stessi. Questa presunta solidarietà ci impedisce di capire cosa succede realmente e di capire le vere rivendicazioni delle persone e ci impedisce, sopratutto, di svolgere un dibattito serio sull’Iran” Eskandar Sadeghi-Boroujerdi, accademico iraniano.

2. “Negli ultimi anni, si è parlato nei media occidentali dell’ascesa del “consumatore iraniano”, un consumatore con alto potere d’acquisto e gusti occidentali, ma ciò che questi media hanno dimenticato di menzionare è la classe che sta sotto a questa classe medio-alta: l’importante classe dei lavoratori, la funzione della quale non è il consumo ma la produzione”. Esfandyar Batmanghelidj, ricercatore iraniano e fondatore del forum Europa-Iran.

3. I lavoratori in Iran sono 27 milioni, la più grossa forza lavoro del medio oriente. In Arabia Saudita, ad esempio, è due volte inferiore e composta per i 3/4 da lavoratori stranieri che non possono protestare e se protestano vengono espulsi dal paese.

4. I conservatori o “principalisti” (secondo l’espressione iraniana) sono in Iran conservatori sul piano culturale ma sul piano economico sono per una politica di inclusione dei “mostazafin” (gli umili, i poveri). L’ultimo presidente iraniano vicino ai poveri è stato Mahmoud Ahmadinejad. Una delle sue principali azioni in questo senso è stata l’introduzione di una specie di “reddito di cittadinanza” per i bisognosi al posto delle sovvenzioni per i beni di prima necessità vigenti prima (pur mantenendo alcune di esse). Questo “reddito di cittadinanza” è personale (in una famiglia ad esempio, viene dato a ciascun membro, figli compresi) e tocca circa il 97% della popolazione e quindi di tipo universale e non più solo ai poveri.

I “riformisti” invece, sostenuti dal bazar (commercianti) e dai settori più agiati della società, sono culturalmente “progressisti” ma proseguono una politica economica di tipo neo liberale.

5. I trasferimenti sociali – di tutti i tipi – in Iran ammontano a 100 miliardi di dollari all’anno.

5. Ali Khamanei, la guida suprema dell’Iran, ha ultimamente rimproverato al presidente Hasan Rohani (riformista) di praticare una politica economica che si sta allontanando sempre più dalla “economia della resistenza”, al che Hasan Rohani ha risposto che si tratta solo di una “diversa interpretazione” di tale economia. In gioco ci sono le privatizzazioni e le politiche di Rohani per la stabilizzazione monetaria e le sovvenzioni alle banche.

6. La nuova legge finanziaria presentata dal governo Rohani vorrebbe ridurre ciò che resta delle sovvenzioni ai beni di prima necesità e alla benzina. Questa riduzione ha un effetto sui prezzi con aumenti dal 30 a 40%. Aumenti che toccano le fasce più deboli, oggi in strada a protestare contro queste misure.

7. Le proteste attuali assomigliano a quelle dell’aprile 1995 e non, come dicono gli “esperti”, agli eventi del 2009.

Quella memoria insabbiata nella Repubblica di Salò. Ecco come ricostruire la storia

«Invito tutti, donne, uomini, giovani e adulti, di cultura diversa, di opinioni politiche diverse a ripercorrere con me il luoghi della Repubblica sociale a Desenzano. Questa non fu una sede minore ma, purtroppo, fu il punto focale della struttura nazifascista. L’Itinerario nasce molti anni fa, gradualmente, ed il primo segno è stato nel 2005 con la sistemazione di una targa di fronte alla palazzina che aveva ospitato la sede dell’Ispettorato della razza, da quel giorno sono iniziate visite regolari di scuole, associazioni, circoli culturali, anche provenienti dall’estero».

L’invito a conoscere, rivolto anche ai militanti di CasaPound e Forza Nuova, è del professor Gaetano Agnini, ricercatore di storia contemporanea, oggi emerito, nonché ideatore del percorso della memoria della conoscenza a Desenzano. «Contrariamente a quanto si possa pensare – spiega Agnini – non era Salò al centro dei giochi politici dell’alleanza italo-tedesca, è un falso storico, in quanto nell’altra cittadina rivierasca aveva sede esclusivamente l’Agenzia Stefani che diramava le veline alla stampa ed alla radio, dopo l’attento esame dell’ufficio di controllo tedesco; alla fine di ogni comunicato veniva posta la data e il luogo, da qui Repubblica di Salò. Desenzano fu anello politico e militare fra il regime nazista e la Rsi: vi avevano sede infatti i “due poli del male”: l’Alto comando delle Ss guidato dal Generale Karl Wolff, nominato plenipotenziario politico e militare per l’Italia e, come già detto, l’Ispettorato della razza. Oltre alla pianificazione dell’eliminazione degli ultimi e degli oppositori da Desenzano si ordinavano e venivano organizzate dunque rappresaglie, stragi e rastrellamenti».

«Questa storia ai più non è nota perché volutamente insabbiata: tra i palazzi del potere molti miei concittadini si erano arricchiti e il boom del settore turistico ha di fatto reso ancora più scomoda la realtà. Come a Desenzano così in tutta Italia – spiega Agnini – non c’è la volontà di fare una lettura corretta della memoria storica, nel nostro Paese non si ebbe il coraggio di istituire una vera e propria “Norimberga italiana”. Ed è così che nella torbida narrazione di ciò che rappresentò l’Rsi si è dato spazio a reinterpretazioni e relativismi che hanno permesso ai discendenti dell’ideologia fascista di professarla, persino nell’aula dove fu giurata la Costituzione. In Italia è necessario un risarcimento non tanto materiale quanto morale e storico nei confronti delle vittime delle violenze fasciste, un risarcimento basato sul disvelamento totale di ciò che fu: cerchiamo di portare a galla la verità».
Agnini così in decenni di studi e ricerche ha creato un itinerario storico che ripercorre i luoghi cruciali dove andò in scena una delle pagine più nere della nostra storia.

«Il percorso non è e non deve essere considerato un itinerario della sola memoria – continua il professor Agnini -. È sicuramente un viaggio nella conoscenza, utile per riflettere, parafrasando Primo Levi “per ricordare che questo è stato”. Partendo proprio da ciò che è stato possiamo essere condotti alla consapevolezza, fondamenta per costruire una società civile. Non si vuole fare un’operazione di memoria passiva, tutt’altro. Si vogliono mettere le basi per un progetto che ponga i presupposti per avere cittadini pensanti, consapevoli, figli e fratelli di una stessa unica patria».

L’Itinerario tocca cinque punti cardine: inizia dal Monumento alla Resistenza dove sono raffigurati due uomini in catene, che prende spunto dal Monumento alle Fosse Ardeatine e, nella realizzazione artistica dello scultore Gatti, sono raffigurate due donne che rappresentano sia il dolore, sia la forza di questo importante e basilare elemento, la figura femminile, che seppe nei momenti del male tenere coesa la società. Al termine dell’Itinerario si raggiunge il Bosco della Memoria dove, appunto, vengono ricordate alcune figure femminili di Desenzano che operarono, rischiando, per il bene. Si attraversano poi: piazza Malvezzi, la piazza dedicata a al partigiano desenzanese trucidato dai nazisti il 28 aprile 1945; l’Hotel Mayer, sede delle Ss tedesche; l’ispettorato della razza, cuore burocratico della deportazione di migliaia di esseri umano nei campi di concentramento e sterminio; infine Villa della Volta, da cui partirono Guido e Alberto (l’amico Alberto di Primo Levi) per finire la loro vita ad Auschwitz.
«Come diceva il Card. Martini – conclude Agnini – in chiesa non dovrebbero venirci solo i cattolici, dovrebbero frequentarla tutti, persone di fede diversa ed anche coloro che non hanno fede. Allo stesso modo a seguire l’Itinerario storico dovrebbero venire tutti, senza distinzione di credo, in questo caso, politico. Questo non è uno strumento “contro”, ma a favore della conoscenza, nel rispetto dell’altro si richiede solo una riflessione. Deve essere una base di pacificazione nella conoscenza, non è, dobbiamo ripetere, non vuole e non deve essere considerato un mezzo di contrapposizione».

Per informazioni qui

La gara a chi ha il pulsante (e il sacchetto) più lungo

Il 2018 inizia con tutta la profondità di un dibattito ancorato sui sacchetti biodegradabili per quanto riguarda la politica nazionale e con la gara a chi ha il pulsante nucleare più lungo tra i due facinorosi Trump e Kim Jong-un.

Da una parte si assiste impietriti alla rivolta popolare (o forse sarebbe il caso di scrivere “rumorosa protesta” se davvero vogliamo credere che sia rumore sociale ciò che gocciola dai social) di cittadini disperati che fotografano mandarini con l’ultimo modello di smartphone prevedendo la miseria per un “complotto” che dovrebbe logorarli a forza di spicci mentre, tanto per aggiungere tragica comicità alla tragicomica vicenda, il Pd risponde a suon di bufale (lo racconta bene Leonardo Filippi proprio qui su Left). E fa niente che proprio sulla frutta e verdura italiana il The Guardian (qui) ci invita a riflettere sullo schiavismo tutto italiano che è ormai parte integrante dell’economia della grande distribuzione.

Sul fronte internazionale invece ci si diverte a trasformare la tenzone tra Usa e Corea del nord in un reality show in cui i due presidenti diventano personaggi da sit com da citare al bar con il sorriso sulle labbra. La tattica del bullismo ridanciano (di cui qui in Italia siamo maestri assoluti negli ultimi decenni) sembra avere contagiato tutti: discutere di chi abbia il “pulsante più grosso” del resto è comodamente banale, simpatico e inutile come qualsiasi conversazione politica che si rispetti.

Eppure le due discussioni hanno tutte le caratteristiche per essere social: c’è la possibilità di dividersi per fazioni, si può esercitare un notevole tifo, si respira l’odore del complotto internazionale, si può tranquillamente evitare di approfondire e lanciarsi in frasi fatte e c’è tutto lo spazio per immaginare scenari apocalittici.

Intanto da due giorni si continua a discutere di questo. Così.

Buon giovedì.

Sacchetti biodegradabili: dietro le bufale del Pd, gli affari milionari della grande distribuzione

Alessia Morani durante la partenza del treno del Pd "Destinazione Italia" alla stazione Tiburtina, Roma, 17 ottobre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Sui social network è rivolta: l’obbligo a partire dal 1° gennaio per i supermercati di fornire sacchetti biodegradabili e compostabili a pagamento per imbustare frutta e verdura (ma anche salumi, formaggi, pane, ecc.) non è andato giù ai consumatori, che l’hanno interpretato come l’ennesimo balzello ai danni di chi fa la spesa, e l’hashtag #sacchettibiodegradabili vola in testa tra i trend. Per il Codacons, secondo una indagine perfezionata tra i suoi iscritti, l’85% dei consumatori sarebbe nettamente contrario alla nuova norma.

L’articolo 9 bis della legge di conversione 123/2017 (il decreto Mezzogiorno), approvato lo scorso agosto, impone che i bioshopper debbano avere una percentuale di materia prima rinnovabile almeno del 40%, che non possano essere distribuiti a titolo gratuito e che il prezzo – tra l’uno e i tre centesimi, in genere, nei supermercati – debba essere segnalato nello scontrino. E la regola vale sia per la grande distribuzione che per le piccole botteghe: chi la infrange rischia dai 2.500 ai 25.000 euro di multa.

Per difendersi dalle accuse di danneggiare i consumatori, il Partito democratico ha diffuso una infografica firmata dalla deputata dem Alessia Morani, che è un vero e proprio concentrato di gaffes. Nel meme si scaricano innanzitutto le colpe sull’Europa, chiarendo che la nuova norma si era resa necessaria per ottemperare alla direttiva europea 2015/720. Poi Morani precisa che la novità incentiverà i consumatori a riciclare i vecchi sacchetti, individua il costo medio in un euro ogni 50 sacchetti, e afferma che eventuali richieste da parte degli esercenti di far pagare più di 2 centesimi un singolo sacchetto sono illegali (termine sottolineato in giallo e rigorosamente in maiuscolo).Peccato, però, che si tratti di una bufala. Anzi, di una doppia bufala.

Innanzitutto: al punto 2 si rivendica questa natura green della norma, che favorirà il riciclo. Che Morani esplicita meglio in un commento nella propria bacheca Facebook, presa d’assalto da chi non ha digerito questa nuova voce di spesa. «Basta portarsi dietro i sacchetti comprati il giorno dopo», scrive, per evitare di pagare di più e fare bene all’ambiente.Ma il ministero dell’Ambiente, in una lettera di risposta ai dubbi di Coop, Conad e Federdistribuzione, aveva escluso in precedenza la possibilità di utilizzare borse riutilizzabili o comunque di consentire che i clienti si portino borse da casa, per questioni di igiene e sicurezza alimentare. Divieto confermato poi dal ministero della Salute. «Il riutilizzo dei sacchetti – ha ribadito il segretario generale del dicastero Giuseppe Ruocco – determinerebbe infatti il rischio di contaminazioni batteriche con situazioni problematiche».

Inoltre, l’affermazione per cui sarebbe illegale far pagare un bioshopper più di 2 centesimi non trova riscontro da nessuna parte, come sottolineato dal mensile il Salvagente. A smentire il Partito democratico, poi, è il quotidiano del Partito democratico stesso, con un articolo che incredibilmente titola “Quattro bufale sui sacchetti della frutta che hanno provocato la ‘rivolta’ social”, nel quale la parlamentare dem Stella Bianchi afferma che per i nuovi sacchetti biodegradabili «non c’è un prezzo fissato dalla legge, perché la legge non può imporre un prezzo a un prodotto». In che senso sia “illegale” far pagare più di 2 centesimi i bioshopper, pertanto, non è dato sapere.

Ma c’è di più.

La amministratrice delegata della azienda leader in Italia nella produzione di bioshopper, la Novamont (che a ottobre ha diffuso una nota secondo la quale invece il 58% dei consumatori sarebbe entusiasta della norma), è Catia Bastioli, che 6 anni fa presenziò e addirittura salì sul palco della seconda Leopolda renziana come oratrice. Alcuni quotidiani di destra hanno colto la palla al balzo e sottolineato la curiosa concidenza, e la notizia per cui la norma favorirebbe una ditta “amica” del premier Matteo Renzi è presto diventata virale anche con catene di messaggi su Whatsapp. Una replica arriva da Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente, che su Repubblica prova a smentire il conflitto di interessi, affermando che «quella del monopolio è un’accusa senza fondamento», in quanto «le bioplastiche le fanno le maggiori aziende al mondo».

Ma forse, il tornaconto più “goloso” di questa norma potrebbe averlo la grande distribuzione organizzata e i big dell’ortofrutta, ossia chi vende e chi produce ortofrutta nella cosiddetta “quarta gamma”, ossia quella serie di prodotti preconfezionati in buste di plastica o polistirolo, dalle insalate ai pacchetti di frutta. Questi prodotti, su cui è possibile effettuare un “ricarico” estremamente più alto rispetto alla frutta e alla verdura sfuse, non subiranno questo famigerato balzello, e potrebbero alla fine risultare un prodotto più appettibile per i consumatori, scoraggiati dal costo supplementare del sacchetto.

«Poiché per legge il costo dell’imballaggio non può essere assorbito nel prezzo complessivo del servizio, molti consumatori abbandoneranno il prodotto sfuso e si rivolgeranno ai prodotti già confezionati. Invece di prendere i frutti con il guanto usa-e-getta, pesarli nel sacchetto biodegradabile, etichettarli e poi alla cassa pagare il sacchetto, molti consumatori prenderanno la vaschetta di polistirolo con i frutti già imbustati. In altre parole, più imballaggi in circolazione», avverte Jacopo Gilberto dalle colonne del  Sole 24 Ore.

A sottolineare i possibili maggiori introiti per i colossi della Gdo è anche il saggista Wolf Bukowski (autore di La danza delle mozzarelle e La santa crociata del porco, entrambi editi da Alegre), che su Twitter segnala: «Non escludo che la ridicola normativa sui sacchetti biodegradabili sia un assist del governo alla Gdo per spingere la verdura già confezionata e soprattutto la temibile quarta gamma (insalate già lavate etc), sul cui prezzo il ricarico è enormemente superiore che sullo sfuso».

Insomma: la classe dirigente del Pd conferma per l’ennesima volta di avere una sensibilità assai lontana da quella della gente comune, e di conoscere poco o niente i bisogni di chi ogni giorno fa la spesa. E, per l’ennesima volta, i vantaggi di questa “piccola rivoluzione” potrebbero finire in gran parte nelle tasche dei giganti che già spadroneggiano nella catena agroalimentare. Quelli che, di questi centesimi, ne avrebbero davvero meno bisogno.

*Articolo aggiornato il 4 gennaio 2018 alle 19:15*

«Imbavagliati soprintendenti e direttori, denunciamo noi il caos nei Beni culturali»

Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini nella restaurata Basilica di Collemaggio a L'Aquila, 20 dicembre 2017. È stata restituita oggi alla cittadinanza dell'Aquila la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, completamente restaurata dopo i gravi crolli e i danni subiti in seguito al sisma del 6 aprile 2009, con un evento alla presenza, tra gli altri, del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e del vice presidente del Parlamento europeo David Sassoli. ANSA / CLAUDIO LATTANZIO

La situazione di caos e di paralisi creata dalla “riforma” Franceschini separando la valorizzazione (nel senso di monetizzazione) dalla tutela e privilegiando la prima a discapito della seconda passa praticamente sotto silenzio – con pochissime lodevoli eccezioni – nella stampa e nella televisione nazionale. Ciò è grave in sé. Ma è anche dovuto al fatto che i soprintendenti e gli altri tecnici della tutela non possono assolutamente fare dichiarazioni, denunciare lo stato di confusione fra soprintendenze, poli museali e fondazioni di diritto privato, di depotenziamento strutturale, di esasperata burocratizzazione in cui versano gli organismi e gli uffici che per oltre un secolo hanno operato per difendere dalle aggressioni speculative, dall’abbandono, dall’incuria il patrimonio storico-artistico-paesaggistico.

Tocca quindi a noi – in luogo dei tecnici imbavagliati e minacciati di sanzioni – denunciare pubblicamente la gravità di una situazione in cui ministro e Ministero continuano a magnificare conquiste straordinarie, mentre la spesa statale per la cultura rimane una delle più basse d’Europa, un terzo di quella francese, metà di quella spagnola, e i suoi recenti relativi incrementi, beninteso rispetto al minimo dello 0,19% del bilancio statale toccato nel 2011 (governo Berlusconi IV) rispetto allo 0,39 % del 2000 (governo Amato II), vengono indirizzati su obiettivi futili o sbagliati.

Ad esempio, si investono ben 18 milioni di euro nell’arena Colosseo per chissà quali spettacoli gladiatorii (dopo la farsa grottesca dell’ opera rock “Divo Nerone” sul Palatino) e si lascia agonizzare, senza mezzi né personale, lo strepitoso parco archeologico dell’Appia Antica o si istituisce un biglietto d’ingresso al Pantheon per poterne curare la manutenzione. Si organizzano gare di canottaggio nella vasca della Reggia di Caserta o si propagandano al suo interno prodotti tipici della zona e intanto la vasca risulta ingombra di rifiuti e l’intonaco cade a pezzi in una sala importante. Mentre, tanto per corroborare i vantati incrementi degli ingressi, si organizza al grande Museo Archeologico Nazionale di Napoli una mostra sul Napoli Calcio con magliette, ricordi e gadget di Maradona. Non si tiene in alcun conto il pesante conflitto di interessi sancito dall’Autorità Nazionale Anti-Corruzione per un concorso tecnico-scientifico a Pompei, creando così un grave precedente. Si declama ad ogni passo la Bellezza dei paesaggi italiani, sempre più aggrediti da speculatori e abusivi, e per contro si lascia che la stragrande maggioranza delle regioni (17 su 20) non predisponga, d’intesa col Ministero, e poi approvi, i Piani paesaggistici previsti dal Codice per il Paesaggio del 2007. Nel contempo si tace sul tentativo dissennato – stornato per questa legislatura dalle opposizioni – di svuotare la legge Cederna-Ceruti n. 394/91 sulle aree protette (il 12 % ormai del territorio nazionale, montano soprattutto, con 23 Parchi Nazionali rispetto ai quattro ante 1991) anziché aggiornarla al Codice per il Paesaggio e applicarla seriamente.

A colpire è la strategia di fondo del Mibact: da una parte si trasferisce dagli stessi poli museali a fondazioni di diritto privato la valorizzazione sempre più commerciale del patrimonio e dall’altra si prospetta con la legge Madia la sottomissione delle soprintendenze, decisamente indebolite, ad un organo di governo locale come la Prefettura. Una offensiva, antistorica scemenza.

Le denunce sullo stato penoso della tutela piovono ormai da tutta Italia e quindi il nostro elenco potrebbe continuare a lungo. Ci fermiamo qui per chiedere con forza ai partiti, al futuro Parlamento che questa deriva disastrosa venga fermata e ai media di ogni genere di cominciare almeno ad indagarla, a raccontarla seriamente – non limitandosi alle cifre di facciata, sempre più discutibili – ridando voce alle più collaudate competenze tecnico-scientifiche.

A questo punto la rete dissestata della tutela va letteralmente ricostruita. con la scelta strategica di far di nuovo prevalere l’interesse pubblico sugli appetiti privati, premiando i capaci e meritevoli, riempiendo i vuoti negli organici dei beni culturali, evitando la chiusura per “vecchiezza” di archivi e biblioteche dove l’età media del personale supera i 60-65 anni e i trentenni rappresentano lo 0,6-1,6 % degli addetti.

Il ministero per i Beni culturali non può, non deve diventare il ministero del Turismo (attività chiaramente indotta dal patrimonio culturale e paesaggistico), né si possono sottomettere ai Prefetti le Soprintendenze. Un autentico oltraggio alla tradizione ammirevole dei nostri studi e degli interventi di restauro e di recupero sul territorio e un continuo danno inferto agli stessi interessi del Paese. Per il quale la cultura e la ricerca, in sé e per sé, cioè senza finalità economiche immediate, scolpite nell’articolo 9 della Costituzione, rappresentano il motore fondamentale.

Adriano La Regina, già soprintendente Archeologia Roma, Accademico dei Lincei

Francesco D’Andria, professore emerito di Archeologia greca e romana, Università del Salento

Andrea Emiliani, già Soprintendente ai Beni storici e artistici Bologna, Ferrara e Romagna, Accademico dei Lincei

Mario Torelli, già docente a Perugia di Archeologia, Accademico dei Lincei

Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di Italia Nostra nazionale

Licia Vlad Borrelli, archeologo, già Istituto Centrale del Restauro

Giorgio Nebbia, ambientalista, professore emerito Università di Bari

Fausto Zevi, già Soprintendente archeologico Napoli e Caserta e docente alla Sapienza, Accademico dei Lincei

Pietro Giovanni Guzzo, archeologo, già Soprintendente in Puglia e a Pompei, Accademico dei Lincei

Maria Luisa Polichetti, già direttrice del Catalogo centrale e Soprintendente ai Beni architettonici delle Marche

Jadranka Bentini, già Soprintendente ai Beni storici e artistici di Bologna, Ferrara e Romagna, presidente di Italia Nostra a Bologna

Germana Aprato, già Soprintendente ai Beni Architettonici dell’Umbria

Lucia Fornari Schianchi, già Soprintendente ai Beni Storici e Artistici di Parma e Piacenza

Antonio De Siena, già Soprintendente archeologico della Basilicata

Anna Gallina Zevi, già Soprintendente archeologico ad Ostia Antica

Elio Garzillo, già Soprintendente ai Beni architettonici di Bologna e regione

Gianfranco Amendola, ex magistrato, docente di Diritto Ambientale

Carlo Alberto Graziani, già presidente del Parco Nazionale dei Sibillini e ordinario di Diritto Civile a Siena e Camerino

Valerio Magrelli, poeta, ordinario di Letteratura francese all’Università di Cassino

Bruno Toscano, professore emerito di Storia dell’arte Roma Tre

Ebe Giacometti, presidente Italia Nostra Lazio, delegata ai Parchi

Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, presidente emerito Corte di Cassazione

Claudio Meloni, coordinatore nazionale della FpCgil del MiBACT

Andrea Camilli, responsabile Assotecnici del MiBACT

Maria Teresa Filieri, già direttore dei Musei Nazionali di Lucca

Gianni Venturi, già ordinario di Letteratura italiana all’Università di Firenze

Paolo Liverani, archeologo, ordinario all’Università di Firenze

Sandro Lovari, professore emerito di Ecologia, Università di Siena

Carlo Alberto Pinelli, professore al Suor Orsola Benincasa di Napoli, presidente di Mountains Wilderness

Lucia Lepore, archeologa della Magna Grecia, già docente a Firenze

Carlo Pavolini, archeologo, già docente Università della Tuscia

Giovanni Losavio, magistrato, già presidente nazionale di Italia Nostra, ora della sezione di Modena

Vezio De Lucia, urbanista

Pier Luigi Cervellati, architetto e urbanista

Bernardino Osio, ambasciatore

Orio Ciferri, genetista, fondatore del primo corso interdipartimentale sui beni culturali a Pavia

Giorgio Boscagli, Gruppo dei 30 per i Parchi, già direttore Parco Nazionale Foreste Casentinesi

Katia Mannino, associato di archeologia classica, Università del Salento

Francesco Pardi, studioso del paesaggio, “Liberacittadinanza”

Luciana Prati, già direttrice Musei Civici e Biblioteca comunale Forlì

Francesca Valli, storica dell’arte, già coordinatrice delle raccolte storiche Accademia di Brera

Lucinia Speciale, storica dell’arte, Università del Salento

Francesco Mezzatesta, fondatore della LIPU, naturalista, coordinatore Gruppo dei 30 per i Parchi

Corrado Stajano, giornalista scrittore

Paolo Maddalena, giurista, già giudice della Corte Costituzionale

Benedetta Origo, presidente Comitato per la Val d’Orcia

Stefano Deliperi, presidente Gruppo di intervento giuridico Onlus, Cagliari

Maurizio Chierici, giornalista scrittore

Salvatore Bragantini, economista, editorialista

Gianandrea Piccioli, consulente editoriale

Fernando Ferrigno, giornalista tv e scrittore di Beni culturali

Ugo Mattei, professore di Diritto civile e dell’Ambiente, Università di Torino

Alberto Abrami, già ordinario di Diritto Forestale e Ambientale, Università di Firenze

Simona Agostini, ricercatrice Urbanistica, Università di Bologna

Andrea Buzzoni, già dirigente Ferrara Arte e delle Attività culturali del Comune, Ferrara

Luisa Bonesio, già associato di Estetica Università di Pavia, direttore dei Musei dei Sanatori di Sondalo (Sondrio)

Alessandro Gogna, alpinista, storico dell’alpinismo

Simona Rinaldi, Università della Tuscia

Pino Coscetta, giornalista scrittore

Luisella Battaglia, Istituto italiano di Bioetica

Matteo Righetto, scrittore, comitato scientifico Mountains Wilderness

Italo Sciuto, professore di Filosofia Morale, Università di Verona

Stefano Sylos Labini, ricercatore scientifico ed economista

Tomaso Montanari, ordinario di storia dell’arte moderna, Università Federico II Napoli e presidente di Libertà e Giustizia

Maria Pia Guermandi, archeologa, responsabile progetti europei sul patrimonio culturale

Natalia Piombino, docente Syracuse University Florence

Gaia Pallottino, coordinatrice Comitato residente città storica, Roma

Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore Beni culturali

Le maestre bocciate dal Consiglio di Stato, l’ennesima grana per il Ministero dell’Istruzione

La ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, in una immagine del 19 dicembre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

«È una giungla», dice Giuseppe Bagni, presidente del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti). Sì, è davvero una situazione complicata quella in cui si trovano 43.600 maestri, di cui 5mila già assunti, dopo la sentenza del Consiglio di Stato che li ha esclusi dalle Gae, le graduatorie a esaurimento. Adesso dovranno ricominciare da capo, come supplenti. Il 4 gennaio al Miur si terrà un incontro per cercar di sbrogliare questa ennesima matassa che vede di nuovo il Ministero e il mondo degli insegnanti contrapporsi. E anche se la ministra Fedeli si giustifica dicendo che in questo anno ha fatto di tutto per «rimettere al centro tutta la filiera della conoscenza», è indubbio che nonostante le 100mila assunzioni della Buona scuola si è creato un tale scompiglio (ricordiamoci il giallo dell’algoritmo), che non ha creato certo un clima pacifico. Proprio perché è mancato il confronto dialettico e chiaro con le parti, ma soprattutto, verrebbe da dire, perché è mancata una analisi approfondita delle diversissime situazioni da cui provenivano i vari insegnanti. E quindi le soluzioni sono state approssimative oppure lasciate alle carte bollate.

I diplomati magistrali abilitati reagiscono e l’8 gennaio è in già in programma uno sciopero, proprio il primo giorno dal ritorno delle vacanze natalizie.

La cosa che fa indignare i diplomati magistrali è che i giudici di Palazzo Spada con quella sentenza del 20 dicembre hanno ribaltato precedenti sentenze e hanno negato il diritto ai diplomati magistrali prima del 2001-2002 ad essere inseriti nelle Gae. Perché fino allora chi aveva quel diploma magistrale ex-lege poteva insegnare, non c’era bisogno di altro. Dopo è venuta la laurea, come requisito anche per insegnare alla primaria, e successivamente anche la conoscenza della lingua inglese.

Ma come è andata la storia? Ecco una breve ricostruzione per una vicenda che, come quelle che riguardano le abilitazioni degli insegnanti è complicatissima, perché, va detto, ogni ministro che si è installato a Viale Trastevere in questi ultimi anni ha voluto segnare il proprio dicastero con norme sempre diverse che si aggiungevano a quelle precedenti. A proposito di giungla.

Fu il ministro Fioroni del governo Prodi nel 2006, si legge in una nota del Coordinamento dei Diplomati magistrali abilitati (Dma) con la legge 296 a trasformare le Graduatorie permanenti in Graduatorie ad esaurimento «e decise arbitrariamente quando illegalmente di privare il diploma magistrale del suo valore abilitante». Gli insegnanti vennero relegati in un angolo, con la definizione di “idoneità” che comunque non impedì loro di insegnare e di acquisire una formazione e competenze con i bambini sia della scuola dell’infanzia che della primaria. Con i successivi ricorsi dal 2014 questi insegnanti cominciarono a vedere riconosciuto quello che loro considerano un diritto acquisito con il diploma. E quindi grazie a queste sentenze finiscono nelle Gae circa 40mila diplomati abilitati, 12mila dei quali firmano un contratto a tempo determinato, come scrive il comunicato del Coordinamento Dma. «A fronte di questo scenario, inaspettatamente, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria, rovesciando l’orientamento giuridico che si pensava ormai consolidato, sconfessa se stesso e emette una sentenza illogica quanto nefasta, respingendo un ricorso identico a quelli finora passati».

Secondo Giuseppe Bagni, il Ministero dell’Istruzione dovrebbe intervenire e cercar di risolvere il caso. «Quarantamila insegnanti non è un numero esorbitante. È un problema perché spesso si tratta di persone che hanno ormai acquisito formazione sul campo, che insegnano da molto tempo». Rispedirli a fare le supplenti sarebbe davvero sprecare esperienze accumulate negli anni.
«Io quest’anno ho ottenuto la prima supplenza annuale fino al 30 giugno», racconta Carla, 41 anni, insegnante in una scuola primaria di Roma. Anche lei fa parte del gruppo dei Dma, che la sentenza del Consiglio di Stato fa di nuovo sprofondare nella seconda fascia delle Gae e quindi di nuovo in caccia di supplenze e incarichi temporanei. La storia di Carla è indicativa, e ben rappresenta la fetta di docenti che si sente non riconosciuta nei propri diritti.

«Appena diplomata ho insegnato subito, non ho fatto altro nella mia vita. Prima, per quindici anni in asili e scuole materne privati, poi da tre anni nella scuola primaria pubblica». Insegnante di sostegno per il momento – «perché mancano anche questi di insegnanti nelle scuole» – ammette che le regole stabilite dall’Europa che hanno portato al requisito della laurea sono giuste. Ma sarebbe giusto riconoscere anche il diritto acquisito prima della modifica. Magari stabilendo percorsi per verificare l’effettiva formazione di chi si trova in possesso di un diploma magistrale. Lei, di sicuro, ce l’ha messa tutta. «Io il sabato e la domenica studio, mi sono adeguata alle nuove tecnologie, so che stare con i bambini richiede attenzione e sensibilità, loro si trovano in una fase importante della loro vita e io devo aiutarli a crescere».

Se di giungla si parla perché questi docenti sono sballottati da sentenze e ricorsi e trafile burocratiche, va detto che la questione poi si complica perché alcuni di loro non hanno una grande esperienza alle spalle. Anzi, dopo aver svolto altre attività lavorative hanno pensato di mettersi di nuovo in gioco, utilizzando quel diploma di tanti anni prima. «In quel caso non è giusto – conclude Carla – non ci si può improvvisare maestre, insegnare è bellissimo ma non è improvvisazione».

 

Israele lancia un ultimatum ai migranti

Lasciare il Paese per sempre oppure affrontare il carcere a vita. È l’ultimatum israeliano ai migranti che sono riusciti a rifugiarsi sul suolo ebraico. Ai 40mila profughi africani rimangono tre mesi. A chi se ne va nei prossimi novanta giorni verranno dati 3500 dollari, per tornare in patria o andare in altri paesi. Arrivano da Eritrea e Sudan, ma alcuni di loro ora potrebbero finire in Ruanda. Accadrà dopo l’annunciata chiusura del centro Holot nel deserto del Negev, per la gestione di quelli che lo Stato chiama “infiltrati” e non migranti, profughi o rifugiati. Ce ne sono 1420 nella struttura, 38 mila nel paese e sono arrivati scappando sulla sabbia bollente del deserto in fuga dalla guerra. Eppure Israele li considera migranti economici, perché sono entrati nel paese illegalmente e non li accetta per “preservare il carattere ebraico dello Stato”.
Lo stato dell’Africa orientale, il Ruanda, ha acconsentito ad accettarne diecimila, se Israele pagherà 5mila dollari per ogni profugo che verrà rispedito indietro. L’ong Hotline for Migrant Workers ha già documentato che cosa succede a chi decide di assecondare la scelta e tornare in Africa: minacce e morte. Amnesty International e l’Associazione per i diritti umani hanno mandato una lettera per chiedere di mettere fine alle espulsioni: “il Ruanda non è uno stato sicuro, chi vi arriva si trova senza status e senza diritti, esposto a rapimenti, tortura, traffico di esseri umani, minacce”. Filippo Grandi, Alto Commissario per i rifugiati alle Nazioni Unite, ha ricordato che questo piano viola la legge nazionale ed internazionale e che “Israele ha una dolorosa storia di migrazione ed esilio. Le nuove generazioni non devono dimenticare che i rifugiati non scappano per scelta, ma perché non hanno nessuna altra scelta”.