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Gli accordicchi sulle autostrade (vuote)

L'AUTOSTRADA DEL SOLE COMPLETAMENTE SGOMBRA DOPO LA CHIUSURA DECISA PER IL DISINNESCO DELLA BOMBA DELLA II GUERRA MONDIALE

Chissà se un giorno qualcuno avrà la voglia di mettere il naso (e magari anche le mani) negli accordicchi delle concessioni autostradali che anche quest’anno, puntuali come una festività obbligata, hanno beneficiato di un ricco regalo di governo sulla base di piani economici che qui da noi, chissà perché, sembra impossibile riuscire a visionare.

Il tragicomico balletto vede da una parte i concessionari giustificarsi dicendo che gli aumenti “non dipendono da loro ma dalle direttive nazionali” mentre dall’altra, avvinghiati come ci si avvinghia per ballare un lento, il governo risponde che “gli aumenti dipendono dai piani d’investimento delle concessionarie” che (guarda un po’) sono coperti da segreto di Stato. Avete letto bene: le carte che riguardano la gestione delle nostre strade (già lautamente pagate con soldi pubblici) non sono consultabili nonostante l’authority dei Trasporti abbia chiesto più volte di renderli pubblici e nonostante negli altri Paesi europei siano facilmente controllabili (in Francia sono addirittura pubblicati online, per dire).

Così non sapremo mai perché costerà il 53% in più percorrere il tratto stradale che porta da Aosta a Morgex, non sapremo nulla sul +13,9% della Milano Serravalle e niente ci sarà spiegato sul 12,8% di aumento della Strada dei Parchi. Niente, come se il prezzo della mobilità (in un Paese in cui il pessimo trasporto pubblico forza all’uso dell’automobile circa l’80% dei pendolari) fosse una questione che interessa solo lo Stato e la nebulosa giungla dei concessionari (che da noi sono 27, altro pessimo record europeo).

Nonostante i ricorsi e i controricorsi la querelle tra Stato e gestori delle autostrade tutti gli anni si risolve in un’amichevole intesa che pesa tutta sulle tasche dei contribuenti senza nessuna spiegazione logica: le autostrade sono l’ennesima bolla in cui le posizioni di rendita fruttano senza che nessuno s’incuriosisca troppo. E chissà se qualcuno si ricorda della sventolata minaccia di numerosi licenziamenti che i gestori hanno usato per ottenere l’innalzamento al 40% della quota di lavori eseguibili “in house” (cioè senza gara, senza trasparenza) nonostante le norme anticorruzione consigliassero il contrario.

E così anche gestire un’autostrada vuota (come le geniali autostrade lombarde volute da Formigoni) alla fine diventa un affare. Ovviamente per loro. Sempre per loro.

Buon mercoledì.

Nella neve e nel ghiaccio la marcia dei migranti attraverso le Alpi

TURIN, ITALY - DECEMBER 22: Migrants walk to reach Colle della Scala during another attempt to reach the French border on December 22, 2017 in Bardonecchia, Turin, Italy. After the police reinforced the Frejus and and Ventimiglia borders, many migrants are trying to find other ways to reach the French border, risking their lives in freezing temperatures through snow-covered passes. (Photo by Simone Padovani/Awakening/Getty Images)

A decine ci provano ogni settimana, quando la temperatura scende a meno venti. Dall’Italia alla Francia. Senza equipaggiamento e nel bianco abbagliante. Senza nemmeno un paio di stivali. Ma l’anno scorso, come in questo nuovo anno, si mettono in cammino verso una nuova vita. Al gelo, affondando i piedi nel ghiaccio che copre quasi tutto, a quasi duemila metri d’altezza, lungo il passo alpino che separa il suolo francese da quello italiano: i migranti sono in marcia.

Da Ventimiglia al Brennero, poi le Alpi: la prima città da raggiungere nella terra francese è Briançon, dove è stato aperto un rifugio per la notte. I locali, che sanno quanto pericolose siano le loro montagne, hanno deciso di aiutarli e raccontano che la maggior parte dei profughi in arrivo sono minori non accompagnati, che tentano di raggiungere suolo francese. La rete dei volontari conta 1300 persone dei villaggi circostanti: dal bucato al sostegno giuridico, dalle ronde per i dispersi a chi distribuisce cibo, in mille sulle Alpi tendono la mano.

Quando cala dall’alto, la guardano per la prima volta nella loro vita: gli africani vedono lassù per la prima volta la neve. Dalla caldissima Africa, i rifugiati affrontano temperature gelate. Accendono il fuoco di notte, si dividono il cibo. Sperano. Ricordano i Paesi d’origine: Mali, Guinea, Costa d’Avorio. Dormono e all’alba, un passo dopo l’altro, continuano ad andare verso nord.

In tre mesi in millecinquecento almeno, quasi duemila rifugiati ce l’hanno fatta, ma il percorso è arduo, quasi impossibile senza preparazione e abiti caldi, di cui i migranti sono sforniti. Gli alpini che pattugliano la zona dicono di aver paura di trovare i cadaveri in primavera, quando la neve si scioglierà. Alberto Rabino, a capo degli alpini di Bardonecchia, dice di aver ricevuto decine di chiamate dai migranti negli ultimi giorni. Si perdono nei boschi, nella neve, nel buio e quando i soccorritori arrivano li trovano in condizioni pericolosissime, a volte senza nemmeno le scarpe, a volte gravemente feriti. Joel Pruvot fa il volontario nel rifugio e anche lui racconta di aver trovato rifugiati senza scarpe nella neve: “gli africani non hanno idea di quanto sia pericolosa la montagna”.

Quando riescono a scampare alla morte per congelamento, a volte si imbattono nella polizia francese che li rispedisce indietro. Vicino a Bardonecchia, mentre il 2017 diventava 2018, un gruppo di migranti ha tentato di arrivare a Col de l’Echelle. Lì l’altezza sfiora i duemila metri. Erano in sei ed erano arrivati in Italia a luglio. Quasi tutti, come la maggior parte dei migranti che hanno la forza di compiere il percorso, erano minorenni. Tutti con negli occhi un sogno: una nuova vita oltre le Alpi.

Con l’augurio di essere contraddetti

Cerchie social che confermano i nostri giudizi, amici e conoscenti che sono sempre d’accordo con noi, il nostro giornale quotidiano che titola i fatti del giorno esattamente come faremo noi, il telegiornale del cuore che s’indigna sulle nostre stesse pieghe e addirittura si commuove con il nostro stesso colore, il politico di riferimento che indovina tutti i nostri odi e che odia esattamente come noi e che vuole esattamente quello che vogliamo noi; alla fine anche i nostri nemici si confermano di giorno in giorno, di anno in anno, rassicurandoci con le loro differenze e le stesse ostilità.

Forse l’augurio migliore che potremmo farci, l’esercizio migliore per il Paese, sarebbe quello di imparare a essere contraddetti. Finirla di rassicurarci nelle nostre posizioni evitando i dissimili come inferiori o insopportabilmente incompatibili e allenarci, tutti, alla discussione, al dovere di spiegarsi di più e meglio, all’esercizio quotidiano per allungare il muscolo della curiosità.

Come scrive Canetti, «il terribile non sono le contraddizioni, bensì il loro graduale svigorire» e la sensazione, sempre di più, è che la disperazione abbia spento il ragionamento oltre allo slancio e così si assiste quasi sempre alla messa in scena di un copione con il finale scontato.

E siamo tutti penisole (con gli uguali come unico confine) con la speranza inconfessabile di involverci in isole. Tutti preoccupati di attraversare la giornata trovando più conferme possibili. Tutti i giorni. Tutto il giorno. E rinfrancarci di non avere dovuto dare spiegazioni a nessuno.

Buon 2018. Con l’augurio di essere contraddetti.

Buon anno con la Costituzione, che fa sempre bene. Soprattutto per le elezioni

20071222 - - 60/0 COSTITUZIONE: NATA DA STRAORDINARIE CONVERGENZE - Enrico De Nicola , alla presenza di Alcide de Gasperi (s) e Umberto Terracini firma il testo della Costituzione Italiana . Approvata con 453 voti a favore e 62 contro il 22 dicembre 1947 , il 27 dicembre 1947, la Costituzione fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato, De Nicola, per poi entrare in vigore L'1 gennaio 1948. ARCHIVIO /ANSA /JI

Il 2018 inizia con un anniversario importante: i 70 anni della Costituzione. Era infatti il 1 gennaio del 1948 il giorno in cui la Carta entrò in vigore. Dopo 1163 emendamenti  presentati sui 139 articoli, 1090 interventi di relatori, 109 scrutini segreti, 40 ordini del giorno votati , 1409 interrogazioni presentate. Un lavoro immenso in pochi mesi, dopo che a febbraio 1947 era arrivata in aula la bozza della Carta messa a punto dal Comitato dei 75.

Settant’anni sono molti. Soprattutto se riflettiamo a quanti di quei principi sanciti dalla Costituzione sono rimasti inattuati o sono a rischio.  Il principio dell’uguaglianza, della laicità, della libertà d’insegnamento e della ricerca scientifica, il diritto ad avere una vita dignitosa, il diritto ad avere un lavoro, cure mediche gratuite, il welfare per tutti, il diritto d’asilo, insomma, potremo continuare a lungo. Se Piero Calamandrei negli anni 50 era preoccupato, oggi, chissà cosa penserebbe. Nel 1955 già diceva parole chiarissime: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.

Quella Carta che un anno fa ha rischiato di essere calpestata dallo “scarpone” della riforma costituzionale Renzi-Boschi oggi si ritrova ancora in bilico, tra la ricchezza dei suoi principi e l’assenza dei legislatori che quei principi proprio non li vogliono applicare. Lo ius soli è solo l’ultimo esempio. Il diritto di cittadinanza negato a ragazzi uguali in tutto e per tutto ai loro coetanei italiani a cui una bella fetta di parlamentari – anche di quel partito, il Pd, che su quel tema aveva impostato la propria campagna elettorale – ha voltato le spalle facendo finta che non esistesse. Perché le elezioni incombono e allora bisogna rincorrere il consenso e allora… addio diritti e principi.

Che la Costituzione rimanga inattuata lo hanno constatato anche i giuristi che hanno partecipato al Senato nei giorni scorsi alla cerimonia per i 70 anni della promulgazione della Carta, avvenuta il 27 dicembre 1947. Ma ci sono elementi, dentro la Carta, che ne fanno un documento vivo, una sorta di bussola valida per il domani. E non si tratta di retorica. No, i principi enunciati nella Carta, per come sono stati scritti e soprattutto per lo sforzo costato da parte di chi, di opposte tendenze politiche, ha fatto parte della Costituente, sono efficaci, se applicati. E lo sono ancora di più in una situazione difficile come quella che stiamo attraversando. Domenico Gallo, che fa parte del Coordinamento per la democrazia costituzionale, ne mette in evidenza uno, fondamentale: la laicità.

“Esistono nella Costituzione dei valori supremi, ma il metro per giudicarli è la persona umana; il che significa che non ci possono essere esigenze, anche fondate su valori, su interessi, su dogmi religiosi o su calcoli di utilità che consentano di attentare al valore fondante costituito dai diritti inviolabili della persona”, ha scritto in un post su facebook. Viene citato tra l’altro, l’intervento della Corte costituzionale che cancellò anni fa, il divieto assurdo di matrimonio tra un cittadino italiano e uno straniero che non era in possesso del permesso di soggiorno. Un intervento importante, nel 2011, che annullava il pacchetto sicurezza dell’allora ministro Maroni. Per la Costituzione, permesso di soggiorno o no, non esiste differenza tra persone che vogliono sposarsi. E se qualche sindaco ci ha provato ad emettere una ordinanza che imponeva l’esibizione del permesso di soggiorno ai futuri sposti, i giuristi l’hanno smontata. In nome della Costituzione. Questo è solo un esempio che ci fa capire quello che dice Domenico Gallo.

Mentre infuria la xenofobia, mentre il problema dell’immigrazione viene sventolato come stendardo al vento in battaglie elettorali false nei contenuti (perché non c’è nessuna invasione ecc. ecc.), mentre si approvano missioni militari all’estero avallando politiche di Stati che violano i diritti umani, gli articoli della Costituzione, stanno lì ad avvertire che un’altra politica è possibile. In nome della laicità. Perché “si fonda sul riconoscimento che il valore uomo non è bilanciabile con altri valori, perché è un valore fondante”, scrive Gallo. Prima di tutto vengono i diritti della persona, dice il giurista, e “non si può fare nessun bilanciamento fra i diritti inviolabili della persona e le esigenze delle culture, delle religioni, dell’etica. La laicità spoglia dell’onnipotenza la politica e la religione”. Quindi attenzione alla campagna elettorale, ai toni usati dalle varie forze politiche, sostiene l’Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza, proprio in merito ai principi sanciti dalla Carta. Quella Costituzione che delinea una società più umana, come ha detto al Senato la costituzionalista Lorenza Carlassare. Se applicata, naturalmente.
Attenzione quindi perché quei principi devono rappresentare la cartina al tornasole. Gli articoli della Costituzione sono reagenti di pensiero che entrano in azione quando i diritti vengono negati. Quindi occhio a chi dare il voto.

Dal Rinascimento alle Avanguardie. Le mostre del 2018

Lucio-Fontana-Concetto-spaziale.-Attese- collezione privata

Mentre è ancora in corso la mostra alle Scuderie del Quirinale e quella in Palazzo Ducale a Genova, l’anno si apre idealmente a Brescia con Picasso in un intenso confronto con l’arte italiana. In  Palazzo Martinengo, dal 20 gennaio al 10 giugno,  si tiene la mostra Picasso De Chirico, Morandi. Cento capolavori del XIX e XX secolo dalle collezioni private bresciane all’interno delle dimore di Brescia. La rassegna, curata da Davide Dotti, permette di vedere opere di Picasso, de Chirico, Morandi, Balla, Boccioni, Depero, Carrà, De Pisis, Burri, Manzoni, Vedova e Fontana, che di solito non sono fruibili.

Giorgio morandi, collezione privata

La Galleria Estense di Modena, dal 17 febbraio al 24 marzo proporrà, nella mostra Da Correggio a Guercino, opere su carta della collezione dei duchi d’Este, con i disegni preparatori di Correggio, Nicolò dell’Abate, Lelio Orsi, Ludovico, Annibale e Agostino Carracci, fino allo Scarsellino, a Guido Reni e al Guercino.

Abrecht Dürer e il Rinascimento fra la Germania e l’Italia è il titolo della mostra che il prossimo 21 febbraio si aprirà in Palazzo Reale a Milano. Curata da Bernard Aikema con la collaborazione di Andrew John Martin, l’esposizione raccoglierà una selezione di 130 opere realizzate da Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528) e da alcuni dei suoi più importanti contemporanei tedeschi e italiani, che metteranno in luce l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud Europa tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento.

Per quanto riguarda l’archeologia, da segnalare, dal 24 febbraio al 6 maggio, che il m.a.x. museo di Chiasso (Svizzera) festeggia i 280 anni dalla scoperta di Ercolano e i 270 anni da quella di Pompei con una mostra che analizza le modalità e i supporti con cui vennero comunicati i ritrovamenti dei due siti, attraverso le espressioni visionarie di coloro che intuirono la portata dei ritrovamenti e cercarono di promuovere gli scavi e le ricerche. L’esposizione, dal titolo Ercolano e Pompei: visioni di una scoperta, curata da Pietro Giovanni Guzzo, Maria Rosaria Esposito e Nicoletta Ossanna Cavadini, è frutto di una collaborazione tra il m.a.x. museo e il Mann-Museo Archeologico Nazionale di Napoli – che ospiterà la seconda tappa del progetto integrato nell’estate del 2018 – ripercorrerà un lungo arco cronologico, dalla fine del Settecento ai primi anni del Novecento.

Hiroshige

Roma ospita un grande maestro, che ha messo al centro della sua visione il paesaggio e la natura: si tratta di Utagawa Hiroshige, a cui le Scuderie del Quirinale dedicano a marzo una grande retrospettiva con una selezione di circa 230 opere.  Fino al 14 gennaio, per gli amanti dell’arte e della grafica giapponese, all’Ara Pacis continua la restrospettiva di Hokusai.

Nel 2018 ricorre il settantesimo anniversario dell’esposizione della collezione di Peggy Guggenheim alla Biennale di Venezia. Era la prima volta che la collezione di Peggy veniva esposta in Europa. Il suo museo per festeggiare l’anniversario ricrea l’ambiente del Padiglione allestito in quell’occasione.  Dal 25 maggio il 1948: la Biennale di Peggy Guggenheim al Guggenheim di Venezia.

 Antonello da Messina al Museo Mandralisca di Cefalù, dal 7 giugno a lunedì 3 luglio: insieme al Ritratto d’uomo  sarà esposta L’Annunciata. Il percorso della mostra, che ricalca quello di una decina di anni fa che riscosse un grande interesse, è arricchito da una edizione seicentesca delle “Vite” di Giorgio Vasari, uno dei testi più preziosi della Biblioteca Mandralisca, l’opera – come noto – colloca Antonello da Messina fra i più grandi artisti del Rinascimento. Antonello sarà poi protagonista di una mostra  in ottobre a Palermo, al Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas .

Picasso Tate London

Picasso star dell’anno. L’8 marzo alla Tate di Londra si apre la retrospettiva Picasso 1932, Love fame tragedy. La collezione del Philadelphia Museum of Art approda al Palazzo Reale di Milano a marzo con la mostra Impressionismo e Avanguardie, con 50 opere di Monet, Degas, Renoir e Picasso.

Picasso è protagonista anche ad ottobre, nella retrospettiva, in Palazzo Reale a Milano, Picasso e il mito, sul rapporto tra l’artista spagnolo e l’antichità greco-romana. Circa 350 opere provenienti dal Museo Picasso di Parigi, in rapporto dialettico con opere che si rifanno ai canoni della bellezza classica.

Il Codice Leicester di Leonardo da Vinci sarà esposto  nella Galleria degli Uffizi a Firenze come anteprima delle celebrazioni leonardiane che si svolgeranno nel 2019 in occasione dei 500 anni della morte del maestro del Rinascimento. A cura di Paolo Galluzzi, la mostra permette di vedere il Codice che fu acquistato da Bill Gates  (lo comprò dal miliardario Armand Hammer nel 1994). Si apre il 29 ottobre e prosegue fino al 20 gennaio 2019.

In autunno si segnala a Palazzo Blu di Pisa Magritte e il Surrealismo.

Last but not least, la mostra musicale dell’anno dedicata ai Pink Floyd, ideata da Aubrey ‘Po’ Powell di Hipgnosis e sviluppata a stretto contatto con Nick Mason (Exhibition Consultant per i Pink Floyd), presenta molti oggetti inediti raccolti durante la storia della band. È un viaggio audiovisivo attraverso 50 anni di uno dei gruppi rock più iconici e uno sguardo attento nel mondo meno conosciuto dei Pink Floyd. Il colossale allestimento del Victoria and Albert Museum di Londra è stato il più visitato (nel suo genere). In esclusiva per l’Italia è ospitata dal Macro di Roma, dal 19 gennaio.

Critica musicale alla riscossa

I primi passi sono stati fatto nell’ambito del Meeting delle etichette indipendenti (Mei) di Faenza. Durante la rassegna, dal 2016, è stato organizzato un Forum del giornalismo musicale a cura di Enrico Deregibus dove è nata l’idea di un’associazione specifica. Una realtà simile a quelle dei critici legati alla musica classica e al teatro e che riunisca coloro che in varie forme si occupano di linguaggi popolari. Un’idea ancora in via di definizione, ma che ha trovato adesioni dopo vari dibattiti seguiti ai lavori delle due edizioni faentine del Forum. In questa sede si sono infatti incontrati giornalisti che scrivono sui quotidiani e periodici o lavorano per emittenti radio-televisive, collaboratori di testate on line, autori di blog, uffici stampa specializzati con una estesa rappresentanza del territorio nazionale oltre che di varie fasce di età.
Nel Forum faentino si sono creati di gruppi di lavoro che hanno approfondito vari aspetti su un’attività professionale che deve tenere conto con la contrazione degli spazi nei giornali cartacei, la chiusura di testate, il minore interesse per la musica e la cultura rispetto ad anni passati. Ma anche, al tempo stesso, a un aumento della quantità di produzione musicale e alla diffusione della stessa attraverso nuovi canali oltre al fenomeno dei social che a sua volta diventano mezzi di promozione al di fuori delle regole della comunicazione tradizionale oltre che dell’informazione. In entrambe le edizioni si sono poi organizzati corsi di formazione professionale per giornalisti, come previsto per gli iscritti all’ordine.
Il progetto dell’associazione ha avuto quindi il via con la stesura di una bozza di statuto da parte di una gruppo di lavoro coordinato dal giornalista Michele Manzotti. Lo scopo era quello di arrivare con il documento all’appuntamento romano del Mei, Meillennials, che si è tenuto al Monk poco prima di Natale. L’incontro ha ripreso i temi affrontati a Faenza, come la necessità di formare un’associazione autorevole che tuteli la dignità professionale degli iscritti e che tenga conto della realtà lavorativa attuale. Necessità confermate in un corso di formazione professionale sulla deontologia della critica musicale tenutosi il giorno precedente a Roma. Dall’appuntamento al Monk, con un dibattito durato due ore circa, sono giunte esigenze di concretizzare il progetto con un apposito regolamento sui parametri di adesione da affiancare allo statuto. L’obiettivo è quello di dare il via definitivo all’associazione durante il Mei di Faenza nel settembre 2018.

Michele Manzotti e, alla sua destra, Enrico Deregibus

La mano invisibile del mercato

La mano invisible ©EXIT media

Con la metafora della “mano invisibile” Adam Smith esprimeva la fiducia che, lasciando gli individui liberi di perseguire i propri interessi, la società avrebbe prosperato. Smith era anche un umanista e un filosofo morale, dunque era lontano da quell’idea di “mano invisibile” che si è affermata negli ultimi decenni e che confida nelle leggi anonime del libero mercato: oggi ormai l’intera società sembra regolata da un’entità invisibile, che non risponde a bisogni o istanze democratiche, e che impone un ordine insensato a cui i singoli (ma anche paesi e governi) devono sottomettersi per sopravvivere.
Il film La mano invisibile dello spagnolo David Macián ci racconta meglio di tante astratte elaborazioni il dramma generato dall’affermazione di questo tipo di ordine sociale. Il film è spiazzante: alcuni lavoratori sono assunti per recitare in uno spettacolo, davanti ad un pubblico che non vediamo mai, una parte che consiste nello svolgimento di una mansione assolutamente inutile. Non sappiamo chi e perché ha organizzato lo spettacolo (se per profitto o per un esperimento sociale), ma i lavoratori coinvolti nella rappresentazione sono veramente tali: hanno un contratto, uno stipendio, dei ritmi da rispettare nell’assolvere il loro inutile compito, vivono la precarietà e la minaccia di licenziamento, cosicché le dinamiche di questo microcosmo – che ci tengono incollati allo schermo per 80 minuti – ci aprono gli occhi sulla condizione del lavoro nella società contemporanea. Ognuno di noi può rintracciare nel film un episodio della propria vita lavorativa, così come ciascuno si è trovato talvolta dalla parte dello spettatore che giudica il lavoro altrui, talaltra da quella di chi è giudicato oppure è costretto a svolgere compiti che non sappiamo quale mente preversa abbia potuto progettare.
Con un antirealismo sapientemente associato alla profonda conoscenza del mondo del lavoro, il film si interroga dunque sul senso del lavoro nella società di oggi. Dobbiamo auspicare che la pellicola circoli nelle sale, nelle scuole e nelle università: perché la domanda sul come la “mano invisibile”, da idea che afferma il diritto di ciascuno di seguire le proprie inclinazioni, si sia risolta in un annullamento invisibile e immotivato del lavoro e degli esseri umani, è una domanda che non può essere evitata.

Una vignetta ti seppellirà, caro Donald

Donald Trump e Benjamin Netanyahu davanti a Gerusalemme Est

«Cammino per un declivio e mi chiedo: come fanno a divergere le narrazioni della luce sulla pietra?». Mahmoud Darwish, il più grande poeta palestinese, narratore della Nakba, l’esilio, l’occupazione e la memoria, raccoglie tra le righe della sua poesia “A Gerusalemme” (traduzione di Wasim Dahmash) le due narrative di una stessa città. O le infinite narrative su un luogo che da secoli ispira poeti, musicisti, pittori: la città santa, la città delle mille occupazioni, la città da liberare agli occhi dei crociati e la città testimone della conquista di Saladino, la culla di ebraismo, cristianesimo e islam, la città contesa, divisa e violata.

«Oh Gerusalemme, città del dolore, una grande lacrima erra nell’occhio. Chi porrà fine all’aggressione contro di te, perla delle religioni? Chi laverà le tue mura insanguinate? Chi proteggerà la Bibbia? Chi porterà in salvo il Corano? Chi salverà Cristo? Chi salverà l’uomo?». La lirica del poeta Nizar Qabbani omaggia la città di tutti, dell’uomo e dunque dell’umanità, minacciata oggi da chi vuole farne la città di uno solo.

La narrazione diventa centrale soprattutto per lo sconfitto, il soggetto privato del diritto su Gerusalemme e della possibilità di chiamarla – e di viverla – come casa propria. I palestinesi lo fanno tenendo vivo il suo nome arabo, Al Quds (la santa), e la sua cultura araba, cristiana e islamica, ma anche raccontandola attraverso l’arte. Per dirlo al mondo e ricordarlo a se stessi: «C’era una terra e c’erano mani che costruivano sotto il sole e il vento. E c’erano case e finestre che sbocciavano, e c’erano bambini con i libri tra le mani», canta in “Old Jerusalem” la voce di Fairuz, cantante libanese nota in tutto il mondo arabo. Ogni mattina in Palestina, dalle radio nei bar o nei servis, gli autobus a sette posti che collegano la Cisgiordania, le sue note risuonano, dolce tradizione da consumare dopo l’alba.

Sta qui la consapevolezza della minaccia delle parole: la dichiarazione del…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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La ballata del ribelle Woody Guthrie

«Ti molestano i poliziotti, questo lo so / Ma quella gente non sa fare altro / E quando da morto in Paradiso andrai / Di poliziotti non ne troverai». Si chiude così una delle più belle ed evocative ballate di Woody Guthrie, forse non tra le sue più note, di recente resa in maniera splendida in un locale del centro di Roma dalla voce e dalla chitarra di Luigi “Grechi” De Gregori.

La canzone ha per titolo “The Hobo Lullaby”, ove il termine hobo, di origine incerta, identifica chi senza fissa dimora si sposta da un luogo all’altro, da una città all’altra, in cerca di lavoro. Si tratta di figure spesso accomunate a quelle dei semplici vagabondi di cui è piena la storia americana; e di cui erano pieni anche i vagoni dei treni, soprattutto di notte, dal momento che gli spostamenti avvenivano spesso in maniera clandestina proprio a mezzo rotaia.

Woody Guthrie è stato egli stesso a lungo un hobo, e in un certo senso non ha mai smesso di esserlo, anche negli anni in cui le sue canzoni, in un modo o nell’altro hanno cominciato a circolare in maniera più pervasiva in America; persino quando il senso della sua tournée infinita non fu più la necessità e l’impulso di andarsene da casa sua, ma quella di spargere musica e la voglia di stare sempre e indiscutibilmente dalla stessa parte, la parte degli oppressi.

Sempre o quasi lontano dal successo commerciale, la sua figura è però presto divenuta un mito, e le sue canzoni hanno fatto e fanno parte del repertorio di tanti grandi cantori della protesta di ieri e di oggi. Difficilmente saremmo in grado di immaginare uno spazio, nella nostra contemporaneità, per un canto ostinato e contrario senza l’eredità delle canzoni di rivolta lasciata da Guthrie.

È appena uscita in Italia la traduzione de La ballata di Woody Guthrie (Minimum Fax) proprio per mano…

L’articolo di Enrico Terrinoni prosegue su Left in edicola


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Alle origini dello schiavismo made in England

Nel 1802 i moli del West India Quay sul fiume Tamigi furono completati grazie agli investimenti dei mercanti. Del vecchio porto oggi resta solo l’edificio del museum of London Docklands che nel 2007, non senza polemiche, inaugurò la mostra permanente London, sugar and slavery. L’allestimento nel cuore dell’ex terminale dell’impero britannico di un’esposizione sulla plurisecolare barbarie che si consumò all’interno del “Triangolo degli schiavi” delimitato fra Inghilterra, Africa e America dalle rotte dei vascelli negrieri (3mila quelli salpati dalla sola Londra) fu interpretato da alcuni come un atto politico.

Colin Prescod dell’Institute for race relations, uno degli esperti interpellati per l’allestimento, replicò che qualsiasi fattore mettesse in discussione i rapporti fra Londra e lo schiavismo non poteva non avere un impatto politico. Fra coloro che dettero un contributo alla mostra anche Cy Grant, pronipote di schiavi della Guyana, attore, poeta e musicista, che affermò che su questo tema il popolo britannico era affetto da «amnesia collettiva». Oggi la mostra è ospitata al terzo piano di un edificio basso, sovrastato da grattacieli costruiti secondo la stessa logica del profitto in purezza di cui lo schiavismo fu frutto, nel cuore di quella gigantesca riconversione dei Docklands a città finanziaria che si svolse negli anni Ottanta sotto la spinta di un’entusiasta Margaret Thatcher. E, fra gli altri, è meta di scolaresche composte anche dai discendenti di coloro che fra queste mura furono…

L’articolo di Francesco Troccoli prosegue su Left in edicola


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