«Qui, un grande shock per noi, cara mia». La voce dolce di Suad Amiry si diffonde via whatsapp. Shock è una parola che pronuncia con coraggio, con l’audacia delle pagine dei suoi libri. Tra questi, c’è Golda ha dormito qui. Anche Golda Meir, primo ministro d’Israele, si è insediata in una casa che apparteneva ad un palestinese, una villa da cui aveva fatto cancellare tutte le scritte e decorazioni arabe, nel 1948. In quel libro, pubblicato in Italia da Feltrinelli, Suad lasciava fuori la geopolitica internazionale per affrontare i sentimenti universali come quello della perdita della casa, dei ricordi. «È uno stato d’animo che tutti possono capire: se perdi casa tua, se vedi che c’è un’altra famiglia dentro, quel trauma non ha confini, possono capirlo tutti, è una cosa concreta, uno stato psicologico comune». La Palestina come casa, come spazio intimo perduto. Architetto e scrittrice Suad è nata a Damasco, ora vive a Ramallah, e non può vedere sua sorella e suo fratello che vivono in Giordania né può andare a Gerusalemme est.
Come si vive a Ramallah?
A Ramallah la gente non sa cosa fare. Ma accadono molte cose. I ragazzi dopo la scuola vanno ai check point a protestare. Le persone si confrontano ogni giorno, ci sono manifestazioni al centro della città, e devo dire che si sentono in giro discussioni interessanti. È la prima volta che i giovani chiedono consigli agli adulti che hanno partecipato alla prima Intifada. I giovani non dimostrano la solita mancanza di fiducia che provano per la generazione precedente, per la politica, per esempio, della generazione Abu Mazen. Oggi (il 19 dicembre ndr) andrò a una di queste riunioni, perché dobbiamo capire cosa pensano i giovani. Incontrerò un…
Palestinian Ahed Tamimi (R), 17, a well-known campaigner against Israel's occupation, appears at a military court at the Israeli-run Ofer prison in the West Bank village of Betunia on December 20, 2017.
Israel's army arrested Tamimi on December 19, 2017, after a video went viral of her slapping Israeli soldiers in the occupied West Bank as they remained impassive. / AFP PHOTO / Ahmad GHARABLI (Photo credit should read AHMAD GHARABLI/AFP/Getty Images)
Avigdor Liebermann, ministro della Difesa israeliano e residente in una colonia, illegale secondo la Convenzione di Ginevra e l’Onu, si è felicitato dell’arresto della giovane palestinese Ahed Tamimi, del villaggio di Nabi Saleh, ed ha subito dichiarato: «Nessuno – non solo la ragazza ma anche i genitori e tutti quelli intorno a loro – sfuggiranno a quello che meritano… Qualsiasi persona che diventa violenta durante il giorno verrà arrestata di notte». Eseguite le volontà di Lieberman, Ahed è stata sequestrata di notte con le solite incursioni di soldati alla ricerca di ragazzini che forse hanno tirato pietre nelle manifestazioni del venerdì. Anche Nour Tamimi, la cugina, è stata presa dai soldati mentre dormiva. Erano le 5.29 del mattino del 19 dicembre quando ho ricevuto da sua madre, Boshra, un messaggio: «Hanno preso Nour».
Il giorno prima al posto di polizia vicino alla colonia Adam, avevano arrestato Nariman, la madre di Ahed, indomita attivista, ferita più volte e già arrestata in precedenza dall’esercito israeliano. La mattina dopo il padre è andato alla prigione di Ofer, dove i palestinesi vengono giudicati da un tribunale militare, per assistere alla prima udienza di Ahed ed è stato arrestato e rilasciato dopo qualche ora con l’obbligo di recarsi il giorno successivo al posto di polizia.
Ahed, Nariman e Nour, sono state arrestate perché hanno osato “umiliare”, l’esercito “più…
In questo tribolato fine anno che si conclude senza vedere riconosciuti diritti fondamentali come lo ius soli e senza nemmeno l’ombra di corridoi umanitari per i moltissimi che scappano da guerre, dittature e povertà, che fine ha fatto una prospettiva di sinistra? Qualche fragile segnale di una sinistra che prova a riorganizzarsi dal basso si intravede all’orizzonte, volendo essere molto generosi e ottimisti. Aduggiata dalla gigantografia del naufragio del Giglio magico che campeggia su tutti i giornali. Matteo Renzi s’incarta da solo, dopo aver invocato la commissione banche, affidandola a Casini (che udite, udite, potrebbe essere candidato nelle liste del Pd a Bologna). Sempre più difficile per il segretario del Pd ed ex premier nascondere il macroscopico conflitto d’interessi della sottosegretaria Maria Elena Boschi riguardo alla Banca Etruria (solo Matteo Orfini intigna). L’audizione dell’ex amministratore delegato di Unicredit Ghizzoni ha indirettamente confermato ciò che De Bortoli ha scritto nel suo libro. (L’ex ministro Boschi aveva minacciato querela poi ha deciso di procedere per via civile).
Mentre scriviamo, perfino fedelissimi di Renzi, come Lotti e Delrio, vacillano rispetto alla ipotesi di una ricandidatura della Boschi, fosse pure nel collegio più lontano dal distretto dell’oro aretino. Segnali che la sonorissima bocciatura della riforma costituzionale Renzi – Boschi al referendum del 4 dicembre 2016 (ostinatamente negata dai due firmatari) comincia a produrre effetti, seppur con effetto retard?
Certo, ribadiamo, non basterà de-renzizzare il Pd perché diventi un partito di sinistra. Perché la sinistra possa rinascere in quest’Italia che a marzo andrà a votare con la legge truffa detta Rosatellum, occorre un drastico cambio di punto vista, è necessaria una visione politica nuova, laica, moderna, che dia rappresentanza ai gruppi sociali più deboli, che si apra alle donne e ai migranti come soggetti politici… per cominciare.
Negli ultimi vent’anni la sinistra è andata in tutt’altra direzione: quella “radicale” si è persa dietro al pifferaio Bertinotti, che dal Brancaccio del 1991 voleva condurla sul monte Athos, celebrando una rifondazione catto-comunista in salsa radical chic. Quella più moderata era già caduta per terra, rumorosamente come il muro nell’89, mentre inseguiva una non meglio identificata Cosa rossa. Così dopo la svolta della Bolognina si è applicata a imitare il blairismo e si ostina a farlo ancora oggi (inseguendo Macron), non accorgendosi che il neoliberismo figlio della Thatcher ha fallito bellamente e che, anche in Inghilterra dove è nato, è stato rottamato da un vecchio signore di nome Corbyn che dialoga con le nuove generazioni. Il vuoto totale di idee in cui, purtroppo, si dibatte la sinistra oggi è reso evidente dal suo continuo invocare papa Bergoglio come leader. Non vedendo (o facendo finta di non vedere) l’assoluto conservatorismo della dottrina, che condanna le donne a fare figli come conigli, che le addita come assassine se decidono di abortire.
Quali e quanti danni faccia la politica italiana genuflessa lo vediamo con chiarezza anche in questo fine anno: all’indomani dell’approvazione della legge sul biotestamento, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, dichiara di voler garantire l’esercizio dell’obiezione di coscienza sulle Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) a medici e strutture cattoliche. Anche se la legge appena approvata non prevede l’obiezione di coscienza. Anche se il diritto costituzionale al rifiuto e all’interruzione delle cure viene riaffermato nell’art. 1 della recente legge (sesto comma). È inaccettabile il violento paternalismo cattolico che annulla le esigenze, il sentire, il dolore della persona riducendola a mero corpo, mera biologia, da conservare ad ogni costo. Come si fa a non vedere quanto sia tutt’altro che misericordioso difendere la vita biologica come un valore inviolabile perché di proprietà divina? La laicità, al contrario, permette di fare leggi che tutelano i diritti di tutti, lasciando a chi crede la libertà di non sottoscrivere le Dat. Laicità è la parola chiave per la nuova sinistra. Ancor più ateismo. Un nuovo pensiero di sinistra non può essere fondato sulla trascendenza. Una nuova prassi di trasformazione non può essere basata sulla religione che nega ogni idea di trasformazione umana. Così alla fine di un anno molto duro e difficile l’augurio che facciamo ai nostri lettori e a noi stessi per il 2018 è che sia un anno all’insegna della ricerca, liberi di pensare e di non credere.
Palestinians mark the 13th anniversary of Palestinian President Yasser Arafat death, in the West Bank City of Ramallah, Thursday, Nov. 9, 2017.(AP Photo/Majdi Mohammed)
«Molti parlano di colpo fatale portato al processo di pace dalla decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma quale processo di pace? C’è mai stato un processo di pace? È pura ipocrisia», dice perentorio Walid, palestinese di Silwan, un quartiere di Gerusalemme est, raggiunto via Skype.
Walid, amaro, aggiunge: «Parliamo invece della sofferenza quotidiana dei palestinesi di Gerusalemme di cui nessun mai parla. Di geopolitica tutti parlano, ma della vita quotidiana c’è la totale omertà. Prima del 1947, la totalità di Gerusalemme era palestinese. Dopo il piano di partizione della Palestina delle Nazioni unite, lo stesso anno, l’Onu ha dato a Gerusalemme lo status di zona internazionale. Israele ha invaso Gerusalemme ovest e ha stabilito una frontiera di fatto chiamata Linea verde, cacciando migliaia di palestinesi da questa parte della città. Nel 1967, Israele ha occupato e poi annesso Gerusalemme est. L’occupazione e l’annessione di Gerusalemme est sono illegali secondo il diritto internazionale. I palestinesi che vivono a Gerusalemme est non hanno la cittadinanza israeliana. Dopo l’annessione, lo Stato israeliano ha effettuato un censimento di questa zona e ha concesso la residenza permanente a tutte le persone che si trovavano lì in quel momento. Le persone costrette dalla guerra a fuggire dalla città, hanno perso irrimediabilmente e da un giorno all’altro, il loro diritto di risiedervi. Nella loro città. La vita dei residenti permanenti (ufficialmente chiamati “residenti stranieri”), dipende dal cosiddetto “Center of life policy” introdotto nel 1995. I palestinesi devono provare costantemente che vivono in modo continuativo a Gerusalemme: devono radunare, conservare e esibire un mucchio di documenti, bollette della luce e dell’acqua, moduli di iscrizione a scuola, ricette mediche, ecc. pena la revoca della residenza».
Ma non basta racimolare e presentare questi documenti. «Una volta trasmessi al ministero dell’Interno – prosegue Walid – questi documenti vengono esaminati scrupolosamente e poi vengono organizzate dall’amministrazione visite a sorpresa per ulteriori accertamenti. Queste visite possono essere particolarmente crudeli: gli importi relativi al consumo di elettricità vengono scrupolosamente passati al vaglio, gli ispettori possono…
epa06389810 Labour leader Jeremy Corbyn joins workers to make coffee at a 'Change Please' mobile coffee stand in Borough Market, Central London, Britain, 14 December 2017. The 'Change Please' organisation retrains the homeless as baristas in a number of mobile coffee vans across London. EPA/WILL OLIVER
Le ultime parole di Jeremy il rosso nel 2017. No al secondo referendum sulla Brexit, si solo alla battaglia. «We will take battle out there». Noi daremo battaglia lì fuori. Corbyn forever. Fino al 2022. E lo dice lui.
Mangiando barrette energetiche ed evitando l’alcol e la carne, a 68 anni, – ed è lui stesso a dirlo-, combatterà la May, col porridge a colazione. «Il governo May è così instabile che potrebbe crollare nei prossimi 12 mesi», ma lui è disposto ad «aspettare fino al 2022», se la minoranza sugli scranni dei Tories dovesse durare. Lo ha detto al Congresso dei Labour del 28 dicembre, prima della fine di un anno che per lui è stato l’apogeo della carriera politica: continuerà così e potrebbe continuare così per altri cinque anni.
«Ho energia, abbiamo tanta energia». Solo un anno fa il partito di Jeremy il rosso era 21 punti dietro quello della May, che governava con una maggioranza solida che non si registrava dal 1983, poco prima della vittoria di Margaret Thatcher. Adesso, a fine anno, è tempo di tirare le somme e quelle di Corbyn tornano più che mai: lo share dei Labour è cresciuto con il 68enne di 9.6 punti, raggiungendo percentuali non registrate più dopo Clement Attlee, dopo la Seconda guerra mondiale.
«È stato un anno interessante, questo è certo, ho partecipato a 100 eventi, durante la campagna elettorale, ho viaggiato in lungo e largo questa terra. Non abbiamo vinto alle elezioni, questo è il mio rimorso. Ma abbiamo avuto il più grosso voto dei Labour in Gran Bretagna dal 1970, il più diffuso dalla Seconda guerra mondiale. Ed è stato raggiunto durante la campagna elettorale, e questo è insolito».
La sua campagna è stata lanciata solo a maggio scorso, il 16, all’università di Bradford. «Distribuivo copie del manifesto, sembrava strano, le persone premevano contro i vetri mentre parlavano, sembrava una scena del Laureato». Ora Corbyn deve affrontare le sfide del nuovo anno, come le prossime elezioni amministrative.
«Le elezioni più grosse ci saranno a Londra, Birmingham, Newcastle e lavoreremo sodo. A Londra ci concentreremo sulle abitazioni per tutti». Sulla Brexit non torna indietro: «facciamo parte dello stesso continente europeo, dobbiamo mantenere una relazione economica, le relazioni tra università, l’Erasmus. Ma non stiamo indicendo un secondo referendum. Accettiamo i risultati del primo, il referendum c’è stato, il Leave ha vinto».
L’ultima di Corbyn è questa: aspettare. Il leader laburista è pronto a combattere alle elezioni anytime, anche se il tempo per lui tarderà ad arrivare e il governo dovesse sopravvivere a se stesso. E aspettare – sarà capace, dice – fino al 2022.
epa05820772 Chinese player Tan Zhongyi (L) faces Anna Muzychuk (R) of Ukraine in the first game of their Women's World Chess Championship final in Tehran, Iran, 28 February 2017. EPA/ABEDIN TAHERKENAREH
L’ipocrisia è un ingrediente che va cotto con calma, servito con una certa impudenza e dissimulato con abilità: solo così ci si può permettere di dare una notizia con la leggerezza di un banale discorso da bar e fingere che “tutto va ben”.
L’ipocrisia oggi sta tutta nelle paginate di lodi sperticate riservate alla campionessa di scacchi Anna Muzychuk che ha deciso di non partecipare ai mondiali in Arabia Saudita per, come ha spiegato lei stessa, “non giocare secondo le regole altrui, non indossare un velo, non essere scortata in giro e non sentirmi una sottospecie umana”.
Via con gli elogi. Tutti a sottolineare come ci voglia coraggio per rinunciare ai titoli mondiali (due, nel caso della Muzychuk) per difendere i propri principi, tutti a sottolineare la grandezza di chi non legittima Paesi così poco democratici, tutti a insegnarci come lo sport ancora una volta sia un esempio altissimo.
Peccato che i sauditi dell’Arabia Saudita siano gli stessi a cui il governo italiano (Gentiloni e Pinotti in testa) hanno venduto ventimila bombe (e altro materiale bellico) che hanno provocato in Yemen almeno diecimila morti tra i civili. Peccato che il governo italiano sia lo stesso che in Europa ha votato una Risoluzione del Parlamento Europeo per “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen e poi è diventato il suo primo spacciatore bellico. Peccato che i sauditi che oggi su tutte le pagine figurano come “cattivi” siano gli stessi con cui alti esponenti del nostro governo si sono fatti fotografare con pose sorridenti.
Peccato, soprattutto, che i giornalisti di casa nostra si dimentichino questo piccolo particolare mentre raccontano la favola della campionessa di scacchi. Già. Peccato.
Ormai tradizione consolidata, al pari di pandoro e lenticchie, torna anche quest’anno la verifica annuale del Cicap sulle previsioni astrologiche e le profezie che si sarebbero dovute avverare nel corso del 2017.
Come ricorda Massimo Polidoro, segretario nazionale del Cicap: «È un controllo che il Comitato porta avanti da oltre vent’anni, anche se nella maggior parte dei casi possiamo solo dire che le previsioni sono così vaghe e generiche che non si possono nemmeno smentire. Dire che nell’anno nuovo “morirà una persona famosa” o “ci sarà una catastrofe” non sono previsioni, ma ovvietà».
«E ugualmente», ribadisce ancora Stefano Bagnasco, fisico dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e coordinatore del Gruppo di studio sull’astrologia del Cicap, «i casi di profezie avverate non significano necessariamente che si posseggano doti paranormali, ma piuttosto che a forza di tirare a indovinare qualcosa si azzecca. Soprattutto se la previsione è sufficientemente oscura e aperta alle interpretazioni».
Cosa, quest’ultima, che capita immancabilmente quando si tira in ballo Nostradamus. Racconta Sonia Ciampoli del Cicap e responsabile della raccolta delle previsioni: «In maniera piuttosto arbitraria, alcune delle Quartine del profeta francese sono state lette come riferite al 2017, ma anche stavolta nessuna sembra essersi realizzata».
Le catastrofi previste da Nostradamus
Secondo Nostradamus, infatti, sugli Stati Uniti occidentali si sarebbe dovuto abbattere un terribile terremoto (quello che gli scienziati pensano arriverà dalla faglia di Sant’Andrea in California, forse?), mentre il Vesuvio sarebbe tornato a provocare morte e distruzione con una gigantesca eruzione. Per fortuna, nessuno dei due eventi si è verificato, così come non risulta che abbiamo iniziato a parlare con gli animali, né che i raggi del sole arrivino più potenti sulla terra: più plausibile, per chi guarda con preoccupazione alle dinamiche politiche internazionali, è la previsione di un incombente terza guerra mondiale, che gli estimatori di Nostradamus legano indissolubilmente alla Quartina 40, che avrebbe previsto senza ombra di dubbio l’elezione di Trump. Recita infatti la Quartina nella sua traduzione inglese: «The false trumpet concealing madness will cause Byzantium to change its laws», dove, ovviamente, il “trumpet” sarebbe Trump e Bisanzio viene letta come Grecia e interpretata come paese centrale delle rotte di emigrazione.
«Possiamo leggere tutto dappertutto, se forziamo le interpretazioni ai nostri bias» continua Massimo Polidoro. «Perché mai Nostradamus nel Cinquecento avrebbe dovuto parlare di Grecia chiamandola Bisanzio, visto che quello è l’antico nome di Costantinopoli – come era nota ai tempi di Nostradamus – poi diventata Istanbul? E perché la Grecia sarebbe centrale nell’emigrazione verso l’America, che invece segue altri percorsi e proviene significativamente da altre zone? Senza contare che, andando a leggere l’originale della profezia di Nostradamus, si scopre che manca un pezzo: “La tromba falsa che finge follia farà Bisanzio un cambiamento delle leggi: uscirà d’Egitto chi vuole che ci si compiaccia editto che cambia monete e leghe metalliche”. Come sempre, con Nostradamus, qualcosa di completamente vago e interpretabile a piacere, ma che davvero non ha nessun collegamento con gli Stati Uniti o con Trump».
Trump e il mondo in guerra
Trump invece è centrale in molte delle previsioni raccolte dal Cicap, e questo è decisamente poco sorprendente, vista l’importanza della sua carica e la peculiarità del personaggio. La sedicente sensitiva Claudia Pinna prevedeva ad esempio che avrebbe fatto scoppiare la terza guerra mondiale, ma – quantomeno per quest’anno – non è andata così.
E su questo tema che crediamo preoccupi molti, qualcuno comincia già ad avanzare qualche ipotesi per il 2018, per esempio Craig Hamilton-Parker, celebre veggente inglese che avrebbe predetto tanto la Brexit quanto l’elezione di Trump stesso (ma in realtà quest’ultima no), secondo il quale il dittatore nordcoreano Kim Jong-un verrà rovesciato da una sommossa interna e il suo cadavere non verrà mai ritrovato, facendo sospettare molti che si sia rifugiato in Cina. Di questo parliamo l’anno prossimo, però, come di un po’ tutte le fosche previsioni di guerre e disastri e terribili conflitti per il 2018.
Catastrofi, attentati e politica internazionale
Tornando al 2016, diverse previsioni catastrofiche non si sono avverate, come quella di Gennaro D’Auria, che profetizzava un eccidio in metropolitana, a Roma o Napoli, o ancora di Claudia Pinna, che si aspettava anche lei degli ostaggi in metropolitana, un attentato Isis a Roma e «Caos e disordini al mercato del mercoledì di Chivasso», oltre a un terribile attentato a Trump, che avrebbe provocato morti e feriti.
Riguardo l’ISIS, è interessante la previsione dell’astrologa Grazia Mirti, che dichiarava: “Per Isis primavera agitata, poi dovrà calmarsi, in autunno, quando potrebbe perdere definitivamente la partita.” Ci sentiamo di attribuirle un punto perché in effetti, quantomeno in Siria, l’Isis ha perso, e proprio a inizio autunno.
In politica, sia Grazia Mirti sia Otelma prevedevano elezioni anticipate nel 2017, ma come si è visto, invece, la legislatura viene portata a termine e si andrà alle urne solo l’anno prossimo.
Il premio per la profezia più vaga dell’anno lo vince Astra, che ha dichiarato “laddove ci sono squilibri e risse, queste potrebbero accentuarsi o dar modo alle potenze oscuro e a nemici nell’ombra di mettere in atto i loro intenti, cercando di sopraffare la libertà altrui. Ma siccome questa eclissi si forma in trigono a Giove, è sperabile che le forze buone abbiano il sopravvento”. Vince invece la menzione speciale per tecnica profetica più improponibile Solange, che ha letto il piede alla candidata sindaca di Carrara, prevedendone la vittoria: Alessandra Caffaz ha invece ottenuto solo l’1,8% dei voti.
Juve vince, Juve perde
Il 2017 è stato generoso con quanti si sono avventurati nelle previsioni sportive: il mago Otelma ha ad esempio profetizzato con successo che la Juve non avrebbe potuto vincere la Champions League: in effetti i bianconeri sono stati sconfitti dal Real Madrid per 4 a 1, ma stiamo parlando di calcio: le probabilità di indovinare un risultato sono pari a quelle del lancio della monetina. Sempre Otelma, ma anche Grazia Mirti, avevano dato per certo il ritiro di Totti dal calcio, ma anche qui, che il capitano giallorosso avrebbe smesso di giocare era nell’aria da qualche tempo, un po’ per sopraggiunti limiti di età, un po’ per un lungo periodo di tensioni con la società sportiva.
Errore clamoroso invece in materia da parte dell’infallibile gatto Peo, famosissimo a Roma per i suoi pronostici sportivi, che assegnava la vittoria della Champions proprio alla sconfitta Juventus.
Fine del mondo (anche quest’anno)
Non sono mancate le consuete fini del mondo annuali: dopo avere clamorosamente bucato la propria stessa previsione dell’impatto fra la Terra e il solito pianeta X dato come certo al 23 settembre, David Mead ha ripiegato poi su un’apocalisse in differita che doveva iniziare il 15 ottobre e proseguire per ben 7 anni. Mentre secondo Terral Croft il 19 novembre si sarebbero dovute susseguire una lunga serie di catastrofi, fra terremoti, vulcani e faglie sotterranee.
Si potrebbero poi prendere in considerazione tutti gli eventi rilevanti che nessuno ha predetto, per esempio il tragico attentato a Manchester dopo il concerto di Ariana Grande o la terza gravidanza della duchessa di Cambridge Kate Middleton.
«Il problema è che affermare a posteriori che nessuno aveva previsto l’avvento degli alieni presta sempre il fianco alle obiezioni del tipo “non è vero, io l’avevo detto qui e qui”, dove per qui e qui si intende qualche oscura e criptica riga su un sito web o qualche frase che nella migliore delle ipotesi lascia spazio alle interpretazioni» riprende Stefano Bagnasco. «Senza considerare che, per forza di cose, questo del Cicap è un esperimento a campione che non ha la pretesa di essere un rigido studio scientifico, per cui non possiamo escludere che davvero un veggente dell’Agro Pontino abbia previsto la vittoria di un cinepattone agli Oscar, magari una sera a cena con gli amici».
«Quello che però possiamo ribadire» conclude Massimo Polidoro «è che se davvero le stelle fossero così prodighe di informazioni sul futuro forse le varie previsioni convergerebbero e sarebbero più uniformi, così come dovrebbe essere tutto sommato abbastanza semplice trovare quelle degli eventi più significativi. Invece, anche il 2017 si è rivelato per l’ennesima volta un fiasco per l’astrologia».
Il Cicap è un’associazione educativa e pedagogica, fondata nel 1989 da Piero Angela e da altre personalità del mondo della scienza e della cultura tra cui Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini e Umberto Veronesi, per favorire la diffusione di una mentalità scientifica e contrastare pseudoscienza e superstizione.
La 'protesta musicale' in piazza Montecitorio a Roma, messa in scena dai precari dell' 'Afam', il settore dei conservatori e delle accademie d'arte in Italia, 28 novembre 2012. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI
Nella legge di bilancio 2018 sono state inserite delle norme volte alla risoluzione del precariato nelle istituzioni Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica). Della vicenda si era occupato Left nel numero del 9 dicembre con un articolo intitolato “Schiaffo del governo ai precari”. Nei giorni successivi poi c’era stata una grande mobilitazione del settore che ha portato al coronamento di lotte decennali condotte da docenti con ben oltre dieci anni di servizio alle spalle e un’età media di cinquanta anni, che ormai costituiscono circa un quarto del personale docente Afam. Ora bisognerà vigilare affinché il Miur applichi la legge in tempi e modi ragionevoli, e c’è da augurarsi che questi provvedimenti segnino l’inizio di un rinnovato interesse per accademie e conservatori, in questi anni abbandonati dalla politica al loro destino.
Per operare nella giusta direzione sono convinto che saranno necessarie riflessioni e analisi per comprendere come mai nel nostro Paese l’arte, la musica e la cultura in generale contino così poco.
Per quello che riguarda il mio settore, quello musicale, c’è da dire che l’Italia è tuttora considerata nel mondo un punto di riferimento per il contributo fondamentale che fino al XVIII secolo ha dato alla musica occidentale; basti pensare che la notazione musicale è nata qui e l’italiano è la lingua internazionale per la terminologia tecnica. Con l’avvento del colonialismo, della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese nelle nazioni del nord Europa vi fu uno sviluppo economico, sociale e culturale repentino. La musica, che fino a quel momento era stata appannaggio della nobiltà e del clero, iniziò a essere promossa dalla borghesia emergente, cui si devono la diffusione delle orchestre sinfoniche e la nascita delle società dei concerti. Ciò ebbe delle ricadute anche sugli strati sociali più bassi, portando a una grande diffusione delle pratiche musicali. L’Italia non fu toccata che marginalmente da questi processi storici, e per i compositori italiani l’unica possibilità di continuare a esprimersi con successo fu scrivere per il teatro musicale.
Ad ostacolare ulteriormente il diffondersi delle pratiche musicali tra la popolazione vi fu la determinazione con cui la Chiesa cattolica, al contrario di quelle protestanti, ha sempre osteggiato l’utilizzo di strumenti musicali che non fossero l’organo o la voce nei luoghi di culto. Agli inizi del ‘900 eravamo uno Stato unitario da pochi anni, afflitto dall’emigrazione e con tasso di analfabetismo enorme rispetto al resto d’Europa. Il problema fu affrontato con la riforma della scuola del 1923, che rispecchiava il pensiero elitista del filosofo idealista Giovanni Gentile, suo principale artefice. Il Liceo classico, destinato a formare la classe dirigente, era la scuola da cui il “fare” era bandito, dove si studiava Storia dell’arte senza mai impugnare una matita. Bastava scendere di un gradino, al Liceo scientifico, e allo studio della Storia dell’arte si affiancava la pratica del disegno, per arrivare fino alle scuole professionali, dove le attività manuali prendevano il sopravvento. La musica era comunque assente da tutte le scuole, in quanto considerata un mero svago, e non un’esperienza e una possibilità di espressione da garantire a tutti i cittadini. Nel 1930 i vecchi conservatori di musica furono integrati in un sistema nazionale con programmi comuni, ma ai diplomi non venne riconosciuto valore di laurea, e nemmeno di diploma di maturità.
I primi conservatori erano nati a Napoli alla fine del XVI secolo sulla falsariga dell’attività di più antiche istituzioni di beneficenza nelle quali si garantiva un futuro a orfani e trovatelli insegnandogli un mestiere. Alle attività artigianali, insegnate dal “mastro” (da cui l’appellativo “maestro” oggi usato per i musicisti), si affiancarono presto quelle musicali, dato che nel XVII secolo si aprivano prospettive di lavoro in questo campo. Alla fine del XVIII secolo, quando l’esercito francese occupò Napoli, la scuola musicale napoletana, sviluppatasi nel Conservatorio della pietà dei Turchini, era considerata una delle massime eccellenze europee per la formazione musicale. I francesi, affascinati dal modello italiano, tanto da fondare nel 1795 a Parigi il Conservatoire National de Musique et de Déclamation, non condividevano però l’impostazione didattica italiana, basata sulla vecchia pratica artigianale in cui l’esempio del maestro e la pratica precedevano lo studio teorico, incoraggiando gli studenti a mettere le mani sugli strumenti musicali prima di saper leggere o scrivere la musica.
Nella Francia illuminista si stavano diffondendo pratiche pedagogiche basate sull’idea che ogni disciplina degna di studio necessitasse di un metodo razionale, e che nell’apprendimento lo studio della teoria dovesse essere anteposto alla pratica, confondendo conoscenza e classificazione con quell’esperienza grandemente inconsapevole che porta dall’ascolto del suono alla capacità di produrlo usando il corpo. La didattica francese che prevedeva lo studio della lettura della musica prima di poter approcciare uno strumento, negli anni successivi perfezionata con l’invenzione del solfeggio parlato, fu imposta nel Conservatorio di Napoli durante l’amministrazione francese e poi, anche in seguito alla presenza francese nell’Italia settentrionale, si diffuse in tutt’Italia. I programmi ministeriali del 1930 purtroppo presero come modello di riferimento la didattica musicale francese, scarsamente considerata nel resto d’Europa, bloccando il rinnovamento che molti musicisti e intellettuali dell’epoca auspicavano. Solo nel 1999, in seguito al processo di Bologna, che aveva il compito di riformare i sistemi di istruzione superiore dell’Unione europea, vi fu una seconda riforma, con l’emanazione della legge 508/99.
Lo studio superiore delle arti, della musica e delle arti performative, fu inquadrato nell’Afam e ai diplomi fu riconosciuto finalmente valore di laurea. Purtroppo fino a oggi, dei 9 regolamenti di attuazione che la legge prevedeva ne sono stati emanati solamente due. Nel disinteresse della politica in questi anni hanno prevalso interessi particolari tesi a bloccare il processo di riforma o a indirizzarlo verso direzioni inconfessabili. Ai docenti e agli studenti è stato impedito di partecipare al processo di applicazione della riforma, e la gestione dell’ordinario è stata lasciata in mano alla burocrazia ministeriale che, senza una direzione e regole certe, ha gestito il sistema spesso improvvisando o dando ascolto a questa o quella suggestione o corrente di pensiero. Oggi la fine del precariato storico, rendendo più stabile il sistema, allontana eventuali propositi di ridimensionamento di delegittimazione dell’Afam a favore di istituzioni private, ed è un’occasione perché si apra una nuova stagione di lotte affinché non solo la riforma sia portata velocemente a termine, ma anche perché i conservatori di musica siano visti non come cattedrali nel deserto, ma come elemento fondamentale di una vita musicale e civile degna di una nazione moderna.
Mi auguro di non sentire più dire “in Italia ci sono troppi conservatori”, bensì “ci sono poche orchestre, poche bande musicali, pochi laboratori musicali nelle scuole, troppo pochi sono gli italiani che per diletto suonano uno strumento musicale e sanno leggere la musica, troppo poche sono le risorse investite nella musica e nello spettacolo”.
Il senso della bellezza – Arte e scienza al Cern, film documentario di Valerio Jalongo è stato inizialmente proiettato nelle sale italiane unicamente il 21 e 22 novembre, riscuotendo un inaspettato successo tra il pubblico specializzato e non, tanto da richiedere una nuova programmazione in tutta Italia Quest’opera che indaga le connessioni tra arte e scienza, meraviglia il pubblico, aprendo le porte del laboratorio di ricerca più grande al mondo. Ed è proprio questa comunità scientifica internazionale, che in momento di crisi politica europea, rappresenta una realtà non più utopica, in cui la ricerca, il desiderio di conoscenza e libertà di pensiero sono animate da una passione collettiva.
Valerio Jalongo, lei è di formazione filosofo e solo successivamente si è dedicato al cinema. Cosa l’ ha portata a prendere questa strada?
Devo dire che erano due passioni che coesistevano fin dall’inizio. Uscito dal liceo non avevo le idee chiare ma la filosofia è una chiave per aprire tante porte. Non ho mai pensato di fare il filosofo, soprattutto quella del cinema è stata una passione che avevo fin da quando avevo 15-16 anni e che poi negli anni ha trovato un’ espressione. Forse questo film di speciale ha di mettere insieme queste due passioni e anche due sguardi diversi, cioè quello più scientifico, che ho ereditato dalla mia famiglia e quello artistico che invece è stata una mia scelta personale. Questa esigenza di mettere insieme arte e scienza è qualcosa che avverto molto forte dentro di me, non solo per il mio vissuto ma anche perché credo che la scienza ha ormai un ruolo così grande, sta cambiando le nostre vite, e non può più essere appannaggio di pochi. Ne faccio un discorso se vuoi di democrazia: spesso al Cern dicevano “La scienza non è democratica” perché non si fa una votazione per decidere chi ha ragione: chi riesce a fare l’esperimento, ha la teoria che funziona, vince. Però questo non vuol dire che non debba essere in qualche modo compresa da un grande numero di persone e in qualche modo ricondotta a degli obiettivi comuni.
Che cosa ha scoperto al Cern e come ha arricchito questa esperienza?
Il Cern per me rappresenta un’immagine della scienza libera da applicazioni immediate, da finalità di arricchimento, o utilizzi in campo militare ed economico. Una scienza, come appunto la filosofia, che è l’immagine più bella della volontà di conoscere dell’uomo, del coraggio di andare oltre quello che conosciamo. Credo che questo sia stato un po’ il primo motore per me, perché non è che avessi questa grande curiosità sul mondo delle particelle ma quando ho visto quelle macchine e come per farle funzionare servisse una collaborazione tra tutte le nazioni, mi è sembrata un’immagine potentissima di come potrebbe funzionare il nostro mondo e di come in realtà già funziona.
Come è nata l’idea di questo film?
Mi viene da dire come nelle cose artistiche, ma non solo, ci sono cose che hanno un’origine un po’ misteriosa. C’era un grande regista, Ingmar Bergman, che diceva che quando iniziava a scrivere un film era come se tirasse un filo e piano piano si srotolava tutta la matassa. Come si diceva prima, probabilmente era qualcosa di latente dentro di me rispetto a mie passioni come la filosofia, la scienza. E poi se devo dire come è nato, è nato in una maniera assolutamente poco cosciente. Sono andato a fare una visita al Cern mi hanno fatto scendere in queste caverne, ho visto queste macchine e ho pensato: come è possibile che non ne so nulla di questo luogo? Lì vedi davvero la potenza, anche in qualche modo spaventosa, della tecnologia, vedi una macchina alta venticinque metri come quei rilevatori con miliardi di cavi, di tubi, di sensori.. ma come è nata una cosa del genere? Noi fino a poco tempo fa eravamo delle scimmie e abbiamo costruito una cosa così complessa che sembra quasi oltre la nostra capacità. A questo si aggiunge che non ha un’utilità pratica. E proprio in questo vedo la sua origine profondamente umana: il desiderio di conoscere, la curiosità, mentre spesso noi la tecnologia la viviamo o come minaccia o come qualcosa che teniamo in tasca, che è utile. Lì vedi l’essenza quasi trascendentale della tecnologia, che pure è nata da noi, dalla nostra mano – che è il nostro primo strumento tecnologico.
E ha incontrato delle difficoltà nel processo di lavorazione?
Devo dire di fondo c’era una ricerca personale, anche di un percorso più libero, artisticamente quindi uscire da certi schemi. Voi conoscete il cinema italiano, molto spesso si è confinati un po’ in certi schemi. Io qui ho avuto una grandissima libertà, un po’ perché sono co-produttore del film, un po’ perché avevo i produttori svizzeri dalla mia parte. Ma il grande scarto che ha avuto il film è stato quando mi sono reso conto che al Cern in realtà non producevano delle vere immagini. Come avete visto c’è volutamente un’alternanza nel film, non si capisce quando è un’immagine del Cern e quando è un’immagine fatta dagli artisti. Ad esempio i tracciati colorati sono immagini prodotte dai rivelatori del Cern. Ma poi ho scoperto che quelle immagini in realtà servono per comunicare al pubblico normale qualcosa di comprensibile, di visibile, ma gli scienziati usano i numeri: dietro ognuno di quelle linee ci sono dei numeri che esprimono il tracciato di quelle particelle. Lì è stato un momento di grande crisi perché mi sono detto: sto facendo un film sull’invisibile, e con quali immagini, se queste linee colorate sono le sole immagini delle particelle prodotte dal Cern? Io che cosa faccio vedere in un’ora e mezza di film? E ho capito che la sceneggiatura che mi era costata tanti studi e preparazione alla fine non mi permetteva di fare il film ma avevo bisogno di qualcos’altro. La comunità del Cern mi aveva ispirato a un’idea diversa dell’essere autore, cioè che l’autore non è necessariamente quello che fa tutto, specialmente nel cinema, ma è anche colui che ha un’idea e mette insieme una squadra, dei talenti di altri artisti. Quindi il fatto di mettere insieme questi dodici artisti è stato qualcosa che non era previsto fin dall’inizio. Il fatto di aver lavorato cinque anni ha fatto sì che il film sia cresciuto grazie agli incontri, al percorso e a questa idea di dire: “Ok chi può visualizzare l’invisibile o l’inimmaginabile? Non è solo che non si vede ma è anche che non sono in grado di rappresentarle queste cose”. Ti dicono: “Noi usiamo le equazioni e le immagini sono fuorvianti per noi”, oppure: “Abbiamo un’immagine ma cosi, latente molto vaga…”. Essendo dei fisici sperimentali o anche dei fisici teorici ma legati a una tradizione sperimentale come quella del Cern, tendono a non approfondire le conseguenze filosofiche delle loro conoscenze.
Il documentario affronta molti temi, qual è quello più importante, rilevante per lei, come regista?
Secondo me l’idea più forte del film è che in questo momento noi non abbiamo un’immagine della natura, la natura visibile è qui sotto i nostri occhi ma questa natura visibile è il risultato di un invisibile che non riusciamo neanche a immaginare. Siamo quindi in un momento, dal punto di vista filosofico, ma anche dal punto di vista se volete esistenziale, in cui non siamo in grado di rappresentarci la natura, il mondo… mentre nella sua storia l’uomo l’ha sempre fatto, magari con rappresentazioni illusorie, magari con racconti religiosi, filosofici, però abbiamo sempre avuto un’immagine di come è fatto l’universo, come è fatta la natura. Qui invece non solo abbiamo l’irrappresentabile della fisica quantistica che dà dei risultati assurdi che non riusciamo a capire, ma anche la consapevolezza che l’universo non è per niente come pensavamo, e addirittura conosciamo solo il 4% all’interno di quello che è visibile. Tutto questo per me ha significato capire che il fascino della scienza non è tanto in quello che sappiamo ma nella coscienza di non sapere.
Il Cern poterebbe diventare un riferimento sociale, culturale, politico?
Questa è una delle cose che mi è più care: io credo che se fosse stato soltanto un film sulla Fisica non mi avrebbe appassionato così tanto. È stato come un cortocircuito, incontrare la scienza fondamentale, che si occupa delle grandi domande che da sempre interessano l’uomo e insieme scoprire la grande comunità del Cern, che dimostra che il mondo è già pronto per questa condivisione senza frontiere, se ci fosse ovviamente non solo la volontà e la passione ma anche una cultura che la rende possibile. Lì incontri fisici di tutto il mondo con diverse tradizioni, diverse lingue, diverse religioni, che però non hanno problemi a condividere il loro lavoro, ma soprattutto hanno una passione e uno scopo. Per fare una macchina così complessa e farla lavorare vuol dire che c’è una totale armonia di scopi, di intenti e loro dicono: “Noi riusciamo a fare questo perché non c’è la politica, non c’è l’interesse personale”. Questa loro risposta poi mi ha spinto a pensare: io conosco un altro mondo che è così, che è il mondo dell’arte, cioè un artista è mosso dalla stessa passione e dallo stesso interesse in qualcosa di astratto che può essere un’idea, un progetto… credo che il successo della collaborazione che c’è dietro e questo film lo dimostri meglio di qualsiasi discorso.
Ecco parlare del film è importante secondo me proprio perché viviamo in un momento di regressione, di gente che propone secessioni, di tornare al dialetto. Questi sono tutti segnali di paura, di chiusura, come dire questo mondo è troppo complesso, guardo indietro invece di guardare avanti. Questo chiaramente sappiamo che per la storia dell’Europa è sempre molto pericoloso: i nazionalismi, i particolarismi sono devastanti proprio perché dettati dalla frustrazione, dalla paura, dalla rabbia. Credo che il film abbia una sua forza politica, nel senso di dire: vedete? È possibile, non dobbiamo guardare con paura alla complessità al futuro, dobbiamo farci i conti, anzi dobbiamo abitarla. Il grande pericolo è che se noi ci ritraiamo da questa complessità e la deleghiamo soltanto a degli specialisti, non sapremo questi specialisti che cosa faranno. Diventeranno un élite probabilmente potentissima che potrebbe essere strumentalizzata dal potente di turno. Abbiamo bisogno di diventare una società che è in grado di capire, di digerire questa complessità, di non sentirsene minacciata, credo che sia un segnale soprattutto per il nostro paese che viene da tanti anni di impoverimento culturale. Credo che l’esperienza del Cern sia un esempio che si può espandere in tanti altri campi. Dobbiamo ripensare al nostro modo di fare arte, di fare cinema, per partire da comunità e non da un isolamento. Questo film è nato dall’incontro di due comunità, quella degli scienziati e quella degli artisti, e credo che questo sia un passaggio necessario, bisogna che l’arte riscopra il suo ruolo nel ricreare un senso di comunità. Credo che per rispondere alla vostra domanda, il Cern sia un esempio che può diventare un riferimento e un’ispirazione in altri ambiti.
In questo documentario è evidente la passione e l’umanità degli scienziati e ci mostra così un’altra faccia della scienza. Ha pensato all’importanza di diffondere questo documentario nelle scuole?
In questo momento stiamo organizzando un gruppo di persone che lavorerà su questo perché ce lo stanno chiedendo molte scuole. E anche perché penso che se io avessi incontrato quegli scienziati quando ero a scuola, se avessi capito che la matematica ha questa bellezza, questa funzione, per me la scuola sarebbe stata diversa. Credo che sia da parte degli studenti che da quella dei professori una frustrazione nel non riuscire a comunicare questo aspetto e gli stessi universitari sono entusiasti perché finalmente trovano un film che in maniera anche emozionale, parla del loro lavoro, li umanizza. Perché non è buono neanche per gli scienziati essere in qualche modo emarginati in un contesto specialistico in cui nessuno capisce cosa fanno.
A me piacerebbe che la gente dicesse: è bello che esista in Europa un centro dove si fa’ scienza pura, senza bisogno di trovare la scusa: “Sì il Cern costa molto però abbiamo fatto cose utili”, perché secondo me questo è già un modo di svilire la nostra grande tradizione scientifica, filosofica.
Quello che l’Europa ha dato al mondo è proprio l’amore per la conoscenza. Come Dante diceva su di Ulisse che si avventura al di là delle colonne d’Ercole, l’uomo Europeo non si affida alle tradizioni ma vuole scoprire l’ignoto e questa è una delle cose importanti che ci contraddistinguono come Europei, dovremmo rivendicarle. Al momento l’Europa è un orizzonte da tenere aperto, ci sono tanti segnali che invece ci vorrebbero ributtare indietro, forze italiane anti-europeiste sono allarmanti perché appunto vogliono catalizzare la paura della gente prospettando soluzioni che sono false in quanto sono semplicistiche, soddisfano la paura del momento.
Nell’opera viene affermato che gli scienziati sono “ministri del dubbio” per questa loro instancabile capacità di mettere tutto in discussione, al contrario di un pensiero dogmatico che non permette alcuna ricerca. Secondo lei la presenza di una cultura cattolica nel nostro paese è responsabile in parte di questo appiattimento culturale?
Molte persone preferiscono avere delle certezze e questo è chiaramente un lascito del cattolicesimo, non dimentichiamo che non solo il libro di Galileo è stato messo all’indice ma anche la Bibbia era all’indice perché poteva essere interpretata solo dalla Chiesa, quindi il buon cattolico non doveva andarsi a leggere la Bibbia da sola. Questa è la grande differenza per esempio tra noi e i protestanti, ed è il motivo per cui siamo indietro culturalmente: c’è una grande fetta di cattolici che hanno mantenuto questa attitudine gregaria rispetto alla conoscenza. Effettivamente, il modello della scienza come si pratica al Cern è un grande modello proprio per questa rivendicazione che tutto può essere messo al vaglio della conoscenza, al vaglio del dubbio e secondo me uno dei momenti più alti del film è quando il grande scultore Gormley dice questa cosa, “Come strumento di misura ci è rimasto il dubbio”. Credo che sia una verità scomoda. Non tutti sono pronti.
La frase di chiusura del film allude al ruolo dei sogni nel processo di conoscenza. Cosa sono per lei i sogni? Allucinazioni o la sede dell’animalità come proposto da Freud? Oppure come un vero e proprio linguaggio possono, non solo essere compresi, ma farci arrivare a una verità più profonda?
È una domanda difficile.. però posso dirti come sono arrivato a quell’ultima scena. Fin dall’inizio c’era quest’idea di finire il film in una caverna, con quelle rappresentazioni… intanto per una sorta di senso di fratellanza con i nostri avi che si erano posti anche loro dei problemi su come è veramente il mondo. L’idea della deprivazione sensoriale, di andare nell’oscurità, nel silenzio, nella caverna, per percepire delle cose che nel mondo non riusciamo a vedere, è in contatto con la dimensione onirica…Probabilmente una delle teorie che più mi ha affascinato sul perché gli uomini preistorici entrassero nelle caverne, è che ci andavano in uno stato particolare, probabilmente generato da droghe, uno stato di coscienza particolare, entravano in trance. Quindi erano in cerca di quell’elemento se vogliamo irrazionale che è anche nei sogni, quell’elemento misterioso che in qualche modo giustifica tutta la nostra vita. Grazie al lavoro su “Il senso della bellezza” ho scoperto che la scienza, la vera scienza, non uccide il mistero, non è quella appunto degli esperti che dicono “Abbiamo capito tutto di questa cosa”. No! secondo me la vera scienza è quella che, come per gli scienziati del Cern o di tanti altri, comprende che nel fondo ci sarà sempre un mistero. Possiamo arrivare a un milionesimo di un milionesimo di secondo dal Big Bang, come hanno fatto con gli esperimenti del Cern ma a che cosa c’era prima di quel milionesimo no. Perciò elemento del mistero si ricollega al momento della bellezza. Perché noi percepiamo la bellezza? Cos’è veramente la bellezza? Io non sono d’accordo con gli scienziati che dicono: la bellezza è solo una nostra proiezione. Penso che noi siamo capaci di percepire questa bellezza perché ne siamo profondamente parte. Quindi il sogno in fondo è questo legame misterioso che noi abbiamo con il tutto. Paul Dirac, considerato il più grande fisico del ‘900 dopo Einstein, diceva: “Io tra un’equazione bella e una giusta scelgo sempre quella bella”. C’è qualcosa di misterioso nella bellezza così come c’è qualcosa di misterioso nei sogni. Freud diceva: tu puoi continuare ad analizzare un sogno, ma a un certo punto arrivi a una specie di ombelico dove ti ricolleghi a qualcosa che non ha più a vedere solo con l’individuo che ha sognato, arrivi a qualcosa di più universale, in ultima analisi misterioso. Quindi quando Paul Dirac trova questa equazione che nel film viene tracciata sulla lavagna dal vecchio fisico cinese, quell’equazione che esprime come si muovono gli elettroni intorno a un atomo, lui era attratto dall’enorme bellezza e semplicità di questa equazione. Qualche anno dopo rileggendo l’equazione in un altro modo si rese conto che prediceva l’esistenza dell’antimateria.
Qui tocchiamo un aspetto misterioso della matematica e della conoscenza, per cui poi le intuizioni di Einstein, di Dirac, etc. sono molto simili al sogno del primitivo, partono da un’intuizione, non da un esperimento: l’esperimento arriva dopo, e serve per falsificare o verificare l’ipotesi.
Come se il nostro inconscio fosse più intelligente della nostra coscienza.
Sì, per me questo è sicuro: anche nel fare un film funziona così. A un certo punto mi sono perso, non sapevo più dove stavo andando. Mi guidava il film, e io seguivo quello che succedeva, perché ad un certo punto ti rendi conto che i “suggerimenti” che arrivano da non si sa dove, come una intuizione spontanea, sono molto più profondi e potenti. Se invece pretendi di avere sempre un controllo razionale, non vai da nessuna parte.