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Migranti, nell’isola di Lesbo la Guantanamo d’Europa è al collasso

Migrants wait under an heavy rain, outside the Moria registration camp, on October 23, 2015, on the Lesbos island. Many Syrian families with small children are currently forced to walk a distance longer than the Athens Marathon from the beaches where they land to the points of registration near the port capital of Mytilene. Buses provided by local authorities and rides by volunteers do not suffice, especially as many refugees continue to land at night. Over 400,000 people have landed on Greek islands from neighbouring Turkey since the beginning of the year, most of them fleeing the civil war in Syria. AFP PHOTO / ARIS MESSINIS (Photo credit should read ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Strazio, freddo, fame e dolore. È il lungo inverno dei rifugiati in Grecia. Più di 8500 persone sono prigioniere nell’isola di Lesbo, rinchiuse in un campo di detenzione che era adibito ad accogliere al massimo tremila richiedenti d’asilo. «Gli animali vivono meglio, questa non è una vita per umani» dicono i siriani rimasti bloccati sulla costa greca da quando la rotta balcanica è stata chiusa, nel 2016, dopo un accordo tra Ankara ed Unione europea, per mettere fine all’esodo di oltre un milione di migranti.

Da metà ottobre seimila richiedenti d’asilo sono stati trasferiti sulla terraferma, ma in migliaia ancora vivono in condizioni disumane. L’inverno comincia a mordere e bisogna combatterlo, accelerare i tempi, le strutture sono inadeguate a sopportare il freddo. Molti rifugiati vivono nelle tende e non hanno spazio nemmeno nei container. Sono state trasferite sulla terraferma greca dalle isole 15mila persone nell’ultimo anno, ma non è abbastanza.

Tra le onde freddissime dell’Egeo, sono sbarcati 254 migranti sulle coste greche nelle ultime 24 ore, mentre 55 su un gommone sono stati invece intercettati e trasportati indietro sulle coste turche dalla Guardia costiera di Erdogan. Ora i nuovi rifugiati si uniranno ai migranti all’interno del campo di Moria: negli ultimi 18 mesi la capacità di accoglienza della struttura ha superato di tre volte la sua effettiva capacità di ricezione. I rifugiati vivono in condizioni disumane. Lo stesso accade a Leors, Chios, Samos, Kos, ma è sull’isola di Lesbo che la situazione è peggiore che altrove.

L’Unhcr continua a mettere pressione alle autorità greche per i trasferimenti mancati e per le condizioni in cui versano le strutture d’accoglienza. «Le tensioni nei centri di ricezione dei migranti e sulle isole stanno aumentando da questa estate, quando il numero degli arrivi ha cominciato ad aumentare» ha detto Cecile Pouilly, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati. In alcuni casi le autorità locali si sono opposte agli sforzi per introdurre miglioramenti nei centri di detenzione.

Le condizioni sono così cattive che anche il ministro greco per la migrazione si è detto preoccupato. Per il sindaco dell’isola di Lesbo, Spyros Galinos, è «una disgrazia nazionale, le condizioni sono più che deplorevoli», all’interno della rete del campo di registrano episodi di alcolismo, prostituzione, scontri tra gruppi etnici rivali. Il sindaco ha definito la struttura una prigione a cielo aperto e incita a protestare e scioperare.

A Mytilini, la più grande città dell’isola, i migranti ora sono un terzo della popolazione: «è una situazione d’emergenza che richiede soluzione d’emergenza» ha detto il sindaco. «Bisogna fare qualcosa a Moria, se le infrastrutture non miglioreranno, le persone moriranno». Il campo di Moria, dicono i volontari delle organizzazioni per i diritti umani che lavorano all’interno, è più abitato di Manila, la città più densamente popolata al mondo.

Bloccati in quello che era un campo militare, ora trasformato con tende e container in un centro per rifugiati, i migranti affrontano la stagione più gelida. La scritta che qualcuno ha lasciato con un graffito all’entrata dice «benvenuti alla prigione di Moria». Con l’attenzione mediatica ormai spenta, i rifugiati si fanno sentire come possono. E anche il sindaco disperato dell’isola: «ho paragonato il campo a Guantanamo, non ci sono mai stato a Guantanamo, ma forse effettivamente lì vivono meglio».

La teoria del senatore dem Esposito: “Se non vinco non partecipo”

Stefano Esposito durante la seconda giornata di lavori della kermesse organizzata da Matteo Renzi al Lingotto, Torino, 11 Marzo 2017 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Tra le (poche) giustificazione dei senatori assenti alla votazione dello ius soli al Senato, quando è mancato il numero legale con la diserzione generale del Movimento 5 stelle insieme alla mancata presenza di ben 29 senatori del Partito democratico, spicca la singolare teoria del senatore Stefano Esposito (sì, lui, lo sfegatato pro-tav, un uomo un’iperbole) che su Twitter (che costa sempre poca fatica e pochi caratteri) scrive:

«Io dopo aver fatto i conti e visto che non ci sarebbe stato mi sono andato a prendere l’aereo. Come dico da settimane al senato i voti per lo ius soli non ci sono. Non basta il pd purtroppo»

Ci spiega, Esposito, di non aver voluto assistere ai festeggiamenti di Calderoli e compagnia e di aver preferito «prendere l’aereo» e tornare a casa dai suoi figli.

Qualcuno giustamente gli fa notare che il significato politico della sua presenza forse avrebbe meritato una più cauta attenzione e (populisti!) che in fondo il suo lavoro consista soprattutto nell’esserci, in Senato, oltre che vincere, e così il senatore dem insiste postando una foto dei suoi figli sotto l’albero raccomandando a tutti di “rilassarsi”.

Così, a colpi di tweet, ancora una volta questi riescono a fare la misera figura dei bulletti strafottenti come se fossero una mandria di impertinenti in gita, insistendo sull’atteggiamento che continua ad affossarli.

“Se non vinco non partecipo”, ci insegna Esposito. Prendendolo alla lettera quindi immaginiamo di non doverci nemmeno prendere il disturbo di votare alle prossime elezioni, quindi, in cui non vincerà nessuno.

Buon giovedì.

1 gennaio 1948-2018: Nasce l’anagrafe nazionale antifascista

A moment of a ceremony at the Sant'Anna di Stazzema memorial, dedicated to the victims of the massacre committed in the village of Sant'Anna di Stazzema by the Nazis in 1944 during World War II, Italy April 10, 2017. ANSA/DALLE LUCHE

Il Comune di Stazzema ed il Parco nazionale della pace istituiscono l’anagrafe nazionale antifascista. Si potrà aderire all’inizio del 2018. «L’obiettivo è diventare il comune più grande d’Italia» dice Maurizio Verona, il sindaco della cittadina toscana intervistato da TgRegione.it, ideatore dell’iniziativa.

A Sant’Anna di Stazzema fu commesso uno dei crimini più vigliacchi perpetrati dalle SS naziste e dai collaborazionisti fascisti nei confronti della popolazione civile italiana tra il 1943 e  il 1945. All’alba del 12 agosto 1944 fino al pomeriggio, la 16. SS-panzergrenadier-division reichsführer SS, comandata dal generale Max Simon, e la 36ª brigata Mussolini, i cui militi erano travestiti con divise tedesche, fucilarono 560 persone, tra cui 130 bambini. È dunque molto più che simbolica la proposta lanciata da Maurizio Verona in difesa dei valori della Costituzione a settanta anni dalla sua entrata in vigore (1 gennaio 1948). L’idea è di istituire una anagrafe degli antifascisti in Italia, arriva peraltro nel momento in cui si diffondono sempre più episodi di intolleranza, di razzismo, di discriminazione, oltre alla rievocazione del Ventennio persino nella scuola pubblica a opera di movimenti neofascisti “giovanili” (vedi Left del 16 dicembre 2017) nel solco dei totalitarismi dello scorso secolo, che fecero della violenza lo strumento di affermazione contro oppositori politici, minoranze etniche e religiose. Per entrare a far parte del Comune virtuale antifascista basterà sottoscrivere un form on line o mandare una mail o scrivere al Parco Nazionale della Pace così da raccogliere tutti coloro che condividono i valori che sono propri dell’antifascismo e che sono alla base della convivenza civile tra i cittadini. Potranno aderire tutti coloro che sottoscriveranno i principi della Carta che verrà predisposta nei prossimi giorni e che sarà attiva dal prossimo anno.

«Il nostro riferimento è la nostra Costituzione – dice ancora il sindaco Verona -, i cui valori da tempo abbiamo espresso e recepito nel nostro statuto comunale con un riferimento chiaro a questi principi che devono e sono di tutti coloro che si riconoscono nella nostra democrazia. Da anni parliamo ai giovani sulla necessità di ricordare per costruire un mondo in cui non si ripresentino i totalitarismi. Lo facciamo nel Parco nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema che è un luogo di dialogo, di incontro e di confronto e non di scontro».

Info: santannadistazzema.org; www.comune.stazzema.lu.it

Inammissibile che il Museo campano non sia rilanciato

Museo campano Capua

Un’altra beffa da parte delle istituzioni locali ai danni del Museo campano. Non è stato considerato ammissibile per mancanza di copertura finanziaria l’ennesimo emendamento presentato in sede di votazione del Bilancio da quasi tutti i consiglieri regionali – eletti in Provincia di Caserta (ad eccezione di quello dei 5 Stelle). È la seconda volta che capita, dopo la precedente clamorosa bocciatura.

Va rimarcato il fatto che dopo quasi due anni ancora non si hanno riscontri concreti in merito alla proposta lanciata dal sottosegretario Cesaro di costituire un tavolo tecnico e scientifico per elaborare e definire un adeguato progetto di rilancio, valorizzazione e sostenibilità del Museo Campano. Alla Provincia di Caserta – titolare del monumento bene comune – spetta il compito e dovere istituzionale di convocare l’incontro con invito formale ai vari enti competenti: Mibact, Regione Campania, la stessa Provincia e Comune di Capua, anche con il coinvolgimento dell’università e del mondo del terzo settore. Questa esigenza è stata avanzata e ribadita in più occasioni, proposta in modo solenne il 3 marzo 2016 in occasione del convegno sulle radici del futuro nella Sala Liani. È stata riproposta in sede di audizione della Commissione cultura regionale (c’erano tutti/e gli attori interessati). In più occasioni pubbliche se ne è occupato lo stesso presidente De Luca. Inoltre è stata rilanciata in diversi summit in sede di Mibact. E da ultimo è stata confermata dal nuovo Presidente della Provincia di Caserta a conclusione di un incontro nel mese di novembre con una delegazione della rete di associazioni, che da tempo si stanno battendo per il futuro e per la rinascita del prestigioso monumento, un vero scrigno di arte e di cultura, un pilastro fondamentale della memoria storica e della identità di Terra di Lavoro e della Campania. Nel frattempo lo stesso Sottosegretario Cesaro ha predisposto un progetto di valorizzazione contenuto in un apposito Protocollo, che da mesi è stato trasmesso agli enti territoriali di riferimento. Finora nessuno lo ha tirato fuori dai cassetti in cui è stato tenuto relegato.

Nei giorni scorsi sulla stampa locale la professoressa Jolanda Capriglione è ritornata sull’argomento in modo ironico con un richiamo paradossale ai riti woodoo, facendo riferimento anche ad una ipotetica intesa unitaria dei “giovani consiglieri regionali” eletti in Terra di Lavoro per presentare di nuovo un emendamento finalizzato a sbloccare le risorse già disponibili per poter finanziare e sostenere in modo adeguato le attività di promozione, manutenzione, restauro e catalogazione (a partire dalla digitalizzazione informatica dell’Archivio, della Biblioteca con annessa Emeroteca, di valore inestimabile) – che allo stato non sono accessibili agli studiosi ed ai visitatori per carenza di personale. Per questi motivi chiediamo al Presidente della Provincia Magliocca ed alla dottoressa Romano (Direttrice Settore Cultura della Regione) di sbloccare una situazione che rimane precaria, stagnante, decidendo un atto di responsabilità e di dovere istituzionale con la convocazione del tavolo tecnico e scientifico presso la sede naturale (quella del Museo o della provincia di Caserta).
E stiamo parlando di quello che il grande archeologo Amedeo Maiuri definì “il monumento più significativo della civiltà italica in Campania e nel Sud”, il Museo Campano di Capua, scrigno della sua millenaria storia. Come ebbe a sottolineare anche il valente studioso Carlo Belli: “Può considerarsi oggi una delle gemme più fulgide tra i mirabili musei dell’Italia meridionale”. Nel 1965 ai sensi della legge 1080 emanata per tutti i musei appartenenti ad enti diversi dallo Stato, nel nostro caso la Provincia di Caserta, fu classificato tra le categorie: multiple, grandi, medie e minori, come Grande. Fondato nel 1870 dallo storico ed erudito capuano, canonico Gabriele Iannelli, ha sede nell’antico palazzo Antignano di Capua. Occupa 5000 mq espositivi con 34 sale e 3 sezioni: archeologica, medioevale e moderna. Inoltre comprende una Pinacoteca che conserva preziose opere d’arte che vanno dal XIII al XVIII secolo, nonché una biblioteca ed emeroteca con oltre 70mila testi includenti pergamene, manoscritti, carte geografiche e prime edizioni a stampa di altissimo pregio; con annesso un Archivio Storico-topografico che conserva documenti di Capua e dei suoi 36 Casali in altre epoche ad essa afferenti.

Il Museo Campano è universalmente noto non solo per la molteplicità delle sue terrecotte architettoniche e delle sue ceramiche e vasi di antica ed eccellente fattura, ma soprattutto perché custodisce più di 150 statue votive in tufo denominate Matres Matute, collezione unica al mondo nel suo genere. Orbene, in seguito alla discussa riforma delle province essendo stato azzerato il precedente Consiglio di Amministrazione senza aver emanato alcuna legge di riordino delle funzioni da parte della regione Campania, il Museo vive in un drammatico vuoto di governo. Basta dire che il personale che nel 2005 ammontava a circa 20 unità, oggi ridotto a pochi adetti. L’unica nota positiva è la nomina di un nuovo Direttore Amministrativo, in carenza di figure più competenti come quelle di esperti in archivi e storia dell’arte. Dopo di che, difficile a credersi, ma vergognosamente vero, nell’inventario degli innumerevoli enti destinatari di fondi milionari da parte della Regione, da cui Capua ha dato il nome, il Museo Campano non solo risulta da tali erogazioni totalmente escluso, ma non viene neppure menzionato quasi sia inesistente. Da ultimo la beffa di un riparto di fondi stanziati ad hoc dal Mibact di 4 milioni di euro, che dal 2016 servono a riequilibrare i danni prodotti dalla sgangherata riforma delle province: anche per responsabilità di chi amministrava l’ente, al nostro Museo sono state assegnate le briciole, poco più di 200mila euro all’anno. A fronte di riparti ben più sostanziosi destinati agli altri musei provinciali: circa due milioni di euro a Salerno, quasi un milione a Benevento ed Avellino. Un vero sfregio, uno scandalo che ancora oggi si perpetua e su cui il presidente della Regione De Luca e quello della provincia Magliocca sono chiamati a porre rimedio con urgenza – così come hanno richiesto alcune interrogazioni parlamentari rivolte al ministro Franceschini, da parte degli onorevoli Camilla Sgambato ed Arturo Scotto, della senatrice Vilma Moronese.

Venerdì 29 dicembre la rete delle associazioni Le piazze del sapere si incontra all’Hotel Capys a Capua per fare il punto su iniziative relative al Museo campano, come il nuovo bando della Fondazione con il Sud sui beni comuni (ATS), il progetto di Art Bonus per digitalizzare l’Archivio e la Biblioteca del Museo, il programma di concerti in omaggio alle Matres come patrimonio Unesco, incontri su Federico II e la Casa museo dedicata a Martucci.

Le piazze del sapere

Vaccini o antibiotici? Alla ricerca dell’arma più efficace contro i superbatteri killer

Partiamo da un dato, ogni anno nel mondo muoiono 700.000 persone a causa di quegli agenti infettivi che sono definiti superbugs: batteri, virus, funghi, parassiti che hanno “imparato” a resistere ai farmaci. Poi seguiamo la Wellcome trust e il governo britannico, che nel rapporto The review on antimicrobial resistance. Tackling drug-resistant infections globally: final report and recommendations del 2016, e nel precedente report sul medesimo tema del 2014, presenta un quadro piuttosto inquietante: nel 2050 la resistenza ai farmaci di questi agenti infettivi diventerà una causa di morte più tragicamente efficace del cancro, ucciderà ogni anno 10 milioni di persone con perdite economiche valutate in 100mila miliardi di dollari.

Infine diamo uno sguardo al passato e proponiamo un’analisi comparata col presente. Limitiamoci, per semplicità, ai batteri e ai loro farmaci antagonisti, gli antibiotici. Ebbene, tra gli anni 50 e gli anni 80, ogni anno almeno cinque o sei antibiotici nuovi si sono aggiunti al paniere di farmaci che hanno aiutato i medici a contrastare le malattie infettive di origine batterica. Negli ultimi trent’anni e più invece, dagli anni 80 ad oggi, la spinta produttiva degli antibiotici si è esaurita: nessuna nuova classe di questi farmaci è stata messa a punto. E nel frattempo molti batteri hanno iniziato a resistere agli antibiotici. Alcuni – come il Neisseria gonorrhoeae o lo Staphylococcus aureus – a resistere ad ogni antibiotico. La selezione naturale ha creato, per l’appunto, dei “superbatteri”.

Non c’è dubbio: dobbiamo cambiare strategia se vogliamo evitare che il numero di questa classe di organismi monocellulari resistenti agli antibiotici aumenti, spianando la strada al ritorno del “quarto cavaliere dell’Apocalisse”: le malattie infettive mortali. Questo è, almeno, il pensiero o, se volete, l’appello che tre scienziati molto noti – David E. Bloom, professore di economia e demografia presso la Harvard T. H. Chan School of public health, della Harvard university di Boston; Steve Black, professore di pediatria presso la Division of infectious diseases del Cincinnati children’s hospital di Cincinnati; e soprattutto l’italiano Rino Rappuoli, che guida la GalxoSmithKline vaccines Italia di Siena ed è tra i maggiori esperti di vaccini al mondo – rivolgono dalle pagine della rivista Nature alla comunità scientifica, ma anche e soprattutto a governi e case farmaceutiche. Nell’apporre la prima firma a questo appello, Rino Rappuoli rende noto che si trova in una condizione di “conflitto di interesse” (per la precisione di competing financial interests, secondo la definizione accettata dalla rivista Nature). Ciò nulla toglie alla forza della proposta dei tre studiosi: puntare la gran parte delle carte sulla ricerca di vaccini in grado di prevenire le malattie infettive causate da batteri e “superbatteri”.

Rappuoli, Bloom e Black individuano i due limiti degli antibiotici. Il primo e forse il più importante è che essi iniziano ad agire quando l’infezione è esplosa e nell’organismo circolano già miliardi di batteri. È relativamente facile, dunque, che nel Dna di uno di quegli innumerevoli organismi unicellulari si produca una qualche mutazione che rende il batterio resistente a un antibiotico. E che, dunque, questo batterio mutante continui a moltiplicarsi indisturbato. E magari a subire nel tempo ulteriori mutazioni che rendono un ceppo capace di resistere a ogni antibiotico noto. Il processo è facilitato dal fatto che la scoperta di nuove classi di antibiotici sia rallentata fortemente fino a fermarsi del tutto. La difficoltà della ricerca di nuovi farmaci è stata individuata: gli antibiotici, per raggiungere il loro obiettivo, devono superare la membrana cellulare dei batteri: una barriera formidabile, che risulta molto spesso invalicabile a molecole aliene.

Molto diversamente vanno le cose per i vaccini. Essi vengono somministrati prima che l’infezione abbia luogo. E si trovano a dover contrastare non miliardi e miliardi, ma pochi avversari. Dunque la battaglia – a prescindere dalle armi usate, che sono diverse – è certamente più facile. E in ogni caso si consuma in modo che gli agenti infettivi attaccanti abbiano possibilità minima o nulla di mutare e, dunque, di “imparare” a resistere alla difesa. Prova ne sia il fatto che, tra tutti i vaccini finora usati, nessuno ha mai determinato una capacità di resistenza nei batteri. I vaccini, inoltre, che contengono interi batteri o virus e molti antigeni sono, per così dire, multitasking: si lanciano contro diversi obiettivi, al contrario degli antibiotici che contengono una sola molecola attiva che attacca un singolo obiettivo.

Per tutti questi motivi i vaccini, diversamente dagli antibiotici, vantano enormi successi. Dalla vittoria definitiva sul vaiolo (consumata negli anni 80 del secolo scorso) all’estrema efficacia contro malattie come la difterite e il tetano. Il tutto, ripetiamo, senza aver mai generato negli agenti infettivi una qualche forma di resistenza. Contro la difterite e il tetano i vaccini sono in uso da settanta anni e neppure in questo lungo lasso di tempo hanno prodotto agenti resistenti. Inoltre, la ricerca di nuovi vaccini non ha perso smalto nel tempo. Essi continuano a essere individuati e sviluppati con ritmo costante nei laboratori di tutto il mondo. Anche grazie alle nuove biotecnologie. Dagli anni 80 a oggi, ricordano Rappuoli e colleghi, sono stati messi a punto ben ventidue nuovi vaccini grazie alle tecniche di ingegneria genetica, compresi quelli contro l’epatite B o contro il papilloma virus che causa il cancro.

Alcuni vaccini sono già impiegati con efficacia nella lotta ai batteri resistenti ai farmaci. Sia direttamente, è il caso del vaccino contro lo pneumococco capace di ridurre sia la capacità di penetrare che di diffondersi nell’organismo del batterio resistente agli antibiotici, sia indirettamente, come avviene con i vaccini contro i virus dell’influenza che abbattono l’incidenza della febbre e fanno così diminuire le complicanze che ne possono derivare, e di conseguenza anche l’uso degli antibiotici necessari per contrastarle. Gli effetti dell’uso del vaccino coniugato contro lo pneumococco, introdotto nel 2009, è stato studiato nei bambini fino a due anni in Sud Africa. Ebbene, le infezioni da “superbatteri” resistenti alla penicillina, al cefriaxone e anche a diversi farmaci sono diminuite tutte di almeno l’80 percento in appena tre anni. La strategia funziona.

Dunque, sostengono Rappuoli e i suoi colleghi americani, bisogna rimuovere gli ostacoli che ne rallentano la piena implementazione. Tra i principali c’è quello economico. Intanto perché la ricerca dei vaccini costa e, dal punto di vista della cause farmaceutiche, rende molto meno di quella sui farmaci antibiotici. E poi c’è un contrasto non risolto. Che è culturale, ma forse non solo culturale. Se, infatti, la britannica Wellcome trust, la Bill & Melinda Gates foundation e il National institutes of health degli Stati Uniti hanno fatto propria l’idea che quella fondata sui vaccini è di gran lunga la migliore strategia per combattere le malattie resistenti ai farmaci, restano di diverso avviso l’Organizzazione mondiale di sanità, l’agenzia della Nazioni Unite che invece individua la strada principale per combattere i “superbatteri” nello sviluppo di nuovi antibiotici.

La questione deve essere risolta in un modo o nell’altro o in una combinazione equilibrata di entrambe le strategie. Bisogna farlo in tempi rapidi e in maniera assolutamente trasparente, con ricerche approfondite. Perché gli interessi economici in gioco sono molti. Ma l’obiettivo prioritario per tutti non può che essere uno solo: impedire che ogni anno muoiano 700mila persone per malattie generate da agenti resistenti ai farmaci e impedire che questo numero aumenti di dieci o quindici volte da qui al 2050, diventando il principale problema di salute dell’umanità.

Sono 24 milioni i profughi climatici nel mondo. Ma non hanno alcun riconoscimento

Terremoti, maremoti. Inondazioni. Tempeste. Uragani. Riscaldamento globale. L’umanità è in movimento, si sposta da una costa all’altra, da un lato all’altro del mondo, dall’alba dell’umanità. La prima causa per cui questo accade, è accaduto ed accadrà è legata alla natura e non alla storia, alle conseguenze che si pagano quando cambia la geografia, il meteo, l’ambiente che ci circonda. Il cambiamento climatico sarà la prima causa della migrazione futura degli uomini.

Oggi i rifugiati, negli ultimi giorni del 2017, hanno raggiunto il più alto numero dalla seconda guerra mondiale: 65 milioni di persone nel mondo sono attualmente lontane dalla loro casa. Tra loro sono 25 milioni i rifugiati e richiedenti d’asilo che vivono fuori dal loro Paese d’origine. Ma questi numeri non includono i profughi del cambiamento climatico.

Secondo la legge internazionale, solo chi scappa da guerre e persecuzioni ha diritto allo status di rifugiato, ma non chi abbandona le mura di casa per i disastri dell’ambiente che lo circonda. Sono 24 milioni – una cifra stimata, perché non c’è un vero censimento – le persone scappate dal loro luogo d’origine per i disastri naturali, senza però varcare i confini del loro paese. Lo dice l’ultimo rapporto del Center Internal Displacement, appena pubblicato.

Sono più di tre milioni i nuovi rifugiati per i disastri del 2016. Se dall’Africa subsahariana si scappa più che dal Medio Oriente, a causa dei violenti scontri tra fazioni armate, la regione da cui si scappa di più per i disastri naturali è il sud-est asiatico. Sono state le tempeste la prima causa delle catastrofi naturali nella regione.

È stato un politico della Nuova Zelanda, James Shaw, leader del partito dei Verdi, a proporre un visto per i profughi del cambiamento climatico alle Nazioni Unite lo scorso novembre: “E’ un’opzione, è uno speciale visto umanitario, che permette alle persone di migrare a causa del cambiamento climatico”, che riconosce ufficialmente e legalmente lo status del “migrante climatico”, che oggi non esiste. Sarà il suo governo a tentare di creare il primo visto del mondo per “rifugiati climatici”, di cui beneficeranno soprattutto gli abitanti delle isole del Pacifico, operando secondo il principio della “giustizia climatica: la Nuova Zelanda ha contribuito storicamente ad inquinare di più rispetto alle isole”.

Più si alzeranno le temperature della terra, più aumenteranno anche le richieste d’asilo nel mondo, conferma uno studio del giornale Science pubblicato quattro giorni fa. Nel 2100 le richieste d’asilo, secondo lo stesso report citato dal National Geographic, saranno maggiori del 28% rispetto ad oggi, se i governi dovessero rispettare gli impegni presi contro il riscaldamento globale. Invece secondo lo scenario peggiore, – se il cambiamento climatico non dovesse fermarsi, se gli uomini non dovessero modificare le loro abitudini per rispettare la natura-, le richieste triplicherebbero, con un milione di rifugiati climatici all’anno.

Biotestamento: la legge vieta l’obiezione di coscienza sulle Dat annunciata da operatori cattolici

Già prima che la legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (testamento biologico) compaia sulla Gazzetta ufficiale, una componente della gerarchia cattolica, alcune organizzazioni cattoliche di operatori sanitari e rappresentanti di strutture sanitarie private cattoliche hanno annunciato che si rifiuteranno di applicarla, appellandosi ad una obiezione di coscienza non prevista dalla legge, anzi esplicitamente vietata per le strutture sanitarie pubbliche e private.
Il comma 9 dell’art. 1 della legge appena approvata, infatti, così recita: “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e la formazione del personale.”
Forse è bene chiarire semplicemente quali conseguenze prevedono le leggi sanitarie attuali della Repubblica italiana a partire dalla riforma del 1992-93 (decreti legislativi n. 502 e n. 517 e successive modificazioni) nel caso in cui una struttura sanitaria violi leggi in materia sanitaria.
Nel caso di una struttura pubblica (cioè di proprietà e gestione pubblica) l’art. 3bis (comma 7 e 7bis) del D.Lgs. 502 prevede che “in caso di violazione di legge ”la Regione debba risolvere il contratto dichiarando la decadenza del direttore generale” della struttura sanitaria.
Le strutture private per poter erogare prestazioni sanitarie a pagamento per i cittadini debbono essere “autorizzate” dalla Regione. Per poter erogare prestazioni sanitarie per conto della Regione (cioè rimborsate da essa) devono essere “accreditate” da quest’ultima.
Senza entrare in dettagli tecnici ciò significa che sia le strutture private autorizzate che quelle accreditate sono sottoposte ad una serie di controlli della Regione riguardanti gli impianti, la presenza e professionalità del personale e il rispetto della normativa in materia sanitaria.
Dunque se una struttura privata (autorizzata o accreditata) dichiara di non applicare una legge dello Stato in materia sanitaria, la Regione ha l’obbligo di revocarne l’autorizzazione ad erogare qualsiasi prestazione sanitaria, anche a pagamento, cioè a chiuderla sino a quando non dimostri di applicarla.
In sintesi se una struttura sanitaria non garantisce l’applicazione di una legge, la Regione se la struttura è pubblica ha l’obbligo di nominare un nuovo direttore generale, se la struttura è privata ha l’obbligo di chiuderla sino a quando il rispetto della legge non venga ripristinato.
Nel caso in esame, l’obiezione di coscienza per le strutture sanitarie non esiste neanche teoricamente. L’obiezione di coscienza è altra cosa: riguarda infatti la coscienza individuale, non il contratto giuridico di accreditamento o di autorizzazione di una struttura sanitaria. L’obiezione di coscienza o la disobbedienza nei confronti di una legge ritenuta ingiusta è una scelta individuale (anche se condivisa con altri) e può essere densa di conseguenze personali per chi la percorre.
Contro l’obbligatorietà del servizio militare ha comportato il carcere per Roberto Cicciomessere e altri radicali. Contro l’aborto clandestino ha comportato il carcere per Adele Faccio, Gianfranco Spadaccia ed Emma Bonino. Contro le norme di epoca fascista sul suicidio assistito è sotto processo Marco Cappato.
Mai una decisione o un annuncio di operatori sanitari cattolici ha portato ad una qualche conseguenza pur lieve, anzi generalmente ha facilitato carriere ospedaliere e maggiori finanziamenti alle strutture.
Dubito che anche in questo caso ci saranno comportamenti trasparenti da chi in questi giorni proclama la propria obiezione “di struttura” ma, ove vi fossero, i presidenti e gli assessori delle Regioni avranno l’obbligo di intervenire.
Il Lazio è una delle regioni a maggiore densità (numerica ed economica) di strutture sanitarie private cattoliche: è bene che il presidente Zingaretti, responsabile istituzionale della sanità regionale, abbia ben presente i termini del problema.

 

Marcello Crivellini è docente del Politecnico di Milano e consigliere generale dell’associazione Luca Coscioni

Restare umani e solidali, anche nel lavoro

La vicenda arriva da Prato dall’azienda Biancalani attiva nel settore meccanotessile dal 1957, anno in cui Fiorenzo Biancalani la fondò partendo dal nulla. È una di quelle storie di imprenditoria italiana che ha tutti gli ingredienti, positivi e negativi, di questi anni: c’è l’idea vincente originale, c’è il passaggio di consegne ai figli e poi ai figli dei figli, c’è il periodo di crisi (che in questo caso arriva nel 2008 e coinvolge più o meno tutto il settore), c’è l’export (la Biancalani esporta circa l’80% della sua produzione) e poi l’innovazione continua per rimanere forti sul mercato.

Mancano però, in questa storia, due ingredienti deleteri di cui si sente troppo spesso in giro: qui infatti non ci sono furbi giochetti finanziari (la Biancalani è un’azienda come pensavano le azienda i nonni, quelli che “facevano” un lavoro perché “producevano” cose senza bisogno di incespicare nella finanza) e soprattutto c’è un riconoscimento del valore del lavoro e quindi dei lavoratori.

Così quando i dirigenti dell’azienda hanno deciso di festeggiare un anno in forte crescita raddoppiando la tredicesima a tutti i dipendenti (offrendo un bonus supplementare di circa 3mila euro, ndr) come premio per l’ottimo lavoro svolto improvvisamente la notizia ha cominciato a rimbalzare a livello locale e nazionale come se fosse qualcosa di straordinario. Del resto già aveva fatto notizia il fatto che la Biancalani avesse rispettato un patto firmato con i sindacati onorando la promessa di nuove dieci assunzioni giusto qualche mese fa.

Incredibile, davvero, che degli imprenditori rispettino gli accordi e condividano i successi con i propri lavoratori? No, davvero. Se non fosse che anche qui da noi ormai l’ingordigia e lo sfruttamento siano diventate pratiche accettabili e accettate come se nulla fosse e così il lavoro “come dovrebbe essere” finisce nel cassetto delle storie strappalacrime natalizie.

Bravi i Biancalani, quindi, ma soprattutto malissimo quegli altri che ancora non hanno capito che conviene a tutti.

Buon mercoledì.

Dentro la cava di Pissy, miniera del diavolo

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

 

Appena varcato l’ingresso, la prima cosa che colpisce è il suono delle centinaia di piccoli mortai, utilizzati per sminuzzare il granito. Un tintinnio costante che copre ogni altro rumore. Subito dopo arriva l’odore acre degli pneumatici bruciati, che rende l’aria quasi irrespirabile. E la polvere.
È un mondo a parte, fatto di pietre, fatica e sudore. Questa è la cava di granito di Pissy, a pochi minuti dal centro di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. È conosciuta come “la miniera delle donne”, perché, a cielo aperto, ci lavorano circa tremila persone, tra cui soprattutto donne, appunto, e di conseguenza molti bambini.
La cava è vicina al centro abitato, per questo motivo è impossibile utilizzare esplosivi e tutto il lavoro viene svolto in forma esclusivamente manuale, dall’estrazione alla riduzione in pietre di varie dimensioni. L’estrazione viene facilitata dalla combustione di materiale plastico, che crea micro fratture all’interno della roccia. Facile immaginare quali siano le conseguenze di questi fuochi sulla salute di chi lavora in miniera.
Qui si lavora in condizioni estreme, privi di qualsiasi norma di sicurezza. I lavoratori passano ore e ore esposti al calore (la temperatura nella stagione secca può raggiungere i 50 gradi) e alla diossina prodotta dalla combustione degli pneumatici.
La giornata dura 10 o 12 ore e il guadagno dipende dalla quantità di pietra estratta o lavorata. Se è stata una buona giornata, si può arrivare a guadagnare poco più di un euro.
Nella cava non ci sono zone d’ombra e l’unico riparo è rappresentato da piccole baracche, costruite con materiali di fortuna, che diventano rifugio e luogo di lavoro. Accanto ai mortai ci sono piatti, pentole e qualche bottiglia. Alcuni bambini lavorano come venditori ambulanti di bibite e cibo e con i loro carretti passano la giornata percorrendo la cava in lungo e in largo. In un avanti e indietro incessante, le donne, con il viso segnato da rivoli di sudore, portano blocchi di granito dal cratere della miniera verso la superficie. Il trasporto del materiale è pericoloso ed è difficile percorrere questi sentieri ripidi e tortuosi, quando si deve mantenere in equilibrio un carico di non meno di 50 chili.
In miniera c’è una precisa gerarchia, l’organizzazione del lavoro e il commercio delle grandi quantità di granito sono gestiti esclusivamente dagli uomini. Sono loro, inoltre, a decidere chi può entrare nella miniera e controllare la produzione. Le donne, oltre al trasporto dei materiali, si occupano dello sminuzzamento delle pietre.
Come la ragazza che lavora al mortaio insieme al suo bambino. Il suo sorriso non è offuscato dalla polvere che la avvolge quasi completamente e che rende grigie le sue ciglia e le sue narici. Un’immagine di grazia e bellezza che contrasta con le reali conseguenze a cui può portare l’esposizione continua alle polveri del granito. Problemi respiratori e infezioni polmonari sono tra le malattie più diffuse.
Un bambino di meno di 10 anni trasporta una grande pietra sulla testa e cammina scalzo sotto il sole. Come gli adulti sopporta in silenzio la polvere e il calore. Per contrastare il lavoro minorile, all’entrata della miniera campeggia un grande cartello, dove si legge che il lavoro nella cava è pericoloso per i bambini, che invece dovrebbero andare a scuola. La realtà purtroppo è molto diversa. In Burkina Faso migliaia di bambini lavorano nelle miniere, cercando di sostenere se stessi e le loro famiglie. La cava di Pissy non è un’eccezione.

Il reportage da Ouagadougou con testo e foto di Ilaria Lazzarini è stato pubblicato su Left del 7 gennaio 2017

Un Paese poverissimo
Il Burkina Faso è uno dei Paesi più poveri al mondo. Con un Indice di sviluppo umano di 0.402 si colloca – secondo l’Human Devolopment Report Undp del 2015 – al 183° posto su 188 paesi. Secondo uno studio del 2010 realizzato da Unicef e dal governo nazionale, circa 20mila bambini venivano utilizzati nelle miniere artigianali, e oltre l’80% non erano mai stati a scuola. Per fronteggiare questo fenomeno, negli ultimi anni sono stati realizzati grandi sforzi e finanziati vari progetti al fine di allontanare i bambini dalle miniere e farli iscrivere a scuola, ma rimane ancora parecchio da fare. Molti continuano ad accompagnare le loro madri fin da piccolissimi e quando sono un po’ più grandi e in grado di sopportare il peso delle pietre, iniziano a lavorare in miniera.

Un euro al giorno
Un euro al giorno o anche due, ma solo se la giornata è andata bene. Tanto si guadagna a lavorare nella cava di Pissy dopo dieci o dodici ore di lavoro giornaliere. La paga è a cottimo, legata alla quantità di granito estratta, lavorata e trasportata. Sempre e solo a mano.

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

© Ilaria Lazzarini, la miniera di Pissy in Burkina faso

Otto anni di carcere al blogger cinese Wu Gan. Per le critiche ironiche al sistema

A che cosa servono le feste di fine anno in Cina? Ad uccidere la libertà. A far procedere i processi farsa. A mettere dietro le sbarre gli attivisti. Se n’è accorta anche Amnesty. Il Dragone procede silenzioso, piallando la libertà dei suoi cittadini, nel silenzio della stampa internazionale, soprattutto in questo periodo. Anzi. Lo fa sempre nel periodo delle feste natalizie, quando nessuno se ne accorge: è una comune tattica delle autorità per agire indisturbate sfruttando la distrazione delle vacanze.

È sempre così, e così è sempre stato: i dissidenti di più alto profilo a Pechino finivano nel buio delle celle ogni dicembre. È già accaduto al Nobel della pace Liu Xiaobo, morto in prigione a luglio, che il giorno di Natale del 2009 è stato condannato a 11 anni di prigione.

Oggi è accaduto all’attivista mandarino per i diritti umani, Wu Gan, 45 anni, noto per le sue campagne umoristiche su internet. Nel 2009 difese pubblicamente una donna che aveva ucciso un membro del partito nella provincia di Hubei, perché l’uomo aveva provato ad abusarla sessualmente. L’attivista nel 2015 era stato arrestato perché protestava contro la tortura di quattro persone fermate a Nanchang, a Sud est del Paese. Loro sono stati rilasciati in seguito, ma lui è rimasto in prigione.

I giudici cinesi hanno deciso che Gan rimarrà otto anni in prigione. La sentenza per lui è arrivata dopo due anni di detenzione, su di lui pende la pena di “sovversione del potere statale”, lo ha deciso la corte del popolo di Tainijin. Il suo amico, che si batteva per democrazia del dragone con lui, Xie Yang, un avvocato eminente, ha evitato la prigione solo dichiarandosi colpevole. Ma quando è uscito ha raccontato di cosa succedeva tra le mura del carcere: è stato torturato, picchiato e minacciato da chi lo interrogava.

Wu Gan, noto come il “macellaio super volgare”, è insoddisfatto del sistema: sono state le parole scelte dai giudici per condannarlo alle sbarre. “La corte ha trovato l’imputato Wu Gan insoddisfatto del sistema politico esistente, Wu Gan a lungo ha usato reti di informazioni per diffondere la sua retorica e attaccare il potere statale, il sistema stabilito dalla nostra costituzione”.

La provocazione con cui l’attivista ha controbattuto alla decisione è stata questa: “sono grato al partito per avermi garantito questo grande onore”. L’avvocato Yang e il “macellaio” sono stati arrestati quando su tutti quelli che si battevano per la libertà in Cina è caduta la scure delle autorità: duecentocinquanta persone sono finite in detenzione nel 2015.

Il Natale porta feste e distrazione e i giudici del presidente Xi Jinping lo sanno e fanno avanzare i loro processi farsa dei 250. “Evitano in questo modo lo scrutinio di stampa e comunità internazionale”. Le sentenze di Natale sono vergognose: “è vergognoso che le autorità cinesi abbiano scelto il giorno dopo Natale per risolvere la questione di due dei più grandi dissidenti del paese, ancora incastrati nel limbo legale dagli arresti di massa del 2015” ha detto Patrick Poon, un ricercatore di Amnesty International di Hong Kong. È vergognoso e ingiusto: “fare processi ingiusti ed emettere sentenze politicizzate contro attivisti e difensori dei diritti umani, nel periodo in cui diplomatici, giornalisti, osservatori internazionali e il pubblico stesso sono meno abili nel rispondere al cinico calcolo politico”.