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Il genetista Barbujani: «Che razza di politici»

L’esternazione inqualificabile del candidato governatore alla Lombardia per il centro destra, Attilio Fontana, secondo il quale una inesistente razza bianca sarebbe a rischio per una altrettanto inesistente invasione di migranti, non è una voce isolata nel panorama politico italiano. E nemmeno, come afferma Renato Brunetta – altrettanto inqualificabile – «un lapsus». L’idea che esista una razza superiore è radicata nel parlare comune di certa politica e si rivolge al ventre molle del Paese. Quello che non ha mai voluto fare i conti con il fascismo e i suoi crimini contro l’umanità. Un Paese – per intenderci – di cui fa parte, sempre per rimanere all’attualità, anche il renziano Maurizio Sguanci, presidente in quota Partito democratico del Quartiere 1 di Firenze, secondo il quale «nessuno in Italia ha fatto quel che Mussolini è riuscito a fare in 20 anni». In un certo senso Sguanci ha ragione. La miseria culturale e umana prodotta dal Ventennio continua a far danni ancora oggi a 80 anni dalla pubblicazione dell’ignominioso Manifesto della razza e dalla emanazioni delle leggi razziali. 

Come antidoto a questo virus razzista, populista e antiscientifico, pubblichiamo l’intervista al prof. Guido Barbujani, genetista dell’università di Firenze.

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Pensare alla collettività come risultato dell’unione di diversi mondi e culture, dell’incrocio con altre popolazioni fu uno dei punti di forza dell’Impero romano. Vigeva, è noto, lo ius sanguinis, ma il diritto di cittadinanza trasmesso di padre in figlio con il passare del tempo divenne talmente flessibile che anche gli schiavi nell’antica Roma, una volta liberati, potevano diventare cittadini. Flessibilità (mentale) che sembra del tutto mancare in quei partiti che nelle ultime settimane hanno avvelenato il dibattito parlamentare sullo ius soli. A colpi di «Prima gli italiani», «Animali», «Barbari», «Invasione», «Ci rubano il lavoro» la polemica tra fazioni contrapposte è ben presto finita nel pregiudizio, nella xenofobia, nel razzismo manifesto. E lo spettacolo offerto è disgustoso come pochi. Non è mancato il consueto baccano di Forza Nuova che questa volta sarebbe stato esilarante se non ci fosse di mezzo il diritto di oltre 800.000 minori stranieri di diventare cittadini italiani (vedi box a pag. 17). Schierati per lo ius sanguinis, volendo manifestare il proprio disprezzo verso gli immigrati alcuni nostalgici di Mussolini, delle leggi razziali e della Roma imperiale hanno “pensato” di esporre uno striscione che recava la scritta «Italiani si nasce, non si diventa». Che è appunto il principio cardine della legge sullo ius soli in discussione al Senato (vedi box a pagina 9) da loro stessi avversata con virile fierezza.

Fatto sta che il concetto di razza applicato alla specie umana continua a resistere e ad essere espresso più o meno manifestamente dentro e fuori dal Parlamento nonostante sia stato superato dalla storia e smentito dall’evidenza scientifica. Come mai? Per provare a dare una risposta abbiamo girato il quesito a Guido Barbujani. Docente di genetica all’Università di Ferrara, Barbujani si occupa delle origini e dell’evoluzione della popolazione umana e ha pubblicato numerosi saggi fra cui L’invenzione delle razze (Bompiani 2006), Europei senza se e senza ma (Bompiani 2008), Lascia stare i santi (Einaudi 2014) e Contro il razzismo (Einaudi, 2016).

«Bisogna per prima cosa stare attenti a non fare confusione» dice a Left. «La parola razza ha tantissimi significati. Ne ha troppi. Tutti ricordiamo la famosa frase pronunciata da Einstein quando dovette compilare il modulo di ingresso negli Usa. Alla domanda “di che razza sei?”, lui rispose “razza umana”. Dietro questa parola ci sono 7mld di persone. Ma c’è chi parla di razza nera, bianca, gialla, come sottoinsiemi di questi 7mld. E quando qualcuno qui da noi parla di “razza piave” o di “razza padana” si riferisce a un sottoinsieme ancora più piccolo». “Razza” può avere una valenza positiva o negativa, prosegue Barbujani: «”Attaccante di razza” vuol dire che è un vero bomber ma “razza di idiota” non è un gran complimento. Questa vaghezza del termine ci condanna spesso a discussioni inconcludenti. Se le persone che discutono usano la stessa parola per indicare oggetti differenti, difficilmente potranno intendersi».

Qual è secondo lei il nesso tra razza e razzismo?
Il collegamento tra queste due parole è solo etimologico. Non c’è bisogno di credere all’esistenza delle razze umane per avere delle posizioni esplicitamente razziste. Se io ti dico che questa cosa non la puoi fare perché sei negro, oppure perché sei immigrato, si tratta di due affermazioni assolutamente equivalenti. La prima fa riferimento al concetto di razza, la seconda no. Ma sono la stessa cosa. Per questo penso che il dibattito, a cominciare da quello politico, debba focalizzarsi sull’aspetto dei diritti delle persone più che sui dati biologici.

Cosa dicono i dati biologici?
Sono inequivocabili. Nessuno è mai riuscito a fare il catalogo delle razze umane. Nel senso che lo hanno fatto in tanti ma ognuno ha fatto un catalogo diverso dagli altri. Oggi studiando il Dna vediamo che siamo pieni di “tracce” che vengono dall’Africa e dall’Asia, e che le differenze genetiche tra due esseri umani di due continenti diversi sono nell’ordine l’uno per mille. Sono cioè molto minori di quelle che troviamo tra due gorilla e due scimpanzé. Segno che tutti gli esseri umani appartengono alla stessa famiglia che nel giro di pochi millenni è arrivata a 7mld di individui».

Quindi il concetto di razza dal punto di vista scientifico non funziona?
Non funziona e chi si occupa di antropologia e di biologia umana lo ha capito perfettamente tuttavia ci sono dei paradossi significativi.

Per esempio?
Soprattutto nella ricerca clinica statunitense è ancora fortissimo. L’idea diffusa negli Usa è che se un medico tiene conto della tua razza è in grado di proporti terapie e farmaci più adatti alle tue caratteristiche genetiche. Ma è un’idea priva di basi scientifiche. Non esiste un solo dato che confermi che gli asiatici o i neri o gli ispanici, come li chiamano loro, abbiano una risposta diversa, per dire, alla tachipirina rispetto ai bianchi. Tenga presente che la “loro” categoria degli ispanici comprende da Borges a Teofilo Stevenson, il pugile cubano di origine africane che vinse tre ori alle Olimpiadi.

Possiamo approfondire questo punto?
Ovviamente ci sono delle differenze, ma ci sono anche tra me e lei, ci sono tra bianchi, tra neri, tra asiatici e sono grandi quanto quelle che si riscontrano tra gruppi diversi. Quindi a lei la tachipirina può dare sollievo e a me no. Se lei prende per strada dieci persone che camminano sul marciapiede di dx e altrettante su quello di sx e studia una bella porzione di Dna alla fine troverà delle differenze. Perché siamo tutti diversi. Tuttavia sono differenze che non hanno alcun significato. Il Dna non dice se uno sceglierà di camminare a destra o a sinistra. È così, le differenze ci sono sempre. Ma di questo, negli studi clinici Usa, spesso non ne tengono conto. Con il risultato che la farmacologia razziale sta avendo molto successo soprattutto tra i neri. Perché avvertono che finalmente si tiene conto della loro identità e quindi si sentono più tutelati da questa forma di medicina che dal punto di vista scientifico non sta in piedi.

C’è quindi anche un inquietante risvolto sociale.
Bisogna tener presente che negli Usa il concetto di appartenenza a una razza viene inculcato ai bambini sin dai primissimi anni di scuola. Anche a loro, oggi, come ad Einstein, allora, viene chiesto di che razza sono. E se appartengono a una di quelle svantaggiate, cioè sono neri o ispanici, possono avere delle agevolazioni. Per esempio pagano meno tasse, oppure hanno diritto a dei sussidi per accedere a determinate scuole. Poiché chi va nelle scuole migliori ha più probabilità di andare a un’università migliore e chi esce da una buona università ha più chance di trovare un buon lavoro, ecco che tutti questi “vantaggi” rafforzano l’identità razziale. Trasformare le differenze individuali in differenze razziali non funziona. È scientificamente provato. Però è un messaggio che si vende bene, ispira fiducia: tu sei ispanico e io so come si trattano gli ispanici. In un Paese dove le identità razziali sono molto profonde ecco che anche questo messaggio scientificamente insignificante passa.

E in Italia come siamo messi?
L’idea di identità razziale sta riprendendo piede sulla base di un dato di fatto che non è genetico ma epidemiologico. Con l’immigrazione stanno arrivando persone con malattie che da noi non si conoscevano più. Per esempio la tubercolosi. Chi viene da un Paese in cui la sanità non è efficiente può essere più facilmente esposto a malattie che da noi sono scomparse, ma è inaccettabile che con questo si cerchi di veicolare l’idea che certi gruppi etnici, certe popolazioni portino con sé patologie particolari. È un concetto sbagliato, che rischia di fare presa.

Dal punto di vista scientifico quando è stato superato il concetto di razza umana?
Dipende da come lo consideriamo. Se guardiamo alla produzione continua di studi clinici che ancora lo usano possiamo dire che non è mai stato superato. Invece, dal punto di vista di chi si occupa dell’evoluzione delle popolazioni, della biodiversità umana e quindi del tema in sé e per sé, a partire dagli anni 90 del secolo scorso è risultato evidentissimo – anche da una serie di studi di Luca Cavalli Sforza con cui ho collaborato – che non è possibile definire dei gruppi umani biologicamente differenti.

Detto questo non sarebbe il caso di eliminare la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione?
Terracini, La Pira e tutti coloro che collaborarono alla stesura dell’articolo 3 non avevano in testa il dibattito biologico di cui abbiamo parlato ma il ricordo delle leggi razziali di Mussolini. E quindi hanno pensato a un testo che, dall’entrata in vigore della Carta, impedisse di discriminare le persone sulla base di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Così in Italia una persona può essere giudicata per quello che fa non per quello che è. Questo è il messaggio dei costituenti e in questo caso il concetto di razza biologica non c’entra. Anzi è del tutto rifiutato. C’è una frase alla quale praticamente non facciamo più caso perché l’abbiamo letta mille volte: la legge è uguale per tutti. Spiega bene la ratio che c’è dietro il primo comma dell’articolo 3 e ci dice anche che un’affermazione come quella di Debora Serracchiani (“un reato è più grave se commesso da un immigrato”) nell’Italia del dopoguerra, nelle intenzioni dei costituenti, non avrebbe più dovuto avere diritto di cittadinanza.

L’intervista al genetista Barbujani è tratta da Left n. 26 1 luglio 2017


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Due tre cose di Gori su Dell’Utri (e Berlusconi) e di Fontana sulla razza

Per fortuna parlano. Per fortuna i candidati, ammantati spesso di benevola narrazione da parte dei loro sostenitori e dei rispettivi partiti, vengono intervistati, si esprimono e così inevitabilmente inciampano sulla loro natura.

Così da ieri sappiamo, una volta per tutte, che Attilio Fontana, ex sindaco di Varese candidato per il centrodestra alla successione di Maroni, quando si distrae scivola sulle questioni di “razza bianca” forse troppo abituato alle battute da osteria del suo mentore segretario Matteo Salvini. E fa niente se poi, come da tradizione, si è scusato dicendo di essere stato frainteso: le parti basse con cui votano i suoi elettori sono state opportunamente eccitate quel tanto che basta per arrivare fino al 4 marzo. Eppure la sua frase conviene scoprirla nella memoria: «E’ un discorso demagogico e inaccettabile quello di dire che dobbiamo accettarli, è un discorso a cui dobbiamo reagire, dobbiamo ribellarci: non possiamo accettarli tutti. Vorrebbe dire che non ci saremmo più noi come realtà sociale e etnica, perché loro sono molti più di noi, perché loro sono molto più determinati di noi nell’occupare questo territorio. Di fronte a queste affermazioni dobbiamo ribellarci, non possiamo accettarle, perché qui non è questione di essere xenofobi o razzisti, ma logici e razionali: non possiamo perché tutti non ci stiamo, quindi dobbiamo fare delle scelte, decidere se la nostra etnia, razza bianca, società deve continuare ad esistere o deve essere cancellata, è una scelta. Se la maggioranza degli italiani dovesse dire noi vogliamo autoeliminarci vorrà dire che noi che non vogliamo autoeliminarci ce ne andiamo da un’altra parte».

La favola della sostituzione etnica è stata accontentata.

Poi c’è Gori. Quello che si offende, quello che secondo Renzi è “uomo di sinistra” più di lui (e basterebbe un Cirino Pomicino) e che non ha “nulla di berlusconiano”. Bene. Gori è stato intervistato Klaus Davi (l’intervista la trovate qui). Per carità, concetti meno gravi di quelli di un razzista, diranno tutti, ma indicativi.

Su Berlusconi ha detto: «Si può apprezzare molto l’imprenditore per quello che ha fatto e io continuo ad apprezzare Berlusconi e gli sono anche molto riconoscente: mi ha messo in mano la responsabilità delle sue tre reti quando avevo 29 anni, come potrei non esserlo? Ma ho un giudizio politico su di lui abbastanza severo, i due piani sono nettamente distinti». Peccato che le condanne di Berlusconi facciano riferimento al suo essere evasore e corruttore proprio da imprenditore. Qualcuno lo ricordi a Gori.

Su Dell’Utri ha detto: «Il mio rapporto personale con Dell’Utri è sempre stato con un uomo di grande qualità. Non ho mai avuto la sensazione che fosse l’anello di congiunzione tra Berlusconi e la mafia».

E su De Benedetti (amichevolmente informato da Renzi, come dice De Benedetti stesso, del decreto banche, tempismo che gli ha fruttato un bel guadagno di 600.000 euro): «Non so che in rapporti fossero, ma mi pare normale capo del governo intrattenga rapporti con i principali figure del panorama economico e non mi pare gli abbia detto niente di particolarmente…» E i 600.000 euro? Gori dice: «Questo è assolutamente da dimostrare».

Ecco tutto. Buon martedì.

 

«La legge 107 non va corretta, va abolita». La parola al pedagogista Massimo Baldacci

Studenti medi e universitari in piazza durante la manifestazione contro le politiche del governo sulla scuola a Firenze, 13 Ottobre 2017 ANSA/MAURIZIO DEGL ' INNOCENTI

Massimo Baldacci è un pedagogista, insegna all’Università di Urbino e coordina il gruppo teorico della Società italiana di pedagogia. Tra i suoi ultimi libri Trattato di pedagogia generale (Carocci, 2012), Per un’idea di scuola (Franco Angeli, 2014) e Oltre la subalternità, praxis e educazione in Gramsci (Carocci, 2017).

Professor Baldacci ci dica il suo giudizio sulla Buona scuola. È da abolire? E perché?
La legge 107/2015 presenta un impianto gravemente riduttivo e unilaterale, le cui direzioni culturali si coglievano in modo trasparente nel Documento iniziale sulla Buona scuola. Non si mira alla formazione completa dell’essere umano come cittadino, produttore e persona autonoma intellettualmente e moralmente. La scuola è vista solo come una fabbrica di produttori equipaggiati di un adeguato capitale umano, e quindi come asservita al sistema economico, anziché diretta allo sviluppo civile e democratico del Paese. Pertanto, la legge 107/2015 non va semplicemente corretta, ma abolita. La Flc Cgil ha fatto bene a provarci, anche se purtroppo non sono state raggiunte le firme sufficienti per il referendum abrogativo.

Cosa pensa delle politiche scolastiche degli ultimi anni? Oltre al taglio di risorse, un fatto evidente, secondo lei è passata una determinata idea di scuola e quale?

Le politiche scolastiche degli ultimi quindici anni sono state improntate a una concezione neoliberista della scuola, di cui i tagli delle risorse sono parte integrante. L’ontologia sociale neoliberista vede non solo il mercato, ma l’intera vita sociale come retta dai meccanismi della competizione. Di conseguenza, il compito della scuola è quello di funzionare come fabbrica di capitale umano (che rappresenta l’arma principale della concorrenza) e come palestra di competizione per i giovani. E lo stesso sistema formativo è visto come un mercato entro il quale gli istituiti scolastici costituiscono aziende in concorrenza tra loro. Il regime di penuria delle risorse creati dai tagli dell’epoca Tremonti-Gelmini rappresenta la premessa per motivare alla competizione. Tutto questo non significa che la scuola militante si sia allineata a questa concezione. Oggi è in corso quella che Gramsci definirebbe come una lotta egemonica che ha per posta il modo di vedere la scuola. La Flc Cgil e le associazioni d’insegnanti d’ispirazione democratica, come l’Mce e il Cidi, conducono attivamente una battaglia culturale contro l’omologazione neoliberista della scuola. Pertanto, la contesa è ancora aperta.

Se in sintesi, dovesse ripercorre il rapporto dei partiti e dei governi con la scuola, dove indicherebbe la crisi? Quando è iniziata la deriva? 

Nel nostro Paese, la deriva verso la scuola neoliberista è iniziata agli inizi del nuovo secolo, con l’avvento dei governi di Centro-destra. La Buona scuola rappresenta l’esito di questo processo. Ma la corrente si è creata già negli anni Novanta del secolo scorso, con la resa delle socialdemocrazie europee alle ideologie neoliberiste. Il Rapporto Delors (1996) sulla scuola e l’educazione in Europa, che intendeva elaborare i punti di riferimento culturali per le politiche scolastiche dei Paesi aderenti, rappresentava l’analogo pedagogico della Terza via di Blair-Giddens. L’azione dei governi di Centro-destra si è così innestata su un piano politico-culturale che inclinava già verso esiti neoliberisti. In una prima fase, questo processo è stato presentato (si pensi al periodo dalla Moratti alla Gelmini) come un ritorno a una sana e seria tradizione scolastica, compromessa dalla sinistra, dai sindacati, dalla pedagogia e da Don Milani. Poi, dal Governo Monti a quello di Renzi, la tendenza è diventata eplicita. Non più una deriva, ma una rotta verso le spiagge neoliberiste.

Venendo all’oggi invece, le sembra che le forze politiche, abbiano interesse, naturalmente in senso progressista, alla scuola? 

Non è facile stabilire cosa significa un “interesse in senso progressista alla scuola”, ma credo che si potrebbe intendere l’interesse a realizzare seriamente la scuola della Costituzione. A questo proposito, spero nelle forze di sinistra, ovviamente. Al di là della cronica tendenza alla divisione, per le variegate forze di sinistra del nostro Paese la difesa e la realizzazione della Costituzione ha sempre rappresentato un punto importante. Ritengo che ciò debba diventare un riferimento fondamentale anche per la politica scolastica, e mi pare che questa esigenza sia diffusa nella sinistra. Si tratta di elaborarla e tradurla in un orizzonte esplicito e in indicazioni concrete adeguate alla nostra epoca.

Di che cosa ha urgentemente bisogno oggi la scuola italiana per poter raggiungere l’obiettivo dell’unificazione culturale del genere umano, cioè della possibilità del sapere per tutti, di cui parlava Gramsci un secolo fa?

La capacità formativa della scuola, per esprimersi, ha bisogno di un riferimento culturale e valoriale. In questo, Gentile, in fondo, non sbagliava. Ma, com’è noto, egli poneva questo riferimento in termini dogmatici e autoritari, identificandolo nello Stato etico ed esprimendolo nella religione cattolica per la scuola elementare e nella filosofia neoidealistica per il liceo. Per la scuola della Repubblica italiana, il riferimento unitario è rappresentato dal Costituzione, che custodisce i valori laici che debbono informarne tutta la vita sociale. L’unità formativa della scuola può essere conseguita sotto il segno della Carta Costituzionale. E la realizzazione della scuola della Costituzione dovrebbe essere la stella cardinale delle politiche scolastiche. Si tratta di tematizzare il nesso formativo tra istruzione, lavoro e democrazia. E si tratta di fare della scuola non un’azienda che produce capitale umano competitivo, bensì una comunità democratica e pluralista volta a rimuovere gli ostacoli che possono limitare lo sviluppo individuale, garantendo così a tutti i futuri cittadini-lavoratori la piena crescita intellettuale e morale. La loro eguaglianza democratica nella diversità individuale.

Noor, la fabbrica di gelati a Gaza e il cartone animato che scuote Israele

Dove hanno fallito uomini, armi e poi accordi di pace, forse può riuscire un disegno. Dove ha fallito la politica, forse può avere successo la matita. E un cartone animato che parla agli israeliani delle sofferenze dei bambini nell’assedio di Gaza. In particolare può riuscirci una bambina di nome Noor, che in arabo vuol dire “luce”. Noor lungo la strada verso casa da scuola trova 10 shekel israeliani e decide di comprare un gelato. Insieme al cono, vince un biglietto per visitare una fabbrica di dolci, quella di Muhammad Tilbani, che la accoglie a braccia aperte.

Quando sono in ascensore e la luce va via, il proprietario le dice: «Lo sai, la luce tornerà tra otto ore». Quando vede dei macchinari impolverati, il proprietario le parla dell’embargo tecnologico che non permette di trovare pezzi di ricambio. Insieme alla visita poi la ragazza riceve in regalo l’intera fabbrica di gelato. Invece che un regalo, quel dono si rivelerà per Noor un incubo: è impossibile gestire una società a Gaza, per le condizioni di embargo e chiusura, per la guerra, perché manca l’elettricità, manca l’acqua, mancano i pezzi ricambio, perché manca tutto. Perché per le condizioni a cui sono costretti i palestinesi, sembra di vivere nel secolo scorso.

Noor non esiste, ma Tilbani invece si. Ha lavorato in Israele tutta la sua gioventù e nel 1977 ha deciso di tornare indietro, a Gaza, per aprire una fabbrica dove lavorano oggi 400 persone. Per produrre dolcezza e dolci, dove tutto manca: i gelati di Tilbani costano pochi centesimi, quanto la popolazione di Gaza può permettersi. La fabbrica l’ha aperta 40 anni fa, si chiama al Awda, che vuol dire “il ritorno”. Il cartone, che si chiama invece Gaza’s Candy Kingdom, voleva aprire una breccia nell’indifferenza degli abitanti che vivono tranquilli oltre i check point. Voleva far capire con innocui disegni cosa accade a solo un’ora di macchina da Tel Aviv: si entra in un altro mondo, in un’altra geografia, altre condizioni, come fosse un altro secolo, quello passato, in cui ogni secondo e per ogni cosa, si lotta per la sopravvivenza.

«Di cosa ho paura? Di cosa dovrei averne? Se c’è una sola bugia in questo cartone, portatemi in tribunale. Tutto di questo cartone è vero, è la realtà di Gaza, di una fabbrica che cerca di far sopravvivere i suoi operai» ha detto Tilbani, che è stato accusato dagli israeliani di dare una cattiva immagine di Israele. Eppure quelle sono solo una minima parte delle sofferenze palestinesi, ha replicato lui ai business man suoi colleghi che vivono a Tel Aviv. «Sono decenni che lotto per far sopravvivere me e i lavoratori che sono con me», ha detto ricordando il passato.

Nel 2007 Tilbani poteva esportare i suoi gelati anche in West Bank, da dieci anni invece è impossibile per l’embargo introdotto nel 2007 e gli affari peggiorano. «Come faccio a licenziare un lavoratore che ho impiegato? Morirebbe di fame, lui e la sua famiglia. Che succederebbe ai suoi figli? Sarebbe una sentenza di morte» dice l’imprenditore, ma le difficoltà economiche si fanno sempre più pressanti. «A Gaza ci sono centinaia di migliaia di persone che non hanno niente da mangiare, che non vedono la carne da molti, molti anni» dice Tilbani.

Il cartone è stato prodotto da Gisha, un’organizzazione no profit israeliana, fondata nel 2005 per proteggere la libertà di movimento dei palestinesi, specialmente quelli di Gaza, e si batte contro le sanzioni imposte agli abitanti dei territori. La fabbrica è stata bombardata nel 2014 e questo si vede anche nel cartone. Noor guarda le macerie e diventa triste, ma Tilbani le ricorda che «finché le persone avranno bisogno di gelato, saremo qui a farglielo, per rendere dolce la loro vita».

La biblioteca d’arte di Torino è ancora a rischio

Il 9 gennaio era stata diffusa la notizia del salvataggio di biblioteca, fototeca, archivio e dipendenti della Gam grazie all’intervento della Regione Piemonte che ha aumentato il contributo annuo destinato alla Fondazione. In realtà restano molte questioni in sospeso. Gli ulteriori 350mila euro stanziati dalla Regione sono andati a sanare, momentaneamente e solo in parte, un dissesto economico che riguarda tutta la fondazione e si aggira sui 2 milioni di euro, mentre la sorte del Borgo medievale e di circa dieci lavoratori è ancora oggetto di trattative.
A fronte di tutto questo viene da chiedersi se l’accordo raggiunto per la Gam possa effettivamente condurre ad una situazione di stabilità o se, verosimilmente, al termine del 2018 si tornerà a parlare della sua chiusura e del trasferimento dei suoi volumi in depositi inaccessibili. La biblioteca è salva (per ora) recita il titolo dell’ultimo post sul sito aperto da studenti di storia dell’arte di Torino, in quanto il futuro di questa parte del patrimonio culturale italiano è incerto, nonostante la Repubblica sia chiamata a tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione, così è scritto nell’articolo 9 della Costituzione.

La storia:
Lo scorso dicembre il Comune di Torino ha annunciato nuovi tagli ai fondi destinati alla Fondazione Torino Musei, innescando un terremoto interno (con ripercussioni sugli anelli più deboli della catena). Stando a quanto emerso dai primi incontri tra l’assessore alla Cultura di Torino Francesca Leon, il presidente Maurizio Cibrario e il segretario Cristian Valsecchi della Fondazione Torino Musei, lo scenario prevedeva la chiusura della biblioteca d’arte, della fototeca e il trasferimento dell’archivio della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Torino (Gam), il licenziamento di 28 dipendenti della Fondazione distribuiti tra i servizi sopracitati della Gam, museo diffuso della resistenza e Borgo medievale, oltre alla concessione a privati di quest’ultimo.
Più che una soluzione di emergenza, si è dimostrato un segnale di incapacità amministrativa e irresolutezza nei confronti di un problema riguardante sì lavoratori e utenti, ma anche il patrimonio culturale. Nella scorsa primavera il Comune ha rilanciato l’idea di aprire un polo unico per le biblioteche di storia dell’arte con lo scopo di riutilizzare i diversi spazi attuali, eliminando i costi degli affitti e dimezzando quello dei servizi. Tra i luoghi ritenuti adeguati, il Comune ha indicato la Biblioteca nazionale, ma come ha detto il direttore Guglielmo Bartoletti alla stampa locale, non ha sufficiente spazio, inoltre dipende dal ministero dei Beni e delle attività culturali, che non era stato interpellato. La biblioteca della Gam ad oggi conta 140mila volumi, numerosi fondi speciali e l’archivio storico dei musei civici torinesi, ed è nata negli anni Trenta in stretta connessione con l’istituzione museale, per permettere lo svolgimento delle ricerche e degli approfondimenti necessari alla realizzazione di mostre ed eventi. Nel corso dei decenni importanti acquisizioni e donazioni l’hanno resa un centro di rilievo per la storia dell’arte, motivo per cui è stata aperta al pubblico e oggi è frequentata anche da studenti.

La mobilitazione:
Di fronte all’imminente chiusura e alla totale mancanza di informazioni su luoghi e tempistiche per la realizzazione di un piano incerto quanto opinabile, studenti e professionisti si sono mobilitati raccogliendo firme, presenziando in piazza e cercando il dialogo con la giunta comunale, dimostrando il loro sostegno ai lavoratori ma anche manifestando interesse per la sopravvivenza delle istituzioni culturali messe a rischio dai tagli. Il movimento di protesta vede la partecipazione di studenti e laureati riuniti nel gruppo “Studenti di Storia dell’Arte di Torino”, fondato nel 2015 quando erano emersi i primi sintomi del problema allora circoscritto alla Biblioteca della GAM. Sono passati difatti due anni dalle prime proteste rinominate #SaveGam, in quell’occasione rivolte alla limitazione dell’orario di apertura della biblioteca chiesta dal comune di Torino, allora rappresentato dalla precedente amministrazione, che intendeva ribassare le 35 ore settimanali a 11. Dopo la prima vittoria che ha portato al mantenimento dell’orario usuale, l’associazione ha continuato a seguire con attenzione le vicende legate alla Biblioteca della Gam. All’indomani dell’elezione del sindaco Chiara Appendino avvenuta nel giugno 2016, come racconta lo studente Marco Testa, l’associazione ha espresso la ferma necessità di inserire negli organi della Fondazione Torino Musei personalità con un alto profilo di ricerca nel settore delle arti e costituire il comitato scientifico, previsto anche nello statuto della fondazione ma ancora vacante. La richiesta mirava all’attuazione di una procedura che, oltre ad essere dovuta, si auspicava potesse permettere a esperti nel settore di incidere nelle scelte della fondazione stessa, coadiuvando figure dalle professionalità legate ad altri ambiti disciplinari. Invece di stupire, tanta lungimiranza lascia intendere che le opportunità per salvaguardare i beni fossero già sotto gli occhi di tutte le parti.

Pirozzi e la sua epica di plastica che rivende come nuova

Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, durante la conferenza stampa per presentare la sua candidatura alle elezioni regionali, Roma 15 Novembre 2017. ANSA / LUIGI MISTRULLI

Alzi la mano qualcuno che sappia esattamente quali siano le competenze politiche e amministrative di Sergio Pirozzi. Qualcuno ci dica esattamente quali siano i programmi politici che avrebbe intenzione di proporre nella Regione Lazio con la sua candidatura (non valgono le frasi “aiutare la povera gente”, “pretendere giustizia” o “risolvere i problemi della gente” altrimenti ognuno di noi potrebbe avere almeno un dozzina di amici pronti a scalare la presidenza del consiglio) e qualcuno ci spieghi esattamente quale sia la temperatura della sua sensibilità politica, la sua storia, il suo percorso e la sua meta (alla luce di quello che lui stesso ha dichiarato domenica a Il Messaggero: «Prima ero il sindaco montanaro inadeguato a guidare la Regione Lazio. Poi ero il candidato con i fascisti accanto. Poi sono diventato Zingarozzi, il comunista travestito da uomo di centrodestra, che vuole aiutare Zingaretti. Adesso sembra che sono di nuovo fascista, con il busto del duce anche in bagno, e i veri amici di Zingaretti mi attaccano. Domani chissà. Con me viene usato lo stesso metodo usato ossessivamente per ventiquattro anni con Silvio Berlusconi»).

Nessuno gli pone (e si pone) queste domande perché in fondo Pirozzi va bene così, in un tempo di politica che è solo una quotidiana e lunghissima trasmissione televisiva: è popolare, dicono. Eppure è popolare anche l’influenza in certi periodi dell’anno, è popolare la povertà, è popolare l’ignoranza, sono popolari le strisce pedonali, è popolare il formaggio sopra la pasta, è popolare il guardrail ma nessuno ha pensato di candidarli.

Pirozzi invece si inserisce perfettamente nell’epica superficiale dei nostri tempi: ha vissuto una tragedia (non personalmente ma ha trasmesso di essere addolorato di tutto il dolore della sua città e gli hanno creduto), ha superato la tragedia (non lui, ma personalizzando il terremoto il suo riscatto viene rivenduto come il riscatto di un territorio, benché la ricostruzione sia ancora in alto mare dalle sue parti) e s’è dimostrato forte (con il vecchio trucco della muscolosità verbale dal profumo fascista che oggi rende moltissimo). Poi ha negato fino all’inverosimile di volersi candidare così ora che s’à candidato rende l’idea di averlo fatto per “incessanti richieste” (di chi esattamente non si sa, visto che per ora è il barboncino di Storace) e infine è già passato al vittimismo («Chi teme la popolarità e la diversità rispetto alla politica tradizionale reagisce così. La mia ossessione invece è risolvere i problemi della gente del Lazio. Evidentemente chi ha solo l’ossessione dell’avversario, non è interessato ai problemi reali. Ma i cittadini ormai lo sanno», ha detto ieri) inventandosi un altro nemico immaginario.

Lo osservi e pensi che non potrà avere mai credito uno così. Poi ti guardi in giro. E temi.

Buon lunedì.

Cento di questi Bergman

STOCKHOLM, SWEDEN - JANUARY 1: Unlocated picture dated in the 1960s shows legendary Swedish filmmaker Ingmar Bergman teaching his son Daniel how to handle a camera while Bergman's wife and mother of Daniel, Kibi Laretai watches. Daniel became later a film and theater director. (Photo credit should read LENNART NILSSON/AFP/Getty Images)

Nel segno di Bergman. A cent’anni dalla nascita del regista svedese sono tantissime le rassegne e le occasioni per rivedere le sue opere. La prima è già dietro l’angolo. Dal 18 gennaio al 4 marzo nel Palazzo delle esposizioni a Roma si svolgerà la rassegna Bergman 100, omaggio al grande maestro. Con cadenza giornaliera verranno proposti al pubblico molti suoi lavori. Nato il 14 luglio del 1918 a Uppsala è stato regista, sceneggiatore, drammaturgo, scrittore, direttore artistico di alcuni dei più prestigiosi teatri svedesi e produttore cinematografico.

Creatività inesauribile: quarantatré lungometraggi, sedici film per la televisione, sei cortometraggi, regie per il teatro e la lirica, regie radiofoniche e alcune sceneggiature riprese dai suoi epigoni. Bergman non è solo un discorso sul modo di fare cinema, l’audace singolarità delle storie messe in scena, la personale capacità di rappresentazione del visibile e dell’invisibile o la formidabile direzione artistica degli attori, ma un universo complesso, percorso da autocritiche feroci, progressioni, crisi, slittamenti, in cui estetica e visione del mondo, sehnsucht e streben, purezza geometrica delle forme e tensione dolorosa degli affetti, rarefazione e concretezza fisica raggiungono straordinarie accensioni e sconvolgenti picchi emotivi. Cercare di perimetrarne la genialità o anche solo sintetizzarne la densità semantica è un’operazione fallimentare in partenza. Solo un po’ di spazio ad alcune…

L’articolo di Daniela Ceselli prosegue su Left in edicola


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Iran, chi c’è dietro la rivolta

LONDON, ENGLAND - JANUARY 02: Anti-regime protestors demonstrate outside the Iranian embassy on January 2, 2018 in London, England. Protests in Iran have seen at least 12 people die during violent clashes over recent days. (Photo by Leon Neal/Getty Images)

I primi due manifestanti sono morti il terzo giorno di proteste, a Doroud, provincia occidentale di Lorestan. Hamzeh Lashni e Hossein Reshno, la loro identità è stata confermata dai familiari mentre un video che li mostrava coperti di sangue girava sul web. Ne sono seguiti altri 19, uccisi nelle manifestazioni che per una settimana – dal 28 dicembre al 2 gennaio – hanno attraversato l’Iran. Tra le vittime anche alcuni poliziotti, uccisi dal fuoco di manifestanti armati.

È stata una settimana intensa per la Repubblica islamica: sit-in di decine di migliaia di persone e gruppi di manifestanti che hanno preso d’assalto banche e caserme, ingaggiando scontri a fuoco con polizia e pasdaran. Il 2 gennaio le Guardie rivoluzionarie hanno annunciato la fine di quella che definiscono «sedizione»: nelle città iraniane sono scesi a decine di migliaia i sostenitori del governo, in mano le immagini dell’ayatollah Khomeini e dell’attuale guida suprema, Ali Khamenei.

Cosa stia succedendo è oggetto di analisi in tutto il mondo, tra gli osservatori internazionali e iraniani. Su un punto tutti, o quasi, convergono: difficile dare un’unica connotazione alle manifestazioni. Di certo si sa che sono state guidate dai giovani, dalla cosiddetta “generazione 90”: la stragrande maggioranza degli arrestati (700 per il governo, oltre mille per i manifestanti) ha meno di 25 anni. Ha pochi legami con lo spettro politico tradizionale, non si rispecchia con l’élite al governo o all’opposizione e non ha preso parte all’Onda verde anti-Ahmadinejad del 2009. Usa la messaggistica di Telegram – diffusissimo, 25 milioni di utenti – per organizzarsi.

L’altro elemento è geografico e, di conseguenza, “di classe”: le piazze interessate sono quelle periferiche, lontane dai grandi centri urbani, le comunità rurali e più povere e le città del profondo ovest e dell’est, con epicentro la conservatrice Mashhad, cuore della destra rappresentata da Ebrahim Raisi, custode del santuario dell’imam Reza, e dall’ayatollah Alamolhoda, tra i più duri oppositori dell’attuale governo. Un dato che ha permesso a Teheran di accusare…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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La danza macabra del presidente Macri

A poster with the face of Argentine President Mauricio Macri in front of the national congress during a protest against the pension reform on December 18, 2017 in Buenos Aires, Argentina. Argentina's lower house resumed a debate on changes to the pension system as police contained a riot outside Congress that at one point threatened to overwhelm them. (Photo by Gabriel Sotelo/NurPhoto via Getty Images)

Quando vince, Macri balla. Ma la sua non è una danza aggraziata, bensì uno strano ballo somigliante alle torsioni penose di Elaine nella sit-com Seinfeld. Con il suo consigliere politico, Jaime Duran Barba, che continua a sostenerlo attaccandosi disperatamente a qualsiasi cosa che faccia sembrare il presidente – per natura uomo dal ghigno sinistro, distaccato e freddo – un essere umano.

L’ultimo ballo di Macri ha avuto luogo il 22 ottobre, quando la sua parte politica ha chiaramente vinto le elezioni parlamentari di medio termine. È stato, inequivocabilmente, un risultato per lui positivo avendo ricevuto l’approvazione della maggior parte dei votanti argentini. E Macri l’ha considerata una delega in bianco. Il giorno dopo il voto ha immediatamente messo sotto pressione la sua amministrazione e lanciato un’offensiva per cambiare il sistema legale sul lavoro, sulle pensioni e sulle tasse: diminuendo i diritti della maggior parte dei lavoratori, abbassando le pensioni, impoverendo i fondi che consentono al sistema di funzionare, e liberando i ricchi da pesanti contributi fiscali. Immediatamente il prezzo del gas ha iniziato a volare: 12% in più in poco tempo. (Da allora ci sono stati aumenti per un altro 7%). Pochi giorni dopo le elezioni di medio termine, il procuratore capo Alejandra Gils Carbò – con un incarico a vita, approvato dal Congresso – si è dimessa, stanca di essere sottoposta a intimidazioni e a minacce fisiche nei due anni di presidenza Macri.

Tuttavia, molto presto la danza effimera di Macri si è fermata. E, in meno di sessanta giorni, è svanito il vento in poppa del governo che l’elezione aveva rafforzato. Anzi, ha cambiato completamente rotta. Non per questo il presidente ha smesso di provare a rimanere in pista. Al contrario, ha superato ogni limite ancora più duramente. Senza alcun ritegno per la vicenda di Santiago Maldonado, il 23 novembre, la gendarmeria ha sparato alla schiena a un altro giovane, uccidendolo, questa volta un autentico Mapuche: Rafa Nahuel, di 22 anni. Nel bel mezzo di un dicembre mai così caldo, Macri ha costretto il parlamento ad approvare una riforma che riduce la maggior parte delle pensioni e permette al governo di usare i fondi pensionistici nel modo in cui ritenga giusto.

Ne è seguita una rivolta dentro e fuori dal…

Il reportage di Marcelo Figueras da Buenos Aires prosegue su Left in edicola


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I soldati del papa. Ecco come la Chiesa riconquistò l’Italia

Strassoldo, Udine, la messa da campo. Bologna, Museo civico del Risorgimento.

Qual è stato il ruolo del clero ed in particolare dei cappellani militari, durante la prima guerra mondiale? Si tratta di un argomento che solo da pochi anni la storiografia sta scandagliando, ma che fino a oggi non era mai approdato al grande pubblico della divulgazione quotidiana. Da qualche tempo su alcune testate generaliste, in vista del centenario della conclusione della vittoria nella Grande guerra (1918-2018), stanno comparendo articoli con una certa frequenza. L’immagine restituita ai lettori è quella di un clero che, nell’Italia “laicizzata” dopo l’Unità e la presa di Roma, nell’arco dell’intero conflitto fornisce un supporto materiale, spirituale e psicologico ai soldati in linea con lo “spirito evangelico”, che esorta a sostenere gli ultimi soprattutto nei momenti più difficili e drammatici. Poco o nulla è stato invece evidenziato riguardo al ruolo “politico” che i cappellani hanno finito per svolgere – ovviamente in favore del papa e della Chiesa – in quei drammatici anni del primo grande conflitto del Novecento, tra il 1914 e il 1918. Un ruolo, come vedremo, per nulla secondario.

La presenza sui campi di battaglia dei sacerdoti non era una novità e aveva radici ideologiche antiche. È stato per primo sant’Agostino nel IV-V secolo a definire i confini accettabili degli scontri armati tra gli eserciti e di quella che da lì in poi sarebbe stata definita la “guerra giusta”. Per essere “giusta” secondo la Chiesa cattolica una guerra doveva soddisfare tre requisiti principali: essere dichiarata da un’autorità legittima, essere finalizzata alla pace e alla giustizia e soprattutto essere combattuta da soldati che non odiavano il nemico, ma uccidevano quasi fosse un atto di amore. Ovviamente il fatto che fosse “giusta” o meno lo decideva il papa e quindi il buon cristiano poteva combattere solo “guerre giuste”, cioè benedette dal pontefice.

Come sappiamo il papa in Italia è stata la principale figura istituzionale di riferimento per almeno altri 1400 anni, fino a quando nel nome dell’Unità è stato spodestato anche da Roma, relegato in uno spicchio di terra al di là del Tevere. Con l’Italia unita il pontefice non solo fu espropriato di ogni possedimento territoriale, ma furono estese a tutto il territorio nazionale le leggi del Regno di Sardegna di separazione fra Stato e Chiesa e iniziò un processo di laicizzazione della società che, tanto per dare il segno, arrivò nel 1888 ad escludere la religione cattolica da…

L’articolo di Gianni Manetti prosegue su Left in edicola


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