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Carcere, i diritti umani non possono attendere

La proposta avanzata da Potere al popolo di abolire l’ergastolo e il 41 bis è stata accolta con scandalo. Perché, ci siamo chiesti, dal momento che questo tema percorre buona parte della storia della sinistra del Novecento? Una figura cardine dell’antifascismo come Altiero Spinelli, che aveva subito il carcere di Mussolini, era arrivata persino a parlare di abolizione del carcere.

Certo, è complessa e spinosa la questione del 41 bis (così come rinnovato dopo le stragi mafiose del 1992 con la legge 356) che riguarda gli ergastolani condannati per delitti di mafia. Ma perché questa levata di scudi, prima ancora di cominciare la discussione? A rendere urgente un dibattito pubblico sul tema del carcere è la non rimandabile questione dei diritti umani. L’Italia è stata condannata dalla Cedu anche a questo riguardo. Per le disumane condizioni di sovraffollamento nelle carceri e, nel 2016, per l’ingiusta detenzione di migranti (che non hanno commesso alcun reato!) nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Sulle nostre spalle, come cittadini, grava una grande quantità di sentenze della Cedu mai attuate da governi di diverso colore. La civiltà di un Paese si giudica anche dal suo sistema carcerario. E in Italia la situazione è drammatica. Le percentuali parlano chiaro. E raccontano la discriminazione in atto.

Il 37 per cento della popolazione carceraria è composta da stranieri per effetto di una legge razzista come la Bossi-Fini. Chi finisce dentro per piccoli reati in genere è indigente e non può permettersi un buon avvocato. Moltissime sono le persone recluse affette da malattie psichiche e tossicodipendenti. Il 2018 si è aperto tragicamente con un suicidio nel carcere di Uta a Cagliari. Un uomo di 46 anni, algerino, con problemi di dipendenza da droghe si è tolto la vita. Nel 2017 sono stati 52 i suicidi su 123 morti in carcere. Molte associazioni, a cominciare da Antigone, denunciano la mancanza di assistenza sanitaria adeguata e la totale assenza di cure psichiatriche: al più vengono somministrati psicofarmaci, ma senza psicoterapia, al più, servono per tenere sotto controllo i sintomi. La domanda allora ritorna: a cosa serve il carcere? Secondo la legge dovrebbe avere come obiettivo la reintegrazione sociale. Il che implica una presa in carico complessiva della persona, considerando anche la sfera dell’affettività, oltre al lavoro, alla salute ecc. Ma a 18 anni di distanza dal primo tentativo di riforma, ancora oggi il regolamento non considera la vita affettiva dei detenuti. Benché sia un diritto inviolabile della persona.

Allora viene da chiedersi: quale pensiero è sotteso all’attuale sistema carcerario? C’è l’idea di una condanna eterna? Di una pena da espiare che non ha a che fare con la giustizia ma con la vendetta? Abbiamo rivolto questa e altre domande alle forze politiche che si presentano alle elezioni. Ed è emersa la profonda differenza che separa la sinistra “radicale” dal centrosinistra e dalle destre. Se la demagogia violenta e forcaiola delle destre e dei leghisti è nota (Berlusconi è arrivato perfino a dire che «la colpa dei crimini è dei 476mila clandestini africani»), colpisce la traiettoria sempre più conservatrice del centrosinistra: “ordine”, “sicurezza” sono diventate parole care al Pd, ormai da tempo. Lo notavamo, su Left, già una decina di anni fa.

Con il decreto Minniti nel 2017 si è aggiunta la parola “decoro”. E si è fatto di tutto per respingere sempre più ai margini della società migranti, senza tetto e chi è senza mezzi di sussistenza. Arrivando addirittura a realizzare inferriate e panchine per impedire di fermarsi a riposare. Se CasaPound brandisce il fantasma della «sostituzione etnica», la Lega non esita a fare propri temi propri del nazismo come la difesa della razza bianca. Lo fa per voce del suo candidato a governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Un lapsus dice lui. Un lapsus che rivela un pensiero condiviso, rilancia Renato Brunetta di Forza Italia, aggiungendo che «il politically correct», a lui, «fa abbastanza schifo». Anche il Pd, d’altro canto non si fa mancare nulla. Dopo l’onorevole Pristipino che si è lanciata nella difesa del dipartimento mamme «perché gli italiani rischiano l’estinzione», ora tocca a Maurizio Sguanci, che da Firenze in nome del più cieco “fare per il fare” si è lanciato in difesa delle riforme di Mussolini. Affidereste a costoro una riforma carceraria e le chiavi del Paese?

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Etiopia, scarcerato il dissidente Merera Gudina. Ma le prigioni sono ancora piene

Alza le braccia alla folla in giubilo. È il primo di tanti, dopo le proteste di un anno fa, a tornare a respirare aria pulita. I cartelloni che i cittadini agitano per salutarlo dicono: «incarcerazione e intrighi non fermeranno la lotta Oromo» oppure «quando oppresso, persino il latte esce fuori dal suo contenitore”. Dopo oltre un anno di detenzione, la porta della sua cella è stata aperta: Merera Gudina è libero. Il leader del movimento d’opposizione Ofc, Oromo Congresso Federalista, è stato accolto da migliaia di persone in festa, dopo essere stato condannato alla prigione nel dicembre 2016 per varie accuse, tra cui associazione ad un gruppo terroristico.

In Etiopia le accuse cadono, le strade si riempiono di gioia e colori, i prigionieri politici tornano liberi. Almeno alcuni: 527, per la precisione. Le organizzazioni per i diritti umani e i critici del potere di Addis Abeba avevano accusato il governo di etichettare come “terroristi” tutti i dissidenti, gli oppositori, i giornalisti scomodi.

Insieme a Merera, da ieri più di cinquecento persone sono tornate a casa. Il primo ministro Haiolemariam Desalegn ha annunciato la liberazione pochi giorni fa, insieme alla decisione di chiudere la prigione Maekelawi, il carcere di Addis Abeba, dove a urlare nelle camere di tortura erano soprattutto dissidenti. Chi è stato condannato in base alla legge anti-terrorismo verrà rilasciato nei prossimi mesi, ma non chi dovrà affrontare processi per omicidio, distruzione di strutture pubbliche, destabilizzazione del governo. Lo ha confermato il procuratore generale Getachew Amnbaye. Altri dissidenti sono stati liberati dalla prigione di Klinto, il carcere federale nella capitale, 360 persone dalle prigioni del sud del Paese.

Merera aveva fatto un report della crisi politica etiope al Parlamento Europeo ed era stato arrestato appena atterrato in aeroporto, di ritorno, per aver violato lo “stato di emergenza” imposto dal governo del suo Paese nell’ottobre del 2016, quando un’ondata di proteste ha scosso la società e 11mila persone sono state arrestate nelle regioni di Oromia e Amhara, roccaforti delle manifestazioni antigovernative. Ora Merera ha detto che «sarà un bene se il governo condurrà delle negoziazioni oneste con le forze politiche che hanno grande supporto della popolazione, per creare un’Etiopia democratica che tratti tutti equamente. Io ero un membro del parlamento, conosco la costituzione e la legge, non le ho mai violate».

Furono circa 900 i morti uccisi dalle forze di sicurezza in quei giorni di ricerca di libertà e caos nel 2016. I motivi delle proteste che condussero agli arresti a tappeto erano la mancanza di democrazia del Fonte rivoluzionario popolare etiope, che controlla la politica, l’economia, il sistema legislativo del Paese, e sopprime la libertà di stampa in una delle regioni d’Africa con la crescita economica tra le più veloci del continente.

Adesso Merera non deve essere l’ultimo: «centinaia di prigionieri continuano a languire in prigione, sono accusati e perseguitati per il legittimo esercizio dell’espressione della loro libertà o semplicemente perché difendono i diritti umani» ha detto Netsanet Belay, di Amnesty International.

In carcere infatti ci sono ancora Bekele Gerba, deputato del partito Oromo, arrestato con Dejene Fita, segretario generale dello stesso partito, insieme a Andualem Aragie, vice presidente del partito dell’unità per Democrazia e Giustizia e due giornalisti: Eskinder Nega, giornalista e blogger, che rimane in carcere dal 2011, dopo aver criticato l’uso della legge anti-terrorismo per fermare e arrestare gli oppositori politici, e che poi, per quella stessa legge è stato accusato e ammanettato. La condanna per lui è di 18 anni di prigione. Stesso destino, per la stessa legge e per lo stesso coraggio, per il giornalista Woubshet Taye: 14 anni di carcere, ingiustizia e silenzio.

Come ci deprime scrivere di depressione

Lead singer of Irish band The Cranberries, Dolores O'Riordan performs on stage during a concert at Campo Pequeno in Lisbon, Portugal, 10 March 2010. ANSA/JOSE SENA GOULAO

Ogni volta che qualcuno viene a mancare per motivi più o meno direttamente legati alla depressione, ancora di più se famoso abbastanza da meritarsi qualche pagina della stampa internazionale, si alza in giro un certo imbarazzo, un silenzio balbettante, una contrizione goffa e fastidiosa.

Anche nel caso di Dolores O’Riordan (musicista e cantante internazionale) basta scorrere i giornali di questi giorni per accorgersi che poeticizzare il suo strazio interiore in nome di una funesta ispirazione sia molto più comodo che raccontare del suo disturbo bipolare o della sua depressione che ciclicamente la atterriva. “Morte misteriosa”, “periodo non facile” o “periodo difficile” sono i cerotti letterari che vengono utilizzati per nascondere una malattia (una malattia, una malattia, sarebbe da scrivere decine di volte tutte di seguito) che non rientra nella postura vincente e vittoriosa imposta da questo tempo.

Il divo fragile da appena morto, come il collega o il famigliare o il vicino di casa, è una storia da negare perché portatrice di sventura e foriera di ingrigiti sentimenti e così la negazione della malattia (che è il primo e più grande errore di chi depresso lo è davvero) viene alimentata ancor di più dalla postura generale.

È una slealtà linguistica irrispettosa delle debolezze che forse sarebbe il momento di dismettere una volta per tutte: sia per quelli che ancora ci (e si) illudono che stare male o avere difficoltà sia un fallimento (e così indirettamente giustificano il mancato soccorso) e sia per chi anche stamattina s’è svegliato a fatica circondato dal grigio e dalla paura di riconoscerlo.

Farebbe bene a tutti, in fondo. Farebbe bene anche a me, che lì in fondo ci sono stato, e ogni volta mi ricordo di chi mi ammonì di non dirlo, di non scriverlo, perché “non porta bene”. E invece sarebbe bellissimo raccontare che poi tornano i colori.

Buon giovedì.

Morti sul lavoro: la storia non ci ha insegnato nulla

Morti a Milano, nel 2018, soffocati. Tre lavoratori, 43, 49 e 58 anni, di un’azienda specializzata nella produzione di acciaio e titanio hanno perso la vita. L’allarme non ha suonato, l’ossido di azoto li ha uccisi: vittime di un’esalazione. Poche ore prima, un 41enne lavoratore edile di Torino era morto in un cantiere di Cafasse.
Sono già 29 le vittime del lavoro nel 2018, quasi due al giorno. Trend, questo, in linea – purtroppo – con i dati rilevati dall’Inail nei primi undici mesi del 2017, in cui hanno perso la vita sul posto di lavoro 952 persone, l’1,8% in più rispetto al 2016. Non solo: anche le denunce di infortuni hanno registrato un incremento rispetto all’anno precedente: lo 0,3% in più per la precisione, raggiungendo quota 589.495. Un aumento di 1.900 casi, quindi.

Tredici mila morti negli ultimi dieci anni, rincara l’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro, contando sia i decessi sul posto di lavoro, che quelli che perdono la vita nel tragitto. Tra i casi più frequenti, la caduta dai ponteggi e la morte per schiacciamento nell’edilizia. I mezzi pesanti sono la minaccia maggiore per chi lavora nell’agricoltura. Aumentano anche, rispetto al 2016, gli infortuni in itinere: se quelli sul posto di lavoro, ancora secondo l’Inail, si erano più o meno stabilizzati – registrando, per la verità un lieve decremento (lo 0,1%) – è altrettanto vero vero che gli infortuni sulla strada per raggiungere i posti di lavoro hanno registrato un notevole aumento (il 3,4%).

«Si allunga la scia di morti sul lavoro causate da intossicazioni in ambienti confinati, a dimostrazione del fatto che la storia non ci ha insegnato nulla e che è ancora lunga la strada da percorrere per garantire la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro»: ha dichiarato Franco Bettoni, Presidente dell’Anmil (Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro). Secondo i dati forniti dall’Associazione, il numero dei decessi sul posto di lavoro aveva avuto una contrazione, passando dai 1.200 casi del 2008 ai 1.170 del 2014; 1.286 nel 2015 e 1.104 nel 2016.

I settori più “pericolosi” – sia per le morti in bianco che per gli infortuni sul lavoro – sono l’industria metallurgica, i trasporti, la metalmeccanica e i servizi alle imprese. Quelli che hanno subito una contrazione (positiva) sono l’agricoltura, la pubblica amministrazione, le attività finanziarie ed assicurative e la sanità. I maggiori incrementi infortunistici si registrano nelle aree più industrializzate e produttive del Centro-Nord, la Lombardia in particolare. Seguono Emilia Romagna, Trentino e Lazio. Le più “sicure”: Molise, Umbria e Puglia.

Il lavoro non aumenta, ma le morti e gli infortuni sul lavoro sì.

Dunk, ed è subito il suono della superband che spiazza

In origine erano due fratelli, già protagonisti della scena musicale indie bresciana. Ettore e Marco Giuradei: il primo voce, l’altro alle tastiere. Anni e anni di gavetta, prove nella loro sala, concerti e ben quattro album all’attivo. Seguiti, apprezzati, ma ancora da una ristretta cerchia. Marco poi conosce Luca Ferrari, batterista dei Verdena, anzi è proprio quest’ultimo che lo invita a suonare insieme al resto del più ben noto gruppo bergamasco, insieme all’altro fratello Ferrari e Roberta Sammarelli. La fratellanza si completa con l’aggiunta di Ettore, i cui testi vengono apprezzati da Luca Ferrari. I tre iniziano a suonare insieme, non risparmiandosi a jam session e divertimento. Ma qualcosa manca ancora, così Ettore Giuradei convoca un altro musicista, uno che stima e che segue da anni, si tratta di Carmelo Pipitone, dei Marta sui Tubi e degli O.R.K.

I quattro si incontrano, cominciano a parlare di qualcosa di importante da fare insieme. L’esordio ufficiale, ad aprile 2017, in occasione del decennale della Latteria Molloy. Poi da settembre iniziano a registrare i loro brani. Tutto questo è Dunk: il risultato dell’incontro di anni di scrittura, musica suonata, arrangiata, insomma vissuta appieno. Il progetto confluisce così nell’omonimo album di inediti, il loro d’esordio, uscito lo scorso 12 gennaio. Il logo della copertina parla di loro, interpreta il lato più solare e tribale, i vari dualismi presenti nei testi. Una scrittura interessante, che parla dell’essere umano, uomo o donna che sia, del rapporto, della ricerca di un contatto, di un dialogo o di un incontro che possa avvenire. I testi di Ettore Giuradei e una musica robusta, corposa, che si fa materica, mai pedante; stimoli rock piacevoli, una tangibile maturità. Undici brani che si apprezzano al primo ascolto, su cui svetta il singolo apripista “È altro”. Brano spiazzante, di sicuro radiofonicamente funzionante, ma dal frasario più colto di quello solitamente radiofonico.

I Dunk sono pronti per un tour che li porterà in giro per l’Italia. Sono pronti a portare la loro musica, a farsi conoscere, soprattutto agli addetti ai lavori, come ci racconta, tra le altre cose, Marco Giuradei: «La collaborazione tra me e mio fratello risale ai tempi dell’adolescenza. Lui ha sempre scritto le canzoni, io ho sempre curato l’aspetto dell’arrangiamento, della struttura del disco. Noi due ci siamo fermati due anni fa con l’ultimo tour, poi ci sono stati l’incontro con Luca, poi con Carmelo, ma anche l’amicizia, il divertimento nel suonare. Da tutto questo è nato Dunk».

Dunk è il termine della “schiacciata” nella pallacanestro, è un po’ un fare centro.

Ma anche l’abbreviazione di “Dio punk”, ma anche tanto altro!

Nel presentare l’album, raccontate che Dunk è ricerca di una forma, è lasciarsi alle spalle la canzone, è avanzare verso un’opera, dentro la meraviglia.

Dovevamo trovare le parole giuste (ride), ma soprattutto, ascoltando l’album si nota che, a livello di struttura, non c’è quella di una classica canzone, ma è un movimento interiore legato a quelle che sono le emozioni che suscitava il testo, la canzone in sé. Abbiamo cercato di farci trasportare in questo flusso ed è stato molto naturale. Lo abbiamo fatto come opera artistica, molto sincera.

L’album, infatti, è da ascoltare tutto d’un fiato. Ci sono frasi, spunti che colpiscono, uno tra tutti, pescando nel brano “È altro”, è «Dell’arcobaleno conosco anche il resto…».

La scrittura di Ettore è poetica. Sono testi che lasciano la libertà di interpretazione. A mio fratello non chiedo mai il significato, mi piace immaginarmelo. Del resto, te lo immagini il resto dell’arcobaleno, spero se lo possa immaginare chiunque.

Venendo tutti da esperienze diverse, qualcuno di maggiore successo, con i Verdena o i MST, il vostro è stato un incontro, di idee e intenti, facile?

L’esperienza con Luca e Carmelo è stata molto semplice perché sono persone umili, hanno una maturità incredibile in ambito musicale, la capacità di entrare nelle canzoni, ma anche nell’arrangiamento, per cui tutte le volte che abbiamo suonato hanno sempre trovato la cosa giusta. Non sono mai andati oltre nel giudizio. Questo ha creato un clima di rispetto all’interno della band. Direi che questa è proprio una band: le decisioni le abbiamo prese assieme, ognuno ha avuto la libertà di esprimersi nelle canzoni. Non c’è stata una guida né un’imposizione, questa è stata per me la lezione più bella nel lavorare a questo disco.

A febbraio, proprio da Brescia, partirà il tour. Poi sarete in giro ovunque e ad aprile approderete al Monk di Roma. Che tipo di pubblico vi aspettate?

Sicuramente ci sarà un po’ di pubblico affezionato dei Giuradei, quello dei Verdena e dei MST, ma ci aspettiamo anche tanta curiosità. La speranza è quella di avere un pubblico nostro, magari anche di settore come musicisti, critici, ma soprattutto di gente che ascolterà il disco e avrà voglia di venire ad ascoltarci. Oggi in Italia, sotto il punto di vista della musica live, è importante ricordare che su un palco bisogna andare a suonare, non a fare i dj o a suonare la chitarra con le basi. Spesso queste super band che si formano sono escamotage, mentre il nostro è un progetto serio, una band vera. Noi suoniamo.

Alunni stranieri, un tesoro inestimabile per la scuola italiana

"La cittadinanza per chi nasce in Italia dovrebbe essere garantita". Giornata particolare per il giovane cestista della Fiat Torino David Okeke, 19 anni, nato a Monza da genitori nigeriani e fresco di convocazione con la Nazionale italiana. Il cestista ha incontrato gli alunni della Scuola Elementare Boncompagni di Torino nell'ambito della Campagna educativa Campioni di Fair Play, affrontando i temi dell'integrazione nello sport e nella vita: un percorso creato in collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Coni per la promozione delle politiche di integrazione attraverso lo sport. ANSA/UFFICIO STAMPA CONI/MAURIZIO ANDRUETTO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Nonostante la salvifica presenza di oltre ottocentomila studenti stranieri nelle scuole italiane, c’è chi tenta di ostacolarne l’integrazione. Succede in Emilia Romagna, dove Forza Italia, in un’interrogazione al consiglio regionale, chiede che venga mappato «l’intero territorio regionale per una redistribuzione più equa degli alunni di origine straniera, evitando che un numero eccessivo all’interno delle singole classi possa causare difficoltà e rallentamenti all’intera classe, come dagli studi citati». Secondo questi signori, non si capisce in base a cosa, la performance scolastica calerebbe quando nelle classi di scuola primaria si supera la quota del 30 per cento di stranieri.

Ma tant’è: malgrado le criticità, e con buona pace degli ostili, gli studenti figli di cittadini stranieri rappresentano la componente dinamica del sistema scolastico italiano perché contribuiscono a contenere la flessione della popolazione scolare complessiva, derivante dal costante calo degli alunni italiani. E la loro vitalità non influisce solo quantitativamente, sapendo infatti integrarsi nella vita scolastica con crescenti attese di successo formativo.

Sebbene abbiano vissuti di drammatica difficoltà esistenziale, sono portatori di «forti doti di resilienza positiva con una percezione di sé e del mondo già adulta», si legge nel documento, diffuso qualche giorno fa, Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa, elaborato dalla Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa.

Ma ciò può contrastare con la «percezione e la maturità non raggiunte dai loro coetanei italiani», generando (all’inverso, dunque) un divario nella regolarità degli studi. Che, quanto agli studenti stranieri, è misurabile con il ritardo con cui frequentano una classe rispetto a quella che, teoricamente, sarebbe prevista per la loro età. Capita spesso, e ai minori che si ricongiungono alle famiglie, ancor di più. Ecco cosa scrive il Miur, nel rapporto Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano: «Chiedono di frequentare la scuola in corso d’anno – poiché la potenziale domanda di istruzione non si manifesta esplicitamente – e non sempre possono essere accolti negli istituti scolastici per via della scadenza dei termini previsti per l’iscrizione», oppure ai giovani quindicenni «che non hanno frequentato o concluso la scuola secondaria di primo grado e potrebbero fruire della formazione presso i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia), grazie ai recenti dispositivi normativi in materia, ma non possono farlo non avendo ancora raggiunto sedici anni».

Va da sé che l’impossibilità è tutta nel sistema perché specifici accordi regionali ne potrebbero garantire la frequenza ma risultano di non facile attuazione anche «a causa delle mancate risorse funzionali date ai Cpia stessi per assolvere a compiti di nuova complessità relativi proprio ai ragazzi in arrivo», si legge nel documento della Cabina di regia.

Sempre più spesso non accompagnati, solo una parte di questi adolescenti soli in situazione di grave fragilità, segue percorsi di istruzione o formazione considerato che, una volta arrivati, diventano sovente irreperibili, ossia non più rintracciabili nelle strutture in cui sono stati accolti, dopo l’identificazione. Nonostante il varo della legge 47/2017 recante Disposizioni in materia di misure di protezione dei minorenni stranieri non accompagnati, che all’articolo 14 stabilisce l’attivazione da parte delle istituzioni scolastiche di misure per favorire l’assolvimento dell’obbligo scolastico, “le amministrazioni interessate provvedono all’attuazione delle disposizioni nei limiti delle risorse finanziarie, strumentali e umane disponibili (…) e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, conferma la pubblicazione I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, redatta dal gruppo di lavoro per la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, e uscita di recente. E anche di fronte alla scarsità di risorse, gli alunni migranti ce la mettono tutta perché in classe nessuno sia straniero.

Women’s March un anno dopo, le donne tornano in piazza in tutto il mondo

epa05739829 People march along Independence Ave for the Women's March on Washington in Washington, DC, USA, 21 January 2017. Protest rallies were held in over 30 countries around the world in solidarity with the Women's March on Washington in defense of press freedom, women's and human rights following the official inauguration on 20 January of Donald J. Trump as the 45th President of the United States of America in Washington, USA. EPA/Tracie Van Auken

Togheter we rise, insieme ci solleviamo. Si avvicina l’anniversario del 21 gennaio, per ricordare l’ultimo, quello del 2017, data storica per gli Stati Uniti d’America: il giorno della più grande manifestazione spontanea mai ricordata. Erano passate solo 24 ore dall’inaugurazione: Donald Trump era appena diventato presidente degli Stati Uniti e un mare di persone decise di urlare il proprio dissenso con coraggio, riversandosi per le strade, in difesa dei diritti delle donne, dei migranti, dei lavoratori.

Esattamente 365 giorni dopo quell’incendio spontaneo di volontà collettive, gli organizzatori della protesta hanno capito che l’indignazione deve trovare una tattica di lotta concreta verso il cambiamento. L’energia del movimento della Women March deve trasformarsi in strategie per il 2018 e quest’anno la manifestazione si chiamerà “Power to the polls”, potere ai seggi, potere agli elettori. Insomma, ai cittadini.

«L’anno scorso era molto rilevante per noi essere nella capitale, Washington D.C., per mandare questo messaggio: siamo tutti uniti» ha detto una delle fondatrici della Women March, Lindra Sarsour. «Il 2018 è arrivato, dobbiamo essere strategici sul messaggio da mandare adesso. Deve essere un messaggio forte, le donne dovranno vincere battaglie elettoralmente, abbiamo scelto di farlo in uno Stato rilevante da questo punto di vista».

Quest’anno toccherà a Las Vegas, in Nevada, proprio dove è avvenuta la più grande sparatoria di massa d’America, dove la popolazione alle ultime elezioni presidenziali aveva scelto in maggioranza Hillary. Dove gran parte della popolazione è fatta di migranti, dove molti di loro, residenti nella città americana ma cittadini di El Salvador, vivono con la paura di essere deportati nel settembre 2019, perché il presidente Trump proprio la settimana scorsa ha revocato loro lo status di rifugiati e il diritto di asilo politico.

Domenica 21 gennaio si avvicina e, alle prime ore del mattino, chi vorrà cambiare lo stato dell’arte e della politica a stelle e strisce, parteciperà al raduno che inizierà al Sam Boyd stadium di Las Vegas. «Durante l’anno abbiamo marciato, scritto striscioni, protestato, occupato municipi, tutto questo culminerà in questo momento, nell’anniversario della marcia delle donne, quando trasformeremo il nostro potere collettivo in un’ondata di potere politico» ha detto uno dei co-fondatori del movimento, Bob Bland. Sono duecentocinquanta le marce attese domenica prossima, accadrà in Tailandia fino in Zambia, in Australia, e anche in Italia. A Roma, Milano, Firenze.

Troppo tardi per lo ius soli. Ma oggi tutti sull’attenti per votare la guerra

Il ministro della Difesa Roberta Pinotti a bordo della nave Etna, che opera nell'ambito della missione Sophia nella acque del Mediterraneo. Roma, 24 dicembre 2017. ANSA/ UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI-TIBERIO BARCHIELLI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Eh le incombenze. Meglio, le priorità, Anche in un governo che ormai dovrebbe essere agli sgoccioli (tanto da dichiarare da più parti che non c’era tempo per discutere lo ius culturae travestito da ius soli; ci hanno detto che non c’era tempo di sistemare la legge elettorale e ci diranno, ricordatevelo nei prossimi giorni, che non c’è spazio per una relazione finale della Commissione sulle banche che non sia salomonica). Alla fine oggi tutti sull’attenti per il voto marziale sulla prossima guerra. Destinazione: Niger. Nome in codice: missione umanitaria, intervento necessario o qualche altra fesseria del genere, una di quelle sigle che serve per non chiamare mai la guerra con il proprio nome perché altrimenti puzza troppo di morto.

Le cifre: 470 militari, 130 mezzi terrestri, 2 aerei, spesa  prevista 49,5 milioni di euro nel solo 2018 per una missione che è una vera manna per Macron ed è un grosso punto interrogativo per noi. Mentre le malelingue (sono tutte malelingue quelle che non leccano il potere, da sempre) ci dicono che tutto questo bailamme serve per difendere il ricco uranio in mano all’Europa (il Niger è il quinto Paese al mondo per l’estrazione dell’uranio, circa 3243 tonnellate l’anno) il Capo di Stato Maggiore della Difesa Claudio Graziano ci ha deliziato con la sua versione di “missione urgente contro il fenomeno dei traffici illegali e delle minacce della sicurezza” parlando di “missione no combat” (dirlo in italiano faceva brutto, troppo provinciale). Come si possa fermare “il fenomeno dei traffici illegali e delle minacce della sicurezza” senza combattere ma spedendo soldati rimane un mistero.

Qualcuno dice che andremo a “formare e addestrare le truppe in loco”. Simpatica l’idea che servano 500 uomini per la formazione: succedesse in qualsiasi altro settore sarebbe un investimento rivoluzionario. Ma in questo caso, puzza. Qualcuno dice che c’è da controllare il confine con la Libia che sarebbero, a guardare bene, 600 chilometri. Non proprio una passeggiata.

Il motivo vero lo sapremo, come sempre quando si tratta di una guerra, tardi. Troppo poco. Troppo tardi.

Buon mercoledì.

Cile, la rivolta dei Mapuche: «Non vogliamo Bergoglio, la Chiesa ci ha tolto terra e diritti»

Il papa ci torna, ma l’America Latina non è più sua. Soprattutto non lo è il Cile, dove le chiese ardono, altari e croci sono in fiamme. A Temuco, capoluogo dell’Araucania, la sua presenza non è gradita. È la regione più povera del Paese, la terra dove abita il 35 per cento della popolazione Mapuche, oltre un milione e trecento mila persone. La lotta antireligiosa è cominciata, la sede apostolica è stata occupata nella Capitale, gli indigeni protestano ad oltranza.

I manifesti trovati nei pressi dei roghi a sud di Santiago dicevano questo: «Date fuoco alle chiese, papa Francesco: tu non sei benvenuto in Araucania». Per la visita del papa sono stati spesi dieci milioni di pesos, il 70 per cento vengono dalle casse dello Stato, solo il 30 per cento dal Vaticano: «Qui in Cile ci sono miseria, pedofilia, omicidi», non si può spendere tanto per una cerimonia religiosa, tuonano gli oppositori. Proteste in piazza sono previste il 17 gennaio alla base aerea di Maquehue, dove Bergoglio celebrerà la messa su una terra sottratta ai Mapuche all’inizio del XIX secolo, protetto da quattromila poliziotti. Già da tempo 50 capi mapuche hanno avvisato delle proteste: «Nessuno ha chiesto il permesso al nostro popolo per celebrare la cerimonia religiosa su quello che rivendichiamo come nostro territorio». L’aeroporto che ospiterà la funzione è stato costruito su parte dei 5 milioni di ettari usurpati dallo Stato cileno e rivenduti alle multinazionali, alle imprese, alle aziende, agli oligarchi. Proprio prima della visita del papa, è stata arrestata. Francisca Linconao, una dei leader dei Mapuche. Una misura cautelativa legata alla visita pastorale del pontefice: «La giustizia per noi verrà sempre applicata in maniera diversa» ha detto Ingrid Conojeros, una portavoce del popolo indigeno.

Le terre ancestrali dell’Araucania sono state sottratte ai Mapuche, il riconoscimento legale della loro cultura e della loro lingua non è una priorità, la discriminazione a cui sono sottoposti è comune e quotidiana. «In termini pratici, noi come popolo non esistiamo», ha detto Hugo Alcaman, presidente dell’Enama, un gruppo Mapuche che si occupa delle questioni sociali e della protezione legale di chi manifesta. «Abbiamo bisogno di negoziati», fa sapere sperando che l’attenzione internazionale per la visita di Bergoglio smuova le cose.

Il Wallmapu, l’antica nazione Mapuche, è stata distrutta e ora gli indigeni vivono nelle riserve, costretti a cedere le loro terre ai latifondisti, allo Stato, a chi ha potere e soldi per toglierle a loro. A combattere c’è anche la Wam, l’ala radicale autrice dei roghi alle chiese, che si batte per l’indipendenza e rivuole indietro la terra, anche quella usurpata dalla Chiesa. Parte di quei terreni Mapuche sono ora dell’Opus Dei, e quando furono gestiti dal vescovo di Villarica, in passato fu finanziata e aperta la Colonia Dignidad, l’enclave nazista in Cile fondata da profughi tedeschi ex SS nel 1961 che ospitò anche Mengele.

Intanto l’assedio continua per tutto il popolo Mapuche in una regione sempre più militarizzata e dove la visita di Francesco I  viene percepita come “la goccia che fa traboccare il vaso”, come ha detto il rappresentante Rolando Jaramillo. Parlare di pace in un territorio in guerra dal secolo scorso è una beffa a cui i Mapuche non rimarranno indifferenti.

Il genetista Barbujani: «Che razza di politici»

L’esternazione inqualificabile del candidato governatore alla Lombardia per il centro destra, Attilio Fontana, secondo il quale una inesistente razza bianca sarebbe a rischio per una altrettanto inesistente invasione di migranti, non è una voce isolata nel panorama politico italiano. E nemmeno, come afferma Renato Brunetta – altrettanto inqualificabile – «un lapsus». L’idea che esista una razza superiore è radicata nel parlare comune di certa politica e si rivolge al ventre molle del Paese. Quello che non ha mai voluto fare i conti con il fascismo e i suoi crimini contro l’umanità. Un Paese – per intenderci – di cui fa parte, sempre per rimanere all’attualità, anche il renziano Maurizio Sguanci, presidente in quota Partito democratico del Quartiere 1 di Firenze, secondo il quale «nessuno in Italia ha fatto quel che Mussolini è riuscito a fare in 20 anni». In un certo senso Sguanci ha ragione. La miseria culturale e umana prodotta dal Ventennio continua a far danni ancora oggi a 80 anni dalla pubblicazione dell’ignominioso Manifesto della razza e dalla emanazioni delle leggi razziali. 

Come antidoto a questo virus razzista, populista e antiscientifico, pubblichiamo l’intervista al prof. Guido Barbujani, genetista dell’università di Firenze.

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Pensare alla collettività come risultato dell’unione di diversi mondi e culture, dell’incrocio con altre popolazioni fu uno dei punti di forza dell’Impero romano. Vigeva, è noto, lo ius sanguinis, ma il diritto di cittadinanza trasmesso di padre in figlio con il passare del tempo divenne talmente flessibile che anche gli schiavi nell’antica Roma, una volta liberati, potevano diventare cittadini. Flessibilità (mentale) che sembra del tutto mancare in quei partiti che nelle ultime settimane hanno avvelenato il dibattito parlamentare sullo ius soli. A colpi di «Prima gli italiani», «Animali», «Barbari», «Invasione», «Ci rubano il lavoro» la polemica tra fazioni contrapposte è ben presto finita nel pregiudizio, nella xenofobia, nel razzismo manifesto. E lo spettacolo offerto è disgustoso come pochi. Non è mancato il consueto baccano di Forza Nuova che questa volta sarebbe stato esilarante se non ci fosse di mezzo il diritto di oltre 800.000 minori stranieri di diventare cittadini italiani (vedi box a pag. 17). Schierati per lo ius sanguinis, volendo manifestare il proprio disprezzo verso gli immigrati alcuni nostalgici di Mussolini, delle leggi razziali e della Roma imperiale hanno “pensato” di esporre uno striscione che recava la scritta «Italiani si nasce, non si diventa». Che è appunto il principio cardine della legge sullo ius soli in discussione al Senato (vedi box a pagina 9) da loro stessi avversata con virile fierezza.

Fatto sta che il concetto di razza applicato alla specie umana continua a resistere e ad essere espresso più o meno manifestamente dentro e fuori dal Parlamento nonostante sia stato superato dalla storia e smentito dall’evidenza scientifica. Come mai? Per provare a dare una risposta abbiamo girato il quesito a Guido Barbujani. Docente di genetica all’Università di Ferrara, Barbujani si occupa delle origini e dell’evoluzione della popolazione umana e ha pubblicato numerosi saggi fra cui L’invenzione delle razze (Bompiani 2006), Europei senza se e senza ma (Bompiani 2008), Lascia stare i santi (Einaudi 2014) e Contro il razzismo (Einaudi, 2016).

«Bisogna per prima cosa stare attenti a non fare confusione» dice a Left. «La parola razza ha tantissimi significati. Ne ha troppi. Tutti ricordiamo la famosa frase pronunciata da Einstein quando dovette compilare il modulo di ingresso negli Usa. Alla domanda “di che razza sei?”, lui rispose “razza umana”. Dietro questa parola ci sono 7mld di persone. Ma c’è chi parla di razza nera, bianca, gialla, come sottoinsiemi di questi 7mld. E quando qualcuno qui da noi parla di “razza piave” o di “razza padana” si riferisce a un sottoinsieme ancora più piccolo». “Razza” può avere una valenza positiva o negativa, prosegue Barbujani: «”Attaccante di razza” vuol dire che è un vero bomber ma “razza di idiota” non è un gran complimento. Questa vaghezza del termine ci condanna spesso a discussioni inconcludenti. Se le persone che discutono usano la stessa parola per indicare oggetti differenti, difficilmente potranno intendersi».

Qual è secondo lei il nesso tra razza e razzismo?
Il collegamento tra queste due parole è solo etimologico. Non c’è bisogno di credere all’esistenza delle razze umane per avere delle posizioni esplicitamente razziste. Se io ti dico che questa cosa non la puoi fare perché sei negro, oppure perché sei immigrato, si tratta di due affermazioni assolutamente equivalenti. La prima fa riferimento al concetto di razza, la seconda no. Ma sono la stessa cosa. Per questo penso che il dibattito, a cominciare da quello politico, debba focalizzarsi sull’aspetto dei diritti delle persone più che sui dati biologici.

Cosa dicono i dati biologici?
Sono inequivocabili. Nessuno è mai riuscito a fare il catalogo delle razze umane. Nel senso che lo hanno fatto in tanti ma ognuno ha fatto un catalogo diverso dagli altri. Oggi studiando il Dna vediamo che siamo pieni di “tracce” che vengono dall’Africa e dall’Asia, e che le differenze genetiche tra due esseri umani di due continenti diversi sono nell’ordine l’uno per mille. Sono cioè molto minori di quelle che troviamo tra due gorilla e due scimpanzé. Segno che tutti gli esseri umani appartengono alla stessa famiglia che nel giro di pochi millenni è arrivata a 7mld di individui».

Quindi il concetto di razza dal punto di vista scientifico non funziona?
Non funziona e chi si occupa di antropologia e di biologia umana lo ha capito perfettamente tuttavia ci sono dei paradossi significativi.

Per esempio?
Soprattutto nella ricerca clinica statunitense è ancora fortissimo. L’idea diffusa negli Usa è che se un medico tiene conto della tua razza è in grado di proporti terapie e farmaci più adatti alle tue caratteristiche genetiche. Ma è un’idea priva di basi scientifiche. Non esiste un solo dato che confermi che gli asiatici o i neri o gli ispanici, come li chiamano loro, abbiano una risposta diversa, per dire, alla tachipirina rispetto ai bianchi. Tenga presente che la “loro” categoria degli ispanici comprende da Borges a Teofilo Stevenson, il pugile cubano di origine africane che vinse tre ori alle Olimpiadi.

Possiamo approfondire questo punto?
Ovviamente ci sono delle differenze, ma ci sono anche tra me e lei, ci sono tra bianchi, tra neri, tra asiatici e sono grandi quanto quelle che si riscontrano tra gruppi diversi. Quindi a lei la tachipirina può dare sollievo e a me no. Se lei prende per strada dieci persone che camminano sul marciapiede di dx e altrettante su quello di sx e studia una bella porzione di Dna alla fine troverà delle differenze. Perché siamo tutti diversi. Tuttavia sono differenze che non hanno alcun significato. Il Dna non dice se uno sceglierà di camminare a destra o a sinistra. È così, le differenze ci sono sempre. Ma di questo, negli studi clinici Usa, spesso non ne tengono conto. Con il risultato che la farmacologia razziale sta avendo molto successo soprattutto tra i neri. Perché avvertono che finalmente si tiene conto della loro identità e quindi si sentono più tutelati da questa forma di medicina che dal punto di vista scientifico non sta in piedi.

C’è quindi anche un inquietante risvolto sociale.
Bisogna tener presente che negli Usa il concetto di appartenenza a una razza viene inculcato ai bambini sin dai primissimi anni di scuola. Anche a loro, oggi, come ad Einstein, allora, viene chiesto di che razza sono. E se appartengono a una di quelle svantaggiate, cioè sono neri o ispanici, possono avere delle agevolazioni. Per esempio pagano meno tasse, oppure hanno diritto a dei sussidi per accedere a determinate scuole. Poiché chi va nelle scuole migliori ha più probabilità di andare a un’università migliore e chi esce da una buona università ha più chance di trovare un buon lavoro, ecco che tutti questi “vantaggi” rafforzano l’identità razziale. Trasformare le differenze individuali in differenze razziali non funziona. È scientificamente provato. Però è un messaggio che si vende bene, ispira fiducia: tu sei ispanico e io so come si trattano gli ispanici. In un Paese dove le identità razziali sono molto profonde ecco che anche questo messaggio scientificamente insignificante passa.

E in Italia come siamo messi?
L’idea di identità razziale sta riprendendo piede sulla base di un dato di fatto che non è genetico ma epidemiologico. Con l’immigrazione stanno arrivando persone con malattie che da noi non si conoscevano più. Per esempio la tubercolosi. Chi viene da un Paese in cui la sanità non è efficiente può essere più facilmente esposto a malattie che da noi sono scomparse, ma è inaccettabile che con questo si cerchi di veicolare l’idea che certi gruppi etnici, certe popolazioni portino con sé patologie particolari. È un concetto sbagliato, che rischia di fare presa.

Dal punto di vista scientifico quando è stato superato il concetto di razza umana?
Dipende da come lo consideriamo. Se guardiamo alla produzione continua di studi clinici che ancora lo usano possiamo dire che non è mai stato superato. Invece, dal punto di vista di chi si occupa dell’evoluzione delle popolazioni, della biodiversità umana e quindi del tema in sé e per sé, a partire dagli anni 90 del secolo scorso è risultato evidentissimo – anche da una serie di studi di Luca Cavalli Sforza con cui ho collaborato – che non è possibile definire dei gruppi umani biologicamente differenti.

Detto questo non sarebbe il caso di eliminare la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione?
Terracini, La Pira e tutti coloro che collaborarono alla stesura dell’articolo 3 non avevano in testa il dibattito biologico di cui abbiamo parlato ma il ricordo delle leggi razziali di Mussolini. E quindi hanno pensato a un testo che, dall’entrata in vigore della Carta, impedisse di discriminare le persone sulla base di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Così in Italia una persona può essere giudicata per quello che fa non per quello che è. Questo è il messaggio dei costituenti e in questo caso il concetto di razza biologica non c’entra. Anzi è del tutto rifiutato. C’è una frase alla quale praticamente non facciamo più caso perché l’abbiamo letta mille volte: la legge è uguale per tutti. Spiega bene la ratio che c’è dietro il primo comma dell’articolo 3 e ci dice anche che un’affermazione come quella di Debora Serracchiani (“un reato è più grave se commesso da un immigrato”) nell’Italia del dopoguerra, nelle intenzioni dei costituenti, non avrebbe più dovuto avere diritto di cittadinanza.

L’intervista al genetista Barbujani è tratta da Left n. 26 1 luglio 2017


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