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Dagli slums etiopi nuove idee urbane

C’è un interessante nuovo libro pubblicato da Niggli, s’intitola Architecture & Human Rights. Titolo insolito e radicale. Ma esiste davvero un legame tra architettura e diritti umani? E se sì, in che modo si declina? Diciamo subito che è un libro per architetti non scritto da architetti.

Tiziana Panizza Kassahun è una strategic designer che per motivi familiari finisce a vivere in Africa, dove lavora per la Commissione per i diritti umani di Addis Abeba. È anche la città nella quale parte il più mastodontico ed ambizioso progetto di edilizia sociale e di trasformazione urbana africano. Hanno cambiato tutto. Il paesaggio, la planimetria della città, il tessuto urbano, la relazione tra le persone. Il libro è una raccolta di conversazioni critiche con gli abitanti di Addis Abeba. A queste conversazioni si aggiungono e innestano quelle di molti architetti noti incontrati a Durban nel 2014 in occasione della partecipazione all’International union of architects conference. Il risultato un fiume di riflessioni e idee su come potrebbero essere le città. La prefazione è di Saskia Sassen. Completano l’opera il bel saggio fotografico di Stefano De Luigi e la grafica di Ralf Herms. Una collaborazione appassionata confluita in un volume che ha l’obiettivo di incalzare, provocare i progettisti e stimolare il dibattito contemporaneo.

«Siamo tutti di Addis» si legge, perché è il punto di partenza che ci porta in ogni città del mondo. «Un luogo come tanti che potrebbe essere ovunque, che ci riguarda». L’obiettivo annunciato dal governo (e da tutti i governi nel mondo) è quello di dare una casa dignitosa a tutti, ma a quale costo? Come agire da progettisti contro le conseguenze di questa pianificazione che porta alla creazione di nuovi ghetti e che configura una sorta di «pulizia etnica»?

La prima cosa che il lettore si trova di fronte prendendo in mano questo libro è il colore rosso. Una scelta di campo che parte dall’immagine per parlare di diritti umani? Come nasce l’idea di questo saggio?

Era la mia prima volta ad Addis. Tutti parlavano sottovoce. Molti sorrisi. Molto bianco, nei veli delle donne, nei mantelli degli uomini. Poi mi hanno colpito delle scritte rosse vermiglio sui muri. Vernice fresca, una sorta di sfregio. Quelle scritte evocavano qualcosa di oscuro, un messaggio in codice. Una sorta di avvertimento sul maleficio che si sarebbe abbattuto su quegli edifici. Nessuno voleva dirmi il loro significato. L’ho capito da sola, quando mi sono accorta che, ad uno ad uno, quei muri con la scritta, quelle scuole, quelle case, quelle baracche, quei negozi, quei giardini venivano demoliti. E mi sono chiesta: ma dove andranno tutte quelle persone che ci abitano? E così ho cominciato a raccogliere le loro storie.
È anche un racconto fotografico.
Siamo stati fermati innumerevoli volte dalla polizia, poi finalmente Stefano è riuscito ad ottenere un lasciapassare dall’ambasciata italiana e ha iniziato la sua folle corsa. Nelle sue foto sono finite le mucche che attraversano l’autostrada, le carcasse di cemento che hanno invaso l’altopiano, gli adolescenti che sfidano i militari e tornano sul luogo dove prima c’era la loro casa, lo spettro di ferro di un ponte che si erge su di una “ex casa”. Soprattutto, è riuscito a farci vedere la realtà non solo come è, ma anche come potrebbe essere. La vita che gli abitanti di Addis vorrebbero vivere. Il mercato, gli orti, la scuola, il lavoro, lo spazio per stendere le spezie e lasciarle seccare, il giardino dove fare le foto del matrimonio e festeggiare, il parco dove andare coi bimbi, la chiesa, la moschea, la piazza dove radunarsi.
Prima di questi interventi non esisteva una vera differenza tra quartieri ricchi e quartieri poveri, edifici moderni si alternavano ad agglomerati autocostruiti, un’urbanizzazione disorganizzata che non aveva generato ghetti.
Nel contesto di Addis non erano mai esistiti quartieri ricchi e quartieri poveri. Ricchi e poveri vivevano insieme beneficiando reciprocamente di questa vicinanza.
Le testimonianze degli abitanti raccontano di orribili violenze. Penso alla storia di Agosh, e al suo senso di smarrimento nel tornare dal lavoro e vedere in lontananza quella sottile linea di fumo, la sua casa incendiata per far posto ai nuovi progetti. Ogni progettista dovrebbe leggerle. Come hai raccolto le loro voci?
Ogni progettista dovrebbe fare una chiacchierata con Agosh perché è una miniera di idee. Gli slums possono ispirare molti aspetti di un progetto. Utilizzo di materiali estranei all’edilizia tradizionale, tecniche di costruzione partecipativa che coinvolgono la partecipazione dei futuri abitanti e dei loro vicini, flessibilità degli ambienti – da camera da letto durante la notte a piccolo dispaccio tessile durante il giorno -, nuclei abitativi autonomi con condivisione di cucina. E così via. Succedono tante cose dentro uno slum. Alcune notevoli. E riguardano l’abitare insieme. La solidarietà, l’organizzazione degli spazi, la gestione di quelli comuni. Non ero mai entrata in uno slum prima. Essendo quello di Addis praticamente raso al suolo, mi sono unita al capannello di persone che tra i detriti ricostruivano mentalmente dove era la loro casa. Dove dormivano i bambini. Il sentiero che portava a tale persona. L’albero con appese le bottiglie di tajalla… Una topografia minuziosa composta da ricordi e storie vissute.
Che rapporto c’è tra architettura e diritti umani?
Gli umani sono una forza inarrestabile che trasforma il mondo. Ciò che mi desta meraviglia e speranza nell’architettura contemporanea sono due cose: la capacità di influenzare positivamente il nostro rapporto con il pianeta e come può migliorare il rapporto tra di noi. Spingere questa nostra trasformazione del mondo nella giusta direzione significa allontanarsi a gambe levate dai cambiamenti climatici, dalle ingiustizie sociali, dalla distruzione.
Sei molto ottimista, ritieni davvero che l’architettura possa salvare il mondo?
Quando le tematiche dell’ambiente sono entrate nella progettazione e nel modo di fare architettura è iniziata l’era dell’innovazione, dello sguardo lontano, della collaborazione. Anziché spingere al limite lo sfruttamento delle risorse del pianeta abbiamo spinto al massimo la nostra capacità di innovare. E considerato che trascorriamo il 99 per cento della nostra vita umana dentro un ambiente architettonico è l’architettura la risorsa migliore per assicurare la continuazione della nostra specie.
L’architettura come strategia. Michela Murgia in Futuro interiore scrive: «Chi progetta spazi non può affrontare la questione della bellezza senza essere consapevole del suo rapporto diretto con la giustizia. Tra queste due esigenze c’è un legame che non può essere disgiunto». Spesso invece questi due aspetti sono contrapposti.
Progettare un palazzo, un condominio, un grattacielo significa prendere una serie di decisioni pratiche che impattano nella vita delle persone. L’atto di costruire può smembrare comunità, famiglie, relazioni, inquinare i fiumi e l’aria che respiriamo. L’architettura può rendere possibile una catena di trasformazioni e trasferire opportunità a tutti. Scelte progettuali che non rispettano la dignità di tutti sono le peggiori nemiche dei diritti umani. Cosa sono i diritti umani? Sono un’entità morale o giuridica, politica? O altro? Non sarebbe fantastico concentrarsi su altri aspetti? Per esempio: che forma ha un posto in cui le genti più diverse si ritrovano a vivere insieme in un luogo dove chi abita non teme di essere discriminato, escluso, marginalizzato, depravato delle proprie tradizioni e cultura? L’architettura può utilizzare qualsiasi tipo di sapere a sua disposizione per contribuire alla soluzione di problemi sistemici e complessi. Non ci sono mai state società veramente eque, ma ciò non significa che non ci saranno mai.
Il coinvolgimento degli abitanti come punto di partenza non rischia di riecheggiare la “progettazione partecipata” come si è sviluppata in Italia? Un ibrido che finisce per non avere progettisti. Il confine è importante.
I destinatari di un progetto architettonico sono immaginari. Persino quando esistono in carne ed ossa e li chiamiamo clienti. Figuriamoci quelli ancora più astratti dell’edilizia popolare. Chi sono? Come vivono? Cosa sognano? Quali risorse fantastiche hanno? Quali problemi li affliggono? Utilizziamo categorie, stereotipi e definizioni che poco aderiscono alla realtà odierna. Che cos’è una famiglia? Che rapporto c’è tra una casa e non avere da mangiare? Tra l’economia sommersa e la dimensione di una finestra? Tra l’architettura e la prevenzione al genocidio in una società tribale? Tra un quartiere e l’apartheid? Tra un lampione e la nostra sicurezza?
Come può un architetto, con il proprio lavoro, influenzare e migliorare la vita delle persone e avviare un reale sviluppo sostenibile?
Viviamo in un mondo in cui collaborazione e interazione sono più importanti che il mantenimento di mondi separati. Quanto sono importanti queste interazioni nella progettazione? Mi viene da dire poco. Troppo poco.

L’intervista di Adele Savino è stata pubblicata su Left n.3 del 19 gennaio


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Il giardino di Istanbul nel cuore dell’Europa

SARAJEVO, BOSNIA AND HERZEGOVINA - JULY 15: Turkish flag is projected onto Sarajevo City Hall Vijecnica's facade during July 15 Democracy and National Unity Day's events to mark July 15 defeated coup's 1st anniversary in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina on July 15, 2017. 249 people were martyred and nearly 2,200 people injured in the defeated 15th of July 2016 coup attempt, which the Turkish government said was carried out by the Fetullah Terrorist Organization (FETO) led by U.S.-based Turkish citizen Fetullah Gulen. (Photo by Samir Yordamovic/Anadolu Agency/Getty Images)

La prima volta che ho visitato Sarajevo, di balcanico avevo impresse nella memoria soltanto le immagini, che a nove anni avevo visto in tv, di una guerra che pareva lontanissima, che arrivava, a singhiozzi ma implacabile, al di qua del “muro Adriatico” attraverso i tg. Ho affrontato le strade di Sarajevo pervaso dal rispetto di chi era rimasto traumatizzato da quei fotogrammi di guerra. Un rispetto che si tramutò presto in meraviglia, quando scoprii che il piccolo centro città faceva tesoro di un microcosmo metà ottomano e metà austro-ungarico, un connubio piuttosto insolito che s’avverte tangibile specie se dalla Barscarsija passeggi verso via Ferhadija.

In un clima di cicatrici ancora drammaticamente fresche, raccontate nella interminabile sequenza di edifici crivellati o nei volti ancora annichiliti degli abitanti della città, avevo scoperto un angolo d’Europa che s’era erto all’istante come modello di integrazione, il tutto a 500 km in linea d’aria da Roma. In effetti la Bosnia ha un “enorme cuore turco”, dovuto alla dominazione ottomana durata circa 500 anni e terminata più o meno un secolo fa. Cinque secoli in cui Islam e identità turca hanno avuto modo di radicarsi a fondo, tanto da creare una piccola enclave in pieno territorio europeo. Abbandonata più o meno a se stessa dopo il primo conflitto mondiale, pare che di recente Ankara si sia ricordata della sua fragile sorellina lontana. E in un periodo di benessere quantomeno economico, la Turchia dà l’impressione di voler distendere i propri tentacoli di nuovo verso quello che un tempo era definito “il giardino di Istanbul”.

Sono ritornato a Sarajevo. Adiacente alla Cattedrale del Sacro Cuore, non passa oggi inosservato un palazzo completamente rimesso a nuovo, un edificio che nella precedente visita mi aveva colpito proprio per quanto era sventrato, in pieno centro, con le finestre vuote tinte del grigio cielo della Bosnia. Oggi ospita la Galerija 11/07/95, una mostra permanente dedicata al massacro di Srebrenica. La città tutta è…

Il reportage di Dino Buonaiuto prosegue su Left in edicola


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La rivoluzione rubata a Tunisi

Tunisian protesters confront security forces blocking access to the governorate's offices in Tunis during a demonstration over price hikes and austerity measures on January 12, 2018. / AFP PHOTO / Sofiene HAMDAOUI (Photo credit should read SOFIENE HAMDAOUI/AFP/Getty Images)

Siamo ancora senza lavoro, questa è la Tunisia dopo sette anni. Tutto questo è profondamente triste». Non si dà pace Amel Berrejab che da anni cerca invano di trovare un impiego in una scuola pubblica. «C’è solo povertà – le ha fatto eco Rashida Gheriani, attivista di sinistra del Fronte Popolare -. Niente è cambiato dal 2011. La nostra rivoluzione è stata rubata, il popolo non ha guadagnato nulla. La vita delle persone è peggiorata». Parole che raccontano bene il senso di profonda disillusione, sconforto, frustrazione e rabbia che regnano ormai nella Tunisia attuale. Amel e Rashida erano tra le migliaia di persone che la scorsa domenica hanno sfilato nella centralissima Avenue Bourghiba di Tunisi in occasione del settimo anniversario della caduta del presidente dittatore Zine Ben Alì. «Lavoro, libertà e dignità nazionale», hanno gridato i dimostranti incuranti del massiccio schieramento di polizia. «Il popolo vuole la caduta del budget» hanno poi scandito riferendosi alla Finanziaria “lacrime e sangue” del 2018 che ha imposto misure di austerity draconiane e ha innalzato i prezzi dei beni di prima necessità per rispettare i diktat imposti dal Fondo monetario internazionale in cambio del suo prestito di dicembre di 2,9 miliardi di dollari.

Una manovra durissima che ha causato, a partire dallo scorso 8 gennaio, proteste e scontri con le forze di sicurezza in tutto il Paese: pneumatici dati alle fiamme, gas lacrimogeni lanciati dalla polizia hanno scandito le giornate tunisine. Il bilancio provvisorio fornito dal ministero degli Interni parla di quasi 800 arrestati, decine di feriti, un manifestante morto in circostanze sospette (a Tebourba, nord di Tunisi). La risposta del governo, formato dall’alleanza di convenienza tra i “laici” di Nidaa Tounes e gli islamisti di an-Nahdha, è stata inizialmente sprezzante. «Le persone devono capire che la situazione è straordinaria e che il loro Paese ha sì difficoltà, ma credo anche che questo sarà l’ultimo anno di sacrifici per il nostro popolo» ha detto il premier tunisino Yousef Chahed. «Queste proteste – ha poi aggiunto – non hanno alcun legame con la democrazia o contro il caro vita. I manifestanti hanno dato fuoco a due stazioni della polizia, saccheggiato negozi, banche e danneggiato proprietà pubbliche in molte città».

Sul banco degli imputati, secondo l’esecutivo, ci sarebbe…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Sudan, le relazioni pericolose tra il governo italiano e il dittatore Al Bashir

A Sudanese soldier carries a Kalashnikov assault rifle while standing guard during a speech given by President Omar al-Bashir (unseen) in Nyala, the capital of South Darfur province, on September 21, 2017. Bashir, wanted by the International Criminal Court on charges of genocide and war crimes related to the conflict in Darfur, is touring the region ahead of a US decision to be made on October 12, 2017 on whether to permanently lift a decades-old trade embargo on Sudan. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY (Photo credit should read ASHRAF SHAZLY/AFP/Getty Images)

Parlano a bassa voce quando raccontano del volo che da Torino li ha portati a Khartoum. Nella periferia della capitale del Sudan vivono in un limbo, il passaporto sequestrato per cinque anni. Per loro è impossibile anche solo immaginare di tornare nel Darfur da cui sono scappati. Sono cinque, e con un’altra trentina di concittadini sono stati espulsi il 24 agosto 2016 con un charter che li ha portati da Torino a Khartoum, dopo essere stati arrestati a Ventimiglia. Sono, loro malgrado, le vittime del laboratorio del governo italiano che, approfittando dell’agosto inoltrato, ha illegalmente proceduto a retate sulla base della nazionalità, focalizzandosi solo sui sudanesi, per poi procedere al rimpatrio forzato. L’espulsione è stato il banco di prova dell’accordo firmato solo qualche giorno prima, il 3 agosto, dal capo della polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese. Un accordo segreto che sigla il patto della nostra polizia con quella di una delle dittature più sanguinarie del continente africano. Su questo fronte, l’Italia ha fatto da apripista ad altri Stati membri. Francia e Belgio hanno seguito.

Nel settembre scorso una delegazione di funzionari sudanesi, chiamata dal segretario di Stato belga all’Immigrazione e asilo, Theo Francken, procedeva al riconoscimento dei suoi cittadini. A poco sono valse le decisioni dei tribunali di Bruxelles e Liegi che intimavano al governo di non procedere alle espulsioni per il rischio a cui si esponevano i sudanesi al rientro. Theo Francken, paladino di una politica di chiusura e fermezza nel settore dell’immigrazione, ha ordinato l’espulsione di più di cento sudanesi in pochi giorni. La notizia che quattro di loro avrebbero subito torture all’arrivo ha spinto il partito di minoranza a presentare una mozione di sfiducia, aprendo cosi la crisi nel governo belga. Sulla questione delle espulsioni in Sudan, Bruxelles rischia la rottura. Le autorità italiane, che si sono macchiate della stessa violazione dei diritti umani, sarebbero rimaste totalmente impunite se l’Arci e l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) – in collaborazione con i parlamentari europei della Gue – non avessero portato la loro storia alla Corte europea per i diritti umani che, proprio in questi giorni, ha ammesso il ricorso aprendo al rischio per l’Italia dell’ennesima condanna.

Se le espulsioni verso il Sudan sono state possibili è anche grazie alla collaborazione del dittatore Al Bashir che…

Il reportage di Sara Prestianni prosegue su Left in edicola


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Il governo non ripudia la guerra

Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni con il ministro della Difesa Roberta Pinotti durante un brindisi a bordo della nave Etna, che opera nell'ambito della missione Sophia nella acque del Mediterraneo. Roma, 24 dicembre 2017. ANSA/ UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI-TIBERIO BARCHIELLI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Oltre un miliardo e cento milioni. Tanto costeranno al contribuente italiano le missioni militari nel 2018, per un impiego previsto di circa 6.700 soldati, 1.149 mezzi terrestri, 45 aerei e 20 navi. Non solo in Niger, dunque. Ma anche Iraq, Palestina, Libia, Libano. E poi Lettonia, Bulgaria, Cipro, Kosovo. Per un totale di 46 missioni (sei delle quali verranno inaugurate a partire proprio da quest’anno).
Uno «sforzo necessario». Almeno secondo il governo Gentiloni che, come si legge negli atti visionati da Left, nota: «Lo scenario strategico di riferimento per gli interventi internazionali si conferma complesso, in rapida e costante evoluzione, instabile e caratterizzato da un deterioramento complessivo del quadro della sicurezza». Non è un caso che il presidente del Consiglio, nell’annunciare a fine 2017 la missione in Niger, abbia parlato dell’esigenza di contrastare il terrorismo. Peccato che, nelle schede di autorizzazione, non si faccia alcun riferimento a Daesh o altre organizzazioni, ma si parli più genericamente della necessità di «supportare, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio (…) le Forze di sicurezza nigeriane». Insomma, il dubbio è che i nostri militari, come sottolineato anche da Luciana Castellina nell’intervista rilasciata su Left (n.1 del 6 gennaio), «saranno gestiti da un noto dittatore, il presidente del Niger» per altri fini rispetto a quelli umanitari (a cominciare dall’interesse francese relativo all’uranio, di cui è ricco il Paese), col rischio che i migranti restino confinati nei centri in Libia. Tanti e inquietanti punti di domanda, dunque…

L’inchiesta di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola


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La sospensione del giudizio

Una delle cose più affascinanti che Massimo Fagioli applicava nelle sue sedute di psicoterapia di gruppo, in quella che si chiamava Analisi Collettiva, era la sospensione del giudizio.
Nella vita quotidiana esprimiamo costantemente giudizi. Valutiamo se qualcosa o qualcuno ci piace o non ci piace. Decidiamo se una determinata situazione sia per noi interessante o meno. Facciamo delle scelte e giudichiamo persone e cose.
Nel giudizio c’è una scelta che noi effettuiamo e che di fatto determina una definizione dell’altro e un avvicinamento o allontanamento da esso.
Facciamo una scelta in base a parametri che pensiamo possano essere più o meno oggettivi. Ma in realtà le nostre scelte sono sempre guidate da sensazioni ed emozioni che a loro volta si legano a pensieri ed immagini.
Fagioli sospendeva il giudizio. Ma cosa vuol dire questa affermazione? Che non aveva affetti?
No. Significava che egli aveva un rapporto con l’altro ponendosi in un atteggiamento di ascolto senza, appunto, pregiudizi o condizionamenti determinati da pensieri o immagini preesistenti.
Porsi in un atteggiamento di recettività ossia di ascolto della comunicazione dell’altro con la massima apertura possibile, senza preconcetti.
Era una condizione che gli era necessaria per poter interpretare i sogni che gli venivano raccontati.
Fagioli ha più volte spiegato come quella particolare condizione di ascolto era possibile perché c’era una ricreazione della nascita.

Il bambino appena nato non ha avuto ancora rapporto con un altro essere umano. Egli ha realizzato un’identità con la reazione allo stimolo luminoso, l’assolutamente nuovo che determina la formazione del primo pensiero che è allo stesso tempo fantasia di non esistenza della realtà aggressiva del mondo non umano e certezza di esistenza di un’altra realtà simile a se stesso con cui avere rapporto.
In quel tempo il giudizio non esiste.
C’è un’attesa, un incertezza verso quello che accadrà.
C’è, potremmo dire, una fiducia nella bontà e bellezza dell’altro essere umano che si rivolgerà al bambino.
Questo era ciò che Fagioli faceva ogni volta che si rivolgeva a qualcuno. La sospensione del giudizio era un’attesa di un movimento bello, di una realizzazione nuova. Ma era anche la possibilità di vedere la violenza nascosta nel sorriso falso.
C’era un pensiero di bontà originaria dell’essere umano.
Se l’essere umano si realizza violento questa non è realtà umana naturale ma è malattia che è sopravvenuta dopo la nascita per rapporti violenti che sono stati subiti. Ad essi il bambino non può che reagire con la pulsione di annullamento, reazione che lo potrà portare ad ammalarsi.
Da adulti è possibile e necessario reagire con il rifiuto e non con l’annullamento.La sospensione del giudizio significa saper ascoltare. Comprendere ciò che l’altro ci dice. Comprendere che ogni persona ha una storia che ne ha determinato la realtà attuale. Significa essere in grado di accettare o se necessario rifiutare senza odio e rabbia. Avendo compreso la realtà che si ha di fronte.

Questo preambolo era necessario per dire che la pena giudiziaria è concettualmente assurda.
Perché essa sottende un’idea di cattiveria innata dell’essere umano: il delitto sarebbe l’emergenza della bestialità umana. La pena serve per la redenzione morale e spirituale, per ripulire “l’anima” dal delitto che gli affetti del corpo la hanno portata a compiere.
È un’idea di essere umano ideale che deve uniformarsi alla legge come se questa fosse il super io che deve controllare e contenere le pulsioni parziali e distruttive dell’Io inconscio.
Se invece pensiamo all’antropologia che deriva dalla teoria della nascita possiamo ipotizzare una giustizia che classifichi i reati in due macro categorie.
Tutto ciò che riguarda il patrimonio e i reati amministrativi (furti, evasione, etc.) è da sanzionare con delle multe più o meno salate. Non ha senso la pena detentiva, non serve a nulla. Avrebbero molto senso invece dei percorsi di formazione, perché è quello che manca al reo.
Tutti i casi che riguardano invece i delitti verso la persona andrebbero esaminati e poi sanzionati con un occhio medico psichiatrico. A parte i casi di legittima difesa o omicidio colposo, si può sempre pensare che nell’omicida ci sia un problema di malattia mentale.
Perché la verità dell’essere umano è volere la realizzazione e la vita dell’altro, non la sua morte.

L’editoriale di Matteo Fago prosegue su Left in edicola


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È sopravvissuta alle leggi razziali e ad Auschwitz, Liliana Segre senatrice a vita

Liliana Segre, una sopravvissuta all'Olocausto, interviene all'incontro per verificare lo stato di avanzamento dei lavori per trasformare in Memoriale il binario 21 della Stazione Centrale di Milano, 26 gennaio 2012. MATTEO BAZZI / ANSA

Ha tatuato sul braccio destro la matricola 75190: Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per «aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, a quello di Malchow e alla marcia della morte, è stata liberata il primo maggio 1945, all’età di quindici anni. Ebrea, di famiglia laica, durante l’Olocausto ha perso il padre e i nonni paterni, uccisi ad Auschwitz rispettivamente il 27 aprile e il 3 giugno 1944.

Espulsa dalla scuola dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali emanate da Mussolini nel 1938, prova a scappare in Svizzera. Fermata dalle guardie alla frontiera, viene arrestata con la famiglia l’11 dicembre a Selvetta di Viggiù, in provincia di Varese. Da qui, inizia la sua detenzione: Varese, Como e Milano. Dopo quaranta giorni nel carcere di Milano, viene deportata al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Sette giorni di viaggio. Su 776 bambini italiani deportati nel più grande lager nazista, si salveranno in 25. Liliana Segre è una di loro. Dopo la liberazione è andata a vivere con i nonni materni, gli unici familiari sopravvissuti allo stermino nazifascista.

Dagli anni ’90 ad oggi, dopo un silenzio durato più di quarant’anni, Liliana Segre ha speso gran parte del suo tempo a parlare pubblicamente della sua esperienza, partecipando alla presentazione di film e libri. Nel 1997 ha fatto da testimone alla presentazione del film-documentario Memoria al Festival di Berlino; nel 2009 al film-documentario di Moni Ovadia. Nel 2015, con Enrico Mentana, pubblica per Rizzoli La memoria rende liberi. Due lauree honoris causa: una in Giurisprudenza, l’altra in Scienze pedagogiche. Il 29 novembre 2004 viene nominata dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Oggi, 87enne, è senatrice a vita. Per non dimenticare e tenere alta la guardia.

In Perù la Chiesa è travolta dallo scandalo “pedofilia” ma Bergoglio fa finta di niente

Gli aveva detto di spogliarsi e poi ha afferrato la videocamera. Non era la prima richiesta inusuale di Luis Fernando Figari, il leader e fondatore della maggiore associazione cattolica peruviana. Figari aveva chiesto ad Oscar Osterling e altri due ragazzini di seguirlo nella sua stanza perché era “la guida spirituale”. Accadeva due decadi fa. «Se lui ti chiedeva di fare qualcosa, lo facevi e basta», dice oggi Osterling, che non è più un bambino, ma ha 44 anni. «Oggi, 20 anni dopo, capisco che a molti è stato chiesto di spogliarsi», dice Oscar.

Di questa storia ne hanno parlato diffusamente i giornali internazionali, com il Guardian o il New York Times.

Insieme ai manifesti con il suo volto e la scritta “unidos por la esperanza”, uniti per la speranza, su tutti i muri, incollati per onorare la sua visita, il pontefice trova questo tipo di storie, ma il papa non le ascolterà. Il papa ha chiesto perdono per gli abusi e quello che i peruviani si chiedono, mentre visita il loro Paese, è perché, – se vuole essere davvero severo contro questi crimini – , poi “protegge” un colpevole, uno che li ha commessi? (nb. Quando un papa chiede ‘perdono’ corrisponde a una assoluzione della Chiesa dai “peccati” commessi dai suoi sacerdoti. Sta parlando come capo della Chiesa non come capo di Stato. La richiesta di perdono è rivolta a Dio, di cui il papa è portavoce: l’abuso è un peccato, un’offesa a Dio, un delitto contro la morale non un crimine contro bambini inermi. Se fosse una assunzione di responsabilità – da capo di Stato – diverrebbe invece un atto ‘politico’ che come naturale conseguenza comporterebbe l’impegno di risarcire materialmente le vittime e di (far) arrestare i colpevoli, ndr)

Il colpevole è Figari, che ha abusato psicologicamente e fisicamente di decine e decine di ragazzini peruviani. Quando nel 2010 hanno cominciato ad investigare sui suoi crimini, è stato mandato a Roma. I giudici peruviani che si occupano del caso vorrebbero che fosse estradato, Figari rinnega le accuse, il Vaticano non ha commentato all’inizio la richiesta d’arresto, gli ha detto di non tornare in Perù e di pagare i conti e le spese della sua organizzazione, tutta costituita da uomini: la Sodalitium christianae citae. Un sodalizio, appunto.

Greg Burke, portavoce Vaticano, ha detto: «La direttiva di non ritorno in Perù è stata data per bloccare i contatti tra Figari e Sodalitium, il Vaticano non si opporrà agli sforzi peruviani per arrestare Figari». Ora l’organizzazione, per volere del papa stesso, è sotto sorveglianza del Vaticano, ma nessun accenno è stato fatto nei riguardi delle vittime. «Questa decisione non tiene certo conto di noi, le vittime» ha detto uno dei bambini di allora, oggi adulto, che ha preferito rimanere anonimo e che è stato violentato quando aveva solo 15 anni. È dal 1975 che Figari agiva senza che nessuno lo fermasse o lo denunciasse: oggi l’hanno fatto in 19, che allora erano minori, e altri 17, che erano già adulti. Nelle loro denunce si legge che «Figari diceva alle vittime che gli atti indecenti erano parte del suo potere mistico, esercizi di yoga, tecniche per generare energia».

È proprio così «che opera la Chiesa, li riporta a “casa” e non ci sono conseguenze» dice Peter Sauders, una vittima degli abusi, che si è dimessa dalla commissione della Santa sede per la tutela dei minori. Oggi i giudici peruviani hanno capito che Figari gestiva «un’organizzazione criminale che predava giovani uomini». Figari, che ha ormai 70 anni, non commenta per ordine del Vaticano. Il suo avvocato Armando Lengua Balbi ha dichiarato però che se tornerà in Perù «le persone lo linceranno».

Figari ha fondato Sodalitium negli anni 70: un’organizzazione conservatrice che funzionava per l’obbedienza incondizionata richiesta, disciplina, la promessa di una vita basata sul “si” a prescindere. Uno dei suoi slogan era “uno spirito indipendente vuol dire la morte della nostra comunità” e costringeva i ragazzi a cantare il saluto al sole, l’inno della falange spagnola fascista. Era vietato uscire senza permesso, ricordano le vittime, era “come un monastero”. Figari è rimasto fino al 2010 a capo dell’organizzazione, perché solo oggi i ragazzi, dal 1978, – quando le prime vittime hanno cominciato a denunciare -, sono stati creduti.

Figari in Perù ha fatto quello che ha fatto Fernando Karadima in Cile, altro Paese visitato dal papa, dove è stato accolto dalle urla di protesta. Sui cartelloni stretti dai pugni delle donne fuori dalla chiesa di Osorno c’era scritto “renuncia”, perché vogliono le dimissioni dell’arcivescovo Juan Barros. Nominato da Bergoglio, Barros – che nel 2006 officiò i funerali di Pinochet – è un ex seminarista di padre Karadima, e ha lavorato al suo fianco per oltre 25 anni. Secondo numerose vittime fa parte della schiera di vescovi che hanno nascosto i preti pedofili e che invece di essere denunciati sono stati promossi e hanno ricevuto incarichi prestigiosi, che gli hanno assicurato ancora maggiore potere.

Fernando Karadima in Cile, come Figari in Perù, ha stuprato decine di bambini, seminaristi che studiavano proprio insieme a Barros. L’ultima volta che un papa è stato in Cile è stato nel 1987, 31 anni fa. Oggi, 2018, le vittime degli abusi di Cile e Perù chiedono che li si ascolti durante la visita in Sud America e hanno tentato di ottenere un incontro. Ancora una volta dalla Chiesa il silenzio è stata l’unica risposta.

Combattere l’evasione fiscale. Con l’evasore

Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi (S), il segretario della Lega Nord Matteo Salvini e la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, a margine della firma del programma elettorale del centrodestra a palazzo Grazioli, Roma, 18 gennaio 2018. FACEBOOK SILVIO BERLUSCONI +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Diceva Matteo Salvini che una delle priorità per l’Italia (oltre all’Italia agi italiani, la Lombardia ai lombardi, il Veneto ai veneti, il Piemonte ai piemontesi e il Sud al Nord) è “combattere l’evasione fiscale”.

Diceva Matteo Salvini che l’Europa è il male, bisogna uscirne e l’Euro deve diventare carta straccia.

Diceva Matteo Salvini che Berlusconi non detta le regole, che Berlusconi è un condannato, ironizzava sul Pd per il patto del Nazareno ipotizzando un putrido accordo con  Silvio.

Diceva Matteo Salvini che la Lega si sarebbe presentata da sola oppure solo con chi avrebbe accettato la sua candidatura a Presidente del Consiglio. Basta incertezze, diceva.

Diceva Salvini che è urgente abolire la riforma Fornero. Fare piangere la Fornero, mica i lavoratori.

Diceva Salvini che non è più il tempo di fare accordi con i democristiani o i candidati che hanno già fallito al governo, solo candidature di rilievo.

Diceva Salvini che con Maroni, Zaia e Cota finalmente il Nord sarebbe stato libero da Roma e il federalismo sarebbe diventato realtà.

Diceva Salvini che Berlusconi è finito, bollito.

Diceva Salvini che con lui segretario la Lega avrebbe smesso di essere genuflessa a Forza Italia.

Diceva Salvini che negli anni passati la Lega non ha potuto attuare il proprio programma per colpa di Forza Italia.

Ieri sera alle 22.20 Berlusconi ha twittato:

«A #PalazzoGrazioli ho appena firmato con @matteosalvinimi e @GiorgiaMeloni il programma elettorale del #centrodestra. Uniti si vince! #Unitisivince #elezioni2018»

Fine della favola triste.

Buon venerdì.

A chi giova il carcere duro?

Murales sul cortile della prigione A barrio Aguada si trova il MAC. Il museo d’arte contemporanea è molto suggestivo, soprattutto perché é ospitato in un ex carcere del XIX secolo. (Montevideo capitale dell’Uruguay)

«Il 41 bis per noi è tortura». Con queste parole schiette, dirette, il capo politico di Potere al popolo Viola Carofalo entra a gamba tesa nella bagarre scatenata dalla loro proposta di abolire il “carcere duro” previsto per i detenuti considerati maggiormente pericolosi. Una prassi che risale all’ordinamento penitenziario del 1975, poi estesa ai mafiosi nel 1992, come risposta dello Stato alle stragi. La mozione ha subito scoperchiato un vespaio di polemiche. Per Antonio Ingroia, si tratterebbe di un «favore alla mafia». Ma, persino tra alcuni simpatizzanti della lista di sinistra, ci sono stati dubbi, incertezze, sorpresa. Considerato anche che, oltre al “carcere duro”, Potere al popolo si propone di cestinare l’ergastolo. Ed online la discussione si è presto infiammata.

«Sono contenta che si sia sollevato il polverone, perché in questo modo – chiarisce Carofalo – abbiamo la possibilità di spiegarci: il 41 bis è una misura pensata in origine come straordinaria e sulla sua efficacia ci sarebbe molto da discutere: non si è dimostrato certo uno strumento in grado di sradicare la mafia in questi 26 anni, senza considerare poi che anche Amnesty international, allora, dovrebbe essere accusata di collusione mafiosa».
Già, perché la misura – che prevede l’isolamento assoluto, il divieto di possesso di oggetti personali, una sorveglianza 24 ore su 24 e contatti ridotti al minimo persino con la polizia penitenziaria – ha destato in passato l’attenzione della ong internazionale. E il Comitato dell’Onu contro la tortura, in un report di dicembre, ha ribadito le sue perplessità nei confronti del 41 bis, invitando l’Italia a rivedere la norma per riportarla nei cardini del rispetto dei diritti umani.

«Certo, sicuramente bisogna impedire ai boss di avere contatti dall’esterno e di impartire ordini dal carcere – spiega meglio l’esponente di Potere al popolo – ma non vedo il nesso tra questa esigenza e l’impedire a una persona in fin di vita di vedere i suoi parenti (come nel caso di Toto Riina, ndr), oppure il negare la possibilità di tenere in cella un poster o un libro. Mi sembrano solo inutili elementi di vessazione». In pochi però, nell’agone politico, osano denunciarlo. «Non si ha il coraggio di farlo per timore di perdere…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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