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Tunisia sette anni dopo, cosa resta della Rivoluzione dei gelsomini

epa06437751 Tunisian people wave national flags during a celebration to mark the seventh anniversary of the uprising that ousted president Zine El Abidine Ben Ali, at the Avenue Habib Bourguiba in Tunis, Tunisia, 14 January 2018. Ben Ali and his wife went into exile in Saudi Arabia on 14 January 2011. EPA/MOHAMED MESSARA

Nel Paese che fu la miccia delle primavere arabe nel 2011, per la rivoluzione del pane, a centinaia morirono nei primi giorni di lotta e in migliaia rimasero feriti. La democrazia che chiedevano è arrivata a piccolissime dosi, poi le riforme si sono interrotte del tutto. Oggi scendono di nuovo in piazza ma è altro che chiedono: vogliono che vengano riconosciuti i crimini commessi allora, in quel gennaio del 2011, che i sospetti che diedero l’ordine di attaccare e uccidere dei cittadini che manifestavano pacificamente oggi paghino per i loro crimini. Verità e giustizia. Aspettare ancora, sette anni dopo, specialmente a gennaio, per almeno trecento famiglie tunisine non è facile. Non c’è una lista finale dei colpevoli da impugnare, non c’è nessuno in cella, che ha pagato per quegli attacchi. Non c’è niente che faccia sperare nella legge che verrà fatta valere nei prossimi anni. Niente che faccia cerchiare una data ufficiale sul calendario per il riconoscimento ufficiale dei “ giovani morti della rivoluzione”. Ma, dicono le famiglie delle vittime, la Tunisia non raggiungerà mai un futuro migliore se non fa i conti con il suo peggiore passato.

Gli avvocati delle famiglie di chi perse la vita rendono noto che alcuni sono già stati indagati, altri arrestati e incriminati, ma poi sono stati liberati. Il governo non ha mai pubblicato una lista ufficiale dei tunisini che sono morti: si tratta di più di 300 giovani che, marciando per le strade del paese, diedero la vita per la battaglia che si credeva di potere vincere per la democrazia, contro Ben Ali. E ora un altro gennaio senza riconoscimento di quel sacrificio sta finendo: sono gli ultimi giorni del primo mese d’inverno nel paese del Magreb, dove sono soprattutto le madri ad attendere giustizia.

«So chi ha ucciso mio figlio e non lo perdonerò mai. Non c’è giustizia in Tunisia» ha detto Om Saad, una donna il cui figlio 23enne è stato colpito a morte dalle pallottole di un poliziotto che conosceva il ragazzo fin da bambino e lo ha ferito letalmente a pochi passi da casa, ad Ettadhamen, nella periferia della capitale tunisina. Le famiglie delle vittime non hanno mai ricevuto l’aiuto – psicologico, finanziario, pratico ed economico – che gli era stato promesso. Non i tribunali civili, ma quelli militari si occupano di chi commise le uccisioni. Anche se l’assassino del figlio di Om è stato condannato con una sentenza di venti anni di carcere, è riuscito comunque, dopo cinque anni, ad uscire per buona condotta e ora cammina libero per strada.

Uno degli avvocati che si occupa dei diritti umani delle famiglie vittima del regime di Ben Ali dice che l’esperienza di Om Saad non è unica, ma comune, solita. «Anche questo governo, il partito del presidente sono contro la rivoluzione, nella rivoluzione non hanno mai creduto» ha dichiarato il legale Charfeddine Kellil, che ha denunciato che anche l’ultima persona che rimaneva in prigione, accusata delle morti del 2011, proprio nel mese del settimo anniversario delle proteste, è stata liberata: «È un insulto alle famiglie dei morti», che sono di nuovo in strada «per proteggere la rivoluzione».

Questo è solo un altro tragico evento della Tunisia post 2011. Yamina Zoghlami, membro del Parlamento, ha fatto parte della commissione che avrebbe dovuto stilare la lista finale dei “martiri della libertà”, di tutti i ragazzi che hanno perso la vita e sono stati gravemente feriti in quei giorni di gennaio. La commissione è stata creata con il decreto legge 97-2011, emendata nel 2012 e 2013, e si chiama ufficialmente Commissione dei martiri e feriti della rivoluzione, creata dall’Alto commissariato per i diritti umani e libertà fondamentali.

Nonostante la prima parte del lavoro sia stata completata, dopo un lungo lavoro di ricerca compiuto nel 2016, il governo ha bloccato la pubblicazione dell’elenco con una scusa: attendere la lista dei feriti, così da pubblicarla insieme a quella dei defunti. Ma la Zoghlami ammette che è solo un alibi di natura politica: il governo sa che riaccenderebbe subito le proteste di strade e piazze in questo modo e «hanno paura che la violenza eromperà in luoghi pubblici con la pubblicazione, perché il numero di morti nella lista è stato ridotto» rispetto all’inizio, ha detto la parlamentare, che ha aggiunto che il governo deve trovare un equilibrio tra la verità e la paura che il paese torni ad essere risucchiato in una spirale di violenza. La paura che la Tunisia finisca «come le altre primavere arabe, in Siria e Libia. Ecco perché si affrettano a dimenticare il passato».

Il governo aveva promesso di pubblicare questa lista il 14 gennaio, ma ha rimandato ancora una volta, fino al prossimo marzo. Quella lista per i tunisini vuol dire fare i conti con la storia, con la rivoluzione e con sé stessi. «Innalzeremo monumenti, scriveremo quei nomi nei libri di storia, perché questa è la legge, quella per cui abbiamo combattuto». Quella per cui sono morti.

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Per approfondire: La rivoluzione rubata a Tunisi (di Roberto Prinzi)

Le fonti di questo articolo sono tratte dal Guardian, Allafrica, Tap, New York Times, Trt World e France24

E invece gli oppressi resistono

L’oppressione non è qualcosa che ti compare sul petto come un ciondolo e nemmeno una favola da raccontare nelle interviste. Se ci pensate bene l’oppressione non sta nemmeno nell’estratto conto in banca, di ognuno di noi.

L’oppressione è più la sensazione di avere una colpa e non riuscire a darle una forma e un nome, è il pensiero fisso di non avere diritto alla serenità, convinti di avere fallito da qualche parte e si passa tutto il tempo a ripercorrere il proprio tempo e le proprie azioni, frugandoci dentro, perché all’oppresso solleverebbe trovare l’incrocio, il bivio, dove ha sbagliato qualcosa. E invece niente.

Gli oppressi, i diseguali che stanno in fondo, gli incapaci di avere speranza non li riconosci come scrive qualche giornale o come ci insegna qualche Briatore sul posto di lavoro: lì lavorano, aggrappati. Si lasciano andare nei tempi intermedi, nelle tratte pendolari, in coda alla cassa dei supermercati, nel fastidio con cui vorrebbero disinteressarsi delle notizie dei telegiornali, nella vergogna con cui confessano di non poter promettere un futuro più lungo del fine mese, nella rabbia con cui stringono le borse di plastica impigliate sul bus, per strozzarle.

E ogni gesto, minimo, è una resistenza alla voglia feroce di lasciarsi andare. E invece resistono.

Buon mercoledì.

Noury (Amnesty international): Verità e giustizia per Giulio Regeni, diventino una priorità per l’Italia

“Verità per Giulio Regeni”: a due anni dalla morte del ricercatore italiano, l’appello tuona sempre più forte. Il 25 gennaio 2016, il ventottenne dottorando dell’università di Cambridge, contatta per l’ultima volta la fidanzata. Poco dopo ne viene denunciata la scomparsa. Il 3 febbraio viene ritrovato il corpo. Nudo, torturato. Sono trascorsi due anni da quel 25 gennaio e ancora le autorità egiziane si ostinano a non rivelare i nomi di chi ha ordinato, di chi ha eseguito e coperto il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. «È fondamentale dare un significato alla parola memoria: cioè la memoria del ricordo di Giulio», dichiara a Left Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. E continua:

«Non vogliamo che il tempo spinga a cedere nei confronti dell’Egitto. Il ritorno dell’ambasciatore è stato un po’ anticipatore in questo senso: non abbiamo alcun elemento per dire che la verità è più vicina da quando è rientrato in Egitto. Nessuno immaginava che da lì a 15 giorni il ritorno dell’ambasciatore avrebbe consentito di fare piena luce e convincere le autorità egiziane a rivelare nomi, mandanti, autori.».

Alfano aveva dichiarato che il presidente della Repubblica egiziana al Sisi fosse pronto a collaborare, cosa che poi non sembra essere…

Dichiarazione di buona volontà da ambo le parti non ne sono mancate, ma non hanno dato luogo ad alcun passo avanti significativo, se non che il fascicolo della procura egiziana è nelle mani della procura italiana. Ma ricordo che è dovuta andare l’avvocato Alessandra Ballerina a prenderselo al Cairo. Penso che nei prossimi mesi accanto all’azione della procura di Roma, potrebbe sorgere la necessità di coinvolgere sul piano internazionale altri soggetti: penso agli organi delle Nazioni Unite che si occupano dei diritti umani. In altre parole, internazionalizzare un po’ la situazione che è quello che è mancato, un po’ per scelta del governo italiano, un po’ per indisponibilità degli altri governi. Ma farlo potrebbe risultare importante in questo periodo.

Ci si poteva aspettare una maggiore collaborazione da parte loro?

Io ho perso la speranza che ci sia a livello europeo una collaborazione. Se i Paesi europei avessero veramente voluto dare un significato all’omicidio di  Giulio, avrebbero dovuto tutti richiamare gli ambasciatori. L’Italia è stata isolata, e si è anche isolata. E questa strategia non ha dato nessun esito positivo. Di sicuro c’è che Giulio non è tra le priorità dei rapporti tra Italia ed Egitto: immigrazione, turismo, economia e gas lo sono. Noi abbiamo sempre pensato che rimandare l’ambasciatore fosse stato un gesto prematuro e inopportuno. Quello che ci rammarica di più è che quando venne presa la misura di richiamarlo temporaneamente, non ne siano state adottate altre.

Dopo due anni, sono stati perquisiti l’ufficio e la casa della tutor di Giulio… 

Penso che la verità debba essere cercato a 360 gradi e che chiunque possa aiutare, contribuire a delineare il caso è bene che lo faccia. E non dovrebbe neanche essere sollecitato a farlo. Ora vedremo l’esito di questo interrogatorio e delle analisi dei materiali che sono stai prelevati nell’abitazione della tutor. Io voglio sottolineare che potranno emergere delle responsabilità sul piano morale e civile – e magari di questo l’università di Cambridge ha paura – però un conto sono queste responsabilità, e un altro sono le responsabilità penali per crimini di diritto internazionale a cui fa capo l’Egitto. In queste settimane in alcuni ambienti si tende ad accreditare la pista Cambridge come una pista alternativa, se non come quella vera. Col risultato di attenuare le responsabilità dell’Egitto: questa è una cosa che evidentemente fa comodo a molti. Giustificherebbe ancora di più il ritorno dell’ambasciatore.

Dobbiamo aspettarci ulteriori tentativi di depistaggio da parte dell’Egitto?

Ulteriori depistaggi, penso di no. Anche le autorità egiziane sono state costrette in qualche modo a cessare con questi depistaggi e ad ammettere che qualcuno c’entra. La procura di Roma ha consegnato un elenco delle persone che crede che siano coinvolte: sono funzionari dello stato egiziano. Quello che resta da fare all’Egitto – che è ciò che ha fatto negli ultimi tempi – è prendere tempo, ritardare, indugiare, promettere e non mantenere. Non vorrei che questo periodo di campagna elettorale in Egitto – che è un periodo di campagna elettorale anche in Italia – distragga e provochi un momento di pausa per cui alla fine in entrambi i paesi c’è qualcosa di più importante da fare. Non c’è nulla di più importante che cercare la verità sulla morte di un giovane studente.

Quali sono le iniziative pensate per il secondo anniversario della scomparsa?

Il 25 gennaio saremo in 83 città: alle 19.41 – che è l’ora in cui Giulio fu visto vivo l’ultimo volta – accenderemo delle fiaccole. Fiumicello sarà la città principale: manifestazioni silenziose e brevi, senza simboli. Con il colore giallo dominante e la luce delle fiaccole, che simbolicamente è il segnale che noi continueremo a mantenere la luce accesa.

E a volere che sia fatta luce.

Unhcr, Carlotta Sami: «#mettiamocelointesta, più istruzione ai bambini rifugiati»

Non solo una tenda. Per vivere – e non sopravvivere – non è sufficiente un posto sicuro in cui dormire. L’ Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) fino al 28 gennaio lancia la campagna “Mettiamocelo in testa. Solo l’istruzione può salvare la vita e il futuro di un bambino rifugiato”. L’ istruzione è una misura fondamentale per mettere i bambini al riparo dalla violenza e per garantire loro un futuro migliore. E attualmente, secondo il rapporto Unhcr, sono 3 milioni e mezzo i bambini che non hanno accesso all’istruzione.

Ne abbiamo parlato con Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa:

«Abbiamo dato vita alla campagna #mettiamocelointesta per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto decisivo che l’istruzione ha nella vita di un bambino rifugiato e per continuare a garantire a centinaia di migliaia di bambini rifugiati l’accesso a un’istruzione di qualità attraverso il programma dell’Unhcr Educate a Child, avviato nel 2012 e attivo in 12 paesi: Siria, Iran, Pakistan, Yemen, Etiopia, Malesia, Kenya, Uganda, Ruanda, Sud Sudan, Ciad, Sudan.

Quanto è importante l’istruzione per i rifugiati?

Per un bambino rifugiato che ha perso tutto – la casa, le certezze, spesso anche gli affetti – e che ha conosciuto il trauma della guerra e della fuga, la scuola rappresenta un primo ritorno a una normalità e a una rassicurante routine. In secondo luogo, la scuola è un luogo protetto che mette i bambini al riparo dal rischio di subire violenze e abusi. Inoltre, l’istruzione rappresenta la risorsa principale per ciascun bambino rifugiato: sui banchi infatti acquisiscono conoscenze fondamentali e ritrovano anche quella fiducia e autostima che permetterà loro di avere una vita autonoma e soddisfacente nel loro paese di origine, quando ci saranno le condizioni per tornarvi, o nel Paese ospitante.

Quali obiettivi avete raggiunto negli ultimi cinque anni?

Il principale obiettivo raggiunto nei primi 5 anni è aver fatto tornare a scuola 1 milione di bambini rifugiati in questi 12 Paesi.
Dall’inizio del programma sono state costruite e ristrutturate 210 scuole e sono state realizzate e ristrutturate 3.133 classi che hanno permesso a tanti bambini di andare a scuola senza dover affrontare il problema ricorrente del sovraffollamento. In cinque anni, è stato garantito sostegno economico diretto a 76 mila bambini provenienti da famiglie vulnerabili. Solo nel corso del 2017, l’Unhcr ha reclutato 6.158 insegnanti e ne ha formati oltre 19mila dall’inizio del programma. A tutti i bambini, dal 2012 l’Unhcr ha distribuito circa 2,4 milioni tra libri di testo e altri materiali didattici.

Come si può aderire alla campagna? 

Tutti possiamo contribuire a dare istruzione a un bambino: basta inviare un sms al 45516 o chiamare lo stesso numero da rete fissa. Dobbiamo continuare ad assicurare istruzione di qualità ai bambini rifugiati nei 12 paesi che fanno parte del progetto Educate a Child.

Con un sms da due euro, si può garantire un mese di scuola a un bambino rifugiato.

Balcani di nuovo in fibrillazione dopo l’omicidio di Oliver Ivanovic

epa06449968 A woman pass next to a mural reading 'Stay here, there is no step back', in the northern part of ethnically divided town of Mitrovica, Kosovo, 18 January 2018. Two days after the murder of Oliver Ivanovic, the streets in the northern part of Mitrovica are empty. Ivanovic, a former State Secretary for Kosovo and Metohija and a subject of a controversial war crimes trial and retrial, was fatally shot in front of his office in Mitrovica, Kosovo, on 16 January 2018. EPA/DJORDJE SAVIC

Pochi giorni fa, il 16 gennaio, Oliver Ivanovic è stato ucciso in Kosovo. È accaduto poco lontano dal monastero di Mitrovica, la città divisa in due da un ponte: da una parte vive la minoranza serba, dall’altra quella kosovara. Ivanovic aveva 64 anni e tre figli, quando gli hanno sparato sei pallottole in petto, per strada, dove si è accasciato per sempre, a pochi passi dalla sede del partito di cui era a capo. Era il leader dei serbi che vivono ancora nella regione dalla fine della guerra, a capo della minoranza di una manciata di uomini, donne e bambini che si rifiutano di abbandonare le loro case, le loro fattorie nonostante vivano nelle enclavi video sorvegliate, in condizioni precarie, in città e paesini dove spesso manca acqua e luce.

Ivanovic, dopo i colpi di arma da fuoco esplosi da ignoti da un’auto che è sfrecciata via, è stato portato in ospedale, ma era ormai impossibile salvarlo. Sulla sua tomba di marmo ci sarà per sempre la data del 16 gennaio, proprio il giorno in cui Belgrado e Pristina, le capitali nemiche, avevano cominciato i negoziati per la normalizzazione dei loro rapporti a Bruxelles e che si sono subito interrotti.

I contatti tra Serbia e Kosovo comunque non esistevano già da più di un anno. Ora che la bara di Ivanovic è stata accompagnata da una folla commossa, poi seppellita nel cimitero della capitale slava, nella nebbia invernale dei Balcani diventa chiaro che questo omicidio metterà in pericolo gli accordi raggiunti dopo le trattative con l’Unione Europea e, ancora peggio, l’intera stabilità dei Balcani. Per questo, appena appresa la notizia dell’omicidio, Marko Djurich, – politico serbo, membro del Consiglio di Sicurezza per la riconciliazione-, a Bruxelles ha deciso di allontanarsi dal tavolo dei negoziati e ritirare l’intera delegazione slava dai colloqui con i kosovari. Sono tutti tornati a Belgrado, mentre a Pristina si preparano comunque a festeggiare a febbraio l’anniversario per i dieci anni di indipendenza del loro Stato, un’autonomia post bellica non riconosciuta ancora da Russia, Serbia, Spagna, Romania, Cina.

Dopo la morte di Ivanovic e l’interruzione del dialogo, Oana Lungescu, portavoce Nato, ha detto che è urgente che Pristina e Belgrado tornino ai colloqui per normalizzare le relazioni: «il dialogo deve continuare il prima possibile, è un punto critico per la pace regionale e la sicurezza, tutte le parti in causa devono collaborare per garantire pace e sicurezza». Ma dopo questo omicidio nulla tornerà uguale.

Ivanovic si batteva per un pragmatico miglioramento che regolarizzasse i rapporti tra i due Stati ancora in guerra silenziosa. Una corte kosovara lo aveva condannato per crimini di guerra e l’omicidio di quattro kosovari albanesi nel 1999, ma, dopo nove anni di prigione, il verdetto poi era stato annullato e l’anno scorso era tornato libero. Ivanovic era un moderato, che manteneva aperto il dialogo con la Nato e gli ufficiali europei, nonostante la maggioranza dei leader serbi non l’abbia fatto dopo i bombardamenti americani del 1999. Lui stesso, prima di morire, aveva ammesso che per questo atteggiamento politico si era assicurato abbastanza nemici da una parte e dall’altra, tra i nazionalisti serbi, per i quali non era abbastanza ortodosso, e tra gli albanesi kosovari, per le sue politiche moderate.

A chi darà informazioni sui suoi assassini la polizia kosovara ha promesso 10mila euro di ricompensa. Questa morte è «un attacco agli sforzi per ristabilire la legge in tutto il territorio del Kosovo» hanno detto a Pristina. «Atto terroristico» continuano a dire a Belgrado. La sfida che ora deve sostenere il presidente serbo Aleksandar Vucic è diventata ancora più grande.

Dopo aver convocato una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza serbo per la morte di Ivanovic, il presidente ha deciso di visitare la città divisa, Mitrovica, nel territorio di uno stato la cui indipendenza non è mai stata riconosciuta da quello di cui lui è a capo. «La Serbia compirà i passi necessari per trovare gli assassini» ha detto Vucic. Quest’assassinio è una minaccia non solo per il nord del Kosovo, ma per l’intera regione balcanica, ha commentato il ministro degli esteri serbo Ivica Dacic.

Alla minoranza che vive nelle enclavi in terra ormai musulmana, Vucic ha sempre tentato di presentarsi come un salvatore, un protettore, per rafforzare la sua immagine e il suo potere agli occhi dei nazionalisti in patria. «Ecco perché è andato lì immediatamente dopo quella morte» ha detto l’esperto Dragan Popovic del Policy Institute. Quando il presidente è arrivato nella città divisa dal ponte, la folla era scettica, ma continuava ad urlare: «aiutaci, aiutaci tutti, siamo un bersaglio, abbiamo una colpa, siamo serbi». Uno ha chiesto: «può garantire la nostra sicurezza nella nostra stessa terra?». E Vucic alla fine ha risposto di sì: «i serbi devono rimanere e sopravvivere nelle loro case in Kosovo, non possiamo permettere che i numeri diminuiscano nella terra che abitiamo sin dai tempi antichi». Ma questa è forse l’unica promessa che il presidente non può mantenere, perché è proprio il Kosovo che bisogna cedere alla soglia d’ingresso d’Europa.

Il 2025 è l’anno in cui la Serbia, si prevede, entrerà a far parte dell’Unione Europea, insieme al Montenegro. È una decisione che verrà annunciata a breve, dopo il 6 febbraio, parte di una nuova strategia che porterà dentro la mappa della Nuova Europa gli ultimi Paesi dell’Est rimasti fuori dal blocco. Ma per entrare a far parte della nuova famiglia europea, la Serbia «ha bisogno di normalizzare le sue relazioni col Kosovo, per fare progressi nel percorso di integrazione europeo». Il dialogo tra Pristina e Belgrado è cominciato nel 2011 sotto l’egida della bandiera blu con le stelle dorate in Belgio. Ora è di nuovo interrotto, bagnato di un nuovo sangue in quei Balcani dove la guerra è finita, ma la pace non è arrivata ancora.

Avviso allo Stato: se Cutrò muore è colpa vostra

«Si è rovinato, ha rovinato una famiglia, anche i figli stessi tutti controllati, minchia nemmeno si possono muovere… Appena lo Stato si stanca, che gli toglie la scorta, poi vedi che poi…»: sono le parole pronunciate da Giuseppe Nugara, capomafia (presunto) di San Biagio Platani in una conversazione intercettata che è agli atti della maxi operazione che ieri ha portato all’arresto d 56 persone.

Nugara sta parlando di Ignazio Cutrò, testimone di giustizia nonché presidente dell’Associazione Nazionale Testimoni di Giustizia.

È una storia vecchia, ormai: le mafie non hanno intenzione di fare troppo rumore e allora aspettano che ci si dimentichi dei loro obbiettivi per colpirli quando cala l’attenzione. Ignazio Cutrò con le sue denunce ha fatto arrestare (e condannare) i fratelli mafiosi Panepinto che per anni l’hanno vessato con le loro estorsioni.

Che un mafioso confidi in uno Stato che “si stanca” di proteggere i propri uomini è già una pessima notizia ma che dei mafiosi diano per scontato che punire una vittima è solo questione di tempo in un Paese democratico dovrebbe almeno essere un campanello d’allarme.

Del resto viene da chiedersi perché un testimone di giustizia (rovinato dal proprio coraggio, come nel caso di Cutrò che è ormai tecnicamente “fallito” con la su azienda di costruzioni per le “dimenticanze” di Stato) dovrebbe prima o poi temere di non essere protetto. Sembra una storia da non credere, vero?

E invece a Cutrò da qualche giorno hanno tolto la protezione. È solo. Lui e la sua famiglia.

E ora esce questa intercettazione.

E lo Stato, di colpo, si smutanda, smutandato dalla mafia.

Buon martedì.

CancerSeek, verso la diagnosi precoce del tumore. Ma è da migliorare

epa06360680 A Thai medical staff member prepares needle to take blood sample for a human immunodeficiency virus infection (or HIV) and acquired immunodeficiency syndrome (or AIDS) test at the Thai Red Cross AIDS Research Center's Anonymous Clinic in Bangkok, Thailand, 20 November 2017 (issued 01 December 2017). The Thai Red Cross founded Anonymous Clinic is the first of its kind to be exempt from revealing the name and real identities of HIV patients; the clinic provides confidential HIV testing and treatment services for locals and foreigners. After Thailand's first case of HIV/AIDS was reported in 1984, more than a million of Thais have been infected with HIV and hundreds of thousands have died of the AIDS virus. The Thai Public Health Ministry launched its new 13 years strategy for ending the AIDS epidemic as a public health threat in Thailand from 2017 through 2030. According to a Joint United Nations Programme on HIV/AIDS (UNAIDS) report, new HIV infections in Thailand have declined by 50 percent from 2010 to 2016 as a result of the success of HIV prevention programs. EPA/RUNGROJ YONGRIT

È in grado di riconoscere la presenza di otto forme tumorali nel corpo: si chiama CancerSeek, il metodo guidato da Joshua Cohen, ricercatore della John Hopkins university di Baltimora. Con un’affidabilità che varia – per ora – dal 69 al 98 percento, consiste in un prelievo del sangue: si analizza il campione alla ricerca di tracce di Dna e proteine rilasciate dal tumore. Al seno, fegato, ovaie, polmone, stomaco, pancreas, esofago e colon retto: sono queste, ad oggi, le forme tumorali che CancerSeek è in grado – con sensibilità diverse – di riconoscere.

Lo studio, pubblicato sulle pagine di Science, parla dell’utilizzo di due marcatori (Dna e proteine) per individuare la presenza di mutazioni di sedici geni collegati al cancro e di misurare i livelli di otto proteine, valutate come segnali di alcune forme tumorali. I ricercatori sostengono che l’affidabilità del test sia tale da poter rilevare non solo presenza del tumore, ma anche la tipologia del cancro. Il costo per l’analisi dovrebbe aggirarsi intorno ai 400 euro, ossia circa l’equivalente di ogni screening per una singola forma tumorale.

Ma non è tutto oro ciò che luccica.

Lo studio ha riportato la presenza di tumori anche laddove non ce ne fosse effettivamente traccia: su 1.005 pazienti, l’1 per cento del totale è risultato falso positivo. I marcatori potrebbero infatti segnalare la presenza nel sangue di alcune proteine che – talvolta – sono presenti anche nel caso di forti infiammazioni. Non del tutto affidabile, quindi: i risultati migliori si sono avuti per il cancro alle ovaie. Per verificare maggiormente il metodo, è stata avviata una sperimentazione che durerà cinque anni negli Stati Uniti, in Pennsylvania, coinvolgendo 50mila volontarie.

Secondo i dati riportati dall’Associazione italiana registro tumori (Airtum) e l’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), nel 2016, ogni giorno in Italia si scoprono mille casi di cancro: il 52% uomini, il 48% donne. Un uomo su due nel corso della propria vita si ammalerà di tumore, a fronte di una donna su tre. In ordine: la prostata, il polmone, il colon-retto, la vescica e lo stomaco sono gli organi più colpiti per gli uomini; mammella, colon-retto, polmone, tiroide e collo dell’utero quelli per le donne. La mortalità per cancro, per entrambi i sessi è in diminuzione, seppure i numeri rimangano – purtroppo – alti. Il 57% degli uomini e il 63% delle donne riescono a sconfiggere il cancro.

Il tumore, ad oggi, è la seconda causa di morte in Italia.

Nuove proteste contro la corruzione in Romania, al motto #Resist

L’unica cosa in cui sperava il governo rumeno era la pioggia. La neve. Il vento. I gradi sotto lo zero. Che il freddo fermasse le persone, le facesse desistere dall’uscire per strada per manifestare di nuovo contro la corruzione. Invece è tornata la “primavera rumena” d’inverno, con la più grande manifestazione dall’inizio dell’anno, a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone.

Circa in cinquantamila dalla piazza dell’università della Capitale sono arrivati ad ombrelli spiegati e bandiere al vento fino al Parlamento. Nell’inverno del 2017 si sono verificate le più grandi manifestazioni di piazza dalla caduta del regime comunista, l’inverno del 2018 vuole essere gemello al precedente, ma vuole anche che stavolta le cose cambino davvero. Perché in un anno è cambiato poco, e solo in peggio.

Con la scritta #Resist, si torna a protestare a Bucarest. Proprio come un anno fa, si torna alle piazze piene, tricolori al vento e giustizia richiesta da migliaia a gran voce, in uno dei Paesi più corrotti d’Europa. La Romania ha perso il secondo premier in sette mesi proprio la settimana scorsa, quando Mihai Tudose ha abbandonato la leadership del partito sociale democratico, il Psd, proprio mentre il premier giapponese Shinzo Abe era in visita nel Paese. In migliaia hanno scritto sulla pagina dell’ambasciata giapponese in Romania: «Il popolo rumeno si scusa, sfortunatamente il nostro governo non rappresenta il popolo, ma solo se stesso e nella maniera più triste».

L’eco delle manifestazioni del 1989 che portarono alla caduta del dittatore Nicolae Caeusescu è sempre vivo. Uno degli slogan della piazza infatti è «no comunisti, no criminali, no corrotti» ed è scritto sia in rumeno che in inglese, perché è all’ala europea che la folla si appella. Le proteste dei cittadini si sono riaccese sabato, dopo che il Psd ha tentato di far approvare una nuova legge sulla corruzione che rende più difficile punire i crimini, nonostante le pressioni dell’Unione Europea. Più di 90 ministri, deputati e senatori rumeni sono stati incriminati dall’unità anticorruzione del Consiglio d’Europa dal 2006. La Greco, agenzia anticorruzione europea, ha recentemente concluso che la Romania ha attuato solo due delle 13 riforme richieste e che la nuova legge metterebbe a rischio i pochi progressi compiuti. Ministro della giustizia dal 2004 al 2007, Monica Macovei ha detto che i cambiamenti per migliorare il sistema sociale ed economico rumeno per frenare la corruzione dilagante, sono andati distrutti. Sono stati smantellati. È in corso un assalto alla legge che punisce questi crimini, varata dopo che la Romania è entrata nell’Unione europea nel 2007: nel tempo «ci sono stati passi in avanti e poi all’indietro, ma questo è peggio», ha detto la Macovei.

Il nuovo primo ministro della Romania ora è Victoria Dancila, prima donna del Paese a ricoprire la carica, membro del Parlamento europeo, terza premier rumena in undici mesi, ma è vicina, troppo vicina al leader del Psd Liviu Dragnea, anche lui sotto inchiesta per abuso di ufficio e falsificazione del voto. Ha già sulle spalle una sentenza di due anni di prigione sospesa. Se la nuova legge dovesse entrare in vigore, tutte le accuse cadrebbero. Le sue e quelle di tutti gli altri. Il due febbraio sarà il giorno del giuramento della nuova premier, e tutta Bucarest ha promesso di tornare a marciare di nuovo.

La politica tradizionale. E la famiglia. E chi la inneggia

Se qualcuno tenta di convincermi della giustezza delle sue idee (o della popolarità del suo pensiero) con frasi del tipo “si è sempre fatto così”, “difendere la tradizione” o “è normale (giusto) così” di solito mi domando come ho fatto a infilarmi in una discussione così stupida, invento un impegno e saluto.

Quando a farlo sono invece politici di primo piano (purtroppo) che hanno a disposizione mezzi e modi per sparare le loro cazzate in prima visione allora la reazione diventa più laboriosa e tocca, ancora una volta, provare a ripercorrere le loro grevi storie personali per provare a smascherarli.

Partiamo dall’inizio. Sono appesi un po’ dappertutto i manifesti elettorali di Giorgia Meloni, con tanto di logo della sua formazione Fratelli d’Italia anche lei liquefatta nell’ennesimo conato di berlusconismo resuscitato di nuovo, che ci invita alla difesa della famiglia tradizionale. “DIFENDI LA FAMIGLIA TRADIZIONALE”, intimano con il solito imperativo fascioemergenziale.

E qualcuno potrebbe pensare che faccia proprio ridere che a difendere la famiglia “tradizionale” siano la Meloni (madre non sposata), Salvini (pluriseparato, dalla famiglia larghissima) e quel Berlusconi, su cui non c’è bisogno di aggiungere altro.

I “tradizionalisti” (che sia un presepe o la famiglia) sono quelli che non hanno nemmeno lo spessore per essere conservatori e che hanno bisogno di coniare tradizioni simboliche (in realtà inesistente) per confezionare un messaggio all’altezza della loro superficialità.

La Meloni ieri ha dichiarato: “Noi difendiamo le famiglie naturali, quelle che fanno figli. Sono queste a dover ricevere contributi dallo Stato, non quelle degli immigrati”.

La “famiglia tradizionale”, insomma è solo un modo per sputare xenofobia e omofobia. Senza nominarle. Di tradizionale insomma c’è solo la meschineria politica. La solita.

Buon lunedì.

La crociata antiabortista del ministro Lorenzin

January 13, 2018 - Krakow, Poland - Women stand next to a banner of a woman taking a key against the rejected civic proposal of law to liberalize abortion and promote sexual education, at the Main Square..On Wednesday, the Polish Parliament (SEJM) rejected the civic proposal of law that would liberalise abortion law by giving women the right to choose to terminate a pregnancy up to the 12th week. On the same day, the lower house of parliament decided that other proposal,which would plan for a near-total ban on abortion will be discussed in a parliamentary committee. (Credit Image: © Omar Marques/SOPA via ZUMA Wire)

Finalmente, con quasi un anno di ritardo e in piena campagna elettorale, è stata pubblicata la relazione sullo stato di applicazione della legge 194. Al di là dei trionfalismi e delle autocelebrazioni di un dicastero che ha sempre agito nel campo della salute riproduttiva con i filtri ideologici del “primato della maternità” e della negazione del diritto delle persone alla autodeterminazione, emerge chiara la assoluta non disponibilità ad affrontare le criticità che dalla stessa relazione emergono.

Siamo, secondo la relazione, tra i Paesi con il più basso tasso di abortività, e questo viene attribuito, almeno in parte, all’abolizione dell’obbligo di prescrizione medica per la contraccezione di emergenza ormonale (le cosiddette pillole “del giorno dopo” e “dei cinque giorni dopo”), le cui vendite in due anni sono più che decuplicate. Sarebbe stato logico, dunque, sulla base di questa osservazione, rimuovere l’obbligo di prescrizione per le ragazze minorenni, e permettere la distribuzione gratuita di tali contraccettivi nei consultori, dove questa domanda può essere legata ad un discorso più ampio di promozione della salute e di una sessualità consapevole, libera e identitaria.

Per quanto riguarda la metodica farmacologica, il ministro Lorenzin riferisce che i dati, «simili a quanto rilevato in altri Paesi, sembrano confermare la sicurezza di questo metodo». È chiara l’ostilità ideologica insita in quel “sembrano”, che vuole mettere in dubbio l’evidenza; è l’ostilità verso una metodica che ha al suo centro l’autonomia decisionale della donna, una bestemmia per i teorici delle fattrici di Stato. Tale ostilità ha ispirato le attuali linee di indirizzo del ministero per l’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) farmacologica che impongono il regime di ricovero ordinario. Alla luce dell’evidenza – che ci viene dai Paesi che hanno in questo campo un’esperienza ormai trentennale e che prevedono tutti il regime ambulatoriale o addirittura a domicilio per le gravidanze fino a 7 settimane – Lorenzin avrebbe dovuto da tempo…

L’articolo della ginecologa Anna Pompili prosegue su Left in edicola


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