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Anna Frank, un Diario per immagini

Ironica, brillante, impulsiva, nervosa e sarcastica. Si presenta così Anna Frank nel graphic novel Anne Frank – Diario di Ari Folman e David Polonsky (Einaudi): «Spesso sono stata depressa, ma non ho mai perso la speranza, considero questa clandestinità un’esperienza pericolosa, romantica e interessante». E infatti Anna in quei lunghi giorni diventa Giuditta I di Klimt quando si immagina elegante e cortese, una star di Hollywood quando sogna di diventare un’attrice famosa, L’urlo di Munch quando si interroga sul proprio futuro. Nell’alloggio segreto del 263 di Prinsengracht, nel quartiere di Jordaan ad Amsterdam, la giovane quattordicenne cresce velocemente e scrivendo al padre afferma: «Non puoi e non devi considerarmi una quattordicenne, tutte queste difficoltà mi hanno resa più grande».

Nei riquadri, gli autori riportano frasi del Diario; nelle vignette – con illustrazioni e a parole – fanno precipitare il lettore nella storia. Il combaciare di fabula e intreccio permette anche ai giovanissimi – per cui è nato questo libro – di correre da una pagina all’altra. A settant’anni dalla pubblicazione della prima edizione del Diario – sintesi delle due versioni di Anna e dei tagli postumi del padre Otto Frank – esce il graphic novel, il primo “fumetto” autorizzato dalla Anne Frank fonds, l’associazione che si occupa della conservazione della memoria della ragazza ebrea.

«Spero che ti potrò confidare…

L’articolo di Giorgio Saracino prosegue su Left in edicola


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L’assenza della politica

La campagna elettorale è iniziata da qualche settimana ma le argomentazioni della politica per cercare consenso sono già oltre ogni limite di credibilità. Sono state fatte promesse mirabolanti che per lo più saranno parole che rimarranno lettera morta perché per la gran parte irrealizzabili. Io credo però che la cosa più drammatica sia che non esiste più una formazione politica che proponga un programma che si basa su principi, su idee sulla base delle quali basare una attività politica. O se i principi esistono sono molto generici e molto, troppo, sullo sfondo dei programmi. Sono parole che sono sulla carta ma mai proclamate come fondamento dell’attività politica. Tutti i partiti parlano di soldi e di niente altro. Senz’altro il tema della redistribuzione delle risorse è importante. Ma può una proposta politica esaurirsi in questo? In tutto ciò si sta consumando la catastrofe del Pd. Quello che 5 anni fa alcuni sostenevano, tra cui il sottoscritto, si sta realizzando: Renzi è riuscito nell’impresa di distruggere il partito e con questo di rendere la sinistra sicuramente minoritaria in Parlamento. Mi è capitato di vedere Enrico Lucci che esortava Bersani ad allearsi con Renzi per ottenere un risultato concreto e forte alle elezioni. Un suggerimento che può apparire giusto, se non fosse che Renzi ha fatto del tutto per fare in modo che Bersani & co. uscissero dal Pd, pensando di mantenere i voti tutti nel suo partito. Ora ci si rende conto che non sarà così. E quindi si accusa la sinistra-sinistra di essere distruttiva. Quando è evidente a chiunque che il primo ad essere distruttivo nel suo modo di fare politica è sempre stato Renzi.

Dire cose senza mantenere mai la promessa, insultare sistematicamente l’avversario, affermare di essere l’unica possibilità per il Pd di esistere quando in verità Renzi, al di là delle elezioni europee del 2014, ha sempre perso le elezioni a cui ha partecipato. La sinistra-sinistra non dovrebbe preoccuparsi delle alleanze post-voto. Dovrebbe invece pensare ad una prospettiva di più lungo periodo. Non stare a ragionare sul governo del presidente o quant’altro. Ma pensare invece a come ritornare ad avere relazioni con il territorio, a comprendere quelle che sono i bisogni e soprattutto le esigenze degli elettori e dei non elettori. Dovrebbe avere un programma di ascolto e tramite l’ascolto di ricostruzione di una politica realmente di sinistra. Non si tratta di fare quello che chiede la gente. Le persone non necessariamente sanno risolvere i problemi che hanno. Sta alla politica trovare soluzioni. Ma bisogna capire veramente quali sono i problemi. È un problema l’immigrazione per la sicurezza? O è una percezione errata? E se è così a cosa è dovuta questa falsa percezione e come modificarla per riportarla alla realtà?

Va immaginata una strategia di reale sviluppo di questo Paese. Sviluppo economico che per essere solido ha necessariamente bisogno di competenze e di stabilità sociale. Gli investimenti, le promesse elettorali, andrebbero pensate in un’ottica perlomeno decennale. È strategico avere una visione chiara di cosa si vuole fare per la scuola e l’università. È strategico avere una chiarezza di idee sul sistema sanitario nazionale e sul fatto che il personale impiegato non è sufficiente. È strategico avere idee su quali siano le prospettive da dare a chi ha meno di 30 anni e vive in Italia se non se n’è ancora andato all’estero a lavorare. È strategico comprendere quale sia la migliore politica per l’immigrazione. Gli immigrati sono una ricchezza se messi in condizione di esserlo. Altrimenti vengono usati come leva di consenso elettorale agitando paure di cose che non esistono. Lo sforamento delle regole di bilancio europee andrebbe fatto per questo tipo di investimenti, non per pagare l’obolo all’elettore, l’elemosina elettorale, i famigerati e completamente inutili 80 euro di Renzi. È strategico avere idee chiare su cosa sta accadendo nel mondo. In Italia siamo ancora fermi ad un’idea di mondo che non esiste più da perlomeno dieci anni. Tim Cook ha avuto modo di dire recentemente che le aziende americane delocalizzano in Cina non perché ci sia un costo di manodopera più basso ma perché la manodopera cinese (e non solo la manodopera) è altamente specializzata. Qual è l’idea di cosa dovrà essere l’Italia tra dieci anni che hanno le formazioni politiche di sinistra che si presentano alle elezioni? Quali sono le prospettive per chi vive in questo Paese o per chi decidesse di venirci a vivere? C’è qualcuno che si fa domande del genere oppure il problema è solo capire come piazzare i candidati nei collegi e cercare quale promessa elettorale porta più voti?

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Come si autoassolve un nazista

Brunhilde Pomsel fu segretaria del ministro della Propaganda di Hitler, il famigerato Joseph Goebbels. Nel documentario che va in onda il 26 gennaio su History (Canale 407 di Sky) la donna racconta la sua vita con incredibile lucidità sebbene avesse 103 anni quando furono fatte le riprese. Le immagini iniziali di La segretaria di Goebbels sono inquietanti poiché non si riesce a capire subito chi si ha di fronte: la pelle del volto segnata da un reticolo di rughe, da solchi profondi, sembra quella di un rettile mitologico, il basilisco. Poi ascoltando le parole si chiarisce che si tratta di un essere umano, di una donna che racconta la sua vita nella Germania dei primi decenni del Novecento, un mondo completamente diverso da quello attuale: l’educazione familiare autoritaria spesso spietata induceva alla sottomissione e all’obbedienza. Il padre appena tornato dalla Grande guerra toglie ai bambini il vaso da notte da sotto il letto cosicché i piccoli vagavano al buio nelle ore notturne alla ricerca della toilette.

Brunhilde Pomsel si compiace di questi particolari sapientemente introdotti per suggerire nello spettatore un’empatia positiva. Come quando riferisce della sua amicizia con una ragazza ebrea che purtroppo non sfuggirà alle camere a gas. Quasi a dire che per lei la politica, l’antisemitismo, il nazismo erano concetti astratti non avevano nessun valore rispetto al quotidiano e all’umano; perché allora spese i soli dieci marchi che le rimanevano del suo gramo stipendio per iscriversi al Partito nazional socialista? Sicuramente per poter essere assunta al ministero della Propaganda e alla radio, dove si guadagnava bene e transitavano persone di classe, ben vestite in un contesto dalle architetture prestigiose. Nel documentario, la storia della vita è inframezzata da immagini inedite della propaganda di guerra a sfondo razziale, di testimonianze della resistenza al regime che comunque esisteva, e nel finale dalle terribili immagini dei cadaveri nei campi di sterminio. Brunhilde non sapeva nulla dell’Olocausto: tutto sarebbe stato così ben nascosto che non sarebbero trapelate notizie all’esterno! La donna d’altronde era troppo contenta della sua vita al

L’articolo dello psichiatra Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola


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Neonazi in concerto nel Giorno della memoria, lo sdegno dell’Associazione nazionale ex deportati

«È deplorevole»: sono sufficienti due parole a Paolo Brieda, consigliere del direttivo dell’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned) di Pordenone, per esprimere l’umore di un figlio di un deportato nel campo di concentramento di Buchenwald che deve assistere all’organizzazione di un concerto neonazista in un circolo privato del vicino comune di Azzano Decimo. Proprio nel giorno della memoria, in cui si ricordano le milioni di vittime dell’Olocausto, decine di persone si incontreranno per cantare e ballare sulle note di testi antisemiti. Sono band neonaziste, neofasciste, provenienti da vari posti d’Europa: Francia, Germania, Finlandia e Italia.

«Il fatto di Azzano è deplorevole. Fanno un concerto di questo genere proprio nel giorno della memoria, ma sarebbe uguale anche se non fosse il 27 gennaio. Anche se è organizzato privatamente, è ugualmente deplorevole. La prefettura dovrebbe intervenire: hanno detto che loro non possono intervenire perché quella manifestazione si svolge in un luogo privato. È una cosa che va contro la morale, bisognerebbe intervenire ugualmente. Noi siamo indignati, non sta né in cielo né in terra. Io non so bene chi siano queste persone qua, non volgiamo proprio entrare in contatto con loro: band neonaziste e neofasciste. Francesi, finlandesi, tedesche, italiane. Queste sono reminiscenze neofasciste: in Italia dovrebbero essere perseguitati. Per legge». Leibstandarte e la Via Dolorosa, sono due tra le band del National Socialist Black Metal che si esibiranno al circolo privato Club Langbard. Con testi inneggianti a Hitler, all’Olocausto, all’odio razziale e all’omicidio.

Continua Paolo Brieda dell’Aned: «Io non voglio più neanche sentirne parlare di questa roba qui. Perché dà fastidio a livello psicologico. Il prefetto ha detto che non può farci niente, non è una cosa da poco. Lo saprà lui il perché. Io penso che qualcosa possa farci. Io sono figlio di un deportato; mio padre è stato nel campo di concentramento di Buchenwald per sei mesi; il presidente dell’Aned Pordenone, Eliseo Moro, è stato deportato a Dachau. Non possiamo sentire che ad oggi accadano e si organizzino queste cose. Se in una bisca clandestina si pratica il gioco d’azzardo, si può intervenire. Non vedo perché allora non si possa intervenire di fronte a questa situazione».

E conclude, al termine di una partecipazione a una conferenza organizzata in una scuola friulana: «Dobbiamo andare avanti puntando sulle scuole, è essenziale: abbiamo visto che i giovani sono molto partecipi, soprattutto quando parlano con un deportato, quando davanti a loro c’è una persona che ha vissuto nel campo di concentramento. Anche quando per motivi di salute i testimoni non potranno più presenziare, noi continueremo: abbiamo registrato tutto. È stato fatto un lavoro di archivio molto accurato. È un lavoro didattico che andrà avanti».

Rivolta in Australia: «No alla festa nazionale nel giorno del massacro di aborigeni»

Il 26 gennaio, ma nel 1838, un gruppo di poliziotti, – per ordine del governo coloniale e del comandante maggiore James Nunn -, attaccò il campo di Kamilaroi a Waterloo Creek, Australia, uccidendo quaranta persone. Un massacro di indigeni. Omicidio, stupro, violenza: perché si doveva fare spazio alle fattorie dei coloni bianchi, i terreni andavano “ripuliti”. Cento anni dopo, nel 1938, il 26 gennaio, un gruppo di aborigeni cominciò a protestare davanti al municipio di Sydney. Per diritti pari, per essere eguali davanti alla legge, nella società. Perché, dicevano i loro striscioni, “aborigines claim citizen rights!”, gli aborigeni vogliono diritti simili a quelli degli altri cittadini. Chiedevano uguaglianza.

Il 26 gennaio del 1988 persone da tutta l’Australia si diedero appuntamento nella capitale per “la lunga marcia per la giustizia, la pace, la speranza”. E soprattutto per ricordare al governo australiano che “loro avevano rubato la nostra terra”, come disse Michael Anderson, un membro della tribù Kamilaroi. Siamo nel 2018, 26 gennaio, 60mila uomini e donne scendono per strada in tutto il Paese, in onore di quel passato di resistenza dei nativi, vogliono che venga messa fine “alla politica razzista”. Il 26 gennaio per loro è diventato il giorno in cui alzare la voce per i diritti dei popoli aborigeni. Quest’anno hanno marciato da Sydney a Canberra, da Brisbane ad Adelaide. Fino a Perth. Non si vedeva questa mobilitazione di massa dagli anni 70. Non è la Giornata nazionale dell’Australia, come vorrebbe il governo,  è l’Invasion Day, la giornata dell’invasione.

Il giorno del 26 gennaio infatti è stato scelto come “Giornata dell’Australia”, ma è l’anniversario di un assassinio collettivo di indigeni. È una data che per molti australiani va cambiata, una celebrazione che ricorda solo il sangue del massacro. Ogni gennaio i quotidiani  lo ricordano a titoli cubitali, tanto che il primo ministro Malcolm Turnbull è dovuto tornare sulla questione: questa campagna stampa ha reso «il giorno che dovrebbe unire l’Australia e tutti gli australiani un giorno che ci divide, un paese libero dibatte la sua storia, non la nega». La valanga di critiche dalla comunità indigena non si è fatta attendere: il 26 gennaio merita protesta, manifestazione, non celebrazione.

Un anno fa, nel 2017, con i colori ancestrali, – giallo, rosso e nero -, si marciava in segno di disappunto a Melbourne, in migliaia in solidarietà con gli aborigeni. La gente urlava no pride in genocide, nessun orgoglio per il genocidio, always was, always will be aboriginal land, questa è sempre stata e sempre sarà terra aborigena, per ricordare il sangue versato da chi abitava l’Australia prima dell’arrivo dei coloni bianchi. Celebrare ancora questa giornata, il 26 gennaio, come festa nazionale, vuol dire negare quella tragedia, «negare la sovranità calpestata degli indigeni, queste cose non vengono analizzate nel dettaglio dal nostro Paese», ha detto Celeste Liddle, organizzatrice della “marcia del giorno dell’invasione”. L’anno scorso alla marcia c’erano 20mila persone, nel 2018 sono almeno il triplo.

“Una marcia contro l’invasione” è stata organizzata in ogni Stato australiano. Il premier «Turnbull non prende parte a questo dibattito, anzi lo evita», continua Celeste. Il massacro di Waterloo Creek è uno dei 150 massacri registrati, ma molti sono stati unreported, mai riportati. Il primo di cui si hanno tracce risale al settembre del 1874, sei anni dopo l’arrivo della prima flotta a Sydney Cove, quella che dichiarò l’Australia colonia britannica. La lista dei massacri dei nativi per mano di soldati, per mano di prigionieri, per mano dei coloni bianchi è lunga, ma sarebbe lunghissima se ci fossero tutte le testimonianze, le prove necessarie. È la storia non raccontata dell’Australia, che gronda sangue. Il numero esatto di nativi uccisi rimane sconosciuto, più di 64mila indigeni furono uccisi dal 1788 al 1930 solo nel Queensland. Raccogliere i dati oggi, tanti anni dopo, è impresa impossibile, ma qualcuno la tenta.

Nel 1838 quando i soldati tornano a Sydney da Waterloo Creek furono accolti come eroi, ci fu un processo, ma nessuno fu condannato. Anzi. Come riporta un giornale dell’epoca, in tribunale un soldato disse che «so bene che siamo colpevoli di omicidio, ma io non ho mai visto un bianco soffrire perché si sparava a un nero».

Cambiare la data della Giornata dell’Australia non cambierà la storia, ma almeno, dicono gli organizzatori della marcia dell’invasione, aiuterà a non negare la verità, a scriverla di nuovo: la mitologia della nuova, moderna Australia è nata nel sangue degli indigeni, dei nativi. Come ha detto ancora la Liddle «gli aborigeni non marciano perché non sono contenti della data della celebrazione, noi marciamo perché ci opponiamo alla celebrazione di quell’invasione. Stiamo combattendo per una causa più profonda qui». È impossibile che in questa data, – il 26 gennaio- , che per alcuni è lutto nazionale, il Paese si unisca sotto un solo simbolo, sotto un’unica bandiera, un solo colore, in nome dell’amore per una patria che ha dato la morte invece che la libertà a parte della popolazione che ancora la abita.

«Chiederci di celebrare il 26 gennaio è come chiederci di ballare sulle tombe dei nostri antenati» ha reso noto Reconciliation Australia, un’organizzazione indipendente: «è una festa nazionale dal 1994, è una data che è stata già cambiata, bisognerebbe farlo di nuovo, se vogliamo davvero raggiungere unità tra tutti gli australiani». Linda Byrney, deputata laburista, prima donna indigena eletta a rappresentare il popolo al governo, non è “un’abolizionista”, – come vengono chiamati quelli che vogliono cancellare questa data dal calendario -, ma ha detto che è il giorno in cui pensare davvero «e profondamente alla verità, alla vera storia di questo Paese». Solo quando verrà riconosciuta e detta ad alta voce, forse, ci sarà davvero qualcosa da celebrare.

Morti di freddo. Italia. 2018

20080104 - CRO - EMERGENZA FREDDO: SENZATETTO IN PERICOLO DI VITA - Senzatetto fotografati a Piazza Venezia a Roma. Negli ultimi giorni le temperature sull'italia si sono abbassate e negli ultimi giorni sono morti diversi clochard. CLAUDIO PERI/ ANSA /BGG

Tre giorni fa a Torino un forse trentenne è morto di freddo. “Stava male da due giorni”, dice un suo compagno di povertà. È morto nella stanza tutta screpolato di un edificio in rovina, in mezzo alla merda dei topi, le coperte lise che sembrano ragnatele e e qualche rifiuto che qui diventa un soprammobile da reinventare con cura.

Il morto si chiama morto, non ha un nome, “pelle scura, trent’anni circa, probabilmente africano” è tutto quello che sappiamo di lui. Quando i morti non hanno un nome il loro colore diventa un tratto identitario, come nelle scatole di pastelli. Il morto è morto di fronte a dormitorio della Croce Rossa, che quella notte aveva dieci letti vuoti. “Ma noi non potevamo andarlo a prendere in un posto del genere. Non è sicuro”, abbozza un volontario. Morire di freddo per terra a cinquanta passi da un letto libero è la fotografia perfetta di un Paese anaffettivo e disgregato.

In questo inizio del 2018 ci sono cadaveri morti di freddo sotto i portici di Palermo, su una panchina di Verona, in un garage di Rovereto. Cinque giorni fa una signora di 61 anni è morta di freddo a Moncalieri.

Morti di freddo, Italia, 2018. E ogni volta che ne leggi qualcuno ti viene da pensare come sia successo che ci siamo disabituati a scendere nei nostri inferi per avere paura di sporcarci le scarpe. E così li abbiamo chiusi gli inferi, illudendoci di esserne rimasti fuori mentre al freddo invece ci siamo noi. Noi che surgeliamo i morti e poi li nascondiamo per non sprecare pietà perché la povertà, quando è sporca di disperazione, non merita nemmeno di diventare una notizia.

Buon venerdì.

 

I vuoti di memoria creano mostri

Sfilate in pieno centro a Roma, l’esplicita apologia del fascismo, l’ostentazione di fasci littori e di croci celtiche: sembra quasi che il Novecento sia passato invano, rimuovendo la tragedia dei fascismi e la loro devastante esperienza liberticida. Dubito che possano tornare, almeno non nelle forme storiche con le quali un tempo si articolarono le differenti esperienze nazionali della grande alleanza tra sconfitti della modernizzazione e il nazionalismo radicale dei ceti medi. Ma sarebbe davvero illusorio ritenere la democrazia al riparo da ogni rischio, un dato definitivamente acquisito, un’eredità scontata e gratuita. Reclama, invece, sempre un prezzo politico e civile, odia gli indifferenti, pretende che sia dia battaglia in suo nome. La stessa ingaggiata nei giorni più bui della nostra storia nazionale, quando in pochi sfidavano l’esilio, il carcere e il confino, resistendo e quindi dando vita alla nuova Repubblica.

La nostra generazione è chiamata a difendere questo lascito di pace e di libertà, anche nell’interesse dei suoi avversari. CasaPound, Forza nuova e affini se ne facciano una ragione: si vorrebbero eterni innocenti figli di un’Italia immemore, ma possono manifestare la propria folle propaganda solo in ragione della sconfitta di Mussolini e delle sue idee. I nuovi squadristi debbono fare i conti con una democrazia che rifiuta di concepire lo Stato come una sorta di divinità mondana e la società come una caserma in camicia nera fondata sulla repressione dell’alterità e del dissenso. Il nostro compito è quello di ricordaglielo ogni giorno, perché la nostra prima linea di Resistenza è rappresentata proprio dalle trincee della memoria, elemento costitutivo dell’identità (specchio non sempre fedele del passato individuale e collettivo) e riferimento programmatico per il futuro.

La Carta costituzionale è la memoria vivente della nostra Repubblica, i suoi valori fondamentali rappresentano i punti cardinali condivisi che delimitano e regolano il conflitto, che lo trasformano in un motore della crescita democratica, valorizzando una libertà – come scrisse Pietro Ingrao – intesa come…

L’articolo di Giovanni Cerchia prosegue su Left in edicola


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La “memoria” è conoscenza

La “memoria” è qualcosa di estremamente importante, diversa dal ricordo, che pure è di grande rilievo. Il ricordo è legato più a un fatto privato, mentre la memoria – fatta anche di ricordi e di affetti – è soprattutto conoscenza e riflessione. La memoria ci consente di ricordare fatti del passato per cercare di capirli, e trarne indicazioni valide anche per il presente. La memoria è fondamentale per la collettività. Un Paese senza memoria è un Paese condannato a deperire. La memoria si condensa, nei monumenti, nei simboli, nelle intitolazioni delle strade ed anche in tutti quei fatti storici la cui conoscenza dovrebbe costituire la base della convivenza civile di ogni Paese. Lo storico Giovanni De Luna ha scritto un libro molto importante, La repubblica del dolore, in cui sottolinea un difetto della nostra Repubblica, e cioè che si ricordano i caduti delle guerre con corone, celebrazioni, senza meditare a sufficienza sul significato di quelle morti. La riflessione sui fatti storici è fondamentale soprattutto per le nuove generazioni, che non hanno vissuto quei tempi e vogliono capire. Per questo motivo bisogna porci il problema di comunicare, sempre e comunque.

Faccio un esempio: io sono di Milano dove la strage di piazza Fontana è rimasta nella memoria della città. Ogni anno, quando ricorre l’anniversario della strage, il 12 dicembre, invito i direttori dei giornali, a raccontare ancora quei fatti, anche se sembra ripetitivo. Bisogna spiegare perché un giorno è scoppiata una bomba e sono morte tante persone innocenti; bisogna continuare a spiegarlo, sempre, perché ogni anno ci saranno altri giovani che non sanno ancora nulla di quella vicenda. La memoria, deve promuovere la conoscenza e non l’odio. La memoria ha due grandi nemici. Il primo è il tempo, il cui decorso tende a cancellarla o comunque a sfumarla; poi ci sono i negazionisti e i revisionisti, quelli cioè che vogliono deformare la storia a loro piacimento, arrivando perfino a negare l’esistenza dei campi di concentramento.

Per fortuna ci sono anche persone che continuano a chiedere e vorrebbero sapere come si sia potuti arrivare fino a quel punto, e soprattutto si domandano cosa si può fare perché queste tragedie non accadano mai più. La memoria è dunque un momento centrale nella vita delle persone e di una nazione, e dobbiamo fare in modo che si arricchisca e si diffonda sempre più, perché tra non molto i testimoni di una delle pagine più belle della storia d’Italia, la Resistenza, non ci saranno più, per ovvie ragioni di età. Quando finirà questo modo di tramandare la storia in maniera diretta, sarà un problema se la memoria non si sarà radicata solidamente. Non bastano i luoghi della memoria, i segni della memoria, pur importanti, occorrono soprattutto ricerche, studi storici e diffusione di conoscenze. A proposito di fascismo e nazismo, è difficile che la storia si ripeta nello stesso modo, ma alcuni sintomi che provengono dalla società devono far scattare l’allarme. E sono proprio la memoria e la storia ad indicarci i segnali a cui prestare attenzione e quali gli antidoti da mettere in campo. Oggi, il nostro Paese si trova in una fase difficile.

Un grande scrittore e amico, Corrado Stajano, lo ha descritto come «Un Paese smarrito», che sta perdendo la memoria e la consapevolezza dei suoi valori e princìpi, e quindi perde anche se stesso. I nemici della memoria vanno combattuti anche nelle scuole, dove si insegna la storia solo fino a un certo periodo. Le istituzioni non si preoccupano abbastanza di conservarla e stimolarne la conoscenza. Eppure i ragazzi, che spesso sono dipinti come “sdraiati” – e ciò, non è esatto – avrebbero bisogno di essere stimolati anche attraverso la spiegazione degli eventi. Qualche giorno fa sono andato in un polo scolastico a Grosseto, per parlare della Costituzione del suo valore oggi e del suo legame con la Resistenza. C’erano centinaia di ragazzi e ragazze, attentissimi, che hanno fatto molte domande. Penso che momenti di questo tipo, di incontro e scambio reciproco, dovrebbero ripetersi in tutte le scuole.

È così che si forma il cittadino, che non solo deve conoscere la Costituzione e le leggi, ma deve sapere anche da dove provengono, quali sono le fonti e i princìpi ispiratori. Solo così una persona diventa un cittadino, altrimenti resta un suddito. È chiaro che la politica dovrebbe fare molto più di quanto stia facendo: prima di tutto dovrebbe dare esempi migliori e poi occuparsi di più di un problema specifico, tutto nostro; di un Paese che non ha fatto, mai, fino in fondo bene i conti con il fascismo. Basti pensare che una legge del 1952, che porta il nome di un politico che non brillava certo per essere un grande democratico, Scelba, recita all’articolo 9, che la Repubblica è impegnata a far conoscere, nelle scuole, che cosa sia stata la Resistenza e cosa sia stato soprattutto il fascismo. Questa norma non è mai stata applicata da nessun Governo e da nessun ministro dell’Istruzione; non solo, è addirittura ignorata, al punto che quando la cito vedo sempre facce sorprese attorno a me. Se le istituzioni e i partiti facessero quello che li impegna a fare la Costituzione, dovrebbero curare la memoria che è il fondamento della vita civile e quindi anche della vita politica e della partecipazione.

L’editoriale del presidente emerito Anpi, Carlo Smuraglia, è tratto da Left in edicola


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Addio alla signora della fantascienza, Ursula Le Guin e quel Nobel che è mancato

LOS ANGELES - DEC 15: Ursula Le Guin at home in Portland, Origon, California December 15 2005. (Photo by Dan Tuffs/Getty Images)

Ursula Kroeber Le Guin, una delle più grandi scrittrici dell’epoca contemporanea, è morta lunedì 22 gennaio all’età di 88 anni. Ancor prima dell’autrice geniale e rivoluzionaria, l’umanità ha perso una grande donna. Quando le fu assegnato nel 2014 il National book award, dichiarò che lo accettava anche a nome di tutti i colleghi «che erano stati esclusi così a lungo dal mondo della letteratura». A differenza infatti di tante altre scrittrici e scrittori, che nelle loro opere hanno fatto ampio uso della narrativa dell’immaginario senza per questo essere etichettati come autori di genere (si pensi a Josè Saramago), Ursula K. Le Guin esibiva con orgoglio la sua appartenenza al fantastico e alla fantascienza. Nonostante questo, chi ha letto anche uno solo dei suoi romanzi o racconti sa che le sue erano storie per tutti. Non meno di quelle dei “cosiddetti realisti”, li chiamava lei.

Nata a Berkeley, emersa artisticamente dalla corrente letteraria che sgorgò dalle proteste degli anni 60, è stata (e talora si è) definita e classificata come autrice femminista, anarchica, atea, libertaria, radicale, taoista, ambientalista, pacifista. Eppure, la sola etichetta che per lei forse contava davvero era quella di scrittrice di genere. Ciononostante, alla Le Guin narratrice di fantascienza (si pensi al ciclo dell’Ekumene, soprattutto) non interessavano la chiave scientifica o la trovata tecnologica (che pure non mancavano), così come alla Le Guin autrice fantasy (quella del ciclo di Earthsea, da cui è stato tratto il film d’animazione I racconti di Terramare, che lei non apprezzò, di Goro Miyazaki) non bastavano l’incanto dei riti magici o del soprannaturale. L’asse portante delle sue storie erano i personaggi: donne, uomini, persino ermafroditi, gettati nel mezzo di mondi ostili, durissimi, arretrati, selvaggi, in stato di indigenza o avvolti da un manto di ghiaccio; protagonisti costretti a scavarsi un sentiero per la sopravvivenza materiale o per il riscatto della propria dignità (e spesso le due cose coincidevano), esseri umani che affrontano la propria odissea facendo ricorso a risorse che non provengono da entità trascendenti, ma sono profondamente radicate nell’individuo; persone comuni, che possono contare esclusivamente sulla propria vitalità, sulla fantasia, sulla propria capacità di reagire, che li porta a conoscere il nuovo ambiente, comprenderne la storia e le dinamiche, adattarsi, entrare in rapporto con i suoi abitanti.

Erano storie di ribellioni intelligenti e sempre fruttuose, quelle di Ursula K. Le Guin. Figlia di un celebre antropologo, Alfred Kroeber, e moglie dello storico Charles Le Guin, spedì a soli undici anni il suo primo racconto di fantascienza alla blasonata rivista Astounding Science Fiction. Laureata in letteratura italiana e francese, specialista del periodo rinascimentale, poetessa, parlava anche la nostra lingua. Vincitrice, oltre a tanti altri, sia del premio Hugo che Nebula per ben due romanzi (La mano sinistra delle tenebre e I reietti dell’altro pianeta), creò mondi che hanno influenzato e ispirato molta fantascienza moderna; basti pensare al debito delle ambientazioni del celebre film Avatar verso il romanzo Il mondo della foresta (il cui bellissimo titolo originale reclama di esser citato: The word for world is forest).

Carismatica nelle sue apparizioni, si sforzava di rispondere personalmente ai suoi lettori sempre usando carta e penna. Partì dal sessantotto, questa splendida narratrice di vicende umane, ma andò ben oltre, riducendo tutte le etichette che le sono state affibbiate nel corso dei decenni ad attributi parziali, insufficienti, persino ovvii. Femminismo, anarchia, ateismo, libertà, pacifismo: tappe obbligate, conseguenze fisiologiche di un processo unico, assoluto, graduale: la realizzazione dell’identità di essere umano e di donna. Attraverso la creatività e la scrittura. Quella degli autori di genere, che definì «realisti di una realtà più ampia», espressione di una fantascienza umanista di cui lei resterà una colonna portante.

Nel 2000, con il romanzo La salvezza di Aka rappresentò in chiave fantascientifica gli effetti della rivoluzione maoista sul taoismo in Cina. Nel romanzo del 2011 Lavinia si cimentò con il genere “fanta-epico”, immaginando di approfondire il personaggio della promessa sposa di Enea sbarcato nel Lazio: la giovane protagonista sogna il suo stesso creatore, il poeta Virgilio, alimentandone la vena narrativa e reclamando più spazio per il proprio ruolo nell’Eneide. È il capovolgimento perfetto dell’antica idea del sogno come dono divino, che diventa invece espressione della capacità di immaginare umana e motivo ispiratore della creatività.

«Ciò che guadagniamo scrivendo non è il profitto, ma la libertà», disse in quello stesso storico discorso del 2014, ribellandosi agli imperativi commerciali del mondo dell’editoria.

Da qualche anno non scriveva più. Ci piace immaginare che nella sua carriera abbia pubblicato esattamente (ed esclusivamente) ciò che voleva. Il mondo del fantastico saluta Ursula con infinita tristezza; quello della letteratura dei “cosiddetti realisti” dovrà forse anche fare i conti con il rimpianto di non averle mai conferito un Premio Nobel. «Forse potrei vincere quello per la Pace», scherzò lei una volta. A noi, che amiamo la fantascienza, piace fingere che li abbia vinti entrambi. Magari in un universo parallelo.

Piove sul Bagnai

Il leader della Lega Matteo Salvini (C) con i candidati della Lega Claudio Borghi (S) e Alberto Bagnai durante una conferenza stampa, Roma, 23 gennaio 2018. ANSA / ETTORE FERRARI

Dice di avere scelto la Lega «da sinistra»: Alberto Bagnai, fervente No-Euro, del resto, di sinistra si è professato da sempre e se qualcuno gli fa notare che la candidatura nel partito di Salvini configge sostanzialmente con i valori della sinistra i suoi sostenitori corrono a spiegare che «la sinistra non l’ha voluto e allora è andato con Salvini». E pensare che Bagnai, proprio lui, il 12 agosto del 2015 rispose piccato a Marta Fana che lo accusava di essere filoleghista: «Li appoggio? – scrisse – Puoi precisare o ti prendi una querela per diffamazione? Come li appoggio?». Ora si è candidato con loro. Nello stesso giorno in cui Berlusconi baciava le mani alla Merkel e a Juncker.

Dice il Movimento 5 stelle che i giornalisti sono la “rovina del Paese”, diceva Grillo che i giornalisti andrebbero mangiati e poi vomitati e che la televisione era da evitare. Chi candida il Movimento 5 stelle? Candida il giornalista televisivo Gianluigi Paragone, ex direttore de La Padania. «Società civile», la chiamano. Evviva.

Dice Giulia Bongiorno che la difesa delle donne è la sua priorità. Il rispetto delle donne, soprattutto. Con chi si candida? Con quel Salvini che sventolava una bambola gonfiabile per offendere Laura Boldrini, con quella Lega che apostrofò come «orango» la Kyenge (che è donna e pure negra, quindi ancora meglio). In compenso Salvini dice di avere candidato la Bongiorno perché «Andreotti oggi sarebbe nella Lega».

Diceva Annalisa Chirico (pregiata firma de Il Giornale e de Il Foglio) che quella contro Berlusconi era una vergognosa persecuzione giudiziaria. “Siamo tutte puttane”, si chiamava il suo movimento. Si candida? Molto probabilmente sì. Con Forza Italia? No no, con il Pd.

Poi c’è Pierferdinando Casini. Candidato nel Pd. E non serve nemmeno un commento.

Poi c’è Fassina che si congratula con Bagnai per la candidatura nella Lega.

D’Alema intanto ironizza sulle liste di Liberi e uguali dicendo: «Qua l’unico della società civile sono io, diciamo, visto che non sono uscente…».

E via così. Con l’avvicinarsi della campagna elettorale ogni compromesso diventa una rivendicazione, come se fosse una normalissima manifestazione di istinti umani. Tutto normale. Tutto bene.

Sarà una campagna elettorale lunghissima.

Buon giovedì.