Home Blog Pagina 798

Lo stupro come arma di guerra, la Repubblica Centrafricana attende giustizia

epa02461941 Warlord Jean Pierre Bemba of the Central African Republic is seen at the opening of his trial in The Hague, Netherlands November 22, 2010. The former vice president of the Democratic Republic of Congo faces three counts of war crimes and two counts of crimes against humanity for murder, rape and pillage. EPA/Michael Kooren

In Repubblica Centrafricana è l’arma più brutale: lo stupro è strumento di guerra dei gruppi militari che agiscono con impunità. Non un’eccezione tollerata dai comandanti a capo delle truppe che devastano il Paese, ma in alcuni casi un ordine da eseguire, una tattica da mettere in pratica per i soldati nemici. Adesso c’è una possibilità pallidissima e remota che giustizia venga fatta. Anche se in ritardo.

Dei crimini sessuali e dello stupro come arma di guerra, se ne riparlerà all’anniversario della Corte penale internazionale, che festeggerà il ventennio dello Statuto di Roma l’anno prossimo. Può essere fatta giustizia, anche se quasi 20 anni dopo: la Corte sta per decidere le riparazioni alle vittime dopo che, nel marzo 2016, Jean Pierre Bemba Gombo, ex vice presidente della Repubblica democratica del Congo, è stato ritenuto colpevole delle violenze sessuali commesse in Centro Africa nel 2002 e nel 2003 dalla milizia al suo comando e condannato a 18 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Per il caso Bemba sono state raccolte le testimonianze di oltre 5mila vittime dell’epoca, ma la situazione oggi nel Paese non è migliorata.

Dopo l’uccisione di un casco blu, c’è stata l’evacuazione dei dottori di Medicins Sans Frontieres, che stanno abbandonando il territorio dopo gli ultimi attacchi registrati dieci giorni fa a Bangassou. La violenza settaria che attraversa tutta la Repubblica Centro Africana dilaga da cinque anni, da quando Francois Bozize, ex presidente, nel 2013 è stato defenestrato dai Seleka, un gruppo ribelle musulmano, contro cui pattuglie cristiane si sono formate, fucili al braccio. Ancora oggi, da quel 2013, Bangui, la capitale dello Stato, vive nel caos degli scontri tra i musulmani Seleka e gli anti-balaka cristiani. Non solo uccisioni sommarie e brutalità dilagante: nel Paese la prima strategia per alimentare il terrore è ancora lo stupro. La violenza commessa sulle donne arriva dai due lati, da musulmani e cristiani senza distinzione. È dal 2016, secondo l’International Crisis Group, che la situazione è degenerata.

Solo un mese fa le Nazioni Unite hanno deciso di dispiegare altri novecento soldati per mantenere la pace, ma non farà alcuna differenza una volta che saranno sul territorio: la Repubblica Centrafricana è vastissima, più grande della Francia, ed è uno dei Paesi più poveri del continente. Solo oggi, da quando è stato eletto, il presidente Faustin Archange Touadera, dopo un accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito di 40 milioni di dollari, ha ordinato che vengano pagati i salari che erano stati bloccati dall’inizio della guerra, a dicembre 2013.

È stata Human Right Watch a lanciare l’allarme per gli stupri, raccogliendo testimonianze di donne che sono state trattenute come schiave anche per 18 mesi. Hillary Margolis, una ricercatrice di Hrw, dice che «i gruppi armati usano lo stupro in maniera brutale e calcolata per punire e terrorizzare donne e ragazze. Ogni giorno le sopravvissute convivono con le conseguenze devastanti dello stupro, sanno che i loro assalitori camminano liberi, anzi, occupano posizioni di potere e non dovranno affrontare nessuna conseguenza per quello che hanno fatto». Gli attacchi sessuali che hanno subito sono stati multipli, accompagnati dalla tortura. Da sopravvissute non hanno accesso al supporto sanitario, quello giudiziario è addirittura un’utopia.

Dopo lo stupro, le donne vengono abbandonate dai mariti, dalla famiglia d’origine ed esiliate dalla comunità. «Vige il concetto secondo cui se tua moglie ha dormito con un’altra persona, ora appartiene a quell’uomo» dice Margolis, che aggiunge che nessun membro dei gruppi militari è mai stato arrestato per quello che ha fatto.

Lo stupro commesso dalle due fazioni in lotta, gli uni contro le donne del raggruppamento degli altri, è una vendetta percepita come dovuta e necessaria per piegare il nemico. Per l’assenza di strutture giudiziarie, le donne non riportano o denunciano questi crimini, che secondo le Nazioni Unite, solo nel 2014, sono stati più di 2500. La maggior parte delle donne rimane in un limbo di silenzio, anche le donne che hanno contratto l’Hiv o tentato il suicidio non vengono curate per assenza di strutture, mentre le poche funzionanti, di solito, si trovano lontano dalle loro case.

Quello che chiede Human Right Watch è che venga lanciato un segnale potente, urgente nella Repubblica Centrafricana, che affermi che lo «stupro è un’arma di guerra intollerabile, che chi lo commette verrà punito, che le sopravvissute riceveranno l’aiuto di cui hanno disperatamente bisogno». I soldati delle Nazioni Unite, che dovrebbero aiutare nella prevenzione di questi crimini, però sono stati già tacciati al pari di far ricorso alla violenza sessuale. I membri della missione dell’organizzazione nella Repubblica Centrafricana, sono stati accusati, proprio come lo sono stati gli uomini delle truppe francesi ed europee, di abuso su minori e adulti, con casi registrati dal 2013.

La chiamano legittima difesa. E invece è far west

Roberto Calderoli della Lega Nord in aula al Senato durante le dichiarazioni di voto sulla fiducia posta dal governo sulla legge elettorale Rosatellum, Roma, 26 ottobre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Capiamoci. Se ieri vi è capitato di leggere le dichiarazioni di Calderoli (sì, sempre lui, sempre lui) che ha dichiarato «io tra chi difende la propria casa e la propria famiglia e chi invece la aggredisce, sto sempre dalla parte del primo mai del secondo» a proposito della condanna a Walter Onichini, che a Legnaro, Padova, il 22 luglio del 2013 “si difese” (come dice la retorica leghista) da un tentativo di furto a opera di Nelson Ndreaca, venticinquenne albanese.

Capiamoci perché se è vero che Nelson Ndreaca si è introdotto nella proprietà privata i fatti ci dicono che Onichini gli ha sparato, da ferito lo ha caricato nella propria auto, lo ha trasportato a circa un chilometro di distanza sperando così di non farsi rintracciare e l’ha abbandonato sul ciglio della strada fino al mattino dopo quando per caso l’ha trovato un passante.

Uno insomma è un ladro (fallimentare, visti i risultati) mentre l’altro è un pistolero che abbandona corpi feriti cercando di nascondere le tracce, talmente spaventato da avere la freddezza di caricare il ladro sanguinante, cercare un luogo nascosto, scaricare il tutto e tornare a difendere “la propria famiglia” (sempre secondo la retorica leghista).

Ecco, tra i due io per strada forse preferirei incontrare lo scassinatore d’auto, sinceramente. Ma quello è albanese, questo è veneto e, secondo alcuni, dovrei sentirmi ragionevolmente vicino all’italico per similitudini di nascita.

«Ti rubano in casa e ti fanno pagare i danni?», dicono i sostenitori di Onichini. Che vergogna, davvero: non siamo nemmeno liberi di occultare feriti a casa nostra. Pensa te.

Buon martedì.

Ecco perché nell’era digitale ci sono bambini discriminati

epa06392888 A Thai gamer plays Garena RoV MOBA (Multi-player Online Battle Arena) game on mobile phone at the King of Gamers Electronic Sports competition event in Bangkok, Thailand, 16 December 2017. The Sport Authority of Thailand has announced that the Electronic Sports, or eSports, has been recognized as a form of international sports competition that Thai gamers can participate in with a national team. The eSports has been included as an official medal sport competition at the 2022 Asian Games in Hangzhou, China. EPA/RUNGROJ YONGRIT

Ci sarebbero meno epidemie, una minore disuguaglianza di genere e una migliore inclusione finanziaria se l’accesso all’informazione fosse riconosciuto come un vero e proprio diritto di tutti i bambini. E nell’era della digitalizzazione, la negazione di questo diritto assume un nuovo significato: l’esclusione digitale favorisce l’espansione delle carenze di opportunità e limita lo sviluppo e il miglioramento della propria condizione, peggiorando quella dei bambini più svantaggiati e alimentando il circolo vizioso della povertà intergenerazionale.
Un terzo degli utenti di internet sono bambini e, nei contesti ad alto reddito, sono sempre on line tanto che è “difficile tracciare la linea di confine tra offline e on line”, si legge nel Rapporto sulla condizione dell’infanzia nel mondo 2017, redatto da Unicef, Figli dell’era digitale. Ma molti milioni di coetanei non hanno un accesso garantito cosicché la tecnologia digitale crea ulteriori divari che rispecchiano e inaspriscono quelli già esistenti fra i bambini più svantaggiati anche offline.
Per esempio, per quelli di loro con disabilità, la connettività può fare la differenza tra l’esclusione sociale e le pari opportunità; per i bambini migranti può significare un viaggio più sicuro, la possibilità di rimanere in contatto con la propria famiglia e maggiori opportunità di trovare lavoro e ricevere un’istruzione adeguata in un Paese straniero.
Ma, essere nati dalla parte sbagliata della barriera digitale si rivela una fonte di iniquità molto suggestiva (tanto che, nel 2017, l’analisi della condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia e nel mondo si è concentrata sull’osservazione della parità di accesso al mondo digitale) per la mancanza di contenuti on line utili nella lingua madre di tanti minori e per la disponibilità di dati non accessibili a tutti, limitandone i vantaggi in una società orientata ineluttabilmente alla conoscenza.
E, sebbene «le lacune dell’istruzione non possano essere risolte con la tecnologia», è vero, però, che gli strumenti digitali e la connettività, solo se coesistenti con forze utili all’apprendimento (e rapporti umani validi), potrebbero fornire ai bambini l’accesso all’istruzione nelle aree in cui tale possibilità è molto scarsa, raggiungendo quelli precedentemente esclusi dalla tradizionale condivisione di informazioni. Anche perché, stando a quanto dichiarato dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’Infanzia, per creare una società efficace e democratica nel ventunesimo secolo, non si può prescindere dall’alfabetizzazione digitale sin dall’infanzia, introducendola nei programmi scolastici, in quanto arnese utile per realizzare ed esercitare i diritti fondamentali dei bambini. Dal cui esercizio sono escluse, per esempio, tante bambine a causa di preconcetti sociali e norme o pratiche culturali che sono di ostacolo al pieno utilizzo delle risorse on line, insieme ad altre barriere invisibili e fisiche come l’alto costo dell’accesso, le infrastrutture carenti e la geografia malagevole.
Considerevoli mancanze nella comprensione sull’impatto positivo di internet nelle dinamiche socio-economiche ne minimizzano la portata, sbilanciata pesantemente sui rischi tanto che, a oggi, in Italia, secondo quanto si legge nel Terzo Rapporto alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, uscito il 6 dicembre scorso, «l’applicazione dell’articolo 17 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza, è stato declinato essenzialmente in chiave di protezione dei minori dai contenuti potenzialmente nocivi della rete» e molto poco è stato fatto per trovare un «punto di equilibrio tra il diritto del bambino di accedere a Internet per consentirgli di esplorare, conoscere, studiare, giocare, esprimere opinioni, comunicare, e il diritto di essere protetto».
Per valutare i pericoli, certamente esistenti, non si può, però, non considerare il contesto affettivo di vita – reale – segnato dai rapporti umani con famigliari e amici e dall’ambiente scolastico. E questo è un altro capitolo.

Migranti, il Tribunale permanente dei popoli condanna l’Unione europea per le continue violazioni dei diritti umani

Il gommone usato da centinaia di migranti inizia ad affondare appena terminate le operazioni del loro salvataggio ad opera del personale di equipaggio della nave P.03 "Denaro" della guardia di finanza al largo delle coste libiche, Mar Mediterraneo 22 aprile 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«Tortura, maltrattamenti, rischi gravi di morte, anche attraverso un aumento di questi crimini con le politiche di chiusura delle frontiere». Si legge così nella sentenza del Tribunale permanente dei popoli, emessa a Palermo al termine della terza giornata della sessione sui diritti dei migranti e dei rifugiati. Fondato da Lelio Basso nel 1979 per commentare e combattere i soprusi e le violenze della fase post-coloniale e del neocolonialismo, con quarantaquattro sessioni e sentenze, il Tribunale è un organismo internazionale che si è ormai affermato tra i tribunali di opinione.

«Dai fatti esaminati e dalle testimonianze ascoltate, emerge la spoliazione progressiva dei diritti e della dignità delle persone che si manifesta lungo tutto il percorso migratorio…la responsabilità di ciascuno degli Stati europei, sia per non aver rispettato gli obblighi di soccorso, sia per essere stati direttamente complici di comportamenti di tortura, maltrattamenti, rischi gravi di morte, anche attraverso un aumento di questi crimini con le politiche di chiusura delle frontiere. Si deve dunque riconoscere ed affermare, una duplice responsabilità: dell’Unione europea e di ciascuno degli Stati».

La violazione dei diritti delle persone migranti e rifugiate e la loro impunità” è il titolo della sessione svolta: la data di apertura  – il 18 dicembre – non è stata casuale. Si è deciso di iniziare precisamente ventisette anni dopo la data dell’approvazione da parte delle Nazioni unite della “Convenzione per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie”, avvenuta il 18 dicembre del 1990.

«Es tiempo de hablar!»: aveva dichiarato Carlos Beristain, componente del Tribunale, durante l’ultima sessione a Barcellona, riferendosi alle migliaia di morti del Mediterraneo. Si parlerà di questo a Palermo: sono circa tremila le persone morte nel 2017 (3.771 nel 2015 e 5.022 nel 2016), nella speranza di arrivare in Europa attraversando il mare. Circa dieci al giorno secondo i dati riportati dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni. Quattrocento bambini, ha sottolineato l’Unicef nei giorni scorsi. Negli ultimi quindici anni sono stati 30mila le vittime, il 60 per cento delle quali rimasti senza identità.

La sessione è durata tre giorni: nella prima data è stata introdotta la questione; si è discusso di violazione dei diritti fondamentali del rifugiato, dell’involuzione storica del ruolo del Mar Mediterraneo in Occidente da crocevia tra società diverse a frontiera, quindi è stato mosso l’Atto di accusa generale. Nella seconda giornata è stato dato spazio alle testimonianze; si è parlato del ruolo dei mass media, quindi la requisitoria finale.

La giuria internazionale del Tribunale è stata composta da sette membri: Franco Ippolito, magistrato e Presidente del Ttp; Philippe Texier, magistrato francese e vicepresidente del Tpp; Carlos Beristain, medico e psicologo spagnolo; Donatella Di Cesare, filosofa e docente all’Università la Sapienza di Roma e alla Normale di Pisa; Luciana Castellina, giornalista e politica; Francesco Martone, esperto in relazioni internazionali; Luis Moita, professore di teoria delle relazioni internazionali all’Università autonoma di Lisbona.

Yemen, nella guerra dimenticata bombe al matrimonio: muoiono 10 donne

Nella crisi più sanguinosa del mondo. In un Paese al collasso totale. Strage ad un matrimonio, strage in un giorno di festa, strage delle donne. Ne muoiono dieci in un colpo solo, dopo la gioia delle celebrazioni, nella guerra dimenticata dello Yemen. Forse anche la sposa è morta e si è ancora sulle sue tracce per riuscire a trovarla.

Otto donne e due bambine tornavano a casa nei loro veicoli. Nei mirini dei missili degli aerei della coalizione erano finite mentre procedevano nella provincia di Maarib, Yemen rurale, a centosettanta chilometri dalla capitale, Sanaa, nel distretto di Qaramish, ad est, dove la corte delle invitate della giovane ragazza tornava a casa insieme dopo il rito.

Le donne erano tutte della famiglia Haysan, avevano dai 30 ai 50 anni le adulte, minori le bambine, ma non si conosce ancora la loro età. Mohammad al Sheab, a capo dell’ufficio della sanità di Maarib, non è ancora capace di fornire tutte le informazioni necessarie. Nello stesso weekend tre raid hanno compiuto massacri sanguinosi a Taiz, Saada e Hodeidah e settanta persone sono morte.

Matrimoni ed alberghi, scuole ed edifici: tutto diventa un bersaglio per i caccia veloci della coalizione guidata da Riad, che sta causando, secondo Human Right Watch, un’ennesima fase della catastrofe bellica, bloccando gli aiuti per i due milioni di bambini malnutriti e per 16 milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile.

Dal marzo 2015 la guerra dell’Arabia Saudita contro i ribelli Houthi, ha ucciso migliaia di persone, senza fare rumore sui magazine internazionali dell’Occidente. Nonostante i bombardamenti continui che vanno avanti da oltre due anni, i ribelli continuano a controllare la capitale dello Stato e il nord del Paese. Da gennaio 2017, secondo le stime Onu, nel Paese più povero tra tutti i Paesi arabi, i feriti sono 40mila e le vittime diecimila, di cui la maggior parte civili.

A nulla è valso l’ultimo appello che è partito dalle Nazioni Unite: oltre otto milioni di persone “sono ad un passo dalla fame”, mentre la popolazione è ancora alle prese con un’epidemia di colera che nessuno riesce a fermare. Sono oltre duemila le persone morte per la malattia. Secondo l’ufficio che coordina gli affari umanitari alle Nazioni Unite sono necessari 2.3 miliardi di dollari di aiuti, ma al momento solo il 61 per cento di questi soldi è disponibile. C’è invece sempre la stessa cifra che l’Onu usa per parlare di Yemen: è la crisi numero uno al mondo in questo momento, ma questo primato non basta a fermarla.

Revolutija, quando l’arte incontrò la rivoluzione politica

Nasce con l’intenzione di far conoscere autori come Petrov-Vodkin o Kustodiev (aduggiati dai grandi protagonisti dell’avanguardia russa) la mostra Revolutija Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky, che porta in Italia opere del museo di Stato di San Pietroburgo. Dal 12 dicembre al 13 maggio al MAMbo di Bologna sono esposte una settantina di opere prestate dallo storico museo russo. L’obiettivo dei due curatori – il vice direttore Evgenia Petrova e Joseph Kiblitsky – oltre a mettere in luce autori meno noti è raccontare le vivaci dinamiche di gruppo che animavano la ricerca, nei primi decenni del Novecento percorsi da una molteplicità di correnti in competizione per conquistare la ribalta e far diventare egemone la propria visione: fra loro cubo-futuristi, primitivisti, costruttivisti, suprematisti, fautori di un realismo magico alla Chagall oppure astrattisti che inseguivano l’utopia dell’arte totale come Kandinskij che, tuttavia, conservava solide radici nella tradizione folclorica russa. Nella effervescente dialettica di quegli anni, nei giorni della rivoluzione e poi ancora negli anni Venti e Trenta, sono moltissime le artiste con un ruolo di primo piano anche nella elaborazione teorica di una nuova estetica, improntata all’«uomo nuovo».

La mostra bolognese lo ricorda anche proponendo alcune celebri opere di Natalia Goncharova, tra le fondatrici del movimento raggista, come il celebre Ciclista 1913, che risente dell’influenza del futurismo italiano. La mostra Revolutija ha anche l’obiettivo di puntare i riflettori sugli antefatti della rivoluzione, raccontando la vicenda di artisti come Ilja Repin che, insieme a poeti, artisti e intellettuali, aveva preso parte alla rivoluzione democratico-borghese, socialisteggiante, del 1905 (brutalmente repressa dallo zar), come racconta l’opera intitolata 17 ottobre 1905, terminata nel 1911. Al Mambo sarà esposta insieme a Che libertà! del 1903, un dipinto in cui un uomo e una donna corrono a perdifiato lungo il mare. Gli abiti militari di lui e quelli eleganti di lei non impediscono ai due di tuffarsi nella gioia di una conquistata nuova libertà.

Per quanto il registro espressivo sia ancora realistico, nell’uso libero del colore si possono cogliere lontane assonanze con l’uso originalissimo che ne fece Kandinskij andando alla ricerca di timbri emotivi interiori. Accanto a sue “improvvisazioni” pittoriche, in mostra ci saranno fotografie e collage di Rodčenko e poi un video che ricrea progetto di Tatlin per il monumento della III Internazionale: una torre più grande della Eiffel e dell’Empire state building e con un «asse dinamico asimmetrico», come un cilindro in grado di ruotare intorno al proprio asse.

Molto ampia sarà anche la parte della mostra dedicata a Malevich. Ricostruendo il percorso che dall’avanguardia più ardita lo portò a tornare a raffigurare casette, quando ormai erano tempi di regime. Nei due anni precedenti alla rivoluzione del 1917 aveva abbandonato il realismo per un astrattismo che inneggiava alla pura sensibilità. Il quadrato, la croce e il cerchio (opere che saranno presenti al MAMBo) diventarono le sue nuove icone E «nella mostra 010 del dicembre 1915 – ricordano i curatori – il quadrato fu da lui esposto in un angolo della sala in alto, come si usava per le icone sacre nelle case della vecchia Russia».

Per continuare il percorso

Il problema non è il re. Sono i sudditi

Torna il Re. Evviva il Re.

Se servisse qualcosa di più per imbarbarire questo tempo di pericolose nostalgie ecco che il corpo freddo di Vittorio Emanuele III sbarca in Italia con tanto di volo di Stato, laborioso lavoro quirinalizio e quel solito silenzio fitto fitto come e si trattasse di chissà quale fondamentale attività diplomatica per il bene del Paese.

Ottant’anni dopo quindi rientra in Italia colui che controfirmò le leggi razziali e spalancò le porte al periodo più nero della nostra storia, come se fosse un monumento da esporre con malcelata soddisfazione.

Ha ragione il Presidente dell’Anpi Smuraglia a dire che “portare la salma in Italia con solennità e volo di Stato è qualcosa che urta le coscienze di chi custodisce una memoria storica. Urta con la storia di questo dopoguerra” e hanno ragione tutti coloro che ne ricordano le vigliacche gesta in vita.

Sarebbe curioso poi sapere (e capire) se la Corte dei Conti davvero non abbia nulla da eccepire sull’utilizzo di un velivolo dell’Aeronautica Militare e sarebbe curioso sapere se sia questo il modo migliore per festeggiare i 70 anni della nascita della Costituzione (o gli ottanta anni giusti giusti delle leggi razziali).

Ma il danno vero è l’aver dato ancora una volta voce ai suoi sudditi, quelli che sopravvivono e proliferano in questa Italia così terribilmente smemorata e che sono sempre troppo svegli per rincorrere qualsiasi fascinazione utile per rialzare la testa.

Perché il problema sono i sudditi. Mica il re.

Buon lunedì.

La ricerca dell’invisibile

Cosa hanno in comune scienziati e artisti ? A questa domanda prova a dare una risposta il nuovo documentario di Valerio Jalongo Il senso della bellezza, proiettato in queste settimane nelle sale italiane, riscuotendo un grande e inaspettato seguito. Il documentario racconta un momento speciale del Cern: dopo la scoperta del bosone di Higgs, ora la sfida è quella di ricreare il momento subito prima del Big Bang, da cui tutta la materia, come noi la conosciamo ha avuto origine.

Non si tratta però di un documentario didascalico, i racconti dei fisici che si susseguono in questo racconto, non approfondiscono aspetti tecnici della loro materia, ma al contrario fanno emergere la passione che li spinge quotidianamente a portare avanti la loro ricerca. Valerio Jalongo si interroga su una delle esigenze umane più profonde, il desiderio di conoscenza. «La natura ama nascondersi» con questa frase di Eraclito inizia la sua indagine sul modo in cui l’uomo tenta di conoscere ciò che va al di là della percezione dei cinque sensi. La macchina protagonista di quest’esperimento, la più grande mai costruita dall’uomo, l’Lhc – Large Hadron Collider – non è una macchina comune, non svolge una funzione dedita all’utile.

È piuttosto, come la definisce il regista, «una macchina poetica» perché non ha un fine pratico, ma al contrario tenta di dare risposte a domande che svelano i misteri dell’uomo e della natura. Se in 2001 Odissea nello spazio…

L’articolo di Martina Brandizzi e Ilaria Rocchi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Agnes Heller: Un paradosso chiamato Europa

Die ungarische Philosophin Agnes Heller sitzt am Freitag (04.05.12) auf einer Pressekonferenz im Rathaus in Oldenburg. Am Freitagabend soll Heller im Schloss in Oldenburg der Carl-von-Ossietzky-Preis der Stadt Oldenburg verliehen werden. Der Preis fuer Zeitgeschichte und Politik wird von der Stadt alle zwei Jahre fuer Arbeiten, Gesamtwerke oder an Personen vergeben, die sich in herausragender Weise mit dem Leben und Werk Ossietzkys, dem Widerstand gegen den Nationalsozialismus und der demokratischen Tradition und Gegenwart befassen oder die sich im Geiste Ossietzkys mit Themen der Politik und Zeitgeschichte auseinandersetzen. Der Preis ist mit 10.000 Euro dotiert. (zu dapd-Text) Foto: Markus Hibbeler/dapd

«L’Europa del fanatismo nazionalista e l’Europa dell’universalismo umanista sono la medesima Europa. L’Europa è l’incarnazione di un paradosso». Le molteplici contraddizioni alla base della formazione dell’Unione europea, unitamente ai possibili percorsi per giungere a un suo compiuto sviluppo, rappresentano il filo conduttore del recente saggio Paradosso Europa (Castelvecchi) della filosofa ungherese Ágnes Heller. Classe 1929, fra le più significative voci della filosofia del Novecento, allieva e assistente di György Lukács, massimo esponente della Scuola di Budapest, la Heller ha attraversato tutta intera la temperie filosofica e politica del secolo scorso, vivendo in prima persona l’orrore del nazismo, riuscendo a reagire con lucidità speculativa e coinvolgimento intellettuale. Fra ristampe e suoi nuovi libri di recente uscita vanno ricordati almeno Breve storia della mia filosofia (2016) e La memoria autobiografica, Teoria dei sentimenti, Solo se sono libera e La dignità dell’opera d’arte (2017), pubblicati in Italia da Castelvecchi.

Professoressa Heller perché l’identità europea le appare paradossale?

Il paradosso riguarda principalmente la storia europea. Gli europei hanno inventato il concetto di umanesimo e di diritti umani come li conosciamo oggi ma la stessa Europa ha prodotto anche regimi totalitari come il nazismo e il bolscevismo. Questo è il paradosso: da una parte, gli europei hanno sviluppato l’idea che tutti gli esseri umani sono ugualmente nati liberi mentre, dall’altra, la medesima Europa ha generato una serie di dittature.
L’Europa rischia di diventare una fortezza che respinge i migranti, cosa ne pensa?
L’attrito con l’altro dipende in prima battuta dalle scelte dei cittadini dei diversi Stati europei. Se guardiamo la questione dal punto di vista dei diritti umani bisogna dire che siamo tutti ugualmente nati esseri umani e quindi, in quanto parte di questa umanità, bisognerebbe permettere l’accesso agli immigrati. Ma allo stesso tempo, i cittadini hanno anche il diritto di decidere con chi vogliono convivere. Queste due serie di ragioni non si possono cancellare.

Quali problemi ha generato la mancanza di una Costituzione europea?

Credo che i francesi…

L’intervista di Orlando Trinchi alla filosofa Agnes Heller prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Un premio per scoprire come è nata la scrittura

Il disco di Festo esposto al Museo Archeologico di Heraklion a Creta, in Grecia. Lato B.

Si chiama Silvia Ferrara. Ha 41 anni. Insegna Civiltà Egee presso la Sapienza Università di Roma. Di lei hanno parlato giornali, radio e televisioni e il suo nome corre per canali social della rete perché è l’unica donna umanista, su 33 italiani, che ha vinto un “consolidator grant” 2017: un finanziamento che il Consiglio europeo della ricerca (Erc) assegna a ricercatori, appunto, consolidati, che abbiano alle spalle da 7 a 12 anni di lavoro. Ora ha a disposizione 1,5 milioni di euro per portare a termine il suo progetto: non solo cercare di decifrare le scritture, appunto, non ancora decifrate nate nel bacino del Mediterraneo, nella regione dell’Egeo per la precisione, ma anche in altre parti del mondo, per esempio sull’isola di Pasqua, con l’obiettivo strategico di risalire all’origine di quello straordinario salto nell’evoluzione della cultura dell’uomo che è la scrittura. Non è impresa da poco.

Silvia Ferrara e l’équipe di studio che si accinge a formare – sarà scelta, assicura la docente romana, sulla base di un unico criterio: il merito – si dedicheranno in particolare allo studio delle tre lingue scritte e non ancora decifrate nate intorno al “mare nostrum”. La prima e, probabilmente, la più nota è la “Lineare A”, scoperta a Creta da un archeologo britannico, Arthur Evans, nel corso di una campagna di scavi condotta nell’anno 1900. La scrittura battezzata “Lineare A” fu scoperta sempre a Creta insieme a un’altra scrittura…

L’articolo di Pietro Greco prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA