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Kelvin, campione di boxe che la Gran Bretagna vuole cacciare

Due pugni, un uomo nero e nessun Paese. Nessuna pace. Sul suo ring nessuna bandiera. Quando era bambino è stato spedito dalla Nigeria al Regno Unito, dove è stato forzato alla schiavitù domestica. Le uniche cose che l’hanno salvato dalla tristezza e dal dolore del suo destino sono stati i suoi due pugni. Kelvin Fawaz oggi è un atleta apolide, un campione di boxe, un peso medio che ha già rappresentato la Gran Bretagna sei volte sul ring e adesso è stato arrestato. Si stava allenando nella sua palestra, prima che i poliziotti in divisa facessero irruzione pochi giorni fa e lo portassero al Tinsley House, un centro di detenzione per migranti a Londra, pronto ad essere deportato.

Kelvin è arrivato dalla Nigeria quando era ancora bambino, ma indietro non può tornare: della patria che gli ha dato i natali non è cittadino. Eppure il processo per rispedirlo indietro è già cominciato. Quello che non gli è stato neppure offerto nel centro di detenzione è stato il diritto di chiamare il suo avvocato, Aisha Noor.

Quando aveva otto anni, sua madre, una migrante del Benin, è morta in Nigeria. Uno zio gli ha detto che lo avrebbe mandato dal padre, a Londra, un padre che Kelvin però non incontrerà mai. Nella capitale a 14 anni è stato forzato a cucinare e pulire, chiuso in una casa dove veniva affamato e picchiato da uomini di cui non conosceva l’identità. Senza famiglia né amici, disperato, scappò. Fu arrestato per guida senza patente e possesso di cannabis nel 2007 e per questi piccoli crimini oggi, dieci anni dopo, gli è stato negato il permesso di lavoro. Nel 2012 si è sposato con un’atleta, ma il matrimonio è stato dichiarato nullo: Kelvin si è sposato quando il suo status di migrante regolare non era valido.

Il Team britannico delle Olimpiadi adesso ha scritto all’Home Office, l’ufficio migrazione, a suo nome, per bloccare questa assurda causa di detenzione e rimpatrio. Kelvin non potrà partecipare alle Olimpiadi, come gli era stato proposto dalla federazione britannica del pugilato, perché lo stesso ufficio gli nega l’emissione di un visto di lavoro e non considera la sua richiesta di lavoro. La pratica è stata rifiutata e mandata indietro dal Governo. Kelvin oggi ha 29 anni, ma è da quando ha compiuto la maggiore età che tenta di vivere da cittadino onesto del Paese in cui è cresciuto: la Gran Bretagna. Ha scritto a tutti i governi dei Paesi che potevano favorire l’emissione del visto di lavoro: alle commissioni nigeriane, a quelle del Benin e del Libano, Paesi natali dei suoi genitori. Ma nulla è valso a qualcosa o servito a procedere: la prima richiesta è stata rifiutata nel 2006, la seconda nel 2010.

«È un pugile dal tremendo e infinito talento, lo sparring partner di molti combattenti» ha detto il suo promotore, l’ex campione del mondo Barry MaGuigan. «Ha la capacità di andare lontano, ha già portato gloria al Regno Unito molte volte, ne porterebbe ancora di più se le autorità gli consentissero di diventare un atleta combattente della squadra britannica». È tutto il mondo della boxe che ora si schiera fuori dal ring per lui, facendo appello alle autorità, compresa l’associazione della boxe inglese. Frank Warren, uno dei più grandi nomi del pugilato dell’isola, ha scritto all’ufficio migrazione per salvare “il talento eccezionale” del ragazzo, offrendosi di garantirgli un salario di 230mila sterline per tre anni, nel caso in cui per Kelvin fosse emesso un visto di lavoro.

Kelvin è un campione e lo sanno tutti. Tutti quelli che contano. «Questo è un ragazzo che dovrebbe guadagnare milioni di dollari, invece ha pulito la mia palestra per mangiare e per avere un tetto. Non ha fatto nemmeno richiesta di cittadinanza, vuole solo un permesso di lavoro. Potrebbe essere il campione del mondo, invece è in una cella, mentre la sua vita scompare» ha detto Aamir Ali, il proprietario della Stonebridge Boing Club, a nord di Londra.

Dal quadrato del ring a quello di una cella. Tutto quello che ha detto Kelvin è stato questo: «Se mi daranno un passaporto nigeriano, andrò in Nigeria. Ma la Nigeria dice che non c’è prova che io sia nato lì. L’Home Office ha sabotato la mia vita ancora ed ancora. Ogni opportunità che ho creato per me stesso, che mi ha permesso di contribuire al benessere di questo Paese, a pagare le tasse. Sono autorizzato a fare boxe per la Gran Bretagna, ma non a rimanere in questo Paese. Immaginatevi come ci si sente a rappresentare un Paese che ti volta le spalle e ti mette in quella che sembra una prigione».

La Catalogna si gioca tutto al voto

(C from L-R) Catalan National Assembly (ANC) president Agusti Alcoberro, Barcelona mayor Ada Colau, Barcelona city councillor Gerardo Pisarello and Catalunya Si party leader Alfred Bosch stand behind a sign reading "Democracy" and a banner reading "Freedom to political prisoners" during a protest outside the Generalitat Palace in Barcelona on November 2, 2017 as members of the deposed Catalan government were being questioned in Madrid. Spanish prosecutors have asked that eight former members of Catalonia's deposed separatist government be jailed pending further investigation, the National Court where they are being heard said. / AFP PHOTO / LLUIS GENE (Photo credit should read LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

Della Catalogna si è parlato parecchio negli ultimi tempi. Dal referendum unilaterale di autodeterminazione del primo ottobre ne è passata di acqua sotto i ponti. Manifestazioni, dichiarazioni altisonanti, proclami, decisioni surrealiste, applicazione con rigore della legge e un largo eccetera. Ma cosa è successo dopo il 27 ottobre, giorno chiave in cui il Parlamento catalano ha votato la dichiarazione unilaterale d’indipendenza e il governo spagnolo ha commissariato la regione in seguito all’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione? Tutto e niente, in realtà.

Si è entrati in una strana fase, una specie di drôle de guerre politica, in attesa delle elezioni regionali del prossimo 21 dicembre. La grande tensione dei mesi scorsi è in buona misura scomparsa, ma tutto potrebbe riprendere dipendendo dai risultati di elezioni fuori dall’ordinario perché convocate dal premier spagnolo Mariano Rajoy in seguito all’applicazione dell’articolo 155 e perché alcuni dei candidati indipendentisti sono fuggiti all’estero o sono stati incarcerati preventivamente in attesa di un processo.

Anche per questo la campagna elettorale è molto accesa, più del normale. Per quanto sempre da prendere con le pinze, i sondaggi mostrano un panorama estremamente incerto con due blocchi contrapposti che si giocano la vittoria per un pugno di voti. Da una parte, i partiti indipendentisti che si presentano separatamente senza un programma comune: il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), il centro-destra di Junts per Catalunya (JxCat) – ossia, la lista dell’ex presidente Carles Puigdemont appoggiata dal Partit Demòcrata Europeu Català – e gli anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (Cup). Dall’altra i partiti denominati costituzionalisti: il centro-destra di Ciudadanos, la destra del Partido Popular (Pp) e il centro-sinistra del Partit del Socialistes de Catalunya (Psc). C’è chi guadagna voti e chi ne perde, ma la volatilità sembra che non contempli la possibilità che un indipendentista cambi idea e voti un partito costituzionalista e viceversa. Nel mezzo, cercando di rompere la gabbia della polarizzazione nazionale e di riportare il dibattito sulle questioni sociali, c’è la sinistra alternativa dei Comuns, ossia Catalunya en Comú-Podem, la confluenza creata sotto l’impulso della sindaca di Barcellona Ada Colau e appoggiata da Pablo Iglesias. I sondaggi non gli sono affatto favorevoli – non supererebbero il 9-10 per cento dei voti -, ma potrebbero essere l’ago della bilancia per formare un governo.

La partecipazione sarà molto alta – attorno all’80 per cento – perché tutti sono convinti che ci si gioca molto il 21 dicembre. E questo è indubbio. Si avrà il Parlamento più frammentato della storia della Catalogna democratica con il rischio di una ripetizione elettorale dietro l’angolo. Come nella Spagna dell’inizio del 2016. È questo uno dei possibili scenari, ma non l’unico. Non è detto infatti che i partiti indipendentisti non riescano ad ottenere la maggioranza dei seggi, anche grazie a una legge elettorale che li favorisce per la sovrarappresentazione del voto rurale: ci si troverebbe così nella stessa situazione dell’ultimo biennio. Un dejà vu, insomma. Che segnerebbe una dura sconfitta per Rajoy che vedrebbe convertita in assolutamente pirrica la sua “vittoria” del 27 ottobre con il commissariamento della regione.

Uno dei grandi interrogativi è però che cosa farebbero gli indipendentisti il day after. Dopo un bagno di umiltà e una serie di autocritiche non troppo sincere, Puigdemont e compagni hanno riaccelerato, almeno a parole, per mantenere mobilitate le proprie basi, contraddicendosi continuamente: un giorno parlano di rendere realtà la supposta Repubblica catalana – che non è mai stata proclamata -, mentre il giorno dopo dicono che abbandonano la via unilaterale e che lavoreranno sul lungo periodo per ottenere l’indipendenza della regione. L’unica costante dei loro discorsi, privi di qualunque programma di governo, è fare leva sul vittimismo, cercando di far passare l’idea che la Spagna è un paese demofobico e che l’Europa deve intervenire, facendo sbalordire con dichiarazioni euroscettiche che hanno il sapore della Brexit anche chi a livello internazionale simpatizza con la causa catalana. C’è grande confusione sotto il cielo, come diceva Mao Zedong.

Il fatto è che gli indipendentisti, che si scannano tra loro in una continua lotta per l’egemonia nello spazio nazionalista, non hanno idea di cosa fare né di come farlo: l’accelerazione suicida dell’ottobre ha dimostrato che nulla era pronto per separarsi dalla Spagna, che non esiste una maggioranza sociale a favore dell’indipendenza, che nessun Paese è disposto a riconoscere il nuovo Stato e che le imprese non ne vogliono sapere – sono circa 3mila quelle che hanno abbandonato la regione negli ultimi due mesi. Ma come spiegarlo ai circa due milioni di catalani che avevano creduto che la Catalogna si sarebbe convertita da un giorno all’altro in un Stato indipendente simile al Paese di Bengodi? Nessuno ha il coraggio di prendersi questa responsabilità e preferisce puntare tutto sull’utopia dell’indipendenza. E poi chi sarebbe il presidente? Puigdemont è latitante in Belgio e, per quanto la magistratura spagnola abbia revocato la richiesta di estradizione, se rimetterà piede in Spagna verrà immediatamente arrestato, mentre Oriol Junqueras, il leader di Erc, è in carcere. Si passerebbe ai numeri due o tre delle rispettive liste – personaggi di seconda o terza fila per intendersi – con un’ancora maggiore difficoltà per raggiungere un consenso. Ma tutto può succedere, come si è visto negli ultimi anni. Siamo davvero nell’epoca della post-politica, accompagnata da un uso indiscrimato di fake news e dalla sostituzione della razionalità con le emozioni.

Per quanto molto più difficili, non sono nemmeno da scartare altre due opzioni. In primo luogo, una vittoria dei partiti costituzionalisti che segnerebbe la fine di quello che è stato chiamato procés sobiranista e il ritorno alla legalità costituzionale. Il problema è capire chi guiderebbe il nuovo esecutivo: la giovane leader di Ciudadanos Inés Arrimadas o il navigato dirigente socialista Miquel Iceta? In secondo luogo, anche se il gioco dei veti incrociati renderebbe questa possibilità piuttosto improbabile, esiste anche l’opzione di un governo di centro-sinistra formato da Erc, i socialisti e i Comuns. Sarebbe una riedizione, in un contesto completamente diverso e con una differente correlazione di forze, del Tripartito che ha governato la Generalitat catalana dieci anni fa. Ma ci vorrebbe, oltre a una maggioranza che permetta di formare un esecutivo di questo tipo, anche un giro di 180 gradi da parte di Esquerra Republicana che dovrebbe accontentarsi di aspettare tempi migliori per il programma massimo dell’indipendenza. Sembra piuttosto difficile ora come ora.

Succeda quel che succeda il 21 dicembre, quel che è certo è che si è conclusa una fase della recente politica catalana. Si può fare un primo bilancio di quel che è successo negli ultimi mesi, le cui conseguenze segneranno il futuro della Catalogna e di tutta la Spagna.

In primo luogo, è indubbio che si è creata una frattura nella società catalana che mai era esistita. In molte famiglie e gruppi di amici non si parla di politica per evitare discussioni o litigi, sulle reti sociali gli insulti fioccano per chi pone in dubbio le verità rivelate degli uni o degli altri, le case sono piene di bandiere, non solo quelle indipendentiste, ma anche quelle spagnole. È una società spaccata in due e il rischio è che per ricostruire i ponti ci voglia una generazione.
In secondo luogo, per la prima volta il nazionalismo spagnolo ha fatto la sua comparsa nelle strade di Barcellona: non si tratta più delle concentrazioni di qualche decina di neofascisti, ma di migliaia e migliaia di persone – soprattutto i molti immigrati dal resto della Spagna degli anni 1950-70, e i loro figli e nipoti – che non avevano mai dovuto scegliere tra l’essere catalani o l’essere spagnoli. Non erano nazionalisti spagnoli, non lo sono nemmeno ora in gran parte, ma di fronte all’accelerazione indipendentista si sono mobilitati per paura e stanchezza.
In terzo luogo, si è ampliata ancora di più la divisione tra due Catalogne: quella rurale dell’interno, maggioritariamente indipendentista, e quella della costa, soprattutto Barcellona e la sua area metropolitana, maggioritariamente anti-indipendentista.
In quarto luogo, invece che passare “dalla post-autonomia alla pre-indipendenza”, come aveva dichiarato Puigdemont nel suo primo discorso da presidente, si è tornati alla pre-autonomia: le rivendicazioni dell’indipendentismo post-27 ottobre sembrano quelle del 1977, quando la Catalogna non era ancora una regione autonoma: Llibertat, Amnistia, Estatut d’Autonomía. Altro che nuovo Stato indipendente. Un passo indietro di quarant’anni.
In quinto luogo, le ricadute sulla politica e la società spagnola possono essere notevoli sia per la stabilità del governo in minoranza di Rajoy, sia per l’aumento di consensi di Ciudadanos – che si sta convertendo in un’opposizione di destra al Pp almeno sulla questione nazionale – sia per la rinascita di un nazionalismo spagnolo in tutto il Paese. In sesto luogo, anche se non vincerà le elezioni, l’indipendentismo sarà un attore politico importante nei prossimi anni. Come si potranno recuperare per un progetto comune circa 2 milioni di catalani che non ne vogliono più sapere nulla della Spagna? I tribunali non sono la risposta: ci vogliono la politica e il dialogo, che sono mancati completamente nell’ultimo lustro.

Come dichiarava recentemente Pablo Iglesias, l’indipendentismo «ha contribuito a risvegliare il fantasma del fascismo» in Spagna. I nazionalismi sono delle brutte bestie che una volta risvegliate è difficile addomesticare. E, in vista del 21 dicembre, quel che viene da chiedersi è: tutti, indipendentisti e non, ripeteranno gli stessi errori? Non ci resta che citare Gramsci, ispirato da Romain Rolland, con il suo ottimismo della volontà e pessimismo dell’intelligenza.

Il reportage di Steven Forti è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Legge di bilancio, Filippi (Fp Cgil medici): I tagli alla Sanità mortificano il servizio pubblico. Manca una cultura della prevenzione

Un momento della protesta davanti Montecitorio degli studenti di medicina, neolaureati e specializzandi. Roma 03 giugno 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

È in discussione alla Camera la legge di bilancio 2018: per quanto riguarda la sanità vengono ribaditi i tagli fatti nel 2017. Si apre alla revisione del superticket, i dieci euro di spesa su ogni ricetta per le prestazioni di diagnostica e specialistica. Non all’abolizione, però: ogni Regione potrà decidere come applicarlo. Non un euro in più, quindi, verrà investito dallo Stato sulla sanità. E poco importa se negli ultimi dieci anni sono stati persi 65mila posti letto, mancano all’appello 15mila medici e 35mila lavoratori precari sono stati “espulsi” dal sistema sanitario al termine del contratto.

Per fare il punto, abbiamo rivolto alcune domande e chiesto un commento ad Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici e dirigenti Ssn.

«Nelle legge – dice Filippi – si interviene solo su alcuni settori dando un sostegno finanziario diretto alle famiglie, ma trascurando i servizi. La politica dei bonus contenuta in questa legge, origina da uno spirito propagandistico in clima pre-elettorale, per conquistare il consenso dei cittadini, ma i servizi – ed in particolare quelli pubblici – subiscono l’ennesimo taglio finanziario. Per la sanità in particolare non vengono previsti finanziamenti aggiuntivi. Il fondo sanitario nazionale rimane fermo a quanto determinato negli scorsi anni, circa 113 miliardi, a fronte di una economia che mostra segni di ripresa. Questo determina una pericolosa diminuzione della spesa sanitaria in rapporto al prodotto interno lordo, rapporto che nei prossimi anni scenderà al di sotto del limite di 6,5 punti percentuali, indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, come valore al di sotto del quale il Servizio Sanitario non può essere più in grado di sostenere i livelli essenziali di assistenza».

In sostanza, con la ripresa economica, la legge di bilancio è piena di mance elettorali, ma mortifica i servizi pubblici.

Già. Mentre sarebbe necessaria – prosegue – una rivoluzione culturale per far comprendere alla cittadinanza che le mance non ristorano la loro economia se poi devono pagarsi le prestazioni. Nella legge non rintracciamo nessun serio intervento di ristrutturazione, riorganizzazione o efficientamento dei servizi pubblici. C’è poi il grande tema del rinnovo dei contratti del pubblico impiego fermo da 8 anni, e sul quale si è consumata una campagna denigratoria e mistificatoria nei confronti dei lavoratori e che in sanità si trasforma in una indecente contrapposizione tra finanziamento dei servizi da una parte e dei contratti dall’altra. Il cuore, la mente ed il braccio dei servizi sanitari sono i lavoratori e senza una riqualificazione economica e professionale degli operatori non possiamo immaginare un rilancio del nostro Ssn, che comunque ad oggi rimane ancora uno dei migliori al mondo solo grazie alle altissime professionalità del comparto e della dirigenza, nonostante i continui tagli finanziari e strutturali che anche questa legge di bilancio impone.

Si apre però, almeno in alcune regioni, alla revisione del superticket…

Ecco il punto, si fanno i bonus e poi si fa pagare il superticket. Non era meglio investire per eliminarli? Non avrebbe prodotto maggiori risparmi nell’economia familiare? Anche a beneficio di un sistema più equo? Il primo passo della legge di bilancio doveva essere finanziare le regioni per eliminarlo del tutto, al contrario anche un intervento mirato a ridurre il superticket secondo prestazione o secondo fasce di reddito non risolve il problema dell’accesso alle cure, delle disuguaglianze sul territorio nazionale, né quello della concorrenza con il privato.
I superticket sono una supertassa ingiusta ed iniqua, perché crea disuguaglianze tra le diverse regioni che senza un intervento del governo non possono ormai metterci mano. Anzi, devo riconoscere che tra queste alcune hanno correttamente applicato il superticket secondo principi di redistribuzione del reddito, Veneto, Emilia Romagna, Umbria e Toscana. Bisognerebbe intervenire in quelle situazioni in cui al contrario viene applicato come balzello su tutta la popolazione. Si consideri che ormai sono 11 milioni i cittadini che non si curano a causa del superticket, con riflessi disastrosi in termini di prevenzione e di salute pubblica, determinando inevitabilmente un aumento della spesa sanitaria. Rimane comunque il problema della concorrenza con il privato convenzionato e non, per cui questo balzello in realtà favorisce inevitabilmente la sanità privata a scapito di quella pubblica.

In quale settore della sanità sono necessari finanziamenti?

Sulla promozione della salute e sulla prevenzione. É necessario ripartire dal finanziamento dei servizi territoriali, è indispensabile recuperare la centralità dei comuni e dei distretti per la programmazione di una politica sanitaria mirata alla cittadinanza per la promozione della salute, solo un investimento di questo tipo oggi potrebbe, nella programmazione, favorire la riduzione della spesa sanitaria. Al contrario, i continui tagli al fondo sanitario nazionale, creano quel circolo vizioso per cui la mancanza di politiche sanitarie fa ammalare le persone con conseguente aumento della spesa Ospedaliera, farmacologica e riabilitativa. Vere cause dell’insostenibilità del servizio sanitario.

Schifoso è il brigare tra amici per banche piene di amici

Il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi durante la trasmissione televisiva di La7 "Piazzapulita" condotta da Corrado Formigli, Roma, 14 dicembre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Facciamo finta davvero che le risultanze della commissione parlamentare sulle banche non smentiscano in toto le parole di chi ci ha fatto credere per mesi di non avere mai “interferito” grazie al proprio ruolo politico nell’eventuale salvataggio della “banca di famiglia” (e invece è vero) e facciamo anche finta che non sia terribilmente patetico costruire una “difesa” che si fa forza sulle “cento sfumature di insistenza” come se un elemento di spicco del governo (e del partito di maggioranza nonché della cerchia amicale del proprietario di quel partito) possa avere sull’amministratore delegato di un istituto bancario la stessa presa di un metalmeccanico esodato e sia tutto riducibile al lessico usato e nient’altro.

Facciamo anche finta che non conti il goffo atteggiamento di una cerchia magica ormai sull’orlo del dirupo che si sforza di paventare elementi di prova che ormai non strappano più di qualche sorriso ai loro ex sodali (e peggio ancora ai vecchi nemici) come accade a quei bulletti ormai caduti in disgrazia che alzano la voce perché non si senta nulla, mica per farsi sentire.

Facciamo anche finta che non sia odioso questo provincialismo da scolaresca in gita per cui sono anni che i nomi e i cognomi sono sempre gli stessi, cresciuti insieme a una manciata di chilometri di distanza, come se l’essere amici sia il tratto distintivo e il prerequisito essenziale di una classe dirigente.

Facciamo anche finta che la commissione parlamentare che avrebbe dovuto e dovrebbe indicarci le cause, le falle e i mancati controlli di un sistema bancario che fa acqua da tutte le parti davvero stia riuscendo nella mirabolante impresa di parlare di tutt’altro come se una Boschi qualsiasi possa essere da sola la scintilla di una serie di crac che meriterebbe ben altro coraggio nel trovare risposte.

Ciò che è certo e indiscutibile è che questi che governavano fino a poco fa, questi che avrebbero dovuto portare l’Italia nel futuro, questi che promettevano un’Italia protagonista nello scacchiere europeo, questi che ci hanno promesso una scuola finalmente moderna e un lavoro finalmente in ripresa e un’economia davvero in risalita, questi in realtà hanno avuto un’irrefrenabile passione per una banca fino ad allora sconosciuta come se fosse il ganglio del benessere nazionale: un brigare tra amici per banche piene di amici, esattamente come quell’imprenditore tutto teso a salvare le sue aziende e i suoi processi. Deludente è che una banda di amici con la responsabilità di risollevare un Paese abbia avuto così tanto tempo e così tanti modi di scorrazzare su questioni attinenti al proprio cortile disconoscendo il principio di opportunità, trovando per Banca Etruria il tempo, la capacità di dialogo e la capacità di ascolto che è mancata sulle povertà, sui diritti dei lavoratori, sulla cura del territorio e molto altro. E il senso dell’opportunità, purtroppo, si deteriora in modo direttamente proporzionale alla crescita del proprio potere e lì dove ci dovrebbe essere cautela ancora oggi, ancora adesso, si sentono gli strepiti di un’adolescente sfrontatezza.

Buon giovedì.

Saranno i big data (di Google) a ripulire le città dallo smog?

I grattacieli di Porta Nuova a Milano avvolti dalla foschia e dallo smog. Per oggi nel capoluogo lombardo è stato indetto il blocco della circolazione per i veicoli più inquinanti. Da giorni il Pm10 ha superato la soglia consentita. Milano 17 Ottobre 2017. ANSA / MATTEO BAZZI

Le mappe digitali di Google sono da tempo la bussola che guida quotidianamente milioni di utenti per le vie delle città di tutto il mondo. Tra i vari dati che il colosso di Mountain View usa per integrare le sue cartografie, insieme a foto satellitari e immagini tridimensionali delle strade, ci sono anche quelli legati allo smog. Primo esperimento a Oakland, in California, grazie a rilevatori di particelle inquinanti installati sulle auto che battono le metropoli, strada per strada, per raccogliere le immagini di Google Street view. E ora, la gigantesca mole di rilevazioni, in termine tecnico big data, permette di aprire frontiere scientifiche ancora inesplorate.

Per capire il perché, occorre fare un piccolo passo indietro.

La risposta all’inquinamento atmosferico passa necessariamente per la modellistica ambientale, ossia la capacità di calcolare matematicamente i livelli di smog nello spazio-tempo. Fino ad ora, tali ricostruzioni potevano essere fatte in due modi: elaborando i dati delle centraline di monitoraggio per poi approssimare l’inquinamento in altri punti tramite modelli statistici (ad esempio, i cosiddetti Land use regression model, “Lur”), oppure rifacendosi a modelli di dispersione, che usano come dati di ingresso le previsioni meteo, la stima delle principali sorgenti e le equazioni del trasposto per poter mappare gli agenti inquinanti nelle città. Attualmente non ci sono evidenze chiare su quale approccio sia il migliore, anche se la modellistica previsionale offre degli indiscutibili vantaggi rispetto agli approcci statici, come quello di poter simulare fenomeni fisici.

Ma a sparigliare le carte, a giugno di quest’anno, sulla rivista Envirnomental science & technology, è uscito l’articolo “High-resolution air pollution mapping with Google Street view vars: exploiting big data”, nel quale sono presentati i primi risultati di uno studio pilota portato avanti da alcune università americane ed enti di ricerca relativamente all’esposizione di pericolosi inquinanti come monossido e biossido di azoto, per la città di Oakland in California.

L’articolo apre a una nuova metodologia per il monitoraggio ambientale nelle città. I big data ambientali sono forniti da Google che ha lanciato una nuova funzione di Street view, grazie a due autovetture equipaggiate con sensori di qualità dell’aria ad alta risoluzione temporale. Questa permette un monitoraggio dinamico per ampie porzioni di città, con postazioni mobili georeferite.

Mappatura dello smog rilevato tramite le auto di Google Street view

Integrando i dati con quelli delle normali centraline a postazione fissa, si aprono dunque nuovi scenari di ricerca per la ricostruzione spaziale modellistica degli inquinanti e, di conseguenza, per le indagini epidemiologiche. Tali studi permetteranno di conoscere la reale esposizione della popolazione allo smog in ambienti urbani e di valutare molto più precisamente le correlazioni tra questa e i danni alla salute.

E il merito è soprattutto dei cosiddetti big data. L’era moderna, caratterizzata dalla logica binaria dei computer e dall’aumento esponenziale della capacità di memorizzazione dei dati, ha posto le basi per questo nuovo tipo di dato sperimentale, capace di nascondere un’informazione differente da quella strettamente scientifica. Innanzitutto, il numero dei casi osservabili è incredibilmente elevato. Oggi è possibile accedere, e quindi elaborare, a 2 terabyte di informazione in pochi secondi: un calcolo inimmaginabile fino a non molti anni fa. L’altro fattore chiave è la quantità di variabili che possono essere memorizzate contemporaneamente.

I big data non necessariamente soddisfano leggi della natura e questo aspetto è di rilevanza cruciale: se da una parte la mancanza di una legge generale che li governi rappresenta una limitazione perché introduce una nuova complessità, dall’altra si apre un nuovo mondo per la ricerca. Quello della scoperta di possibili relazioni fra variabili non strettamente legate a leggi di conservazione o ad altri vincoli imposti dalla natura.

 

Armando Pelliccioni è un fisico teorico. Si occupa, tra i vari temi, di intelligenza artificiale e modelli matematici applicati all’ambiente

Stop all’inquinamento: in Toscana nasce Che aria tira?, progetto open source di automonitoraggio

Open source e open data: “Che aria tira?” è il primo progetto in Italia di automonitoraggio della qualità dell’aria. Prende vita in Toscana da un’idea di Mamme NO inceneritore, movimento per la difesa e la tutela dell’ambiente che mette in discussione la scelta dell’incenerimento dei rifiuti per lo smaltimento. La mobilitazione contro la costruzione dell’inceneritore di Firenze ha acceso dei dubbi e delle curiosità nei comitati attivi nel territorio toscano: FabLab di Firenze, Ninux Firenze, Società per l’epidemiologia e la prevenzione Giulio A. Maccaro impresa sociale srl e PM2.5 Firenze. Da qui la nascita del progetto: il monitoraggio da parte di cittadini e associazioni, tramite la costruzione di proprie centraline, della qualità dell’aria. Queste, una volta montate con specifiche modalità, spediscono i dati ottenuti a una piattaforma informatica che provvede ad elaborare i dati e renderli pubblicamente fruibili.

Ne abbiamo parlato con Mamme NO inceneritore:

«Il progetto “Che Aria Tira?” – raccontano a Left – consiste nella realizzazione di una rete diffusa di centraline per il monitoraggio della qualità dell’aria, dove per diffusa intendiamo l’attivazione di tante centraline in un vasto territorio che nel nostro caso spazia tra le città di Firenze, Prato e Pistoia. Fin dall’inizio l’obiettivo, per ora raggiunto, era quello di rendere le centraline low-cost e facilmente realizzabili per essere costruite da chiunque. Una volta costruite, le centraline possono essere posizionate nelle case delle persone rispettando il più possibile alcune linee guida che suggeriamo per avere una campagna di monitoraggio il più in linea possibile con le centraline installate dalle ARPA regionali. Una volta attivate, le centraline spediscono i dati a una piattaforma informatica, creata da noi, che si occupa di raccogliere ed elaborare i dati per presentare un’informazione leggibile a più livelli».

Come è nato il progetto?

Nella mobilitazione contro la costruzione dell’inceneritore di Firenze ci siamo rese conto dei gravi e comprovati rischi per la salute che l’inquinamento atmosferico comporta e siamo divenute pienamente consapevoli che viviamo in un area già fortemente inquinata. Abbiamo aperto un dialogo con l’ente di controllo, ARPAT, e le risposte che l’ente è stato in grado di fornire sulla situazione nella nostra area, hanno dei limiti intriseci, dovuti all’uso della modellistica teorica e all’assenza di centraline e di misure reali sul campo. Le poche centraline (quattro per la precisione) che erano attive nella piana fiorentina sono state infatti dismesse nel lontano 2010.

Nasce come iniziativa per la Toscana, ma sicuramente può espandersi. Il fatto di essere open source e open data ne può facilitare la crescita?

Sicuramente. Il progetto “Che Aria Tira?” nasce inizialmente per coprire un vuoto delle istituzioni locali, ma fin da subito ha deciso di sposare “l’anima open” della filosofia del Software Libero. Applicata al nostro progetto, per noi questo ha voluto dire rendere open source il codice sorgente di tutti i nostri software, ma anche rendere open la piattaforma stessa e le centraline. Tutto sarà pubblicato sul nostro sito, liberamente scaricabile e modificabile. La prima diretta conseguenza è che abbiamo già ricevuto molte richieste di persone o gruppi interessati da tutta Italia e a nostra volta stiamo ampliando la nostra rete di contatti, per far conoscere il nostro progetto, costruito proprio perché le persone possano appropriarsi delle tecniche e delle informazioni e riprodurlo a loro volta. Riteniamo sia fondamentale che ci sia una consapevolezza sempre maggiore del problema dell’inquinamento. E ovviamente il prodotto finale di tutto il lavoro, i dati, saranno accessibili in maniera completamente open-data e liberamente utilizzabili da tutti: cittadini, associazioni, aziende o istituzioni.

Dietro c’è sicuramente un team di esperti, oltre che di attivisti. Chi verifica l’attendibilità dei dati?

Tutti i nostri sensori vengono testati e calibrati con una centralina di riferimento dal nostro partner scientifico, la Società per l’epidemiologia e la prevenzione Giulio A. Maccacaro. Tra le nostre centraline di fondo ve ne sono sei i cui dati verranno inoltre costantemente validati, sempre dal nostro partner scientifico. Sono i nostri “golden sensors”, posizionati in siti di particolare rilevanza per una stima dell’esposizione all’inquinamento atmosferico della popolazione di Firenze nord e dei comuni limitrofi, stima basata appunto su misure sul campo. L’operazione di validazione consiste nell’esame dei dati da parte di un tecnico esperto, in grado di riconoscere eventuali anomalie tra cui anche quelle dovute da malfunzionamenti degli strumenti. In tal caso, i dati ritenuti errati vengono ulteriormente analizzati e nel caso eliminati.

Quali sono i vostri obiettivi?

All’inizio siamo partiti dalla nostra prima necessità: rendere pienamente consapevoli gli abitanti dell’area metropolitana fiorentina e le istituzioni del fatto che la nostra zona è gravemente inquinata e che l’inquinamento ha gravi conseguenze sulla salute della popolazione. Su questo ormai le evidenze scientifiche sono incontrovertibili, ampiamente riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità. Dobbiamo quindi fare il possibile, in tutte le scelte che riguardano il territorio, in tutta la progettazione del territorio, della vita nel territorio, della mobilità, per diminuire drasticamente le fonti di inquinamento. Appena partite con il progetto però ci siamo accorti e abbiamo lavorato per espandere i nostri obiettivi, che oggi sono i seguenti: porre il problema dell’inquinamento e aiutare a comprendere quanto è inquinata l’aria che respiriamo; coinvolgere le persone e produrre un aumento della consapevolezza; condividere e sostenere l’accessibilità dei dati sull’inquinamento e dell’informazione su questi dati; arrivare a proporre un’informazione scientifica accessibile; creare un’esperienza facilmente replicabile di cittadinanza attiva e citizen science.

Si chiamava Gumaro ed è l’ultimo giornalista ucciso in Messico. Ormai è una strage

epa05885214 A woman reads the last edition of the newspaper El Norte de Chihuahua, in Chihuahua, Mexico, 02 April 2017. The newspaper where the murdered journalist Miroslava Breach worked in March, announced its definitive closure due to 'the dangers and adverse conditions' for the exercise of journalism in Mexico. In an editorial published on its digital portal, its owner announced that after 40 years of promoting the free press in the northern state of Chihuahua, it has published its last print edition on Sunday. EPA/ALEJANDO BRINGAS

«Nessuno ci protegge. I criminali hanno il permesso di fare quello che vogliono». E Gumaro Perez Aguilando è solo il numero 12: anche quest’anno in Messico la strage di giornalisti e reporter è andata avanti senza che nessuno la fermasse. Accade nel Paese dove dall’inizio del 2017 i casi di omicidio registrati hanno raggiunto la cifra di 20.878. Quasi trentamila in 365 giorni. Questo che finisce è stato per il Paese sudamericano l’anno più sanguinoso dal 1997, esattamente venti anni fa.

Gumaro (nella foto) aveva 35 anni ed era andato a vedere la recita di fine anno di suo figlio due giorni fa ad Acayucan, quando davanti ai bambini, agli insegnanti e agli altri genitori, due uomini armati hanno fatto irruzione nella sala della scuola e l’hanno ucciso. Quattro colpi, davanti agli occhi di tutti, in una classe di bambini di sei anni. «Siamo in stato di shock. Stiamo aspettando di vedere il corpo, faremo qualcosa insieme alla sua famiglia» ha detto una giornalista de l’Asociacion de Periodistas Indipendientes de Acayucan, di cui faceva parte il reporter. Ana Laura Perez Mendoza, presidente della commissione per la protezione statale dei giornalisti, ha detto che non aveva registrato minacce a suo carico, ma Gumaro faceva parte di un programma preventivo di protezione dei giornalisti che erano sulle tracce dei trafficanti, un programma noto come “il meccanismo”, che però nel suo caso non ha funzionato.

Aveva fondato il sito di notizie La Voz del Sur e lavorava per Golfo Sur e varie altre testate giornalistiche, dopo aver lavorato per il dipartimento di comunicazione locale del governo. Poi, attraversando la violenza, le strade e i vicoli ciechi della città di Acayucan , aveva scoperto e scritto che i cartelli della droga regnavano sopra ogni cosa nello Stato di Veracruz, il suo, dove altri due reporter sono già morti negli ultimi mesi.

L’ultima cosa che ha visto il reporter di El Diario de Acayucan, Candido Rios Vazquez, prima di morire, è stato un centro commerciale, dove è stato assassinato insieme ad altre due persone ad agosto scorso. Per il suo lavoro di denuncia era entrato nel programma di protezione federale dopo le minacce ricevute nella regione. Anche nel suo caso, il programma non ha funzionato. Invece il foto-giornalista Edwin Rivera Paz aveva lasciato la sua patria, l’Honduras, dopo che lì un suo collega era stato ucciso, e si era trasferito in Messico dove, nella stessa città di Candido e Gumaro è stato colpito a morte da uomini armati in motocicletta ad un centro di detenzione per migranti.

Per l’Rsf, Reporters sans frontière, la cifra dei giornalisti uccisi in Messico è pari a quella dei loro colleghi uccisi in Siria e l’ong paragona il Paese del presidente Enrique Nieto ad uno in stato di guerra. «Nessuno ci protegge. I criminali hanno il permesso di fare quello che vogliono. È sempre lo stesso incubo che continua» ha detto Miguel Angel Diaz, fondatore di Plumas Libres, un altro sito di notizie di Xalapa. Perché è successo a Miroslava Breach, che stava, nello Stato della Chihuahua, accompagnando suo figlio a scuola prima di essere raggiunta dai proiettili. Perché è successo a Javier Valdez, che aveva fondato Riodoce, un magazine di notizie a Sinaloa e in auto, come Miroslava, ha perso la vita a maggio.

Tra il 2010 e il 2016 sono stati 19 i reporter uccisi durante l’amministrazione di Javier Duarte, che ora è scappato dal Messico, inseguito dai giudici e perseguitato per accuse di frode e corruzione. Quando Miroslava è morta, un paio di mesi fa, il direttore del giornale dove lavorava, Norte, ha deciso che la situazione era troppo pericolosa e ha deciso di chiudere il giornale pubblicato a Juarez. Infatti la prima pagina del 2 aprile 2017 diceva a lettere cubitali: Adios!

Oscar Cantu Murguia, nell’ultimo editoriale, ha scritto: «in questi 27 anni siamo stati attaccati e puniti, da individui e dal governo per aver esposto nefandezze, corruzione, che avvengono a scapito della nostra città, della sua popolazione. Tutto nella vita ha un inizio e una fine, un prezzo da pagare. E se è così, non sono più disposto a pagare con la vita di nessuno dei miei collaboratori, se non con la mia».

Una generazione di “macerie prime”. By Zerocalcare

Ironico e pungente, diretto e intelligente, Zerocalcare, il fumettista di Rebibbia, sembra restare in silenzio solo di fronte al suo armadillo e a quel poco che, da un mucchio di macerie, ancora ci rimane.
Il suo nuovo libro, Marcerie Prime, realizzato in collaborazione con l’artista Alberto Madrigal per la casa editrice BAO Publishing, è il racconto di una generazione. Anzi, per la precisione, è il racconto della crisi che vive chi oggi ha trent’anni e domani chi lo sa, poiché il domani si apre ai nostri occhi come una lunga striscia di terra che trema mentre noi vorremmo soltanto correrci sopra.

Poco rimane infatti tra le mani di questa generazione di “perduti”, se non qualche domanda aperta come una trappola pronta a risucchiarci facilmente, tra contratti di lavoro inesistenti, l’impossibilità di realizzare le proprie ambizioni, uno spazio sociale intriso di nepotismo e corruzione, per non parlare dei concorsi truccati, mentre i laureati si ritrovano a fare i camerieri e a scongiurare quel piccolo raffreddore che potrebbe giocargli l’incarico a chiamata. Non abbiamo diritti, non abbiamo certezze, poco rimane mentre qualcuno continua a ripeterti di avere pazienza. E invece il tempo passa, e nulla accade.
Eppure, ogni tanto, qualcuno ce la fa. E addirittura quel qualcuno, per fortuna e talento, raggiunge il successo. Dalla schiera degli ultimi quel qualcuno si alza come un prescelto graziato dalle forze celesti, e facilmente verrà visto dagli altri come un semidio: “Zerocalcare, dacci la ricetta per fare la rivoluzione! Tu che ci sei riuscito a guadagnarti un po’ di rispetto in questo mondo che ci tratta come dei pezzenti!” sembrano urlare chi ancora gioca la partita a pocker con il precariato.
Zerocalcare, come ha detto in una delle sue interviste, non ha scritto questo libro per darci una soluzione. Ma sicuramente da questo libro possiamo imparare a prendere meno sul serio la nostra tristezza. Perché qualcosa sempre rimane, come quelle macerie prime e su quei massi, antichi e resistenti, presto o tardi dovremo rimboccarci le maniche e cominciare a ricostruire.

In cartonato in bianco e nero di 192 pagine (la copertina  è disegnata da Zerocalcare e colorata da Alberto Madrigal) è in libreria la nuova opera del disegnatore e fumettista romano. A maggio 2018 sarà pubblicato il secondo volume Macerie Prime – Sei mesi dopo. Quando i lettori-fan lo leggeranno , saranno trascorsi sei mesi anche nella vita dei personaggi, alcuni dei quali nel frattempo si saranno persi di vista…

Il lavoro. Il lavoro. Il lavoro

Mentre nelle varie televisioni si è già in piena campagna elettorale a colpi di tweet, slogan e fantasia in quel dimenticato posto che è il Parlamento e le sue commissioni in occasione della votazione della prossima manovra finanziaria (la cosiddetta “legge Bilancio”) ieri ancora una volta il tema del lavoro è sparito dalle priorità del governo.

Anzi. A dire la verità non sparisce “il lavoro” tutto tondo ma, come regolarmente accade, sparisce la discussione sui diritti e sui lavoratori che appaiono un fastidioso ingombro nello spedito cammino verso la produttività. Riepilogando: quando qualche mese fa Sinistra italiana, Possibile e Mdp fecero notare che il Jobs Act avrebbe avuto bisogno di urgenti correzioni qualcuno della maggioranza rispose che non ci sarebbe stato nessun problema a correggere il tiro durante la discussione della legge Bilancio, negando di fatto la possibilità di aprire la questione al Senato.

Si trattava principalmente di stringere le possibilità di rinnovo dei contratti a tempo determinato e ampliare le indennità da pagare ai lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Bene. Ieri il presidente della commissione Lavoro della Camera, su indicazione del governo e del relatore della manovra, ha deciso bene di ritirare gli emendamenti che avrebbero dovuto raddrizzare il tiro (di una pessima legge) trincerandosi dietro bisbigliato “peccato” proferito ai giornalisti come se fosse cosa da poco conto.

Una promessa non mantenuta, l’ennesima, su un  tema di cui tutti si riempiono la bocca per poi disattenderlo alla prova dei fatti. Niente da fare, rimane tutto com’è e, se ci fate caso, la notizia non sembra solleticare le prime pagine dei giornali.

Segnatevelo da qualche parte, prima delle prossime elezioni.

Buon mercoledì.

 

Un libro su Stefano Cucchi, ucciso mentre era nelle mani dello Stato

Lo Stato irresponsabile. Il caso Cucchi è un libro importante. Uno di quelli che dovrebbe essere letto nelle scuole e che ognuno di noi dovrebbe avere nella libreria di casa. Questo libro infatti non parla di Stefano Cucchi, o almeno non solo della nota e tragica vicenda giudiziaria che ha visto un piccolo consumatore di droga morire di botte in carcere.

Il volume, frutto del lavoro corale svolto da professori e studenti dell’Università di Urbino e pubblicato dalla casa editrice Aracne di Roma, partendo dall’analisi sociologica e antropologica del caso Cucchi, indaga i punti nevralgici dell’ossatura democratica e giudiziaria del nostro Paese. Ed è da qui che scaturisce la domanda di fondo del libro: chi è responsabile di questa morte? E in secondo luogo, se un cittadino è morto mentre era sotto la tutela dello Stato, allora quella morte può riguardare ognuno di noi? Le risposte, quando ci sono, non sono affatto rassicuranti ma conoscere quello che ci è concesso sapere, andando oltre la verità processuale che è spesso cosa ben diversa dalla verità dei fatti, diventa un obbligo civile per ogni cittadino consapevole.

Per capire quanto alta e importante sia la posta in gioco, è necessario fare un passo indietro e scomodare le teorie di Hobbes e Weber sui fondamenti giuridici-filosofici dello Stato moderno: questo nasce infatti da una legittimazione non più divina, idea naufragata e superata, ma da un patto sociale tra i suoi stessi cittadini che riconoscono lo Stato “come apparato di forza per costringersi reciprocamente nei giusti limiti e garantirsi gli uni contro gli altri. Vogliono la violenza legittima dello Stato, prevedibile perché segue regole precostituite, per proteggersi contro la violenza illegittima e incontrollata” come scrive il professore Luigi Alfieri nell’introduzione, che ricorda anche che “lo Stato è apparato di forza, ma il cittadino non è inerme di fronte a esso: contribuisce a crearlo e a dirigerlo. In linea di principio quell’apparato è subordinato al cittadino, e non viceversa”. Ecco che quindi il caso Cucchi rappresenta una messa in discussione radicale del paradigma di legittimazione “popolare” al potere statale dell’uso della forza.

Insomma se lo Stato è espressione dei cittadini, perché un cittadino è morto in carcere mentre era in attesa di una pena per il suo (piccolo) reato? Il motivo ce lo dicono le relazioni degli avvocati della difesa, ma non solo quelle: Stefano Cucchi è morto perché non era nessuno.

“È successo che Stefano non è mai stato considerato un soggetto di diritti- scrive ancora Alfieri- È stato considerato un portatore di disordine, un disturbo, un piccolo noioso intralcio all’ordinario corso delle cose. Un “arrestato della notte” preso nel mucchio, quasi per caso. All’udienza di convalida dell’arresto lo si scambia per un albanese. I giudici neppure lo guardano in faccia. Neanche l’avvocato d’ufficio lo fa”.

Cucchi era dunque uno “scarto”, un “residuo”, un “arrestato della notte”, una di quelle figure per le quali le garanzie procedurali dello Stato di diritto non esistono perché, nella migliore delle ipotesi, si riducono a pratiche sommarie e nella peggiore a sopraffazione.

Gli “arrestati della notte” sono quelli per i quali la comunità affida un mandato esplicito al carcere con il compito, nemmeno troppo taciuto, di togliere di mezzo chi produce disordine.

“Su di loro, in particolare se tossicodipendenti- scrive l’avvocato della famiglia Cucchi, Alessandro Gamberini- si svolge una routinaria e approssimativa procedura che vale a garantire a molti la custodia in carcere. Coloro che tra essi, e sono i più, non sono neppure cittadini italiani sono ulteriormente esposti alla sommarietà del rito. Rispetto agli “arrestati della notte” il processo è e rimane ad armi impari, essendo il patrocinio a spese dello Stato un palliativo inefficiente e insufficiente e il pregiudizio sociale pervasivo”.

Ed è proprio sul funzionamento della macchina giudiziaria, secondo grande tema oltre a quello della marginalità di alcuni cittadini, a focalizzarsi l’attenzione di questo volume. Si scopre così che le modalità con le quali si svolge la convalida dell’arresto sono a dir poco agghiaccianti, come lo sono il continuo rimpallo di accuse tra medici ed agenti sulla morte di Stefano, come terribili- per modus operandi e conclusioni- sono le perizie svolte per provare una o l’altra ipotesi sulla causa del decesso.

Ma le più gravi distorsioni di ordine procedurale, giuridico e perfino etico si producono quando il primo aspetto, quello dell’irrilevanza del reo, si combina con il secondo, il funzionamento della giustizia. Quando insomma la macchina della giustizia incontra un piccolo tossicodipendente arrestato di notte. Sono state addirittura 140 le persone che incontrarono Stefano nei sei giorni che trascorsero tra il pestaggio e la morte. Nessuno di loro ha interrotto (per negligenza, complicità o semplice indifferenza, è ancora tutto da stabilire) questa spaventosa concatenazione di eventi che porterà il giovane geometra romano alla morte.

È sugli ultimi, in definitiva, che si misura la validità di un sistema giuridico democratico, rappresentando la cartina di tornasole per comprendere se l’apparato statale odierno ha lasciato definitivamente alle spalle la legittimità dalla natura divina per abbracciare la concezione moderna di tutela e di garanzia dei diritti erga omnes.

“Stefano invece è incappato in un sistema che respinge i cosiddetti scarti, quelli che non contribuiscono all’utilità comune. Lo Stato lo avrebbe forse punito- conclude Alfieri- riconoscendolo però come persona e come cittadino. Ma lo Stato non c’era. Stefano non lo ha mai incontrato”.

Attenzione però in certe condizioni e situazioni “ognuno di noi- afferma infine Alfieri può finire nella categoria degli “scarti”, perché ci troviamo nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

Anche le famiglie di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Stefano Gugliotta, solo per fare alcuni nomi, sanno bene, purtroppo, cosa significa.