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Perché le Edizioni e/o hanno detto no a Amazon

edizioni e/o

Da anni ormai Amazon è diventato il più grande negozio on-line di libri (e non solo) nel mondo. Ovunque tende al monopolio e in alcuni paesi già controlla la maggior parte del mercato. Ha creato occupazione, ma ha costretto alla chiusura tantissime librerie (con conseguente perdita di posti di lavoro). Numerose testimonianze giornalistiche documentano le cattive condizioni di lavoro nei magazzini del colosso on-line. Attualmente è in corso un’agitazione sindacale nel magazzino di Piacenza a causa delle condizioni di lavoro che i sindacati definiscono “insostenibili” e Amazon non si è neppure presentata all’incontro di mediazione convocato in Prefettura.

La chiusura delle librerie causata dalla concorrenza spietata di Amazon significa anche impoverimento economico e culturale del territorio: vengono a mancare essenziali luoghi di ritrovo e di cultura. Molti consumatori però accettano Amazon per i suoi prezzi (in genere più scontati quando le leggi nazionali lo consentono) e per l’efficienza. Abbiamo visto con quali conseguenze per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti e per l’impoverimento del territorio, Amazon riesce a ottenere questa efficienza.

I suoi prezzi spesso vantaggiosi sono il risultato di una politica che a volte è arrivata ai limiti del dumping (vendere a prezzo minore o pari a quello d’acquisto dai fornitori); di una frequente elusione delle tasse (nell’ottobre 2017 Amazon è stata condannata dalla Commissione Europea a pagare alla UE 250 milioni di tasse non versate; “¾ dei suoi profitti non sono stati tassati”, ha denunciato la Commissione); di condizioni economiche inaccettabili richieste agli editori.

Noi siamo appena stati oggetto di tali richieste. Ci è stato richiesto uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro “quota” del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice. Di fronte al nostro rifiuto, Amazon ha sospeso l’acquisto di tutti i nostri libri e ha reso quelli che aveva in magazzino. (Attualmente sul loro sito i libri E/O cartacei sono in vendita solo attraverso soggetti terzi, quindi a condizioni più sfavorevoli per tempi di consegna e per costi di spedizione addebitati al cliente).

A questo punto i consumatori potrebbero dire che si tratta di negoziazioni tra imprese e che a loro interessa solo avere un buon prezzo e un servizio efficiente. Il nostro punto di vista è che siamo in presenza di un’azienda che tende pericolosamente e con parziale successo ad avere una posizione dominante nel mercato del libro, sicuramente per quanto riguarda il settore dell’e-commerce. Quindi non un’azienda qualsiasi, ma QUELLA che potrebbe in futuro essere l’unica (o quasi) venditrice di libri. È evidente che il pericolo per la libertà di espressione è reale, costante e quotidiano. Inoltre le case editrici hanno bisogno di margini economici sufficienti per investire nella ricerca di nuovi autori e di nuove proposte. Se questi margini vengono troppo erosi, le case editrici rischiano di sparire (assieme alle librerie, agli autori e a tutto il mondo del libro).

Per questo abbiamo detto NO. Per questo chiediamo il vostro sostegno di lettori, di cittadini che non possono ridursi a essere solamente consumatori ma sono consapevoli di essere anche parte di un territorio (che non può essere desertificato), lavoratori e soggetti degni e liberi di una comunità plurale.

Sandro Ferri, Sandra Ozzola
Fondatori delle Edizioni E/O

Dio, patria e omicidi: il credo dei “camerati” hindu

Indian Hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS) young volunteers march during an event 'Path Sanchlan' , ahead of Hindu New Year in Allahabad on March 26, 2017. (Photo by Ritesh Shukla/NurPhoto via Getty Images)

Mohammad Afrazul, 45, era un lavoratore stagionale originario del distretto di Malda, Bengala occidentale. Era padre di tre figlie e da venti anni risiedeva per alcuni mesi dall’altra parte del Paese, nel distretto di Rajsamand, in Rajasthan. Afrazul era musulmano e lo scorso 6 dicembre è stato prima massacrato a colpi di accetta e poi, esanime, cosparso di kerosene e dato alle fiamme. Lo sappiamo, con dovizia di dettagli, grazie a un video girato con uno smartphone su esplicita richiesta dell’assassino, Shambulal Regar: 35 anni, ex piccolo imprenditore di Rajsamand da poco disoccupato, fervente ultrahindu. Nel video, registrato dal nipote di Regar nemmeno quattordicenne, si vede Regar attaccare Afrazul alle spalle, mentre la vittima implora di non ucciderlo; poi, col corpo del quarantacinquenne immobile sullo sfondo, Regar si rivolge alla sua audience, spiegando che questa è la fine che faranno tutti i musulmani coinvolti nella cosiddetta «love jihad», complotto ampiamente diffuso negli ambienti dell’ultradestra hindu secondo cui la comunità musulmana starebbe progettando una «sostituzione religiosa» sul lungo termine, seducendo le giovani ragazze hindu per poi obbligarle alla conversione. Due giorni dopo, le autorità del Rajasthan hanno rintracciato e arrestato Regar, al momento in stato di fermo in attesa del processo che lo vedrà imputato di omicidio.

La vicenda è ricca di elementi tanto crudi quanto allarmanti, in un mix che sovente, quando registrato in altre latitudini o a professioni di fede invertite, facilmente avrebbe catapultato il caso nella parte alta della classifica di notiziabilità seguita dai media globali. La tragica morte di Afrazul ha faticato a trovare spazio nell’agenda della stampa indiana, schiacciata com’era tra le elezioni locali dello Stato del Gujarat e l’elevazione del rampollo della dinastia Nehru-Gandhi, Rahul, alla guida dell’Indian national congress. Eppure…

L’articolo di Matteo Miavaldi prosegue su Left in edicola


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Cecilia Strada: «La pace è un’attività e non è sacrificio»

CECILIA STRADA EMERGENCY

«Sono andata lontano per capire quello che succede qui», racconta Cecilia Strada. L’ex presidente di Emergency (dal 2009 a luglio 2017) non ha nessuna intenzione di riposarsi e continua imperterrita sulla strada della pace e dei diritti. Abbiamo voluto chiacchierare con lei sul momento attuale e sugli scenari futuri, anche a partire dal suo La guerra fra noi, appena uscito per Rizzoli.

Diranno i maligni: ma c’era proprio bisogno di un ennesimo libro sulla guerra?

Beh, intanto risponderei che è il mio primo libro, quindi volevo scriverne almeno uno anch’io! E in realtà è un libro che descrive guerre diverse: il giorno in cui l’ho presentato a Roma stavamo festeggiando in una trattoria e alcuni canadesi mi hanno chiesto di che parlasse e gli ho risposto “di tanti tipi di guerra”. C’è la guerra fatta con le pallottole sparando al Campus a Kabul, c’è quella preparata (come avviene nella fabbrica di bombe in Sardegna). Poi ci sono quelli che pagano il conto della guerra (che sono sempre i poveracci, sia che siamo noi con i nostri diritti negati e i soldi che non ci sono mai per il sociale e invece si trovano sempre per le armi, sia che siano quelli al di là del mondo). E infine c’è la guerra che torna a chiedere il conto: abbiamo passato decenni a riempire zone del mondo di armi, violenza e insicurezza, ci abbiamo mandato gli eserciti, gli abbiamo portato via le risorse e la conseguenza la vediamo oggi sotto forma di un flusso inverso di persone che da quei Paesi scappano, migrano, si spostano e vengono qui. È un cerchio in cui siamo tutti collegati.

Scrivi che una pistola vive almeno 70 anni. Viene prodotta e spedita per un obiettivo che in tanti anni può cambiare e alla fine magari te la ritrovi puntata addosso. Eppure i temi del disarmo e più in generale del pacifismo sembrano non funzionare più qui da noi. Perché?

È una buona domanda. Ma io non ho la risposta. In generale nella vita devo ammettere che preferisco cercare le domande. In generale penso che il pacifismo non abbia un buon ufficio stampa mentre la guerra ha un ufficio marketing efficientissimo, poiché è necessaria la propaganda di guerra per convincere i cittadini a sponsorizzare, celebrare e pagare questa pazzia totale che è la guerra. C’è un grosso equivoco nel credere che la pace sia qualcosa di passivo, per niente eccitante quando invece si tratta di qualcosa estremamente attivo: la pace la dobbiamo costruire ogni giorno con i nostri comportamenti, partendo dal nostro quartiere. Non è passività. La pace è un’attività. E non è nemmeno vero che sia sacrificio: non ci ritroviamo a…

L’intervista di Giulio Cavalli a Cecilia Strada prosegue su Left in edicola


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Sinistra è superare l’utopia

Trump ha deciso. Alcune parole sono vietate. Gli scienziati che lavorano al Cdc (Center for disease control, l’analogo americano del nostro Istituto superiore di sanità) non potranno usare sette termini nei loro lavori. I sette termini sono: transessuale, feto, diversità, vulnerabile, diritto, basato sulle evidenze, basato sulla scienza. Un approccio medioevale, da santa inquisizione, verso l’attività scientifica. Aggravata dal fatto che l’attività del Cdc è finalizzata alla sanità pubblica, quindi a tutte quelle attività il cui scopo è il benessere della popolazione. Non è chiaro se questo significa che, per esempio, le decisioni del Cdc non potranno più essere basate sull’evidenza scientifica di un fenomeno. Che accadrà, per esempio, in presenza di epidemie? Gli epidemiologi del Cdc non potranno dire che ci sono evidenze tali da imporre di prendere contromisure? O anche gli scienziati non potranno più opporsi a quanti dicono che non ci sono evidenze scientifiche del fatto che i vaccini proteggono la popolazione da malattie pericolosissime. Non potranno usare l’argomentazione che “lo dice la scienza”.Trump sta dicendo che gli scienziati non possono dire che sono scienziati quando fanno comunicazione! È un via libera alle fake news in ambito sanitario! Perché non potranno essere contestate con la frase “L’evidenza scientifica dice che…”. Evidente l’intento di proibire l’uso della parola feto. La scienza medica ha chiarissima la differenza tra feto e neonato. Se non si può più usare la parola feto allora quello che deve ancora nascere deve essere pensato come un bambino. Ma se non c’è differenza tra feto e neonato, la volontà è evidentemente quella di comunicare l’idea che la nascita non esiste. Il che implica, ovviamente, che l’aborto sarebbe l’omicidio di un bambino.

Io penso che questa censura preventiva di Trump sia soprattutto un’operazione anti-culturale e poco anti-scientifica. La scienza proseguirà senza alcun problema, perché non c’è alcun dubbio che non ci sarà ricercatore o medico che smetterà di chiamare il feto “feto” oppure che smetterà di valutare le evidenze scientifiche…perché lo dice Trump! L’idea invece è quella di comunicare all’opinione pubblica che la scienza e i metodi di indagine che la caratterizzano sono equivalenti alle chiacchiere che si possono ascoltare al bar. La cosa meno ovvia è la reazione che c’è stata in conseguenza a questo annuncio. Perché in realtà Trump sta semplicemente attuando una “politica” che è esattamente la politica che vuole il suo elettorato ultra conservatore e ultra cristiano. Papa Bergoglio sarà rimasto molto soddisfatto della mossa di Trump! La Chiesa infatti ha una dottrina che definisce persona l’embrione appena fecondato. Di fatto stabilendo che il feto non esiste perché l’embrione è già un bambino! Per la Chiesa la parola “feto”, di fatto, non definisce qualcosa di diverso dal bambino. E per di più il bambino in realtà non è essere umano prima del battesimo: Bergoglio disse nel 2014: «Un bambino non battezzato non è lo stesso che un bambino battezzato». Compreso tutto ciò, la cosa che mi ha molto sorpreso è stata la generale levata di scudi contro Trump (salvo poi dimenticarsene completamente nel giro di 24 ore). Allora lo sapete tutti, voi che celebrate il papa e il suo pensiero come ciò che salverà la sinistra, che in realtà quello che sostiene la Chiesa è completamente falso e che dire che il feto non esiste equivale a dire che la nascita non esiste. Allora lo sapete tutti che c’è una enorme differenza tra il feto e il bambino. Ed il motivo è ovvio ed evidente: alla nascita compare un bambino che prima della nascita non c’era. E il motivo è altrettanto evidente: compare una mente che prima della nascita non c’era. Sapete tutto, voi che celebrate il papa come una bravissima persona.

Quando Trump dice “non si può dire feto” vi rendete conto che è una assurdità, una pazzia totale… ma poi vi accorgete che questo significa dire che il papa dice scemenze. E poi vi accorgete anche che dire questo vuol dire riconoscere l’esistenza della nascita. Bravi. Avete capito. Continuate a fare finta di niente ma avete capito. Penso che questo in fondo sia importante. Se vi siete scandalizzati per Trump che censura queste parole avete capito che dire cose false è una violenza. Probabilmente non avete ancora capito che anche non dire cose vere, pur avendone la conoscenza e avendo la possibilità di dirle, è una violenza. È l’espressione della pulsione di annullamento teorizzata da Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza. Ignorare, fare come se qualcosa o qualcuno non esistesse, non è una passività. Al contrario degli oggetti che non hanno un’attività propria, per gli esseri umani l’ignorare qualcosa è un’attività psichica. Bisogna capire che tipo di attività è: può essere una buona cosa quando quello che si ignora non ha valore. Quando si ignora una cosa falsa. Allora è un’indifferenza. Può essere una cosa negativa quando quello che si ignora ha invece un valore e si afferma implicitamente qualcosa di falso. Quando, per esempio, si annulla la nascita e si pensa un bambino come un essere non nato, uguale al feto, la cui unica identità sarebbe quella della genetica. Si diranno cose false del bambino perché si avrà un rapporto falso con esso. Allora è un’anaffettività. L’indifferenza non fa male. È allontanarsi, non interessarsi. Ma non c’è l’idea di non esistenza. È un mettere da parte senza annullamento. È l’esito della fantasia di sparizione. È una attività che può essere pensata come separazione e ha come fondamento la nascita. L’anaffettività fa molto male. È un’attività che è fare come se qualcosa che esiste in realtà non esistesse (e quindi non fosse mai esistito). È l’esito della pulsione di annullamento. È una attività che elimina l’oggetto di rapporto e il rapporto con esso e non permette alcuna conoscenza di esso. Mi scusi il lettore se parlo così spesso in questi editoriali di Fagioli e del suo lavoro. Io sono convinto che evidenziare ogni volta come questo splendido pensiero di Fagioli ha la possibilità di leggere quello che accade nel mondo, è un lavoro fondamentale per Left. Perché la nostra ambizione è sviluppare un pensiero politico di sinistra che non sia l’ennesima utopia irrealizzabile.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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La democrazia si soffoca con il gas

Manifestazione No Tap a Melendugno (Lecce) contro l'approdo del gasdotto (foto collaboratrice Stefania Congedo - 6 dicembre 2017)

Il Tap non è un tubo del gas. È l’autobiografia politica di questa Italia. Dal governo Monti, a Letta, Renzi e Gentiloni. Che del gas hanno fatto l’unica voce di una politica industriale che tale non è. Non è sviluppo e non è autonomia energetica, non è l’Eni di Enrico Mattei che cercava ad ogni costo forza energetica per l’Italia in macerie da ricostruire. Il Trans adriatic pipeline è un grande affare. È la base del progetto dichiarato di Snam di farsi snodo commerciale del gas per l’Europa, che deve affrancarsi dal gas russo. Lo dicono ovunque. Giornali, radio e tv. Con l’ineffabile ministro Calenda a sciorinare, in quel salotto televisivo dove si firmarono contratti farseschi, i meriti del gasdotto per lo sviluppo della nazione. Perché si sappia che chi il gas non lo vuole non è europeo e umilia l’Italia. È il solito fanatico che il tubo del gas non vuole che passi per le sue spiagge. Tra i suoi ulivi. Sulla identità di popolo, quello pugliese, che già ne ha viste troppe. Che respira, chiuso nel ricatto di morte o lavoro, le polveri ferrose dell’Ilva e i fumi del carbone di Cerano. Che sa di non potersi fidare della politica, che non ha argomenti e non ha alternative al gas, perché un «tubo non può fare paura». Il metano è pulito. Come la coscienza di chi la democrazia la sta soffocando nella retorica dell’Europa e nella violenza di muri e filo spinato issati sui fianchi di una cittadina militarizzata, in cui il diritto è stato torto perché al tubo si possa lavorare senza intralci e senza che nessuno veda.

Ma la coscienza civile di una cittadinanza e di qualche scienziato eminente non accetta. E guarda oltre il muro, chiede trasparenza e argomenta dei rischi per la vita di quei cittadini. A Melendugno, nel Salento, dove approderà il Tap: un metanodotto, il tratto finale di un progetto da 45 miliardi di dollari e lungo quasi 4mila chilometri, il Southern gas corridor, che porterà dall’Azerbaijan in Italia fino a 20 miliardi di metri cubi di gas, attraversando sei Stati per poi passare sotto il fondale marino e approdare nelle campagne di Melendugno. Dove accoglierà il gas un terminale di ricezione che ne varierà la pressione e lo spingerà ancora nel tubo interrato tra gli olivi (10.000 olivi da espiantare e al meglio reimpiantare), in un tunnel (che si dice micro ma ha tre metri di diametro) per 55 chilometri, fino a congiungersi con la rete di Snam. Nel 2013 il Tap è stato approvato dalle autorità europee come progetto di interesse comunitario, per favorire la diversificazione delle fonti da cui l’Europa si approvvigiona rendendosi così più autonoma soprattutto da quelle russe. Una litania europea questa della dipendenza dal gas russo, che per quanto evidente nei dati non appare però preoccupare la Germania, impegnata nel raddoppio del gasdotto russo North Stream, ora rallentato ma per far posto all’ipotesi di portare in Europa sempre il gas russo attraverso Turkish Stream e lo stesso Tap. Quanto all’Italia, pur spiccando per importazioni di gas, è tra i Paesi europei meno dipendenti dalla Russia e già oggi con consumi inferiori all’approvvigionamento, tant’è che le esportazioni di gas, a giugno del 2017, sono aumentate in un anno del 78,3%.

Non a caso Snam ha subito tranquillizzato l’agitatore Calenda che a reti unificate già dichiarava lo stato di emergenza energetica in occasione dell’incidente nella centrale austriaca da cui transita il gas russo: l’Italia con le sue eccedenze non poteva rischiare il buio e il freddo, ma al ministro non è parso vero di poter accomodare la realtà per affermare che proprio a fronteggiare future emergenze occorrerà Tap. Su cui almeno Snam non dissimula. Nei suoi piani afferma di puntare sulla commercializzazione del gas verso l’Europa. Quello di Tap e poi quello del gasdotto Poseidon pure previsto in Puglia, e l’attesa del più grande giacimento mediterraneo di gas scoperto da Eni in Egitto e, ancora, la Sardegna che si candida nei piani del ministro Calenda ad essere con Malta l’hub per il rifornimento marittimo del gas. Per tutto questo Snam già lavora al raddoppio del metanodotto che taglia l’appennino centrale. Un fiume di gas attraverserà l’Italia. Senza fare i conti né con quello che accadrà nella transizione energetica verso le rinnovabili né con gli italiani. Quegli italiani che non la bevono. E che preoccupano il ministro Calenda, il quale ha dichiarato che «la prossima legislatura si deve porre il problema di una clausola di supremazia per superare i veti degli enti locali di fronte a interessi nazionali». Supremazia solo apparentemente, e già sarebbe discutibilissima, da esercitare sui veti politici. Perché in realtà la supremazia si vuole esercitarla, come già accade per Tap, sui diritti costituzionali a tutela della salute e della vita di cittadini ai quali è imposta la realizzazione di un’attività privata bollata di interesse strategico.

In nome del quale si sono attuate procedure opache per l’approvazione del progetto del terminale di ricezione a Melendugno, che scienziati come Umberto Ghezzi del Politecnico di Milano, affermano possa comportare rischi gravissimi per la popolazione; quello stesso terminale di ricezione che con singolare affanno, come ben raccontato da L’Espresso (5 settembre e 2 ottobre), ministri solerti hanno sottratto all’applicazione della normativa Seveso, che avrebbe imposto elevati vincoli di sicurezza e la partecipazione informata delle popolazioni. Eppure gli incidenti, e il caso recentissimo dell’Austria lo dimostra, accadono. Allora è tempo si comprenda che i no Tap del Salento, non sono ambientalisti insurrezionalisti che vorrebbero spostato altrove l’approdo del gasdotto. Sono cittadini informati e consapevoli dei rischi del progetto. A Melendugno come altrove. Perché in Italia troppo spesso la gestione avventuristica del rischio da parte di imprese private e pubbliche ha portato a tragedie e sentenze giudiziarie di colpevolezza, come accaduto per Thyssen a Torino o per Ferrovie a Viareggio. A fallire sono i controlli e la prevenzione da parte dello Stato. Specie poi se il controllato e il controllore coincidono, quando pubblica o considerata tale è l’impresa. Come per Tap, opera di interesse strategico partecipata da Snam per il 20%. Tutto questo a Melendugno lo sanno. I muri alzati dal governo intorno al cantiere non riescono a nasconderlo. Ed intanto questi cittadini sono il volto inatteso di un nuovo Mezzogiorno. Non familismo socialmente disgregante ma bene comune, riconosciuto nel diritto alla tutela della salute e dell’ambiente. Come era accaduto per i cittadini contrari alla Tav, tra le montagne in cui il bene comune era regola e fu lotta partigiana e poi risposta informata alla forza del governo. Ora accade con i cittadini contrari a Tap. Ma al Sud. E questo sgomenta una politica che reclama supremazia e si candida a governare ancora questa Italia.

L’editoriale di G. Massimo Paradiso è tratto da Left in edicola


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Il mostro dell’Appennino

ALEXANDROUPOLI , GREECE - DECEMBER 24: Trans Adriatic Pipeline construction site in Alexandroupoli, near the village of Amphitrite on December 24, 2016 in Alexandroupoli ,Greece. Trans Adriatic Pipeline construction near the village of Amphitrite on the pipeline’s 40th km, out of the approximately 550 km traversing Greek territory. TAP’s longest section, it will start at Kipoi, near the country’s border with Turkey, and finish at its border with Albania, south-west of Ieropigi. The Trans Adriatic Pipeline (TAP) will connect with the Trans Anatolian Pipeline (TANAP). TAP will be 878 kilometres in length. Its highest point will be 1,800 metres in Albania’s mountains, while its lowest will be 820 metres beneath the sea.TAP will transport natural gas from the giant Shah Deniz II field in Azerbaijan to Europe. More than 1,500 people working for the project directly in Greece. (Photo by Athanasios Gioumpasis/Getty Images)

Si chiama Rete adriatica, è una “grande opera” di 687 kilometri che da Brindisi andrebbe ad allacciarsi alla rete settentrionale nel comune di Minerbio, in provincia di Bologna, un tubo netto e dritto il cui passaggio interessa ben nove regioni (nell’ordine: Puglia, Basilicata, Molise, Abruzzo, Lazio, Umbria, Toscana, Marche ed Emilia Romagna). Di “adriatico” il gasdotto ha in verità ben poco. Il tragitto era stato inizialmente pensato sulla costa, ma la Snam, l’azienda realizzatrice del progetto, ha spiegato in un secondo momento che sul litorale erano state riscontrate «criticità insuperabili» al punto da dover considerare una nuova rotta. Per paraetimologia, dunque, l’aggettivo resta, mentre il tracciato viene fissato più nell’entroterra sulla dorsale appenninica. Le aree attraversate sono le medesime tristemente note, specie negli ultimi anni, interessate da movimenti tellurici del tutto nuovi da un punto di vista geologico. Sono le zone remote dell’Italia centrale che subiscono lo spopolamento da oltre un secolo e in cui i terremoti da qualche tempo si scandiscono in ordine di decadi (ognuno di noi avrà memoria almeno degli ultimi: Accumuli, Amatrice e Norcia tra il 2016 e il 2017; Abruzzo, 2009; Umbria e Marche nel 1997). È l’Italia che l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia colora di viola, il livello cromatico massimo per pericolosità sismica, il più alto di tutta la penisola.

Scopo del progetto è portare nel centro dell’Europa il gas che è inizialmente partito dall’Azerbaijan e che è transitato per un luogo di cui in queste settimane tanto si è sentito parlare: il terminale del Tap (Trans adriatic pipeline), l’“allaccio” italiano al Southern gas corridor a Melendugno in Puglia. Con i riflettori mediatici saldamente puntati in territorio salentino – di fatto militarizzato per difendere dalle proteste dei cittadini l’opera in costruzione, un tratto di otto chilometri sulle coste pugliesi (v. pagine seguenti) – poco o nulla si dice del colossale progetto che porterà il gas azero dalla Puglia all’Austria. Per far luce sulla vicenda abbiamo seguito il percorso del “tubo” della Snam nelle zone martoriate dai recenti terremoti nelle Marche e in Umbria, incontrando i vari comitati cittadini dei comuni interessati dal progetto. «È sorprendente il fatto di aver appreso dell’esistenza di un’opera di tale portata per purissimo caso», racconta a Left, Aldo Loris Cucchiarini, portavoce del comitato No tubo e referente del Grig (Gruppo d’intervento giuridico onlus, ndr) per le Marche. «Siamo venuti a sapere del gasdotto attraverso lo studio degli albi pretori dei comuni, ma inizialmente non ne immaginavamo le dimensioni. Relegavamo tutto a una questione locale, e come è successo qui da noi ad Apecchio (in provincia di Pesaro Urbino, ndr) così era avvenuto in Puglia, in Abruzzo o in Umbria. Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che si trattava di un’opera unica, un insieme di progetti apparentemente disgiunti, così presentati sui vari territori, che andavano invece a formare la Rete adriatica».

Il gasdotto si presenta infatti suddiviso in cinque tronconi: il Massafra-Biccari, già in esercizio; il Biccari-Campochiaro, in fase di costruzione; poi ci sono i due tronconi Sulmona-Foligno e Foligno-Sestino il cui procedimento è in corso; infine per il Sestino-Minerbio il procedimento si è chiuso e il decreto di autorizzazione è in fase di emissione. A detta di Cucchiarini e di altri rappresentanti dei vari comitati di opposizione, la suddivisione non è che un modo per «diluire “mediaticamente” e tecnicamente l’impatto del gasdotto». Viene in pratica fornita una Valutazione di impatto ambientale (Via) per ogni segmento, eludendo in tal modo la stima complessiva dell’intera opera. Oggi il comitato No tubo…

Il reportage di Dino Buonaiuto prosegue su Left in edicola


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Biotestamento: perché non hanno senso le dichiarazioni del ministro Lorenzin sull’obiezione di coscienza

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin durante il convegno "L'Idea democratica e l'avvenire dell'Europa" presso il Tempio di Adriano, Roma, 08 dicembre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Dopo un’attesa durata 32 anni, gli italiani – dal 14 dicembre 2017- hanno una legge sul testamento biologico: per dare le cosiddette disposizioni anticipate di trattamento (Dat).

Finalmente una legge che riconosce il rispetto della libertà della persona, anche per quando non si sarà più in grado di scegliere. Questo è un testo di legge che eviterà altri casi come quello di Eluana Englaro; ma anche ricorsi ai tribunali come per Walter Piludu, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby, oggi è più chiaro che si ha il diritto – regolato da una legge – per potere rinunciare ai trattamenti sanitari in corso. Il Parlamento, infatti, ha trasformato in testo normativo quello che la giurisprudenza degli ultimi anni ha dovuto assicurare in assenza di una legge attraverso le tutele assicurate dagli artt. 13 e 32 della Costituzione. In particolare dove si afferma che la «libertà personale è inviolabile e nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, peraltro nella garanzia che questa non possa “in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Sembrano, dunque, fuori dal tempo (non solo fuori tempo) le dichiarazioni del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, all’indomani dell’approvazione della legge in merito all’applicazione delle Dat, quando ha dichiarato che garantirà l’esercizio dell’obiezione di coscienza sulle Dat a medici e strutture cattoliche.

Il valore delle dichiarazioni del ministro Lorenzin è evidentemente solo politico, risultando privo di qualsiasi significanza ed effetto sul piano giuridico. Questo per due ragioni:

a) in punto di diritto, si osserva che non esiste nel nostro ordinamento una norma generale che preveda un diritto soggettivo all’obiezione di coscienza nel senso precisato dal codice di deontologia medica: per l’effetto in assenza di una norma primaria speciale che lo preveda (come nella L.194/78), nessun atto che non risulti approvato dal Parlamento può stabilire nel caso specifico l’integrazione della norma di fonte legislativa;

b) in punto di fatto, sarebbe curioso capire quale dovrebbe essere il contenuto di un siffatto diritto. Infatti, posto che la legge sul biotestamento assicura la libertà terapeutica (di curarsi e non curarsi), l’obiezione di coscienza si tradurrebbe nella condotta del medico che contro la volontà del paziente (nel frattempo divenuto incapace) validamente espressa a termine di legge, imporrebbe allo stesso una terapia che espressamente era stata esclusa, insomma una sorta di TSO sull’incapace di intendere e volere.

Una prospettiva aberrante che pure il Ddl Calabro aveva previsto, limitandosi però solo alla nutrizione e idratazione artificiale e che in questo caso varrebbe invece per tutte le terapie che il medico ritenesse conformi al proprio convincimento! Sarebbe non solo la fine dell’alleanza terapeutica medico-paziente, ma un salto indietro a prima della sentenza sul “caso Massimo”, al più bieco paternalismo medico ormai messo in archivio dall’esperienza contemporanea a livello nazionale ed europeo. Sicuramente deve escludersi, alla luce dei principi sull’interpretazione posti nel codice civile e delle elaborazioni della giurisprudenza e della dottrina, che la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento consenta l’obiezione di coscienza.

Peraltro il diritto costituzionale al rifiuto e all’interruzione delle cure è riaffermato nell’art. 1 della recente legge, al VI comma, in modo chiarissimo, e non potrebbe essere diversamente. L’equivoco nasce da una lettura non corretta della diversa norma che non consente al paziente di imporre al medico autoprescrizioni che siano in contrasto con disposizioni di legge o con il codice deontologico (un esempio per tutti: il paziente non può esigere la pratica dell’elettroshock). Quindi, il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento, senza che il medico possa obiettare; non può imporre, per altro verso, trattamenti da lui scelti unilateralmente. E’ appena il caso di ricordare che le norme costituzionali e la legge ordinaria non possono essere modificate da atti amministrativi, come quelli che il Ministro della Salute dichiara di voler adottare.

Dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin ci aspettiamo che garantisca quanto prevede la legge sul biotestamento all’art. 1 comma 9: «Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale». Un impegno affinché sia fatta corretta informazione e che il Ssn fornisca cure adeguate e garanzia di libertà di scelta come previsto dalle leggi in vigore nel nostro Paese. Violare una legge comporta responsabilità che il nostro ordinamento identifica e punisce e noi siamo pronti a difendere in sede giudiziaria il diritto di vedere affermate le proprie Dat così come previste per legge.

 

Filomena Gallo, avvocato, segretario associazione Luca Coscioni

Gianni Baldini, avvocato, prof. di Diritto privato e docente di Biodiritto, Università di Firenze

Gian Giacomo Pisotti, già presidente della sezione civile della Corte d’Appello di Cagliari

#SolidarityWithKarim, il mondo si mobilita per il bambino con un occhio solo

epa06399839 Karim, an infant who was injured twice from bombings on Eastern al-Ghouta, rebel-held Douma, Syria, 20 December 2017. On 29 October 2017 Fadya, a Syrian woman who was displaced from al-Qisa, took her three-months old child Karim Abdul Rahman from Beit Sawa (a small area with no markets in eastern al-Ghouta) to Hamoria in order to buy home supplies, during her shopping the market with bombed by forces allegedly loyal to the Syrian regime, which led to her death and her son Karim, lost his eye. After spending 10 days at a hospital he was discharged to his house, in which another bombing led to a shrapnel to injure his skull. Activists worldwide launched a campaign in solidarity with Karim as a symbol for the besiegement of Eastern al-Ghouta, hundreds joined the campaign globally on social media on #SolidarityWithKarim, including the British ambassador to the UN Matthew Rycroft. EPA/MOHAMMED BADRA

Tre mesi e un occhio solo. Vicino Damasco, a Ghouta est. Non si conosce ancora il suo cognome, ma il bambino si chiama Karim ed è siriano. Dietro di lui, nel passato, ci sono le macerie di una casa che era sua ma ormai non vedrà mai più. La madre di Karim ha tentato di salvarlo portandolo da Al Qisa ad Hammouria, ma è morta sotto le bombe.

La foto del bambino ferito l’ha scattata il freelance Amer al-Mohilbany. Ora il mondo con la mano si copre un occhio per solidarietà, per dargli voce con un’immagine che da sola racconta la sua storia a pochi mesi di vita. #SolidarityWithKarim e #StandWithKarim sono hashtag ormai virali. Dalla Siria al mondo: fino alla redazione tedesca del Bild, all’Ida, associazione medica turca, a partire da tutti i bambini di Ghouta sotto assedio.

Karim ha il cranio inciso da una cicatrice, massacrato per colpa degli esplosivi governativi. Quando sua madre è morta il 29 ottobre, è stato trasferito all’ospedale, ma anche la struttura sanitaria è stata bombardata. Il ritratto del piccolo che ora tutti conoscono è un nuovo volto dei tanti che hanno rappresentato l’orrore commesso sui minori nei sei anni di conflitto in Siria.

Ghouta invece resiste dal 2013 sotto assedio, con i suoi 400mila abitanti intrappolati. Secondo la Croce Rossa, la situazione nell’area «è arrivata a un punto critico, la vita sta diventando lentamente impossibile», cinquecento persone sono in attesa di essere evacuate per le cattive condizioni di salute in cui versano. Manca benzina e acqua, medicine e vestiti caldi per l’inverno.

Per Karim le foto ritratto di solidarietà aumentano. Ne ha fatto uno anche Bana al Abed, una rifugiata siriana i cui video e blog sono stati visti ben oltre i confini della città di Aleppo in cui vive, dove i ribelli hanno combattuto contro le truppe di Assad nel 2016. Lo ha fatto soprattutto Matthew Rycroft, rappresentante permanente britannico alle Nazioni Unite. L’assedio a Ghouta est non permette che i rifornimenti di cibo e medicine arrivino in città, allo stesso tempo non permette l’evacuazione dei civili feriti dall’interno verso l’esterno.

«È solo a trenta minuti da Damasco, è una questione di vita o di morte» ha detto Rycroft, ribadendo che la Russia dovrebbe influenzare il governo siriano per accettare il piano di trasferimento e rifornimento. E dopo, per Karim, si è coperto l’occhio con la mano.

Piccola notizia prima di manifestare: la vietata solidarietà a Como ha la firma di Minniti

Il ministro dell'Interno Marco Minniti che ha accompagnato il segretario del Partito democratico Matteo Renzi nella sua visita al caseificio "Le Terre di Don Peppe Diana", intitolato al prete ucciso dalla camorra a Casal di Principe, realizzato su un bene confiscato alla criminalità organizzata, in particolare al boss Michele Zaza. Castel Volturno (Caserta), 22 novembre 2017. ANSA/ CIRO FUSCO

Mentre ci si prepara di gran cassa (giustamente e per fortuna) a manifestare contro l’orribile ordinanza del sindaco di Como, Mario Landriscini, che vieta di offrire un pasto caldo e un po’ di ristoro ai senzatetto intirizzito dal freddo e mentre la Lega (che ha perso il “nord” ma non il vizio) insieme a Fratelli d’Italia si gode questo scorcio di cattivismo proprio sotto Natale vale la pena soffermarsi sulle cause oltre che sugli effetti.

Se c’è da qualche parte in giro per l’Italia qualche sindaco che cerca visibilità strofinandosi sui fragili è perché l’articolo 50 del Testo unico degli enti locali permette, in nome dell’odiosissimo “decoro”, «in musica abnorme e in modo indeterminato, il potere extra ordinem dei sindaci, incidendo sui beni di rango costituzionale come la libertà personale e quella di circolazione discriminando i cittadini in base alle loro condizioni sociali e personali» come ha spiegato bene ieri il deputato di Possibile (e ora in Liberi e uguali) Andrea Maestri, che di povertà e discriminazioni si occupa da tempo in veste di avvocato.

In pratica i sindaci destrorsi utilizzano da par loro il famoso decreto Minniti-Orlando (che si professano di centrosinistra) che a suo tempo venne contestato proprio per la disuguaglianza di fondo.

Quindi mentre ci auguriamo che quanto prima si certifichi l’incostituzionalità del reato di solidarietà forse sarebbe il caso di soffermarsi anche sui pessimi risultati di un’azione di governo che he ben chiare le firme in calce altrimenti vedere i democratici sfilare a Como contro il sindaco, inconsapevoli delle responsabilità del proprio partito, potrebbe risultare piuttosto goffo. Qualcuno li avvisi. Ecco tutto.

Buon venerdì.

Licenziamenti alla Tirreno Power. E un dipendente inizia lo sciopero della fame

Una immagine della manifestazione in occasione dello sciopero dei lavoratori della Tirreno Power a Vado Ligure (Savona), 27 luglio 2016. ANSA / US CGIL +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

I licenziamenti per i lavoratori in esubero di Tirreno Power, società nata a seguito della liberalizzazione del mercato elettrico, sono arrivati negli stabilimenti una volta di proprietà Enel, di Vado Ligure, Civitavecchia e Napoli. Rispettivamente cinque nella centrale ligure e in quella civitavecchiese, due nello stabilimento di Napoli – Levante.

Ernesto Tarallo ha passato tutta la notte sotto la sede Enel di viale Regina Margherita di Roma e non ha intenzione di andarsene. Cinquantenne di Civitavecchia e con due figli, è uno dei lavoratori di Tirreno Power che ha ricevuto la lettera di licenziamento e che per protesta ha annunciato uno sciopero della fame, anche se è diabetico: «Sono stato assunto in Enel dopo aver vinto un regolare concorso, ma sono stato ceduto a Tirreno Power e adesso, dopo 15 anni, mi ritrovo alla mia età senza un lavoro», ci spiega mentre fuori dalla sede, con la giacca della società Tirreno Power, distribuisce i volantini di protesta ai dipendenti che escono dall’azienda. «Li ho stampati io – prosegue – ho speso 10 euro di fotocopie anche se ho perso il lavoro». Vuole che vengano rispettati gli accordi del 2004 dal Comune di Civitavecchia, l’Enel, la Tirreno Power, la Regione Lazio e dalle organizzazioni sindacali nazionali e territoriali di categoria, presso la presidenza del Consiglio dei ministri e stipulato in occasione della riconversione a carbone della vicina centrale Enel di Torrevaldaliga Nord come risarcimento verso la città, dove Enel si impegnava a favorire manodopera locale con particolare riferimento al personale della centrale di Torrevaldaliga Sud (Tirreno Power) che dovesse essere in esubero: «Voglio solo che si rispettino gli accordi e voglio essere riassorbito nella centrale Enel di Torrevaldaliga Nord».

In realtà, il 2 dicembre del 2016 è stato stipulato un altro accordo tra le organizzazioni sindacali e la Tirreno Power per la gestione dei lavoratori in esubero, poi ratificato presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che prevede per i lavoratori di Civitavecchia la cassa integrazione straordinaria, il licenziamento collettivo tramite mobilità volontaria, in seguito obbligatoria, e iniziative a supporto di ricollocazione.
Nasce tutto a Vado Ligure nel 2014 con il sequestro per presunto disastro ambientale dei gruppi a carbone della Tirreno Power. L’azienda allora nel 2016 ha avviato la procedura di mobilità per 181 lavoratori: «La chiusura dei gruppi a carbone di Vado Ligure e la situazione di crisi del mercato energetico hanno reso necessaria la riduzione del personale prevista dal piano industriale, asseverato e omologato dal tribunale di Roma nel novembre 2015 dopo una trattativa con le banche. L’approvazione del piano, presentato a istituzioni e parti sociali, ha consentito la continuità aziendale assicurando il lavoro a 196 persone e all’indotto», comunicava la società.

La chiusura dei gruppi di Vado è stata disposta dal Gip di Savona l’11 marzo 2014 per il mancato rispetto delle norme ambientali, ciò ha aggravato la crisi finanziaria. La mobilità ha interessato un centinaio di lavoratori proprio della centrale di Vado, dopo anni di cassa integrazione, mentre gli altri riguardano le centrali di Civitavecchia, Napoli e gli uffici di Roma. Quindi gli incentivi statali con la cassa integrazione a dicembre 2016 e terminata il 18 dicembre scorso, adesso i licenziamenti. Le soluzioni proposte dall’azienda attraverso l’accordo sindacale erano tre: il prepensionamento anticipato, il ricollocamento attraverso aziende del territorio e del settore elettrico o l’incentivazione economica a cui si è aggiunto il reintegro per 41 persone. «Una situazione quasi totalmente assorbita» spiega Giorgio Tedeschi, responsabile delle relazioni con i media di Tirreno Power di Vado Ligure. «Anche chi non ha accettato il ricollocamento oggi, ne avrà certamente l’opportunità dopo la fine della cassa integrazione di dicembre e il nostro obiettivo è quello di far scendere il numero dei lavoratori licenziati a zero».

Un regalo di Natale che riguarda la maggior parte dei dipendenti con un’età compresa tra i 40 e i 50 anni. Intanto su Facebook e Twitter sono stati creati gli hashtag #tirrenopower, #solidarietàdisettore e #noailicenziamenti dove viene espressa la vicinanza e la solidarietà ai lavoratori dei tre stabilimenti colpiti dai licenziamenti: «Non posso fare molto, ma sono vicino ai colleghi e ai lavoratori di Tirreno Power. Speriamo che la magia di Natale possa portare la soluzione e risolvere tutti i problemi», scriveva Diego su Facebook pochi giorni prima l’arrivo dei licenziamenti. «Si tratta della fascia d’età più esposta alla crisi del mercato del lavoro – spiega Mauro Cosimi, Rsu Tirreno Power Civitavecchia-responsabile Ugl chimici-energia – vuol dire che quando ne esci se non sei rovinato poco ci manca».

A Civitavecchia la situazione è diversa, e le opportunità di lavoro che offre il territorio sono più limitate. Molti, hanno scelto di licenziarsi volontariamente: «Si tratta di persone ancora molto lontane dal prepensionamento, e soprattutto ci chiediamo come sia possibile che un sito attivo come quello di Civitavecchia non riesca a garantire il posto di lavoro a 5 dipendenti» conclude Mauro Cosimi. Molto simile è la situazione di Napoli dove i dipendenti licenziati sono due: «Si tratta di una situazione drammatica viste le problematiche del mondo del lavoro nel nostro territorio. – spiega Luciano Pagliara, Rsu Flaei-Cisl dello stabilimento Tirreno Power di Napoli-Levante – Si tratta di famiglie monoreddito e uno dei lavoratori licenziati ha tre figli a carico».

Intanto Ernesto Tarallo è ancora sotto la sede di Enel a Roma: «Ho passato la notte qui – racconta – gli addetti alle pulizie mi hanno offerto dei cappuccini. Ora però dall’azienda mi hanno detto che se voglio rimanere devo spostarmi dall’altra parte del marciapiede».

Aggiornamento del 22 dicembre 2017 ore 10:40

«Con riferimento alla vicenda del licenziamento di sei dipendenti di Tirreno Power a Civitavecchia e in particolare alla situazione del signor Tarallo, che ha richiesto ad Enel la ricollocazione in azienda in base al Verbale di Accordo del 2004», Enel  precisa in una nota che «gli accordi erano riferiti allo specifico momento della messa in esercizio di Torrevaldaliga Nord, e pertanto non applicabili alla situazione attuale».  Enel, prosegue la nota, «si è fatta parte attiva per favorire il dialogo tra Tirreno Power e il signor Tarallo, che, secondo quanto appreso informalmente, sarebbe stato contattato da Tirreno Power».