Home Blog Pagina 809

A Venezia i murales di Andreco denunciano gli effetti del climate change

Un progetto artistico che ha la forza della denuncia sociale, la rigorosità della pratica scientifica e la passione dell’attivismo ambientalista. Ecco cosa colpisce del wall painting lungo cento metri e alto sei, in cui ci si imbatte passeggiando lungo le rive del Canal Grande a Venezia, in Fondamenta Santa Lucia, sul lato della stazione che guarda Piazzale Roma.
Il murales realizzato da Andreco, artista visivo e ingegnere ambientale, rappresenta in chiave artistica l’innalzamento del livello medio del mare provocato dal surriscaldamento globale, da qui al 2200, e nella parte superiore le onde estreme, sulla base dei dati pubblicati dalle ricerche condotte da organizzazioni internazionali come l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il German advisory council on global change (Wbgu), oltre che dagli studi del climatologo Stefan Rahmstorf.
Su tutta la superficie, sono riportate le variabili che contribuiscono al fenomeno di innalzamento delle acque, utilizzando le formule matematiche che le descrivono.
Al wall painting si affianca un’installazione che ospita alcune piante dell’ecosistema lagunare, sovrastate da una struttura reticolare in ferro, alta 7 metri, che ha la funzione di attirare l’attenzione su quello che c’è sotto: gli endemismi vegetali, che hanno un ruolo fondamentale nella mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e anche nella salvaguardia della laguna e della città di Venezia. L’installazione prende inspirazione da uno studio sulla condizione delle piante autoctone in laguna in caso di innalzamento del medio mare, firmato da Debora Bellafiore dell’Istituto di scienze marine (Ismar) del Cnr.
Le due opere fanno parte di Climate 04 Sea Level Rise, un progetto tra arte e scienza sulle conseguenze dei cambiamenti climatici e in particolare sull’innalzamento del livello del mare realizzato da Andreco in collaborazione, tra gli altri, con l’Università Cà Foscari e l’Università Iuav di Venezia, il Cnr – Ismar, la Regione Veneto, le gallerie Studio La città e One Contemporary Art e le aziende private De Castelli partner per la realizzazione della scultura e Spring Color che ha fornito colori con pigmenti naturali a basso impatto ambientale per il wall painting.

«Quella di Venezia è la quarta tappa di un progetto più ampio: Climate – spiega Andreco, che porta avanti ricerca artistica e formazione scientifica sviluppando il rapporto tra spazio urbano e paesaggio naturale in tutte le sue declinazioni – un progetto ispirato alla ricerche su cause ed effetti del cambiamento climatico, che ho presentato per la prima volta a Parigi nel novembre 2015, in occasione della Cop21 delle Nazioni Unite, e proseguito, poi, nelle città di Bologna e Bari».
Climate porta alla luce le vulnerabilità dei territori in cui si inserisce: se a Bari il tema principale è stato l’accelerazione dei fenomeni di desertificazione dovuti all’innalzamento delle temperature, a Venezia Andreco si è concentrato sull’innalzamento del livello del mare, dato che la città è una di quelle maggiormente esposte al rischio di essere sommersa.
«L’arte – prosegue Andreco – riesce a colpire e far pensare a cose cui di solito non prestiamo attenzione, o semplicemente non vogliamo pensare. Questo lavoro mette sotto gli occhi dei veneziani l’immagine del pericolo che corre la città e la possibilità concreta della sua misurazione, utilizzando dati scientifici ufficiali. L’arte può creare un punto di rottura con la percezione esistente che, a volte, può generare un motore di consapevolezza collettiva ed è di questo credo, della consapevolezza e della volontà di cambiamento, che abbiamo bisogno per arrestare l’aumento delle temperature in corso».
Installazioni, performance, video, pittura murale, scultura e progetti d’arte pubblica. Andreco utilizza linguaggi diversi per dare occasione di riflettere e coinvolgere un pubblico più ampio possibile su temi che chiamano in causa tutti noi, se è vero che c’è bisogno di attuare una rivoluzione climatica veloce e ambiziosa per invertire l’attuale tendenza del global warming.
Mentre arte e scienza lanciano allarmi e segnali, i rappresentanti dei Paesi che partecipano in questi giorni alla Conferenza sui cambiamenti climatici di Bonn, COP23, hanno il compito di tradurre in pratica gli obiettivi stabiliti a Parigi di contenimento delle emissioni, principali responsabili del surriscaldamento globale. E gli Stati Uniti della presidenza Trump, uno dei maggiori produttori di CO2, escono dagli Accordi di Parigi.

Tutte le informazioni sul progetto climate sul sito www.climateartproject.com e sul sito personale dell’artista www.andreco.org

Una classe dirigente che sa di Tavecchio

Italian Soccer Federation (FIGC) President Carlo Tavecchio during a press conference after quitting following the national team's shock failure to qualify for the 2018 World Cup, Rome, 20 November 2017. ANSA/CLAUDIO PERI

Ha ricordato il suo mese passato al fianco dei giocatori della nazionale “giocando a boccette” durante gli Europei. Ha detto così.

Dice di essere sotto attacco “per un atto politico”. Sì, lo so, l’avete già sentita un milione di volte questa.

Con qualche difficoltà nella lingua italiana (un classico della nostra classe dirigente) ha detto testualmente: “se quel palo entrava, Tavecchio era un grande. Invece resto alto 1 metro e 61”.

“Ho fatto tutto normale”, dice con il lessico di un bambino alle scuole elementari. E poi, al solito, ha parlato di tradimento: “Ho preso atto del cambiamento di atteggiamento di alcuni voi. Nonostante il documento che mi hanno richiesto e condiviso, non sono disposti nemmeno a discuterlo”.

Tavecchio, vale la pena ricordarlo, era quello che si era meritato un’indagine per razzismo da parte dell’UEFA per la sua frase sui giocatori che “giocano in serie A e prima mangiavano banane”.

Insomma il presidente della FIGC aveva tutte le carte in regola per essere la fotografia della classe dirigente di questo Paese: arrogante, ignorante, bullo, poco capace, incline al vittimismo, perdente e capace sempre di scaricare responsabilità sugli altri.

In fondo spiace che se ne sia andato (ma poi questi, prima o poi, dalla finestra ritornano) perché era un ottimo modo per ricordarci tutte le mattine che in fondo siamo il Paese in cui, ogni giorno, senti parlare qualcuno che ricopre un ruolo di responsabilità e ti domandi come abbia fatto a finire lì. E invece siamo noi, alla fine, che gli abbiamo permesso di arrivare fin lì. Siamo stati noi con tutta la stanchezza e l’assuefazione a ciò che non dovrebbe essere accettato e tollerato. Noi.

Buon martedì.

 

 

Il movimento del ’77, “fuoco di paglia oscura marmaglia”

19770513-ROMA-Militanti di 'Lotta Continua', 'Avanguardia Operaia', 'PDUP' e 'Movimento lavoratori' in corteo alla periferia di Roma. ANSA ARCHIVIO/74334

Per decenni nella storia italiana si è presa come data esemplare e punto di non ritorno il 9 maggio 1978, giorno della morte di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana “giustiziato” dalle Brigate Rosse, un gesto in cui si configurava l’uccisione del padre. Ma è il 12 maggio 1977, con il corpo di un’adolescente riverso a terra all’imbocco di Ponte Garibaldi a Roma, che la tragedia investe tutta una generazione, forse perché nella morte “casuale” di Giorgiana Masi, nell’immagine di una ragazzina di neppure vent’anni, si concretizza e si rappresenta l’idea dello slancio, dell’utopia di una rivolta che nasce e muore nell’arco di pochi mesi, stroncata da un killer invisibile, virus mutante, che si nasconde nei pensieri, nelle idee, nelle parole.

Come è potuto accadere che un’area non trascurabile di ragazzi poco più che ventenni si sia trasformata in una banda di dèmoni dostoevskiani? Che l’hascisc e la marijuana siano state spazzate via da un fiume di eroina?

Le domande a cui non fu offerta alcuna risposta, la sete di fantasia e di libertà che non trovarono sorgenti ma pozzi avvelenati, impedirono la nascita di un’identità nuova, ancor peggio, produssero molte catastrofi sorde, i cui pezzi schizzarono in cento direzioni. Per la perdita del futuro, milioni di ragazzi smarrirono completamente non solo la possibilità, ma l’idea stessa di trasformazione, di un’alternativa umana diversa, lasciando dietro di sé un conto aperto, il senso di un’occasione mancata. «Non è il ’68. È il ’77. Non abbiamo né passato né futuro. La storia ci uccide» recitava una scritta sul muro dell’università di Roma.

Il movimento del ’77 è stato un fenomeno tutto italiano, quasi del tutto sconosciuto fuori dei confini nazionali e in larga misura cancellato o ignorato anche in Italia. Il primo movimento privo di sponda politica, senza una strategia, un’organizzazione, una cultura unificante in grado di tenerne assieme le innumerevoli differenze. Un quadro di fronte al quale le forze politiche presenti, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, convergevano nello stigmatizzare e liquidare senza appello un movimento giovanile costituito da centinaia di migliaia di ragazzi, studenti e “proletariato metropolitano”, cui chiusero la porta in faccia, combattendole come il proprio peggior nemico. Erano gli anni del compromesso storico fra cattolici e comunisti, in cui il timore di una deriva cilena aveva spinto il più grande partito comunista dell’Occidente a cercare una mediazione con le forze cattoliche più moderate, per tentare un possibile accesso al governo del Paese ed uscire da trent’anni di opposizione parlamentare.

Così il movimento del ’77, come un figlio indesiderato di genitori in altre faccende affaccendati, cresce ineducato, rozzo, esigente, violento. La sua identità è fatta di rifiuti, ma più spesso di negazioni, solo contro tutti. Sviluppa una prassi incapace di mediazioni e reagisce a tutto, dissipa energie nel furore di un “ora e subito” che esige la soddisfazione immediata dei bisogni. Tutto il ’77 è una corsa a perdifiato all’espressione, tra cori, filastrocche, messaggi-fiume alle radio libere, slogan, scritte murali: L’inferno è rosso il paradiso lo sarà! / Cambiamo la vita prima che la vita ci cambi / Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è quindi eccellente / Sarà una risata che vi seppellirà Compagni nella lotta, fascisti nella vita, con questa ambiguità facciamola finita / Cosa diciamo compagni? Basta! Cosa vogliamo? Tutto!… È l’anno dell’inventiva, del dissenso, dell’iconoclastia declinata in modo variopinto e immaginifico, delle incursioni dada, come quelle degli “indiani metropolitani”: Manitù Manitù la tristezza non c’è più/ W i disadattati organizzati/ / Risate rosse / Siam violenti, siam dementi, siamo sempre più scontenti / Era una notte di lupi feroci, l’abbiamo riempita di luci e di voci /Ci tolgono la gioia, ci tolgono la vita, con questo sistema facciamola finita.

L’anno delle radio libere (Radio Città Futura, Radio Onda rossa, Radio blu, Radio proletaria, Radio Singer, Radio Alice….), che in Fm veicolano movimenti collettivi e inquietudini personali, dei fumetti di satira crudele e irriverente (Il male, Cannibale, Frigidaire, alter alter, Rankxerox, Re nudo, Oask?!, Abat-jour, Viola, WoW, A/traverso) che intercettano in modo significativo gli eventi, le tematiche, gli stati d’animo collettivi: le relazioni fra compagni, i rapporti uomo-donna, il modo di fare politica, la ribellione ai compromessi del Pci, la droga, il suicidio. Sono alcuni dei temi ricorrenti delle lettere e delle telefonate irruente e accorate, che giungono ogni giorno al quotidiano Lotta Continua e alle radio libere, a migliaia da tutta Italia: uno scambio impressionante di pensieri e stati d’animo in presa diretta, registra e restituisce l’identikit sfaccettato di una generazione, l’elettrocardiogramma del movimento, che cresce e si propaga in tutta Italia nell’arco di pochi mesi, generando l’idea, o piuttosto l’illusione, di una trasformazione in atto, che poi non riesce a svilupparsi e crolla sotto il peso di ciò che non si compie.

All’euforia subentra la rabbia e con essa la disperazione, per un fallimento avvertito come incipiente. Pur rifiutando le modalità della dialettica parlamentare e non riconoscendosi minimamente nelle organizzazioni dei partiti e dei sindacati, cionondimeno quello del ’77 è stato un movimento politico, per lo scontro diretto che instaurò con lo Stato, conflitto violento, spesso armato. E la condanna, in blocco, senza appello, per tutto ciò che in quel movimento si espresse, (tranne forse per alcune innovazioni e giochi linguistico-iconografici subito recuperati dal mercato pubblicitario) ha impedito per quarant’anni di esplorare la storia di una generazione, i motivi di un immane, tragico fallimento, una scia impressionante di morti.

1977 fuga in avanti: la “bellissima” fretta di vivere tutto, un cerino che brucia da due parti, la fine della corsa però, lo sentono quasi tutti. Ed è forse per questo crollo che la maggior parte non si è lasciata quel momento veramente alle spalle, damnatio memoriae, nervo scoperto pronto a rispondere, è ciò che si avverte in chiunque abbia vissuto il ’77 e venga interpellato: come il big bang, ha disperso frequenze ancora percepibili, lasciato ad ognuno un suono, chi una ferita, chi un rancore, qualcuno ha tenuto per sé un sogno. È significativo che a distanza di quarant’anni non vi sia stata un’autentica elaborazione di cosa sia stato il ’77, concentrando solo l’attenzione mediatica sull’esplosione del terrorismo, che, seppure ne sia l’aspetto più eclatante, non è sovrapponibile tout court e non rappresenta certo la maggioranza di quel movimento. Abbiamo così da una parte la generazione dei venti-trentenni, ovvero dei figli e degli allievi di quelli che furono i protagonisti di quell’anno, che non sa nulla, e nel migliore dei casi confonde il ’68 col ’77, e dall’altra i settantasettini, compresi coloro che sono divenuti scrittori, pubblicitari, giornalisti televisivi e della carta stampata o professori, che non hanno mai veramente proposto una ricerca su un passato su cui è calato il buio totale.

Azzardo un’ipotesi. Forse perché qualcuno aveva capito subito la portata della tragedia in atto e immediatamente aveva dato una risposta. L’Analisi collettiva non a caso decolla nel ’77, si riempie in un lampo di quei ragazzi allo sbando, in rotta dai cento rivoli del movimento. Cambiano le parole: invidia, rabbia, bramosia, indifferenza, fatuità, dissociazione, annullamento… Parole misteriose, sconosciute: vitalità, nascita, sessualità umana, inconscio mare calmo. Cambia il pensiero. Poco a poco, con infinita calma, lo psichiatra Massimo Fagioli li rianima, li rimette in piedi, ascolta e interpreta. Rubo con qualche licenza dal suo scritto Le notti dell’isteria, pubblicato nel 1985: il ’77 morì con il ’77, «la rivoluzione culturale non aveva fatto un bambino, i giovani non erano riusciti a sognare. Addormentati nello stato di veglia scambiarono la realtà per un sogno e, non riuscendo a dormire davvero per aver abbandonato la realtà, scambiarono i sogni con la realtà». «Gli anni settanta videro la follia della rassegnazione e della non rassegnazione. Videro masse di giovani recuperare il tempo perduto nell’inquadramento in quei ranghi che avevano tentato di distruggere, videro gli altri, non rassegnati, ammalarsi di quella follia di rivolta totale, della negazione, della distruzione, dell’uccisione di se stessi non potendo uccidere gli altri».

Ma all’Analisi collettiva «…la realtà del sogno rendeva ognuno responsabile delle proprie immagini oniriche. Lo rendeva responsabile di quella realtà detta inconscio… di quanto nell’uomo non era mai stato considerato reale. La malattia era colpa? Errore? Impotenza? Scelta? Calcolo razionale? Nessuno sapeva». Non si era mai sentito niente di simile, «era come se quel medico si addormentasse quando il paziente raccontava il suo sogno… e sognasse facendo immagini stimolate dalle parole altrui. Era come se ricavasse da quei sogni ad occhi aperti la conoscenza dell’inconscio e l’interpretazione del latente dei sogni altrui…Vedeva e raccontava della bestia nascosta dietro un albero, del folletto nascosto sotto la foglia, del ciclope nascosto dietro la collina, della serpe nascosta in mezzo all’erba…».

L’articolo di Francesca Pirani è tratto da Left n.28 del 15 luglio 2017 


SOMMARIO ACQUISTA

Alla ricerca della materia oscura, sfida a distanza tra Italia e Cina

L'apparato sperimentale dell'esperimento Xenon. E' in corso una disputa scientifica sotto il Gran Sasso e riguarda la materia oscura, ossia la materia invisibile che costruisce il 25% dell'universo (quella visibile e' appena il 5%) ed uno degli oggetti piu' misteriosi e inafferrabili rincorsi dai fisici. In discussione e' l'attendibilita' dei dati rilevati finora da alcuni esperimenti e la questione non e' da poco, se e' riuscita ad arrivare sulle pagine del New York Times e del settimanale britannico New Scientist. Scenario della contesa sono i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e i protagonisti sono due esperimenti: l'italiano Dama-Libra, che nel 2008 aveva annunciato la scoperta delle prime evidenze della materia oscura sollevando alcune perplessita' negli Stati Uniti, e l'esperimento internazionale Xenon 100, al quale partecipa anche l'Italia con Stati Uniti e Svizzera e che e coordinato dall'italiana Elena Aprile, della Columbia University di New York. Entrambi gli apparati di questi esperimenti si trovano nei Laboratori del Gran Sasso. ANSA/us XENON

È come tirare su acqua dall’oceano di notte con un colapasta. Che si sia al mare lo sentiamo, anche se non lo vediamo. E che di acqua in mare ce ne sia tantissima, viene da sé. Ma quando solleviamo l’utensile in mano non ci resta niente. Deve essere stata questa la sensazione provata ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dopo aver messo in attività Xenon1t, l’esperimento guidato da Elena Aprile, progettato per catturare le Wimp (Weakly interacting massive particles) e dare finalmente un volto alla “materia oscura”: la sostanza, invisibile e, appunto, di natura oscura che costituisce (che sembra costituire) oltre l’85% della massa dell’universo. E la medesima sensazione devono averla provata i cinesi dell’esperimento PandaX realizzato nei laboratori di Jinping nella provincia dello Sichuan. Anche loro hanno tirato su il colapasta e non vi hanno trovato alcuna traccia di Wimp.

I risultati dei due gruppi internazionali di ricerca, quello che lavora in Italia e quello che lavora in Cina, sono stati pubblicati lo scorso 30 ottobre sulle Physical Review Letters e, ammettiamolo, sono un po’ frustranti. Certo, non è detta l’ultima parola, perché scovarle – quelle particelle massive che si presume interagiscano molto, molto debolmente con quel residuo 25% di materia che noi vediamo – non è impresa da poco. Ma non sono pochi, ormai, a pensare che forse conviene battere altre strade, teoriche e sperimentali, per risolvere il problema della “materia oscura” che, in coppia con quello della “energia oscura”, costituisce il più grande rovello sia per gli astrofisici che per i fisici delle alte energie.

Gli uni e gli altri pensano che la “materia oscura” deve esserci, proprio come l’acqua nel mare. Per due motivi fondamentali. Il primo è che bisogna far tornare i conti della ricostruzione della storia cosmica. Sappiamo, infatti, che le prime galassie si sono formate 500 milioni di anni dopo il Big Bang. Se il nostro orologio è tarato su quello del Modello standard della cosmologia che ingloba la Teoria dell’inflazione e se l’universo ha una densità W pari a 1, così come verificato dall’esperimento Boomerang di Paolo De Bernardis, allora non c’è modo di spiegare la nascita delle prime galassie 500 milioni di anni dopo il “grande botto” iniziale, se non prevedendo l’esistenza di una quantità di materia almeno sei volte superiore a quella che vediamo con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione attualmente per scrutare l’universo. Allo stesso modo, non c’è possibilità di spiegare il moto delle galassie – in particolare la velocità con cui ruotano intorno al proprio asse – se non considerando che la materia galattica che noi osserviamo deve essere immersa in un “alone” di altra materia, oscura appunto. E questa materia oscura deve essere, appunto, all’incirca sei volte superiore alla materia visibile.

In breve ci sono due grandi indicazioni indipendenti che indicano che là fuori il grande oceano della materia oscura “deve” esistere. Ma tutte le volte che tentiamo di recuperarne un po’, non riusciamo a bagnarci neppure le dita. Semplicemente non la troviamo.

Questa materia, come dicevamo, è oscura non solo perché non la vediamo, ma anche perché non ne conosciamo la natura. Nel corso degli ultimi decenni i fisici hanno indicato molti candidati. Ma mai nessuno si è rivelato quello giusto. Non li passiamo in rassegna: non abbiamo lo spazio. Diciamo che, da ultimo, il candidato più accreditato sono le Wimp, particelle previste dalla Susy (la teoria di supersimmetria) che a sua volta è accreditata come la più promettente per “andare oltre il Modello standard delle alte energie”. Anche qui, non abbiamo spazio per approfondire. Diciamo solo che la fisica delle particelle o delle alte energie non si è esaurita con la scoperta del “bosone di Higgs” nel 2012 al Cern di Ginevra, perché sono ancora molti i conti da far tornare. Per esempio il fatto – verificato anche al Gran Sasso dall’esperimento Opera guidato da Antonio Ereditato – che i neutrini hanno una massa, sia pure piccolissima. Cosa non prevista dal Modello standard.

L’idea di fondo della Susy è che esiste in natura una supersimmetria, che fa corrispondere a ogni e ciascuna particella nota un suo omologo. A ogni elettrone corrisponde, dunque, un s-elettrone. A ogni quark uno s-quark. Tutte queste s-particelle, dice la teoria, sono Wimp: hanno una massa, ma sono debolmente interagenti con la materia ordinaria. La teoria è elegante. Ma ha un piccolo difetto, decisivo nella scienza: nessuno ha mai provato, in maniera chiara e inequivocabile, che le particelle supersimmetriche esistono. Di Wimp non c’è traccia. Neppure Xenon1t sotto il Gran Sasso e PandaX in Cina le hanno scoperte.

Le opzioni, a questo punto, sono quattro.

La prima è portare pazienza: le particelle cercate sono molto elusive e questi ultimi due esperimenti sono, tutto sommato, recenti. Insomma nulla vieta che le Wimp siano trovate, prima o poi.

Secondo: loro, le Wimp, sono così elusive che bisognerà progettare esperimenti ancora più sofisticati. E, infatti, Xenon1t, lì sotto 1.400 metri di roccia del Gran Sasso, è destinato a crescere. Si passerà molto presto da un rilevatore che contiene 3,5 tonnellate dell’elemento xeno puro, un gas a temperatura ambiente che è portato a – 95 °C per renderlo liquido, a un rivelatore che conterrà 7,6 tonnellate di xeno. Per schermarlo al meglio, il rilevatore è a sua volta immerso in un contenitore di 700 m3 alto 10 metri di acqua purissima. L’ipotesi è che la Terra ruotando intorno al Sole e, con il Sole, ruotando intorno al centro della Via Lattea, attraversi l’alone di materia oscura e sia, quindi, colpita da una pioggia di particelle supersimmetriche. I teorici calcolano che siano decine di migliaia le particelle di materia oscura che attraversano ogni secondo un centimetro quadro di superficie della Terra. E la speranza è che, ogni tanto, una delle elusive particelle supersimmetriche interagisca con un atomo di materia ordinaria, lasciando una traccia inequivocabile. Finora non è accaduto.

Questo spalanca la porta a una terza opzione: la materia oscura non è fatta di Wimp. Ne consegue che occorre trovare altri candidati. Il paniere delle possibili alternative – siano esse altre particelle o oggetti macroscopici – è ricco. Ma nessuna delle alternative alle Wimp è convincente.

Si sta così facendo strada – come ha documentato la rivista Nature in un suo recente numero – la quarta ipotesi, peraltro caldeggiata da non pochi astronomi. Che in realtà la materia oscura non esista affatto. Così come non esisterebbe affatto l’energia oscura, che rappresenta i tre quarti del cosmo ma che nessuno ha mai direttamente rilevato. E allora come si spiegherebbero la nascita in soli 500 milioni di anni delle galassie e i movimenti accelerati delle medesime intorno al proprio asse? Una risposta da non scartare affatto è che ci potrebbe essere non una materia oscura (e un’energia oscura) ma una “legge oscura”. Una spiegazione teorica nuova, che potrebbe richiedere il superamento o, comunque, una modifica della relatività generale di Einstein.

D’altra parte lo stesso Einstein sosteneva che l’equazione con cui ha formalizzato la relatività generale è costituita per metà di marmo pregiato e per metà di legno scadente. La parte pregiata è quella che privilegia la continuità e descrive il campo gravitazionale. La parte scadente è quella che privilegia (o, secondo Einstein, si adegua) alla discontinuità e descrive le particelle che sentono il campo. Il più grande fisico di ogni tempo ha speso metà della sua vita scientifica per rendere pregiata l’intera equazione. Non c’è riuscito. Né ci sono riusciti i tantissimi fisici che, dopo di lui, hanno tentato di fare altrettanto. Ecco, secondo alcuni occorre attendere un nuovo Einstein perché finalmente illumini la parte della fisica – e dell’universo – ancora nell’oscurità.

Usa vs Russia, la nuova guerra fredda è mediatica e si combatte anche sui social

epa06321734 Russian President Vladimir Putin (L) and US President Donald Trump (R) talk as they head to a group photo session with fellow APEC leaders at the 25th Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) summit in Da Nang, Vietnam, 11 November 2017. The APEC summit brings together world leaders from its 21 member nations and is being hosted for the second time by Vietnam, the first being in 2006. EPA/WALLACE WOON

Giornalista, sei persona non grata. Ma adesso, ufficialmente, anche agente straniero. In russo si dice smi-agent, in inglese foreign agent. Un sinonimo di “spia” in entrambe le lingue. È il dizionario della nuova vecchia guerra fredda, un lessico che dobbiamo imparare tutti, per capire che succede tra le due capitali di guerra, Mosca e Washington. Secondo le leggi approvate dal Congresso USA prima, dalla Duma di Stato di Mosca poi, da questa settimana i giornalisti che lavorano per testate americane nella Federazione russa dovranno registrarsi da “agenti stranieri” come quelli che lavorano per quelle russe in Nord America, che sono obbligati a stilare report quotidiani su fondi usati, tweet scritti, fonti contattate. In inglese si dice tit-for-tat misure, in russo zerkalnij otvet, risposta a specchio. Nel mirino del Congresso americano c’è RT, Russia Today, la tv in inglese di Putin, in quello del Cremlino c’è la CNN, Radio Liberty e Current tv.

Le tre agenzie di spionaggio più potenti del mondo dicono con high confidence , con quasi assoluta certezza, la stessa cosa: la propaganda russa ha interferito nelle elezioni americane 2016. “Mosca desidera minare il sistema liberale democratico”, dietro la vittoria di Trump ci sono gli hacker segreti del Cremlino, gli agenti segreti russi, ma anche gli “agenti stranieri” giornalisti. Le dita di CIA, FBI, NSA sono tutte puntate contro RT, Russia Today, il canale finanziato dal governo russo, i cui giornalisti adesso hanno deciso di registrarsi nelle liste del Dipartimento americano di Giustizia per evitare le manette. Solo fornendo tutti i loro dati, i reporter hanno evitato l’arresto previsto dal FARA, Foreign Agent Registration Act: una legge americana che risale al 1938, nata per contrastare la Germania di Hitler, riesumata nel 2017 per la Russia di Putin.

È un “media bill” al Congresso di Washington, in Nord America, una zakon, una legge appena approvata alla Duma, in Russia, che attende solo un altro si del Senato e la firma del presidente. La reazione slava, per la legge sugli smi-agent, è stata immediata: per dichiarare i giornalisti “agenti stranieri dei media” hanno votato a favore 400 deputati russi e zero contro. Per Tania Lokshina, Human Right Watch Russia, “questa legge sarà un pretesto per colpire anche le altre fonti di informazione libere in Russia che ricevono fondi dall’estero”, come il blog di Aleksey Novalny, per esempio.

Prima in Siria. Poi nella nuova guerra del Golfo, nelle sfere d’influenza disputate tra Iran e Arabia Saudita, il primo supportato dall’aquila di Mosca, la seconda da quella a stelle e strisce di Washington. Nei teatri di guerra all’estero, ma soprattutto nelle rispettive patrie, Stati Uniti e Russia si danno battaglia e nell’abbraccio letale dei due imperi sono in molti a rimanere stritolati.

Rappresaglie e inquisizione mediatica: d’ora in poi, bloccate tutte le pubblicità su Google, Youtube e Twitter per RT, sono “strumento di manipolazione contro gli Usa”. Prima della guerra ai reporter, c’è stata la guerra dei diplomatici, le cui espulsioni sono cominciate negli ultimi mesi della presidenza Obama, nel dicembre 2016. Il presidente democratico, prima di dire addio alla poltrona dello Studio Ovale, espulse 35 diplomatici russi. Putin ne ha espulsi 755 più di sei mesi dopo, a luglio scorso, “a causa delle politiche di Washington contro la Russia” e un inasprimento delle relazioni con Mosca, dovuto alla “russian interference in 2016 USA election”, l’intervento russo nelle elezioni americane del 2016, su cui indaga il Congresso di Washington.

Intanto il cerchio delle indagini sul Russiangate si stringe. False, fictitious and fraudolent: false, fittizie, fraudolente dichiarazioni. Sono queste le tre effe che incriminano gli uomini del team Trump che stanno finendo agli arresti uno dopo l’altro, come è successo all’ “agente straniero” Paul Manafort. Adesso c’è una quarta effe. Giornalista, “agent” straniero: foreign.

Il politico contro i gay, beccato con un uomo: il moralismo 2.0

Lui si chiama Wesley Goodman, ha 33 anni e in Ohio è considerato una giovane promessa politica tra i repubblicani. Wesley è uno di quelli che ha capito bene come in politica (ma non solo) in mancanza di seri contenuti l’importante sia trovare un nemico che sia riconoscibile e intestarsi la battaglia. Una sorta di “moralizzatore specializzato” che decide di dedicare tutte le sue energie per scagliarsi contro una particolare categoria umana: per Goodman il nemico numero uno erano i gay.

Centinaia di interviste, pagine, discorsi consumate per negare qualsiasi diritto e qualsiasi apertura al mondo Lgbt: Goodman (parlamentare della Camera dei rappresentanti dello stato del Midwest) è il nemico numero uno. Per non parlare poi della moglie: vicepresidente di un’associazione ultra conservatrice è, con Goodman, tutti gli anni in testa al corteo contro l’aborto. Insomma: conservatori e moralisti come va di moda ultimamente anche qui dalle nostre parti.

Ora invece si scopre che l’inossidabile Goodman è stato sorpreso mentre nel suo ufficio si intratteneva sessualmente con un uomo. E potete immaginare che tonfo ci sia stato, dopo una notizia del genere. Aggiungeteci che, lo scrive il Washington Post, molti componenti del Partito Repubblicano dichiarano di essere stati a conoscenza della sua condotta, di questo moralismo 2.0 in cui patetici conservatori vorrebbero stabile regole che nemmeno loro sono in grado di rispettare.

Simulare, simulare, simulare. Convinti che il giudizio non arrivi. Mentre s’ammorba tutto intorno, tutti gli altri, del proprio giudizio.

Buon lunedì.

Somalia, così muore un intero Paese

TOPSHOT - A man and woman look at the damages on the site of the explosion of a truck bomb in the centre of Mogadishu, on October 14, 2017. A truck bomb exploded outside a hotel at a busy junction in Somalia's capital Mogadishu on October 14, 2017 causing widespread devastation that left at least 20 dead, with the toll likely to rise. / AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB (Photo credit should read MOHAMED ABDIWAHAB/AFP/Getty Images)

L’ondata di panico scatenata in Somalia con gli ultimi attentati ha riportato indietro nel tempo le lancette dell’orologio del terrore. Quando sembrava che la guerra contro i fondamentalisti shebab fosse a buon punto e la vittoria a portata di mano, come nel supplizio di Sisifo, ci si è ritrovati al punto di partenza: i partner di Al Qaeda e dello Stato islamico sono ancora forti, non intendono mollare la presa e l’addestramento di nuovi terroristi continua imperterrito. Al governo e ai suoi alleati non basta controllare le città importanti. Le campagne in mano agli insorti sono una sorta di caserma senza confini, dove la popolazione è soggetta alle angherie degli shebab, ma anche alla loro protezione e al loro sostegno.

La paura scatenata dalla consapevolezza della mancata vittoria sui fanatici, troppo spesso annunciata con enfasi e falso trionfalismo dalle fonti ufficiali, non ha investito soltanto la popolazione somala, che nonostante la quotidianità della guerra fratricida non si è mai abituata a convivere con la violenza. Ha penetrato anche le coscienze dei diplomatici che appaiono impotenti davanti allo scenario dell’ex colonia italiana.

L’Amisom (Africa mission in Somalia, la missione dell’Unione africana nel Paese del Corno d’Africa), per altro, ha annunciato che entro la fine dell’anno ridurrà il suo contingente – che ora conta 22mila uomini – di mille unità. Il ritiro di tutta la forza sarà completato entro la fine del 2020. Una boutade, probabilmente, perché se il contingente africano (che può vantare l’appoggio determinante di un gruppo di forze speciali americane) se ne dovesse andare gli islamici prenderebbero il sopravvento in un batter d’occhio.

È vero, il terrorismo in Somalia non è mai morto, ma questo rigurgito di attentati così efferati e crudeli non era stato previsto da nessuno. Il più sanguinoso degli attacchi, il 14 ottobre all’Hotel Safari ha provocato un numero impressionante, di morti – più o meno 400, secondo gli ultimi bilanci – e di feriti. Il conteggio è talmente pesante (e barbaro) che nessuno ha avuto il coraggio di rivendicare la carneficina.

Il fronte degli islamici in Somalia sembra compatto, omogeneo e teso a realizzare un obbiettivo comune. Sembra, ma non è così. Negli

L’inchiesta di Massimo A. Alberizzi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

I chierichetti del papa, l’orco e i monsignori

Altar boys asperse incense as they wait for the arrival of Pope Francis on the occasion of a Mass for cardinals and bishops who died in the past year, in St. Peter's Basilica at the Vatican, on November 3, 2015. AFP PHOTO POOL / GREGORIO BORGIA (Photo credit should read GREGORIO BORGIA/AFP/Getty Images)

Il preseminario “San Pio X” si trova in Città del Vaticano e ha sede a palazzo San Carlo, divenuto noto in tempi recenti per “ospitare” all’ultimo piano l’attico in cui l’ex segretario di Stato cardinal Tarcisio Bertone ha deciso di trascorrere la sua pensione. Al San Pio X, le diocesi indirizzano i bambini della scuola media che manifestano una predisposizione per il sacerdozio. Chi viene accettato (mediamente una quindicina di studenti fino a pochi anni fa, mentre erano in nove nella prima metà del 2017) di fatto vive relegato nelle camerate del collegio. Salvo le ore dedicate allo studio nell’istituto privato parificato di sant’Apollinare nel centro di Roma, e la partecipazione come chierichetti alle funzioni religiose del papa nella basilica di San Pietro.

Un lato corto del preseminario affaccia sulla Residenza di Santa Marta, famosa per essere la dimora di papa Francesco, mentre uno dei due lati lunghi è perpendicolare al Tribunale di Stato di CdV. I tre edifici sono divisi da una stradina larga pochi metri e danno su piazza Santa Marta. Proprio di fronte, al di là della piccola piazza, si erge la basilica di S. Pietro. Siamo all’altezza della necropoli in cui si trova la tomba dell’apostolo che la Chiesa cattolica considera il primo papa della storia. In questo spicchio del minuscolo Stato incastonato nel cuore di Roma, uno dei luoghi più controllati al mondo, tra la fine del pontificato di Benedetto XVI e perlomeno nei primi 15 mesi di quello di Bergoglio, stando alle testimonianze raccolte da Gianluigi Nuzzi nel suo nuovo libro Peccato originale, si è consumata una vicenda di soprusi e violenze ai danni di alcuni studenti del preseminario. Tutti minorenni dai 13 anni in su. Questa inchiesta è uno dei punti di forza del volume appena uscito per Chiarelettere, che è diviso in tre parti.

Tre indagini, tutte inedite e basate su documenti originali, solo apparentemente scollegate tra loro ma che apprezzate nel loro complesso restituiscono un’immagine della Chiesa, e in particolare della Chiesa di Bergoglio, ancora profondamente lacerata dagli stessi scandali e giochi di potere all’interno della Curia che spinsero Ratzinger alle dimissioni nel 2013, e dunque lontana dalla cosiddetta “rivoluzione” del pontefice argentino che tanto viene celebrata dai media italiani. Nel primo…

L’articolo di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

David Rossi fu suicidato?

Lo striscione con la scritta 'Verit‡ per David' affisso in piazza del Campo a Siena, davanti al Palazzo Pubblico, poco prima dell'arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, atteso in citta' in occasione dell'apertura del Congresso dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), 20 ottobre 2017. ANSA

Era il 6 marzo del 2013 e David Rossi aveva appena avvisato la moglie, che sarebbe rientrato da lì a poco. A Siena David Rossi non era un nome qualunque: il capo comunicazione di Monte dei Paschi di Siena era, di fatto, il braccio destro di quel Giuseppe Mussari che proprio in quei giorni stava finendo nell’occhio del ciclone giudiziario che porterà Mps sotto gli occhi di tutto il mondo per le gravi inadempienze nella gestione da parte del management. I magistrati da qualche giorno hanno già cominciato a mettere mano ai bilanci e alle carte e David Rossi era cosciente che il dorato mondo dello storico istituto senese sarebbe crollato. In quei giorni, dalla sua casella mail, David Rossi lascia intuire anche l’intenzione di presentarsi ai magistrati, gli amici e i colleghi lo raccontano teso, spaventato e disorientato. Fino a quel 6 marzo di 4 anni fa quando alle 19.43 il suo corpo impatta per terra nel vicolo che passa sotto la finestra del suo ufficio.

Suicidio, dice la Procura di Siena per bocca del magistrato Nicola Marini e dell’aggiunto Aldo Natalini. Passano due anni e viene aperta una nuova inchiesta, questa volta avviata dal pm Andrea Boni, e le falle nelle indagini sono a dir poco vergognose: ci sono reperti scomparsi o addirittura distrutti dalla magistratura prima ancora di analizzarli, c’è la curiosa dimenticanza di acquisire in tempo utile i tabulati telefonici e i video delle 12 telecamere che sarebbero state utili per ricostruire l’accaduto, ci sono analisi mai compiute nell’ufficio di David Rossi (che qualcuno ha chiuso dopo il suicidio e prima dell’arrivo delle forze dell’ordine) e, soprattutto, ci sono testimoni che sarebbero stati essenziali per raggiungere la verità e che invece non sono mai stati convocati…

La parabola del signor Tentenna

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi (s) con l'ex sindaco di Milano e ideatore del progetto di centrosinistra Insieme Giuliano Pisapia durante la Festa dell'Unit‡ a Milano, 21 luglio 2017. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

Giuliano Pisapia suscitò nel 2011 grandi entusiasmi, venne eletto sindaco per meriti personali ma anche sulla spinta di un diffuso clima di insofferenza verso la padronale Letizia Moratti e verso i fasti del basso impero berlusconiano, poi amministrò Milano con stile sobrio e con correttezza. E nei tempi che corrono non è poco. Tutto quello che è accaduto dopo ci conferma che non basta essere un onest’uomo per saper fare politica. Nel libro dell’Esodo Mosè è descritto come “lento di parola e di lingua”.

Peraltro, l’eloquenza non è una virtù imprescindibile per esercitare la leadership; e non lo è neppure il carisma. In politica sono però indispensabili visione, determinazione e tempismo. Basta ricordare per sommi capi il percorso di Pisapia dal 2015 in poi per constatare la mancanza di tutte queste doti. Approssimandosi la scadenza delle elezioni comunali, tutti gli uomini del suo più stretto entourage dicevano che si sarebbe ricandidato. Invece, dopo lunga suspense mediatica, un bel giorno Pisapia annunciò che, «come aveva sempre detto», non intendeva ripresentarsi per un secondo mandato. A quel punto tutti ma proprio tutti erano convinti che fosse pronto ad indicare un erede da incoronare nelle primarie del centro-sinistra.

Invece passano i mesi e il delfino non si vede; così, approfittando del vuoto, si mettono in gara l’assessore Majorino, all’insegna della continuità con la giunta arancione, e il candidato di Renzi, Beppe Sala, all’insegna della discontinuità. Il sindaco esita, è combattuto, mostra di soffrire la prospettiva della normalizzazione renziana, ma non concede il gradimento al suo assessore. In extremis cala l’asso, candidando la vicesindaca Balzani. E così compie il miracolo: si separano le acque del “popolo rosso” e nelle primarie passa Sala con un misero 42 per cento. Una frittata talmente grottesca che ancora oggi più d’uno si domanda se non ci sia stato del metodo in quella follia…