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Italia la disumana

Un gruppo di migranti fotografata in un centro a Tripoli in una foto diffusa il 7 novembre 2017. ANSA/ ZUHAIR ABUSREWIL

«La politica dell’Unione europea di assistere la guardia costiera libica nell’intercettare e respingere i migranti nel Mediterraneo è disumana»: a dirlo è Zeid Raad al-Hussein, Alto Commissario Onu per i diritti umani che è intervenuto sull’immane tragedia dei migranti che in molti fingono di non vedere più. «La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», ha aggiunto al-Hussein.

E non è la prima volta che l’Onu usa parole così dure. E, a dire il vero, non è nemmeno solo l’Onu visto che da mesi anche qui da noi proviamo a scriverlo tutti i giorni, tutto il giorno. In pochi, a dire la verità, con solo un pezzo di sinistra (Possibile e Sinistra Italiana per parlare delle forze parlamentari) mentre anche dalle parti del Pd ormai il “restare umani” è diventata una frasetta buona per qualche slogan da social network e niente di più.

L’Onu, nella nota del suo Commissario, ha anche denunciato l’aiuto fornito dall’Italia alla Guardia Costiera libica  per arrestare i migranti in mare «nonostante le preoccupazioni espresse dai gruppi per i diritti umani». Tutto questo nel giorno in cui la Cnn ci mostra le immagini di una vendita di schiavi come carne da lavoro a pochi dollari al chilo: una scena che inorridisce nelle scene Tv ma scivola leggera nella realtà di questo tempo.

Ripensavo all’aggettivo migliore per fotografare l’atteggiamento italiano (e europeo) di questi ultimi mesi. Ci penso ogni volta che una tragedia o qualche orrore ci costringe a scrivere l’ennesimo editoriale che ciclicamente si ripete, anestetizzati come siamo dal flusso continuo di notizie orribili. Ho scritto più volte “feroce” perché la bocca Mediterraneo è stata sostituita dalle mura che nascondono i denti e i morti; ma qui non ci sono brandelli in giro, rimane tutto sepolto, prima in acqua e ora sulla terra. Anche la parola “strage” ormai, purtroppo, risulta svuotata dalle iperboli che troppo spesso il giornalismo osa. E alla fine l’aggettivo migliore, inaspettatamente, sta invece in un documento bollato: “disumano”. Perché di assenza dei caratteri propri dell’umanità cordiale si tratta, in effetti.

È l’Italia. La disumana.

Buon mercoledì.

I migranti trattenuti in Grecia entrano in sciopero della fame: «Vogliamo andare dalle nostre famiglie»

Migrant children shout slogans for "open borders" outside the German embassy in Athens.Families of Syrians refugees marched to the German embassy in Athens, on November 8, 2017, demanding the right to reunificate with their families in Germany. Refugees are on hunger strike the last 8 days having camped in Constitution Square, central Athens, opposite the Parliament. (Photo by Panayotis Tzamaros/NurPhoto via Getty Images)

“Sciopero della fame!”, “Riunite le nostre famiglie!”, “Freedom of movement!”, libertà di movimento! È quello che c’è scritto sui cartelli che agitano in aria per protesta mentre stanno marciando per le strade d’Atene. Le accuse sono rivolte alla Germania. I silenzi sono siriani, afghani, iracheni ed il limbo è ellenico. L’Europa per molti migranti si è rivelata solo un vicolo cieco, dopo la chiusura della rotta balcanica nel 2016.

Decine di migranti nella capitale greca hanno deciso di cominciare un digiuno di protesta sei giorni fa, perché i governi europei non gli permettono di ricongiungersi con le loro famiglie, i cui membri sono in altri stati d’Europa. Scrivono ogni giorno, bianco su nero, su uno striscione dove c’è scritto “hunger strike”, sciopero della fame, il numero dei giorni da cui non toccano cibo. È ormai passato un anno da quando sono bloccati ad Atene e non credono più a nessuna promessa. Così ogni giorno si svegliano e cominciano a protestare. «Stare fermi qui, immobili in Grecia», dicono, «è come stare in una prigione a cielo aperto». Chiusi in gabbia tra i confini del Vecchio Continente, i profughi marciano ogni giorno, tra la piazza del Parlamento e nei pressi dell’ambasciata tedesca ad Atene. Poi tornano nelle tende che hanno montato per strada, nei parchi, una stoffa sul cemento che è la loro unica casa. Finora solo a 4500 persone è stato permesso di riunirsi con i membri delle loro famiglie in Germania, 3mila di loro avevano meno di 18 anni.

La patria di quella che chiamavano Mama Merkel oggi è sotto accusa. Tobias Plate, portavoce del ministro dell’Interno tedesco, ha detto che i ritardi per i ricongiungimenti sono dovuti a problemi di natura organizzativa, ma anche a mancati accordi con le autorità greche. Se il ricongiungimento familiare sia permesso o meno, rimane una questione controversa e di cui i vertici politici addetti alla soluzione del problema preferiscono non parlare. «Non è mai stato ufficialmente confermato, è solo una voce di corridoio, ma alle autorità per l’asilo in Grecia, è stato riferito che c’era una quota limite per i ricongiungimenti: 70 persone» ha detto Salinia Stroux, della Support Aegean, un’ong dell’isola di Chios.

Negli ultimi mesi dalla Grecia alla Germania sono state trasferite solo 80 persone. I ritardi sull’applicazione del protocollo della Dublino III sono dovuti alla severità germanica e alla lentezza della burocrazia greca. Per Barbara Lochbihler, del Parlamento Europeo, la colpa è pari, bilanciata tra le due parti: «I campi greci sono strapieni, le famiglie spesso hanno cinque figli a testa, possiamo immaginare il prezzo che stanno pagando. Non hanno soldi e solo waiting list, solo liste d’attesa».

«Riunirli ai loro cari dovrebbe essere una priorità umanitaria”, ha detto Boris Cheshirkov, dell’Unhcr, ma nei fatti non si fa niente per vagliare le 9300 richieste di ricongiungimento che i migranti hanno presentato nell’ultimo anno. A Lesbos, nel campo profughi che potrebbe ospitare un massimo di duemila persone, i migranti che abitano lo stabile sono oltre cinquemila. La situazione è critica nelle isole, ha confermato il ministro della migrazione Yiannis Mouzalas. I profughi bloccati in Grecia in totale sono 62mila e nella maggior parte dei casi si tratta di minori. Le fughe sono sempre più disperate, ma continuano. Ieri a Tessalonica un uomo è stato raggiunto dai colpi di rivoltella della polizia, quando con il suo camion non si è fermato ad effettuare i controlli per strada: trasportava illegalmente dieci pakistani nel furgone. Ora sono tutti in ospedale.
Dall’aprile 2016, ovvero un mese dopo l’accordo con la Turchia di Erdogan, sono stati 45.942 i migranti che hanno comunque tentato la traversata via mare verso la Grecia. Solo pochi giorni fa una barca è affondata a Kalymnos, ma dispersi e morti non hanno fatto notizia, come altri due incidenti non registrati, di due gommoni che tentavano di raggiungere le spiagge dell’isola di Chios in questo novembre. Il sindaco dell’isola, Michalis Vournous, è oggi ad Atene per una commissione parlamentare, per ricordare agli abitanti della penisola che l’economia locale affonda, proprio come i mezzi di fortuna utilizzati dai profughi, per cui nei campi non c’è più spazio.

Roma, da migranti a chef. Il cibo unisce culture diverse

Si può fare integrazione partendo dal cibo? Ci si può provare. Magari aprendo la cucina del proprio ristorante a migranti o rifugiati per fargli preparare piatti tipici della loro tradizione. Lasciandogli poi la possibilità di raccontare quei sapori ai clienti. Di parlare delle proprie storie personali e dei Paesi dove quelle storie (e quelle persone) sono nate. Chi avrà avuto la curiosità di assaggiare e ascoltare avrà iniziato a scoprire qualcosa di diverso. Per chi ha cucinato invece ci sarà prima di tutto la sensazione di essersi espresso attraverso il proprio lavoro perché, magari, il migrante o rifugiato in questione era un cuoco prima di essere costretto a intraprendere un lungo, difficile e spesso doloroso viaggio. Andando sul concreto, questo è ciò che succede con le cene solidali organizzate dal ristorante romano Gustamundo (zona Valle Aurelia). Appuntamenti di cucina etnica (principalmente etiope, eritrea, siriana, libica, iraniana e sudamericana), solidali perché a cucinare sono appunto migranti provenienti da questi Paesi nei quali, prima di partire, lavoravano come cuochi. O cucinavano molto bene.
L’idea è venuta al proprietario del locale, Pasquale Compagnone, che confida come di base ci sia la volontà di «far emergere le professionalità di questi migranti e dargli un’opportunità». Un progetto nato circa un anno fa perché «vedevo un vero accanimento contro i migranti, per me assurdo. Pensai a come aiutarli con quello che avevo a disposizione e venne l’idea delle cene. Mi rivolsi a loro in quanto persone che in questo momento, nella migliore delle ipotesi, sono ferme in strutture di accoglienza». Il primo passo fu quindi quello di contattare una lunga lista di associazioni romane che si occupano di accoglienza, chiedendo loro se ci fossero cuochi o persone brave in cucina. Per dargli, se non proprio un’occupazione stabile, almeno un’occasione di uscire per lavorare, essere regolarmente retribuiti e farsi conoscere. Senza contare poi le implicazioni più profonde a livello umano che una possibilità del genere può comportare per chi attualmente, come i migranti, vive una quotidianità durissima. Una volta individuati i “cuochi” sono partite le cene. Solidali anche perché hanno finanziato, oltre a vari progetti di integrazione, anche associazioni come Baobab Experience, il presidio di prima accoglienza per migranti transitanti e richiedenti asilo gestito da volontari, dalla loro straordinaria capacità di fare rete con cittadinanza e realtà sociali nonché dalla tenacia nel portare avanti un’idea di accoglienza senza se e senza ma. «Baobab è l’unica realtà che abbiamo sostenuto direttamente, devolvendo all’associazione tutto l’incasso delle cene organizzate con loro e con i loro cuochi. Nel piazzale ci sono situazioni molto complesse. Ogni martedì facciamo recapitare al presidio 400 litri d’acqua. Cerchiamo di sostenerli il più possibile». Cene solidali dove, oltre ad assaggiare piatti pakistani, africani, siriani, si raccontano storie. “Ogni cena una storia” recita il menù degli appuntamenti (tantissimi) di novembre, e la storia in questione è quella di chi ha cucinato. Il momento più significativo c’è infatti a fine pasto, quando i cuochi vengono invitati in sala per raccontare i loro piatti e rispondere alle curiosità dei clienti sulla preparazione e sugli ingredienti usati. Ma soprattutto, se ne hanno voglia, i ragazzi raccontano le loro vicende e quelle del proprio paese. Capita così che Remedan Mussa Yusuf, 35 anni di origine etiope, spieghi nel dettaglio il procedimento usato per preparare injera, cous cous e carne con verdure. E che la sua emozione nel parlare svanisca man mano che il racconto procede, ripercorrendo poi parte di quella storia che lo ha visto scappare dal suo Paese 10 anni fa dopo essere stato incarcerato per aver protestato contro il governo. E che, dopo aver girato l’Europa, lo vede ora da circa un anno in Italia, con la voglia di scrivere un libro per raccontare la sua vicenda. «È quello il momento dell’integrazione» racconta Pasquale. È quello il momento in cui, entrando in contatto con una realtà diversa attraverso le parole, i gesti e gli sguardi delle persone in questione, ci si avvicina a loro. E loro, di rimando, hanno la possibilità di sentirsi più vicine a noi.
Un’esperienza che non può che fare bene nonostante non sia una situazione stabile. Il lavoro che Pasquale offre a questi ragazzi è retribuito ma occasionale. Il ristorante, nato come messicano e con una saletta riservata ora solo all’esperienza delle cene solidali, è piccolo. Le difficoltà ci sono, a partire dalla lingua (a volte serve un mediatore o un interprete) e dal diverso livello di professionalità dei migranti coinvolti, ma se la domanda iniziale era “si può fare integrazione attraverso la cucina” la risposta è sì, come testimoniato anche dai tanti messaggi di ringraziamento ricevuti da Pasquale e dalla felicità tangibile dei “cuochi” al ritorno nei centri di accoglienza. Un’integrazione che si prova a fare anche tra migranti e migranti, coinvolgendo nella stessa cena persone di diversa provenienza senza tralasciare l’aspetto della formazione. Nella cucina di Gustamundo infatti si insegnano ai migranti tecniche di cucina italiana e tutto ciò che può essergli utile per colloqui futuri. Puntando a sviluppare quella professionalità che, in alcuni casi, è già di buon livello. «Alcuni piatti hanno sorpreso anche me – ha raccontato Pasquale – a cominciare dalla lavorazione della carne d’agnello da parte di una signora algerina, per proseguire con pietanze del Gambia, della Mauritania, della Nigeria, della Somalia. La cucina africana ha una grande ricchezza di sapori e gusto ma è poco conosciuta. Bisogna avere invece fiducia nelle persone che cucinano e coraggio e curiosità nell’osare e provare piatti nuovi».
Novità che sono in arrivo anche per Gustamundo. A novembre infatti ci sarà la possibilità per alcuni tra i cuochi migranti più bravi di lavorare nella preparazione del catering per diversi eventi, il più importante dei quali sarà il 25 novembre alla European University di Roma che ospiterà un Congresso dell’Unesco. Con i pasti affidati a Gustamundo e agli artefici delle cene solidali. Senza dimenticare un progetto che si sta concretizzando in questi giorni e che, se andrà a buon fine, vedrà l’esperienza di Gustamundo legarsi ad un’altra attività di integrazione a Roma, realizzata però su un “campo” diverso. «Sempre a novembre – conclude Pasquale – dovremmo realizzare un catering per Liberi Nantes (la squadra di calcio composta da migranti) e l’idea è quella di essere loro sponsor, preparandogli pasti per tutta la stagione e intervenendo anche in altri eventi. Loro fanno integrazione con lo sport, noi con la cucina». Ognuno ha il proprio campo d’azione, ma l’obiettivo è e resta quello di avvicinarsi a queste persone, lasciando che loro si avvicinino a noi.

L’impegno di Alba De Cespedes, che anticipò Il Politecnico con Mercurio

Alba De Cespedes muore il 14 novembre 1997. Scrittrice di successo, giornalista, poetessa, intellettuale fine e di grande spessore, partigiana, radiocronista, sceneggiatrice è, per dirla tutta, una “creatura speciale”, come qualcuno l’ha definita. Ma, come molte donne impegnate nella vita politica e culturale italiana, è stata ignorata fino alla riscoperta realizzata da alcune studiose, in prima fila Marina Zancan. E’ stata definita un’autrice di genere rosa perché parlava di donne, nonostante che i suoi romanzi fossero dei veri e propri bestseller, molto letti e molto tradotti. Le sue storie hanno ispirato sceneggiature teatrali e diversi film come Le amiche di Michelangelo Antonioni, Nessuno torna indietro e La bambolona di Franco Giraldi. Nel 1944 fonda e dirige Mercurio, una delle riviste letterarie più importanti del panorama culturale dell’epoca che anticipa l’esperienza del Politecnico di Vittorini. Collaborano nomi come Eugenio Montale, Giacomo Debenedetti, Ernest Hemingway, Massimo Bontempelli, Sibilla Aleramo, Gaetano Salvemini e artisti come Mino Maccari, Toti Scialoja e Renzo Vespignani a impreziosire i testi con i loro disegni. Donna cosmopolita, appartenente ad una dinastia cubana leggendaria, progressista e antifascista, dimostra in ogni occasione la sua vocazione estrema per la libertà e la giustizia.
«Alba De Cespedes – racconta a Left Patrizia Gabrielli, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena, sede di Arezzo – è stata un’intellettuale impegnata che guardava con attenzione al sociale e credeva profondamente che la cultura fosse un fattore importante per il cambiamento della società. Idealmente vicina al Partito d’azione, fu legata strettamente agli ambienti antifascisti e alla resistenza e fu presa di mira dal regime fascista fin dall’inizio della sua attività».
Nel 1938 pubblica il suo primo romanzo Nessuno torna indietro. È la storia di un gruppo di ragazze decisamente anticonformiste per la “morale fascista” e fu immediatamente convocata dal Ministero della cultura popolare che la chiamò a rendere conto del contenuto del libro per ben 17 volte, come lei stessa racconta, e la definì “una scrittrice scandalosa”. Tra il 1943 e il 1945 inizia il suo impegno diretto nella resistenza. Dopo l’8 settembre lascia Roma e passando per l’Abruzzo raggiunge Bari. Sono mesi terribili, di fame, di rischi, di freddo. La scrittura è un’àncora imprescindibile per sopravvivere.
«Nei quadernetti in cui scrive il suo diario – continua Gabrielli – Alba De Cespedes racconta le sue giornate, la propria vita, e con grande umanità quella di coloro che la circondano, la gente semplice del luogo che protegge lei e il suo compagno di viaggio, li sostiene e li nasconde. E a questi racconti si aggiungono riflessioni profonde sul regime fascista e sulla tragedia della guerra che ritroveremo in forma più “politica” quando continuerà la sua lotta dai microfoni di Radio Bari nella trasmissione “Italia Combatte” dove conduce con il nome di “Clorinda”. Qui parla a uomini e donne di ogni ceto sociale. Si rende conto che bisogna ricostruire l’Italia ma anche gli italiani. Ha ben chiaro che il regime totalitario ha sottratto responsabilità agli individui perché è lo stato che ha sempre deciso. E’ necessario quindi ripartire dal personale, riacquistare il senso di responsabilità verso sé stessi e gli altri per ricostruire la democrazia. E’ un messaggio forte che propone un cambiamento etico e politico profondo».
L’impegno politico e civile è inscindibile dalla sua scrittura. Pone il tema delle donne al centro del suo fare letteratura per dare voce alla soggettività femminile.
«Alba De Cespedes – ci racconta Marina Zancan, curatrice delle opere della scrittrice italo-cubana per i meridiani Mondadori – come molte intellettuali del periodo, ha dato voce alle donne e lo ha fatto in modo rilevante e anticipatore rispetto ai tempi». Il problema è che la critica, ma soprattutto la storiografia letteraria, l’ha lasciata da parte, dimenticandola. Le opere di De Cespedes, soprattutto i grandi romanzi, inseriti nel quadro storico-letterario di appartenenza, rivelano un carattere sperimentale e un contenuto estremamente innovativo. Le tematiche sono nuove perché parla delle donne, della loro vita e del rapporto delle donne con la scrittura come Dalla parte di lei, del 1949 – una confessione- riflessione scritta da una prigione – e Quaderno proibito, un diario, di fatto “proibito” perché ad esso la protagonista Valeria Cossati, affida di nascosto le sue amare riflessioni sul rapporto con il marito. In Dalla parte di lei c’è anche un tema inusuale: il racconto si svolge in una cella del carcere dove la protagonista, una donna impegnata nella resistenza che ha ucciso il marito, un antifascista, anche lui protagonista della resistenza, ricostruisce la propria vita di donna che, pur impegnata, ha messo al primo posto l’attesa, la dedizione e uccide perché il marito non corrisponde più al suo desiderio, al suo sogno d’amore.
Seguono poi Prima e dopo e Il rimorso , del 1963, dove racconta gli anni che furono delle avanguardie e di una crisi del contesto sociale e politico che la porterà via dall’Italia, dopo aver scritto La bambolona, e la farà atterrare a Parigi che è la nuova capitale culturale di quegli anni. A Parigi scrive in francese il romanzo Sans autre lieu que la nuit che si autotradurrà e diventerà Nel buio della notte, un testo molto bello, sperimentale, in cui mette in scena le parole in un contesto urbano, raccontando la scoperta notturna della metropoli parigina e le sue trasformazioni.
Il romanzo le si addice, ma scrive anche poesie, racconti, articoli e rubriche per Epoca e La stampa. Un’autrice di qualità, una scrittrice raffinata, un’intellettuale a tutto tondo che detestava l’etichetta di femminista per un’istintiva, non ideologica, ribellione davanti al disagio femminile. Maria Serena Palieri e Francesca Sancin in Donne della repubblica scrivono di lei: « …seguiva il tempo del sogno e dell’utopia. Di un altrove dal quale lei guardava il dove viveva».

Il “pizzino” di Neri Parenti alle donne che hanno intenzione di denunciare le molestie

Dunque. Le Iene mandano in onda un servizio in cui dieci ragazze accusano (con tanto di racconto e particolari) il regista Fausto Brizzi di averle molestate in provini che poco hanno a che vedere con il potenziale talento recitativo di ognuna di loro.

Nella giornata di ieri comincia a eruttare una lava di giudizi più o meno sconsiderati da persone più o meno considerevoli. Non mi interessa ora qui analizzarli tutti (ne avremo il tempo, Brizzi è solo il primo nome di una lunga serie) ma vale la pena riprenderne uno, uno solo, che è un paradigma.

A parlare è Neri Parenti, intervistato da Radio Capital. Leggete bene:

“Com’è possibile che 10 persone accusino un regista in maniera anonima?” “Io questo sinceramente non me lo spiego”. E poi:“Anche sul discorso di cercare la notorietà in realtà se tu fai un’intervista a volto coperto la notorietà non ce l’hai e poi questo per la tua carriera professionale non è un aiuto. Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film”.

Primo: le donne che denunciano non sono donne. Non si riesce nemmeno a nominarle come “presunte vittime” (perché se Brizzi è “presunto molestatore” non si capisce perché chi denuncia dovrebbe essere “signorina”). La fallocrazia (non solo cinematografica, in questo Paese, ma che sta un po’ dappertutto) è bene condensata nel “signorine”.

Secondo: dispiace per il patetico tentativo banalizzante di Neri Parenti ma le denunce contro Brizzi non sono “anonime” come si sforza di raccontare. Tra le ragazze (comunque facilmente rintracciabili nel caso di un’azione penale dello stesso Brizzi) ci sono la modella Alessandra Giulia Bassi e l’ex miss Italia Clarissa Marchese che hanno raccontato la propria esperienza con nome, cognome e faccia. Gli devono essere sfuggite, povero Neri Parenti: del resto le distrazioni pro domo sua sono una costante tra i furbi di questo Paese.

E infine: “Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film” è il manifesto dell’ipocrisia e del corporativismo di quel mondo. Non si capisce esattamente quali siano i motivi che spingano il re dei cinepanettoni a giudicare queste donne inabili al percorso cinematografico (forse la mancata riservatezza sulle palpatine subite?) ma racconta perfettamente perché le donne hanno paura di raccontare e denunciare. Neri Parenti non poteva pensare a una frase più chiara per mandare l’avvertimento del “chi parla pagherà”. Una frase che è come una testa di cavallo lasciata fuori dalla porta. Una cosa così.

Bravo, Neri Parenti. Bravo. Complimenti. Bis.

Buon martedì.

Un silenzio ricco di immagini. Il fascino del cinema sordo

David Wright diventò sordo quando aveva più o meno sette anni. E così, in quanto scrittore e uomo di cultura, si riteneva privilegiato rispetto ad altri che invece nascono già sordi o che perdono l’udito troppo presto, “senza aver acquisito un veicolo per pensare e comunicare. Basta solo provare a immaginarlo per sentire tutto il peso delle solenni parole con cui inizia il Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo”. Purtroppo Wright è morto diversi anni fa. Ma, se fosse ancora vivo, sarebbe interessante riuscirlo a trascinare tra gli spettacoli proposti in occasione del Cinedeaf, il Festival di cinema sordo che il 17, il 18 e il 19 novembre animerà gli spazi del museo MAXXI a Roma.
Il Cinedeaf, emanazione dell’ISSR, l’Istituto statale per sordi che da anni si occupa di formazione e ricerca, quest’anno è alla sua quarta edizione. Il festival si propone l’obiettivo di diffondere e alimentare la conoscenza sulla cultura sorda attraverso quella che è una delle loro modalità espressive privilegiate, il cinema appunto. Il cinema sordo, infatti, non è il cinema muto e nemmeno il cinema in lingua dei segni, è invece il cinema prodotto dai sordi e fruibile da chiunque.
Potrebbe sembrare curioso per il grande pubblico eppure, ci racconta Francesca di Meo, una delle organizzatrici del Cinedeaf, una delle tematiche più sentite dagli artisti presenti nel festival è proprio la musica, come nel docufilm Listen di Eri Makihara, ritratto intenso e toccante sulla musica composta da Sordi e ad essi rivolta, fino a Silence di Dejan Mrkic, storia di una giovane musicista che si trova ad affrontare la perdita dell’udito. E ancora tante altre le tematiche proposte durante la tre giorni di Festival, come lo sport nei due docufilm 4 Quarter of Silence e Il rumore della vittoria, e la dimensione femminile in opere come Ipek e Inner Me. Da segnalare ancora la tavola rotonda Screening sign languages, durante la quale si discuterà l’esclusione dei sordi da gran parte dei programmi televisivi italiani, esclusione che incide profondamente nel mondo dei giovani, i quali si vedono vietare un mezzo di comunicazione fondamentale.
Durante la serata di apertura, infine, si terrà il contest di Visual vernacular, mentre Giuseppe Giuranna, maestro nel campo, sarà presente come giudice del Festival. Il Visual vernacular, per chi non lo sapesse, è una particolare forma espressiva molto diffusa nella cultura sorda, ma comprensibile anche per gli udenti. Infatti è una descrizione visiva che precede ogni lingua, senza probabilmente escluderne nessuna, una narrazione visuale che vive negli occhi di chi la vede, impossibile da tradurre, inevitabile non farsi coinvolgere. Chiunque può assistere a uno spettacolo di Visual vernacular e comprendere, sentire, ognuno a suo modo, quel che il poeta ci vuol dire.
Dunque, se Wright, e tanti altri insieme a lui, avessero avuto l’opportunita di assistere a un evento di questo tipo, probabilmente avrebbero adottato un’altra visione sugli altri, e su loro stessi, accettando che al principio non c’era il Verbo, ma il silenzio, e tutte quelle immagini che, da quel silenzio, ci nascono dentro. Quel silenzio che, a tratti, quasi ci spaventa, mentre si lascia scrivere dentro una musica che, da qualche parte, tutti noi abbiamo sentito, mentre ci muovevamo per un no, o riconoscendoci finalmente dentro un sì.

Caporalato, lo sfruttamento continua. La denuncia dei Medici per i diritti umani

Visita a sorpresa del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al 'ghetto' di Rignano Garganico, una quarantina di chilometri da Foggia, dove alloggiano oltre duemila migranti sfruttati nei campi, 22 agosto 2016. ANSA/FACEBOOK ANDREA ORLANDO +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

A un anno dall’approvazione in Senato del disegno di legge 2217 – che inasprisce il reato di intermediazione illecita e attribuisce la responsabilità del reato non solo al caporale ma anche al titolare dell’azienda agricola che utilizza manodopera sfruttata – il caporalato continua a essere una pratica pervasiva. A tre anni dall’istituzione, presso i Centri per l’impiego, degli elenchi di prenotazione dei lavoratori in agricoltura su base territoriale, nessuno dei migranti è stato assunto attraverso tali liste. Perciò i braccianti migranti impiegati, stagionalmente, in agricoltura vengono reclutati ancora attraverso il caporale, non solo per il trasporto sui luoghi di lavoro ma anche per l’organizzazione della giornata di lavoro che, secondo quanto si legge nel dossier TerraIngiusta, redatto da Medici per i diritti umani (Medu) il 26 ottobre 2017, rimane ancora grigio.

E nonostante il Contratto collettivo nazionale e quello provinciale del lavoro prevedano una sistemazione abitativa durante il periodo della raccolta, le condizioni alloggiative in Basilicata e in Puglia in quest’ultima stagione di raccolta del pomodoro, iniziata nella seconda metà di agosto e terminata a fine settembre, rimangono critiche: a parte l’unico centro di accoglienza temporaneo per lavoratori stranieri, aperto a Palazzo San Gervasio, in Basilicata – con una capienza insufficiente di duecentocinquanta posti a fronte di circa settecento persone presenti presso in insediamenti precari satellite e carente, oltretutto, di servizi essenziali – l’unica soluzione abitativa risultano i casolari abbandonati, sprovvisti di luce e acqua, attorno ai quali sorgono alloggi di fortuna «costruiti dai migranti con traversine di legno ricoperte da teli di plastica cuciti insieme ai tubicini di irrigazione», si legge nel dossier. Cartone o polistirolo recuperato dalle cassette delle piante di pomodoro rivestono l’interno dei ripari; alcuni generatori di corrente per garantirsi l’elettricità e solo due cisterne per attingere acqua non potabile. In Puglia, dopo lo sgombero del “Gran Ghetto” di Rignano Garganico, ad accoglierli è la pista in disuso dell’ex aeroporto militare di Borgo Mezzanone, dove mille e cinquecento migranti vivono in baracche costruite con materiali di risulta, lontane anni luce dai centri abitati e dai servizi primari. Nonché dalle istituzioni locali e dalla politica nazionale.

Così, in assenza di una dimora effettiva, che ostacola il riconoscimento del diritto all’iscrizione anagrafica, rimangono inevasi sia l’iscrizione al servizio sanitario sia il rinnovo dei documenti di soggiorno, del cui permesso, inizialmente, sono quasi tutti titolari e il cui mancato adeguamento preclude l’opportunità di avere un contratto di lavoro. Obbligatorio ma raramente concesso anche ai lavoratori regolarmente soggiornanti: tutti ricevono la comunicazione di assunzione che, tra l’altro, contiene un’indicazione solo approssimativa della durata del rapporto di lavoro, ma nessuno la busta paga – cosicché i contributi versati dal datore di lavoro possono arbitrariamente non corrispondere alle giornate effettivamente lavorate -; il 47 per cento (dei migranti intervistati da Medu) non conosce l’esistenza della disoccupazione agricola e quasi tutti non l’hanno mai percepita. Pagati quattro euro circa “a cassone”, dal quale il caporale decurta cinquanta centesimi, oppure a giornata con trentadue euro a fronte dei quarantotto stabiliti dal Contratto provinciale del lavoro. Il quale, tra le altre cose, stabilirebbe che, laddove non sia possibile l’utilizzo dei mezzi pubblici per raggiungere il luogo di lavoro e l’azienda non sia in grado di fornire un adeguato mezzo di trasporto, «ai lavoratori deve essere riconosciuta un’indennità a titolo di rimborso pari a due euro e venti centesimi da quattro a dodici chilometri, a tre euro e trenta centesimi da dodici a venti chilometri e a quattro euro e quaranta centesimi per tratte superiori a venti chilometri».

Un adeguamento legale che consentirebbe il superamento del caporalato che, invece, continua, anche per garantire la presenza dei braccianti evitando assenze ingiustificate e ritardi nella produzione, a occuparsi degli spostamenti dei migranti a fronte del pagamento di cinque euro al giorno. Giornate all’insegna di una fatica usurante pure in condizioni di totale insicurezza (visto che i presìdi relativi raramente vengono acquistati dai titolari delle aziende agricole): stress lavorativo, incompleta e scarsa alimentazione, insieme a precarie condizioni igieniche e abitative, le cause alla base delle più frequenti patologie riscontrate nei lavoratori migranti. E con buona pace di chi sostiene che siano gli untori dei bambini non vaccinati, non hanno mai riportato alcuna «malattia infettiva a carattere diffusivo di importazione».

Per approfondire leggi l’inchiesta “Caporalato, la rivoluzione mancata”, tratta da Left n.39

Portelli: «Lo sdoganamento del fascismo? Complice il Pd che ha cancellato l’antifascismo dal suo statuto»

Non solo gesti simbolici, folklore futurista o ciarpame in stile Tolkien, i giovani e giovanissimi di CasaPound vagheggiano l’ascesa del fascismo, quello degli esordi, dedito ad aggressioni ai dirigenti e ai militanti socialisti e comunisti, fra assalti alle sedi delle camere del lavoro e spedizioni punitive alle leghe contadine. Con o senza fez le loro squadracce procedono sempre allo stesso modo. Con incursioni intimidatorie contro immigrati, rifugiati, persone indifese. Fare i prepotenti con chi è più debole è un classico di chi si riempiva la bocca di parole come “onore”, “popolo”, “eroismo” come tronfia facciata, che nascondeva un odio freddo e lucido verso il genere umano.

Ancora oggi nell’immaginario di molti italiani Mussolini era al più “un buffone”. A scuola non si studia il genocidio di cui si rese responsabile in Libia. “ Italiani brava gente” è una leggenda (falsa) che ci fa dormire sonni simili alla narcosi. Facendo buio su ampi capitoli del nostro passato colonialista, partorito dalla vanità della monarchia sabauda e portato all’apoteosi più feroce da Mussolini. Così, a poco a poco, la memoria del fascismo è stata sterilizzata, alleggerita di responsabilità, ridotta a una innocua figurina. Colpa anche di una certa storiografia che ha avvolto in una prosa estetizzante l’impresa fiumana e il suo vate, D’Annunzio. Complice una critica letteraria che – anche a sinistra – si è innamorata del paroliberismo dissociato di Marinetti (parente stretto della scrittura automatica surrealista), minimizzando il contenuto violento di testi come il romanzo scandalo di Marinetti, Mafarka il futurista (1909), che fu sottoposto in quegli anni a processo per oltraggio al pudore, in cui si decantavano le gesta immaginarie di un re nero che amava la guerra e odiava le donne. Sono ancora attivi i virus invisibili di quel ribellismo futurista che inneggiava alla «guerra igiene del mondo» e gridava: «Noi disprezziamo la donna concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico…». Non è un caso che Vivamafarka sia il nome di un “acceso” forum targato CasaPound. Che dalle parole è lesta a passare ai fatti, come ci ricordano le cronache di queste settimane, punteggiate di raid a Roma e ronde contro i migranti ad Ostia, solo per citare due esempi fra molti.

Storico della resistenza e americanista Alessandro Portelli ha scritto pagine importanti per denunciare questa progressiva normalizzazione della memoria che ha portato a un tragico sdoganamento di vecchi e nuovi fascismi. Basti ricordare che Roma è arrivata anni fa ad eleggere Alemanno sindaco e Storace presidente della Regione Lazio. E se nella capitale i manifesti di Forza Nuova campeggiano “tranquillamente” nei quartieri più degradati come in quelli residenziali, tipo l’Eur, colpisce ancor più vederne i simboli nelle contrade di Siena e nelle curve degli ultra del Bologna, branditi da tifosi giovani e giovanissimi.

«Non mi sorprende», commenta l’autore di Calendario civile e del nuovo La città dell’acciaio (Donzelli). «Un tempo la differenza generazionale si esprimeva guardando a sinistra. Ma oggi la sinistra sembra incapace di uscire dalla politica politicista. Dall’altra parte – sottolinea Portelli – mi colpisce molto quando costoro, usano parole come “valori” e “ideali”. In questo modo proiettano un’immagine di una società differente (per noi orrenda) prospettano orizzonti. I nostri di sinistra, invece, proiettano (quando va bene) l’immagine una gestione al più attutita dei conflitti che attraversano la società esistente».

È accaduto qualcosa di analogo negli Stati Uniti?

Una tensione simile si è vista fra Donald Trump e Hillary Clinton. L’attuale presidente degli Usa proietta una immagine falsa, anche spaventosa, di cambiamento. Ciò che comunica la Clinton è “andiamo avanti, sempre sulla stessa strada”. Il problema è l’incapacità della odierna sinistra di fare appello all’immaginazione, ai desideri, ai sogni. Vedo tutte le nostre debolezze in questo quadro di avanzata delle destre.

Aver minimizzato la criminalità del fascismo, aver rinunciato a rimarcare la differenza radicale fra destra e sinistra oggi rende necessaria una proposta di legge come quella avanzata da Fiano?

Se fossi in Parlamento l’avrei votata. Ovviamente. Ma non è una risposta alla sua domanda. Penso che Fiano abbia fatto bene a fare la sua proposta, ma al contempo penso che abbia ragione chi dice che non serve a niente: abbiamo già leggi ad hoc, ma non sono state applicate, una nuova norma temo non avrebbe miglior sorte. O poi, va detto, c’è un sottofondo vittimistico di cui si avvantaggia la destra. “Tornate nelle fogne”, si diceva e loro si “identificavano” con le fogne, se ne facevano un vanto. La sfida è un’altra tirar fuori gli ideali di sinistra. Ma oggi progetti legati a valori come lo Ius soli vengono usati strumentalmente nel governo, per strategie di potere. Vedo l’incapacità della sinistra, dalla nascita del Pd a oggi, di uscire da questa politichetta dei tatticismi. Intanto, mentre noi ci lamentiamo del fatto che i ragazzi si chiudono in casa e passano le giornate su facebook, loro li tirano fuori, li riportano nelle strade, fra la gente.

Fanno il porta a porta, vanno a pagare la bolletta agli anziani, si camuffano da chi lotta per la casa…

Non so neanche se si camuffano o lo fanno davvero. Un fatto è certo, sul territorio in certe lotte, noi non ci siamo più. Non dobbiamo dimenticare che la parola antifascismo è stata esclusa dallo statuto del Pd alla sua fondazione. Se ne è perso il senso. Si è pensato che l’antifascismo fosse solo opporsi a un regime di 70 anni fa. Non abbiamo mai identificato come fascismo il razzismo, la xenofobia, il sessismo di oggi. Per non dire che da trent’anni sosteniamo che sia necessario rafforzare l’esecutivo, dare più potere a chi comanda. Così abbiamo indebolito i nostri anticorpi.

Abbiamo lasciato che il fascismo diventasse “normale”?

È avvenuto, purtroppo. Molto gradualmente abbiamo lasciato che diventasse parte dell’orizzonte. Si è sviluppato un senso comune per cui slogan di destra e fascisti circolano indisturbati. Anche senza dire «aiutiamoli a casa loro» (ipse dixit Matteo Renzi, ndr) è passata l’idea di mandare soldi e truppe per impedire a persone che stanno morendo di fame di emigrare. Il passo successivo è quello dei nazisti: mandare navi per affondarli.

In questo quadro cosa pensa dell’idea di Marcello Flores di fare a Predappio un museo del fascismo invece che un museo dell’antifascismo?

Ad essere sincero a me non piaceva. So che le intenzioni di Flores erano le migliori e che avrebbe realizzato il progetto in modo serio e dignitoso, ma l’uso che avrebbero potuto farne i fruitori era incontrollabile. Diversamente da un chiaro museo dell’antifascismo, un museo del fascismo si presta a una fruizione selettiva, filtrata. Sono contento che poi non sia stato realizzato.

Intervista tratta da Left n. 29 del 22 luglio 2017

Le donne protagoniste al MedFilm Festival di Roma

Inizio esplosivo per la 23° edizione del MedFilm Festival, un weekend ricco di emozioni. Ad aprire il festival “La Bella e le Bestie” che racconta una vicenda ispirata a una storia vera accaduta nel 2012 in Tunisia, dove una studentessa di un collegio, sorpresa su una spiaggia in compagnia di un ragazzo, fu stuprata dalla polizia e poi fu sottoposta a intimidazioni e ricatti perché aveva cercato di sporgere denuncia. Il film, che è stato presentato a Roma (e il 13 novembre al festival di Cartagine), è opera della regista tunisina Kaouther Ben Hania che con la splendida protagonista Mariam Al Ferjani ha saputo raccontare una storia che parla di violenza. Una violenza che va oltre a quella fisica, che a volte o troppo spesso è intrinseca nella società. Un racconto di speranza e di grande coraggio. Un film che tiene incollati allo schermo, con il cuore in gola, dall’inizio alla fine. Nella scena finale finalmente arriva un po’ di leggerezza per la bellezza e il coraggio della protagonista.

Wajib” proiettato nella seconda serata del festival è un racconto dolceamaro, a tratti ironico. Nel rapporto tra padre e figlio la regista Annemarie Jacir riesce a lanciare riflessioni anche sulla situazione dei palestinesi in Israele. Lo spettatore viene rapito dalla bravura dei due protagonisti Mohammad Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella realtà.

Il titolo di quest’anno del #MedFilm2017 «Sguardi di donne», dedicato alle donne registe, interpreti, autrici, protagoniste si sposa perfettamente con entrambi i film, non solo per la regia al femminile, ma anche perché le stesse registe fanno spiccare delle figure maschili molto forti, ma allo stesso tempo morbide che contrastano l’atteggiamento di alcune donne che rimangono indifferenti agli eventi circostanti. «Non è responsabilità solo della società maschile, anche le donne sono colpevoli della sottomissione delle donne» è la riflessione che propone Mariam Al Ferjani, che ha partecipato alla presentazione romana del film La bella e le bestie, incontrando il pubblico per raccontare la genesi del film, il lavoro sul set, ma anche la forte partecipazione del pubblico nelle preview in Tunisia dove il film sta suscitando un forte dibattito.

Un atmosfera calda, quella che si è respirata in questi giorni al MedFilm festival tra film documentari, corti, ma soprattutto un pubblico attivo che ha partecipato ai dibattiti in sala con attori e registi prima e dopo le proiezioni.  Altri due piccoli gioielli di questo festival sono Inflame e Summer 1993, entrambi parlano di una perdita, ma vissuta in modo differente.
“Summer 1993” della regista spagnola Carla Simón è un racconto delicato. Dopo la morte dei genitori, Frida, una bambina di sei anni, affronta la prima estate con una nuova famiglia adottiva di zii. Lo spettatore viene trascinato in questa estate piena di emozioni e sentimenti nuovi per la bambina. Lasciati tra parentesi i nonni estremamente religiosi, all’interno della nuova famiglia nascono rapporti belli dove la bambina si lascia finalmente andare. Nell’ultima scena scorrono lacrime sullo schermo così come in sala.
“Inflame” di Ceylan Özgün Özçelik, anche qui regista e protagonista sono donne. Hasret, lavora in un network all news con il quale lei entra in conflitto per la manipolazione mediatica che i suoi colleghi attuano. Da qualche tempo sta avendo lo stesso incubo. È possibile che i suoi genitori non siano morti come ha sempre creduto? Il tutto si svolge in un appartamento claustrofobico con sullo sfondo una nuova Istanbul. Un film che esce fuori dagli schemi del cinema turco, un film di denuncia contro l’oblio. “Siamo arrivati ad una situazione dove camminavo nella mia Anatolia e la vedevo trasformarsi velocemente, vedevo grattacieli ergersi ovunque e non riuscivo più a ricordare cosa ci fosse stato prima. Chiedevo ai miei amici e nessuno si ricordava, avevamo ricordi molto vaghi di quello che era prima l’Anatolia. Per questo ho voluto riprendere un fatto realmente accaduto nel 1993, perché nessuno dimentichi e perché quei discorsi sono estremamente attuali”, racconta la regista turca presente al dibattito in sala dopo la proiezione del film. “Ci vogliono far credere quello che gli fa più comodo e la memoria è la chiave per fare qualcosa e credo che sia questo quello che serve alle nuove generazioni.”
Il film era pronto nel 2013, ma è stato realizzato solo nel 2015. “Tutti i produttori mi sconsigliavano di fare questo film, mi dicevano che non c’erano soldi e non ci sarebbe stata audience, mi dicevano di fare qualcosa di più semplice. Dopo due anni ho ottenuto il permesso del Ministero della Cultura con pochi fondi e finalmente un produttore.”
Inflame verrà distribuito a maggio in Turchia, ma nessuna delle tv nazionali lo vuole trasmettere, nonostante il supporto del Ministero della Cultura. “Reality is a nightmare and nightmare is reality” conclude Ceylan.

Canada, lo strano caso dei bambini “no fly” scambiati per terroristi

Children at the airport, Looking Through Window.

No fly kids. Bambini che non possono volare, letteralmente. Perché il loro nome è simile o uguale a quello di un sospettato, un criminale o di un terrorista. Ecco di cosa si sta parlando ogni giorno, sempre di più, in Canada. Per la lotta coraggiosa dei genitori dei bambini no fly, sta diventando impellente trovare una soluzione ai destini dei minori che il Paese conosce come “bambini che non volano”, bambini a cui è impedito o reso difficile prendere un aereo, lasciare il Paese, andare in vacanza, fare un viaggio insieme ai coetanei, per il semplice motivo che il loro nome è in un server che lo associa a quello di sospetti o colpevoli di attentati.

A differenza di quello che succede negli Stati Uniti, dove un errore di omonimia nei sistemi di sicurezza può essere corretto, in Canada non sono state trovate soluzioni adeguate fino ad oggi. I no fly kids, quasi tutti canadesi di prima generazione, nati in famiglie di migranti o matrimoni misti, non hanno mai abbandonato il Canada per visitare la patria dei loro genitori, che solo ora hanno ottenuto il supporto di 180 parlamentari della House of Commons.

Eppure niente si muove legalmente e ufficialmente per apportare cambiamenti al Passenger Protect Program, un piano che dà al ministero della Pubblica sicurezza canadese il potere di vietare ad una persona, anche minorenne, l’uso di mezzi pubblici, “se si crede sia coinvolta in attività che minacciano la sicurezza del trasporto pubblico, per commettere reati e crimini terroristici”.

Una volta divenuti maggiorenni, alcuni degli ex “bambini no fly” sono stati ingiustamente detenuti in aeroporto, sono stati sottoposti a controlli di altissima sicurezza, hanno visto i loro passaporti confiscati, sono finiti perfino in carcere. Tra il migliaio di canadesi “falsely flagged”, ovvero contrassegnati per errore, ci sono adesso anche 12 bambini nati solo da un paio di settimane. Le liste canadesi con il marchio perenne “non volo” contengono circa duemila persone, ma il numero non è stato ufficialmente confermato dalle autorità, che non vuole rendere pubblici i dati di tutti i “false flag”.

Yusuf è un canadese di 19 anni, con la sola colpa di avere un nome uguale a quello di un sospetto e ha detto al suo governo: “il mio nome è Yusuf Ahmed, da quando sono vivo, ricordo di essere nella lista, ho 19 anni. Le lunghe attese per i controlli, sono come uno stigma, sono intimidenti, il Canada è il mio Paese natale, ma non è tutto questo che mi tiene sveglio di notte. Mi tengono sveglio Almaliki, el Maati, Nureddin, Arar. Sono dei cittadini canadesi, imprigionati e torturati da governi stranieri a causa di informazioni false e inaccurate, tutte procurate dal nostro governo canadese. Oggi il nostro governo si è scusato, ha deciso di pagare milioni di compensazioni per l’errore a questi uomini, ma la mia domanda è: cosa farete per essere sicuri che questo non accada a me o ad altri cittadini canadesi?”.

Yusuf sta parlando di Abdullah Almalki e altri arabi canadesi torturati per informazioni, rivelatesi poi completamente false, durante la caccia alle streghe cominciata dopo l’11 settembre americano. Almalki, un ingegnere siriano-canadese, è stato torturato per due anni nelle celle di Assad dopo essere stato dichiarato una “minaccia” dalle autorità di Ottawa. Solo nel marzo scorso il governo canadese gli ha posto le sue scuse ufficiali.

“Sono otto anni che aspettiamo una soluzione, non abbiamo ottenuto niente se non vuote promesse” ha detto Sulemaan Ahmed. Suo figlio è nella lista da quando è nato, il suo nome combacia con quello di un ricercato, anche se luogo e data di nascita, numero di passaporto, ed altri dati identificatori, non sono uguali. Eppure questo basta ad impedirgli di prendere mezzi pubblici dove è necessaria l’identificazione. Per eliminare i falsi positivi dal server, ha detto il ministro della Pubblica Sicurezza Ralph Goodale, si potrebbe decidere di adottare il protocollo di riconoscimento che si usa negli Stati Uniti, ma a partire dal 2018, mentre per la tecnologia che permetta di riconoscere i “falsi positivi” ci sarebbero da stanziare 78 milioni di dollari annui.

“Reidirizzare e rielaborare il sistema è un primo passo avanti, ma il governo ha zero piani per migliorare la situazione in questo senso” ha detto Sulemaan. “La mia domanda è: il governo considera appropriato continuare a rischiare la sicurezza nazionale e a violare i diritti di innocenti cittadini canadesi?”.