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Il mercato dell’alternanza di lusso

Un momento della manifestazione degli studenti del collettivo autonomo studentesco contro l'alternanza scuola-lavoro, Bologna , 13 ottobre 2017. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Dopo due anni di rodaggio, la tanto discussa alternanza scuola lavoro è entrata a regime. Duecento ore obbligatorie di stage nei licei, ben quattrocento negli istituti tecnici e professionali, da svolgersi anche nei periodi di vacanza o all’estero. L’esperienza però, in termini formativi, non è uguale per tutti. Mentre alcuni giovani accrescono le loro competenze servendo gratis caffè all’Autogrill (o Happy Meal al McDonald’s, la scelta è tristemente ampia), altri riescono a schivare queste “opportunità” – spesso le uniche a disposizione per chi vive in territori economicamente depressi oppure non può fare tirocini nell’azienda dei genitori – facendosi riconoscere come alternanza alcune attività davvero formative. Con un piccolo dettaglio: costano fino a 20mila euro.

Education First si descrive come “la più importante organizzazione internazionale privata specializzata in soggiorni studio e corsi di lingua” e propone periodi di lezioni all’estero, che vanno dalle 2 alle 52 settimane. «Paesaggi esotici, clima solare, gente cordiale: benvenuto nel campus di Honolulu», si legge nella brochure. Dodici settimane di corso intensivo alle Hawaii costano poco più di 8mila euro. Al centralino, una operatrice ci spiega con sicurezza: «Di base, i nostri corsi all’estero vengono riconosciuti come alternanza», anche se «il riconoscimento cambia da scuola a scuola»

Già, perché anche gli studenti possono proporre agli istituti di stipulare convenzioni con realtà individuate in modo autonomo, anche se l’ultima parola spetta ai consigli di classe e ai presidi. Che spesso, a quanto pare, accendono il semaforo verde affinché questi corsi siano equiparati ad ore di tirocinio. «Le ore di alternanza le verranno riconosciute, perché rilasciamo certificati di frequenza col report delle mansioni svolte» ci spiega un operatore di Viva Lingue, altra agenzia di soggiorni studio. Anche se «ogni scuola agisce in maniera diversa – aggiunge – perché ovviamente non è come fare una esperienza lavorativa (…) è una cosa un po’ anomala, fuori da quelli che sono gli standard». «Io ho dei licei che hanno detto “sì, anche se vai a lavorare in un negozio per noi va bene lo stesso perché tutto fa esperienza”, mentre altri sono molto più rigidi», aggiunge il dipendente.

Ma i corsi di lingua non sono l’unico modo in cui, estraendo il portafoglio, si ha la possibilità di evitare le alternanze di serie B. Anche andare “a scuola di diplomazia” è una alternativa valida. European people si occupa di sensibilizzare “giovani generazioni ai valori civili, sociali e democratici del cittadino europeo”. Per farlo, organizza viaggi a New York, in concomitanza col “National high school model United nations”, una simulazione dei negoziati dell’Onu per giovani studenti di tutto il mondo. Prima di decollare, gli studenti frequentano corsi preparatori. Novanta ore, che possono essere riconosciute come alternanza, si legge nel sito. Prezzo: più di 1.500 euro. Italian Diplomatic Academy offre servizi simili. Per diventare piccoli negoziatori dell’Onu il costo è più di 1.800 euro. «Il corso è valido come alternanza», recita il volantino disponibile online. E viene proposto a tappeto dai suoi dipendenti nelle scuole italiane. Ma, sebbene siano offerte alcune borse di studio, certi presidi si sarebbero rifiutati di firmare una convenzione che avrebbe rischiato di discriminare studenti facoltosi e studenti poveri.

Ma come è possibile che un corso formativo possa legalmente essere equiparato a uno stage dalle scuole? Il problema è che sotto il cielo delle norme, note, linee guida del ministero dell’Istruzione la confusione è grande. Per questo “la situazione è eccellente” per le aziende che si occupano di formazione, che hanno fiutato l’affare. Chi organizza corsi per “piccoli diplomatici” coglie al balzo l’opportunità offerta al punto 9 della Guida operativa per l’alternanza firmata dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur, che apre all’equiparazione tra stage e “lavoro simulato” in una “azienda virtuale animata dagli studenti”. I giovani, dunque, non lavorano veramente all’Onu, ma per il ministero va bene lo stesso. Inoltre, al punto 4 comma “e” si chiarisce che per “studenti solidi dal punto di vista delle conoscenze (cosiddette ‘eccellenze’)” è possibile attivare “percorsi formativi diversificati”.

Alternanza, insomma, può significare molte cose, a seconda dell’interpretazione delle norme, della sensibilità dei presidi e dell’ingegno delle imprese che – senza infrangere la legge – ci speculano. «Conosco studenti che hanno pagato 17mila euro per fare un anno di superiori all’estero col progetto Intercultura; al ritorno erano chiaramente molto soddisfatti», spiega Fabrizio Reberschegg, della direzione nazionale della Gilda degli insegnanti. Intercultura è il nome di una Onlus fondata nel 1955, che organizza e gestisce tutto il necessario per gli studenti che da settembre a giugno vogliono studiare sui banchi di una scuola lontana dall’Italia. «Ora tutto ciò è entrato nella dinamica dell’alternanza scuola lavoro.

Praticamente chi fa un anno all’estero si fa automaticamente tutte le ore di alternanza. Per il semplice fatto di essere stato all’estero». Borse di studio a parte (sono 25 quelle indicate come “totali”, ma se si legge bene sono esclusi comunque 800 euro, da pagare in qualsiasi caso), si va dai quasi 11mila euro per il Portogallo ai 23mila della Nuova Zelanda. «Ma quale famiglia normale può permetterselo?», sbotta Reberschegg. «Il business sulle esperienze all’estero c’è sempre stato – prosegue – però in questo modo viene ancor più legittimato, perché, siccome l’alternanza scuola lavoro è obbligatoria, le persone possono prendere due piccioni con una fava, fare un corso di inglese o di francese e contemporaneamente adempiere all’alternanza. Per cui si tratta una doppia presa in giro».

La posizione del sindacato Gilda sulla alternanza è radicale. «Bisogna togliere tutta la parte che la introduce nella cosiddetta Buona scuola, cassare gli articoli sulla alternanza». Ciò non significherebbe, peraltro, “tornare all’età della pietra”. «Lavoro in un istituto tecnico – racconta il sindacalista – e le esperienze di avvicinamento al mondo del lavoro le abbiamo sempre fatte, ben prima di questa legge, solo che non c’era l’obbligo di queste quattrocento ore micidiali. Così la quantità va a dispetto della qualità. Mi pare sia la più grande stupidaggine che si possa fare in questa fase in Italia». «È un regalo fatto alle imprese», sintetizza bruscamente Reberschegg. C’è poi un altro problema, collaterale: la mancanza di vaglio sui progetti ad opera di presidi e consigli di classe, investiti da questo nuovo ruolo di “controllori”. «Il problema è che i dirigenti ci tengono molto ad agevolare la possibilità per i propri studenti di fare questi progetti, perché rappresentano “fiori all’occhiello” per la scuola». Scuola che si trova a dover competere sempre di più con gli istituti limitrofi, a caccia di un alunno in più per poter rimpinguare casse (attraverso i contributi volontari) e prestigio della scuola.

Più cauta la Cgil, che però conferma che l’alternanza così non va. «Gli stage all’estero si son sempre fatti – ricorda a Left Patrizia Villa, nella segreteria Flc di Livorno – ma in questo modo si discrimina gli studenti, favorendo chi è in grado di “comprarseli”». «Il problema – prosegue – è l’eccesso delle ore, perché se ci fosse libertà nello stabilire il monte orario dell’alternanza si potrebbero attivare percorsi virtuosi». Mentre in questo modo, puntando sulla quantità, i risultati sono talvolta tristemente paradossali. «Abbiamo avuto casi di studenti che sono andati a fare l’alternanza scuola lavoro nelle aziende dove erano stati licenziati i padri – spiega – e magari sono andati lì a fare un “lavoro nero” col quale si sostituivano nella mansione del padre licenziato. Sono cose “fuori dal mondo”».

I ragazzi, nel frattempo, non restano a guardare. Il 17 novembre l’Unione degli studenti ha lanciato gli Stati generali dello sfruttamento, assemblee pubbliche costruite insieme al sindacato «in cui fare fronte comune ed opporsi alla retorica dell’“economia della promessa” e all’attacco col quale i ragazzi vengono messi “contro i loro genitori”, entrando in concorrenza con loro, con chi un lavoro già ce l’ha, dando così vita all’ennesima guerra fra poveri», spiega Francesca Picci, coordinatrice nazionale Uds. «Un percorso che porterà ai cortei del 24 novembre». «Noi vogliamo essere formati, non sfruttati, vogliamo una formazione al lavoro che sia di qualità e con delle tutele», spiegano gli studenti nella nota che annuncia la protesta. Tutele che siano davvero alla portata di tutti, non solo per chi può permettersi di comprarle.

L’inchiesta di Patrizio Marchetti è tratta da Left n.46


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Una bambola, alcune lettere, un flauto: negli oggetti smarriti dei migranti tutta la disumanità dell’Europa

Migranti a Lesbo, Grecia, 29 aprile 2016. ANSA/UFFICIO STAMPA OXFAM/PABLO TOSCO

Un orologio digitale ancora funzionante. Una bambola di pezza attaccata a un salvagente. Una macchinina verde e alcune pagine del Corano. Una cartella piena di documenti in arabo. Qualche ciondolo. Persi dai migranti durante il loro viaggio migratorio e ritrovati nella terra di nessuno, ai confini di un mondo che li relega nei campi, gli oggetti possono raccontare la loro vita. Anche quando i campi vengono sgomberati e bonificati in un pugno di giorni, sotterrando cose e affetti, quasi a far sparire la loro storia.
Raccontarla, e in modo diverso, che non privasse gli immigrati della loro identità, è l’intento di Lost & Found, un progetto nato nel 2016, sostenuto da Advocate Europe, alla ricerca di quegli oggetti per riscattarli dall’unica condizione di massa di rifugiati con cui vengono solitamente accatastati.
«Dopo aver visitato il cimitero di Agrigento, in seguito al naufragio del 3 ottobre del 2013 – racconta a Left Christine Pawlata, la curatrice del progetto, insieme a Erika Tasini – e aver visto una sfilza di lapidi tappezzate di date e numeri, è nata l’esigenza di dover dare un nome e un’umanità ai migranti che, intraprendendo il viaggio, cercano una speranza». Partito dalla Serbia al confine con l’Ungheria, arrivando fino in Grecia, a Lesbo, Atene, Idomeni e verso il fiume Evros, il viaggio di Lost & Found, è un documentario work in progress fatto di incontri e di scambi, di storie e di ritrovamenti.
Grazie all’umanità di un medico legale di un ospedale di provincia ad Alexandropoli, al confine con il fiume Evros, il quale, per conservare la memoria dei rifugiati che hanno perso la vita, ha creato un archivio rudimentale (fatto di scatole di scarpe) delle cartelle cliniche e dei loro oggetti. E a quella generosità di chi è sopravvissuto che a Lesbo, a una coppia di inglesi che vive di fronte alla spiaggia dove sbarca la maggior parte dei barconi, un uomo, in cambio del loro aiuto, ha regalato una pietra: l’unica cosa che aveva portato con sé dalla Striscia di Gaza.
O il hijab che una donna siriana ha lasciato a un’abitante di Lesbo per averla accompagnata fino a Mitilene, nonostante il clima di intimidazione governativa. Il flauto che il barista della stazione dei treni di Idomeni, il più grande campo spontaneo d’Europa dopo la seconda guerra mondiale, ha ricevuto in cambio del prestito di alcune stoviglie per cucinare, era l’unico oggetto con il quale un musicista siriano viaggiava, dopo essere scappato dalla sua casa di Damasco in seguito ai bombardamenti.
«Alcuni rifugiati – spiega Christine Pawlata – partono senza portare alcunché perché, il più delle volte, hanno perso tutto prima; tanti, invece, portano con loro gli oggetti più cari, custodendoli gelosamente per non smarrirli fino a che, succede, durante le traversate, soprattutto in quelle dalla Turchia alla Grecia, vengono obbligati a buttarli. Se, poi, incontrano la polizia bulgara, una delle più violente e crudeli, vengono addirittura derubati». È quanto è successo ad Abasin, un ragazzo afghano, proveniente da una famiglia di farmacisti perseguitata dagli estremisti, derubato del suo zaino contenente gli unici due oggetti di cui era in possesso: un romanzo che voleva finire di leggere e l’orologio che suo padre gli aveva dato prima della partenza.

Lost & Found è, anche, una mappa interattiva con l’obiettivo di ritrovare i proprietari, restituire loro gli oggetti ritrovati e ricostruire la loro storia: la foto di un passaporto trovata nelle tasche di un paio di pantaloni sulla spiaggia di Lesbo, una fede nuziale appartenente a una giovane donna di Mosul, ritrovata in un campo per rifugiati di Belgrado, e una cartella, contenente una laurea in legge, alcuni certificati medici e delle lettere in arabo, trovata a Subotica in un edificio di un dutyfree abbandonato, quando l’Ungheria ha chiuso il confine con la Serbia: qualche numero di telefono scritto sui documenti ha permesso a Lost & Found di mettersi sulle tracce di chi l’ha persa.

Prato, l’urbanistica partecipata nella città italo-cinese. Per andare oltre la crisi

Inaugurata a Prato (con il patrocinio del Comune) ?Radio Italia Cina?, la prima radio sino-italiana d?Italia, 11 marzo 2016. ANSA/MAURIZIO DEGL'INNOCENTI

Superare la melanconia post industriale guardando al futuro. In questi mesi Prato si sta giocando una delle sue carte più decisive per immaginarsi come una città che sa di nuovo proiettarsi nel futuro e dimostrare, prima di tutto a se stessa, di aver superato la fase di riflessione esclusivamente rivolta al suo glorioso passato distrettuale.
L’occasione è offerta dall’adozione del nuovo piano operativo che ha il compito di sostituire quello precedente firmato dal grande urbanista Bernardo Secchi del 2001, che aveva già lavorato a Madrid, Ginevra e Parigi. Sebbene emendato con più di 200 varianti, è ancora il vecchio regolamento urbanistico a regolare gli spazi, gli usi e le dinamiche della città del tessile.

Ora Prato cerca di diventare una città accogliente, dinamica e smart almeno sul piano urbanistico, grazie anche al riuso dei vecchi capannoni industriali che incombono inermi sul Macrolotto Zero.
Non è un caso quindi che al lungo iter di adozione del piano operativo, compresi i momenti di partecipazione attiva con la popolazione, è stato dato il nome di “Prato al Futuro” , percorso che terminerà, al netto di inciampi e osservazioni, nel 2019 con l’approvazione del piano stesso.
Fino a dicembre i cittadini saranno impegnati in assemblee, presiedute da esperti, nelle quali si esamineranno i possibili sviluppi urbanistici sotto vari profili, ma il tema del riuso rimane il tema fondamentale e dirimente. Non solo perché gli edifici industriali vuoti sono numerosi, ma soprattutto perché si trovano nella zona del Macrolotto Zero, quella che per tutti i pratesi è ormai la Chinatown.

E qui il ragionamento si fa particolarmente complesso in quanto accanto a quello urbanistico, si devono prendere in esame anche gli aspetti sociologici e antropologici della forte presenza cinese in città. Trentamila persone, tra regolari e meno regolari, che lavorano quasi tutte nel Macrolotto, un incrocio di strade appena fuori dal centro storico dove il rosso alternato al dorato delle insegne dei ristoranti catapulta il visitatore in Cina, a pochi minuti a piedi dal bianco marmoreo del Duomo di Prato.
La contrapposizione cromatica dei colori sembra rispecchiare la dualità politica del passato, e in parte anche del presente, della città di Prato che ha sempre avuto un’anima piuttosto democristiana, venata di rosso solo a seguito delle varie ondate migratorie nazionali che si sono succedute nel tempo, a partire dagli anni Sessanta: prima i pratesi delle montagne, poi gli aretini e infine i pugliesi negli anni Ottanta.
Alcuni sociologi si sono domandati perché non si sia mai verificata nessuna grave crisi sociale a seguito dell’arrivo dei lavoratori cinesi che silenziosamente si sono andati a sostituire a quelli pratesi nel distretto tessile. La risposta, quasi unanime, è stata individuata ancora una volta nella possibilità di fare commercio, l’unica lingua che entrambe le comunità, almeno all’inizio, avevano in comune. D’altra parte un metro quadrato messo in affitto al Macrolotto rende più o meno quanto uno in centro a Firenze.
Ad una lettura più approfondita si scopre in realtà che le similitudini tra pratesi e cinesi sono molto più numerose di quanto si immagini e ce lo ricordano le cronache nelle quali, già alla fine degli anni Settanta, alcuni giornalisti francesi ed inglesi bollavano i lavoratori pratesi come dediti all’autosfruttamento e al lavoro nero, come riporta lo storico pratese Riccardo Cammelli nel suo bel libro Tra i panni di rosso tinti. Allora era infatti Prato la capitale low cost del tessile che, grazie al basso costo della manodopera e agli orari ininterrotti delle fabbriche a conduzione familiare, era riuscita a diventare la nuova Manchester italiana, a discapito degli altri distretti europei.

La sfida che la città deve affrontare ora è tutta di tipo culturale, come lo è immaginare una città che sappia dare spazio e voce alla sua dimensione multietnica e multiculturale.
In trent’anni di presenza cinese in città, poco è stato fatto sul piano dell’interazione perché è mancata una corretta e puntuale messa a fuoco del problema. La narrazione dominante – politica, giornalistica e perfino romanzesca – si è fossilizzata sulla ripetizione ossessiva della fine dell’età dell’oro distrettuale causata dall’arrivo dei lavoratori cinesi.
Se fino a poco tempo fa il sentimento comune pratese era perfettamente incarnato dalla vicenda familiare e malinconica de Storia della mia gente dell’ex imprenditore tessile e ora deputato Edoardo Nesi, adesso c’è anche chi, come Federica Zabini, sulla Chinatown e i suoi abitanti-lavoratori ci scrive delle Cartoline dal tratto spiccatamente umano e indulgente, oppure chi, come il sociologo Fabio Bracci, invita ad andare Oltre il distretto e cominciare a rendersi conto che l’età dell’oro del distretto non è certo finita per colpa dei cinesi in quanto, a ben guardare, quella era già terminata da un pezzo.

Quale sia stata la causa, o meglio l’insieme di eventi che hanno portato al tracollo del distretto conosciuto fino allora? Ce lo dice di nuovo Bracci: da una parte l’apertura della Cina al mercato globale con la sua adesione al Wto e dall’altro l’abbandono della lira a favore della moneta unica europea. Dimensione globale e locale che s’intrecciano saldamente, insomma, e che fanno di Prato, piccola città alle porte dell’ingombrante Firenze e di questa fino a pochi decenni fa parte integrante anche dal punto di vista amministrativo, una città complicata ma nella quale alle volte si respira più che a Firenze aria di futuro e voglia di tornare a brillare di luce propria.

Il Paese dei suicidi

epa05698845 A young girl (L) shows her calligraphic work with other participants as they take part in the New Year's first calligraphy contest at Nippon Budokan Hall in Tokyo, Japan, 05 January 2017. In the annual new year's event, about 3,000 people of all ages from across the nation displayed their skills in the Japanese calligraphy. EPA/KIYOSHI OTA

Morti, uno dopo l’altro: manu propria, per loro stessa volontà. Tanti, troppi. Così il governo del Giappone ha deciso di reagire e di risolvere la situazione, chiudendo tutti i siti che istigano al suicidio, tutte le bacheche digitali dove si possono condividere pensieri che spingono a togliersi la vita. Tokyo continua a censurare e oscurare siti web, per arginare, come fa da oltre dieci anni, il tasso di suicidi dei giovani giapponesi, ma nuovi metodi per parlarne in rete continuano ad apparire. E i teen giapponesi con nomi fittizi leggono e intervengono. E poi decidono di morire.

Takiro Shiraisi, 27 anni, qualche giorno fa ha ammesso di aver ucciso 9 persone, quando la polizia ha ritrovato braccia e gambe amputate in casa sua, nella periferia suburbana di Tokio. Le vittime erano state adescate su internet, sui social media, l’unico luogo dove i giovani nipponici hanno davvero il coraggio di sfogarsi e chiedere aiuto. Avevano scritto di voler morire e cercavano compagnia per farlo: Shiraisi a quel punto li invitava a casa sua, promettendogli il necessario. Ha ucciso in maniera violenta così giovanissime ragazze, tra i 15 e i 20 anni.

Suicidi e rete. C’è un legame? Se lo chiede il Japan Times. Toru Igawa, a capo del centro di prevenzione del suicidio a Tokio, ha detto al giornale che internet ha reso le cose peggiori per la nuova generazione giapponese. In precedenza le persone non volevano morire “da sole” e rinunciavano a togliersi la vita, ma adesso, con le piattaforme sociali dove parlano l’uno con l’altro, questo è cambiato. “Trovano dei “compagni” online”, ha detto il dirigente, citando uno studio inglese che ha confermato che almeno il 20% dei giovani adulti che decidono di morire, visita prima delle piattaforme online. Suicidio-omicidio: le parole vanno insieme, legate da un trattino. E poi c’è un film culto in Giappone, chiamato il club dei suicidi, Jisatsu sakuru, e un manuale che si continua a comprare in libreria, il Kanzen Jisatsu Manyuaru, il “competo manuale del suicidio”.

Una vicenda nera e non si tratta di karoshi, una parola che i giapponesi conoscono bene dagli anni ’70, che vuol dire “morte per sovraccarico di lavoro”. Di karoshi eclatanti in Giappone si ricordano quelli di due donne: Matsuri Takahashi, che dopo 105 ore di straordinario nell’agenzia pubblicitaria in cui lavorava, si è lanciata dal tetto del suo datore di lavoro nel 2015 il 25 dicembre, poi quello di Miwa Sado, che dopo 159 ore di straordinari si è tolta la vita nel 2013.

Yoshihide Suga, segretario Capo Gabinetto giapponese, ha chiesto adesso al governo di chiudere tutti quelli che chiamano “suicide website”, compresi i social media che li pubblicizzano: “Twitter è il social network più difficile da tenere sotto controllo, strumentalizza il grido di aiuto delle vittime” ha detto. Il Giappone ha il più alto tasso di suicidi al mondo: ogni anno sono 22mila.

Escono le molestie, si arrocca la fallocrazia

Ci deve essere da qualche parte una Gran Maestro Venerabile della setta degli uomini impauriti che impartisce ogni mattina la linea difensiva al suo esercito di opinionisti, nascosto in qualche villa zeppa di ginecei e preoccupatissimo che il caso delle molestie sessuali di cui si parla ogni giorno (perché no, non è Fausto Brizzi il tema quanto piuttosto il fatto che non ci sia una donna che non racconti di avere subito molestie nella sua vita, nemmeno una) possa spostare gli equilibri di una fallocrazia preoccupata di perdere il diritto al libero sfogo delle proprie pulsioni.

Così ogni giorno, da qualche settimana, si ripete il rito di una difesa d’ufficio che ha tutta l’aria di essere un rincoglionimento concertato sotto le mentite spoglie di un movimento d’opinione: si va da Vittorio Sgarbi che ieri a Matrix dichiara sornione che «in tutto il mondo del cinema c’è un tacito accordo in cui il regista è padrone di un attore» fingendo di non sapere che in questi giorni si starebbe parlando invece proprio di quelle che non sono d’accordo; si passa per Sallusti che teme «una nuova tangentopoli» discettando sulle cinquanta sfumature di molestie perché in fondo tutto si confonda e non ne paia credibile nemmeno una; si ascoltano donne rivendicare felici tutte le pacche prese sul culo dimenticando che è “giocoso” se si è d’accordo in due; si leggono fior fiore di editorialoni preoccupati per la presunzione di colpevolezza a cui non scappa nemmeno un rigo per sbaglio sulle presunte vittime; ci si sorbisce patetiche difese d’ufficio dello spessore di un “mi salutava sempre”; ci si impegna sugli esami ginecologici delle vittime per alzare un po’ lo share fino al più vergognoso “così fan tutti” come giustificazione di tutti i mali.

Eppure insistere sulla cronaca delle molestie è, per i fallocrati, il metodo migliore per non essere costretti a parlare dell’abuso di potere di chi sta in una posizione di forza e decide di esercitarla con i propri mezzi; che poi il mezzo preferito di questi gli ciondoli in mezzo alle gambe è anche questa un storia antica che pianta la sua origine nel tempo dei tempi e che forse sarebbe il caso di sradicare.

Così ancora una volta lo scopo è quello di simulare un dibattito in cui non si dibatta di nulla affinché non intacchi le vecchie abitudini: i fallocrati sono terrorizzati di essere smascherati e allora diventano terroristi. Il messaggio è chiaro: se qualche donna ha intenzione di provare a parlarne sappia che sarà costretta a essere misurata in tutte le sue forme e palpata in tutte le sue debolezze. Com’è tipico dei fallocrati, appunto.

Buon giovedì.

Ostia, il litorale da anni in balìa della mala. Ma c’è chi se ne accorge solo adesso

Roberto Spada (2D) lascia la caserma dei carabinieri di Ostia, dove era stato portato dopo essere stato fermato per l'aggressione nei confronti della troupe Rai, 09 novembre 2017. Le accuse nei suoi confronti sono quelle di lesioni aggravate e violenza privata con l'aggravante di aver agito in un contesto mafioso. Scortato dai militari, Spada è stato poi portato nel carcere romano di Regina Coeli. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Ostia si è svegliata mafiosa solo dopo la testata sul naso che Roberto Spada ha dato ad un giornalista. Questa storia mi fa sorridere amaramente perché era già tutto annunciato». Il magistrato Alfonso Sabella nel 2015 è stato nominato, dall’allora sindaco Ignazio Marino, assessore alla legalità del comune di Roma, con delega al litorale di Ostia. E lui quel territorio e le famiglie che lo dominano li conosce bene: «Quello che è accaduto è un evento terribile, ma tutto questo è nelle corde di quel territorio. Un epifenomeno del fenomeno». Il 7 novembre il giornalista di Nemo, Daniele Piervincenzi e il suo cameraman, hanno subito un’aggressione da Roberto Spada, a Nuova Ostia, mentre si trovavano fuori la palestra di quest’ultimo per domandargli dei legami tra la sua famiglia e Casapound, che nel X municipio ha raggiunto il 9% alle ultime elezioni. Era stato lo stesso Spada, con un post su Facebook, a dichiarare il suo appoggio per CasaPound. Adesso “Robertino” si trova nel carcere di Regina Coeli con l’accusa di violenza privata aggravata dal metodo mafioso. E non è la prima volta per la famiglia Spada: il 42enne è il fratello di Carmine Spada, detto “Romoletto”, condannato in primo grado a 10 anni di carcere per estorsione con l’aggravante del metodo mafioso. Il 4 ottobre Massimiliano Spada, Ottavio Spada e Maria Dora Spada, sono stati invece condannati in primo grado a 13 anni e 8 mesi di carcere il primo, a 5 anni il secondo e 7 anni e 4 mesi la terza. Accusati di minacce, violenze, sfratti forzosi da alloggi popolari e anche una gambizzazione per affermare la supremazia del proprio clan sul territorio di Ostia. Il tutto con l’aggravante del metodo mafioso. Un uomo “che comanda” e che può dare “ordini”, così viene definito Roberto Spada dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e riportate dai pm della Dda romana Giovanni Musarò e Ilaria Calò nel provvedimento di fermo.

Il giudice
«C’è una sorta di antimafia di convenienza. – racconta il giudice Alfonso Sabella – Alcune delle persone che sabato sono scese in strada per manifestare contro la mafia a Ostia, sono le stesse che lo scorso gennaio protestavano contro lo scioglimento del municipio per mafia». Nel 2015 viene presa la decisione di sciogliere l’amministrazione Pd che governava Ostia, a seguito dell’allora inchiesta Mafia Capitale. Il sindaco Marino conferisce la delega alla legalità, anche per quanto riguarda Ostia, ad Alfonso Sabella. E tra le prime cose, c’è stata quella di far chiudere una delle palestre della Femus Art School, gestita dalla famiglia Spada. «Erano occupanti di uno spazio di proprietà del Comune», ma le chiavi della palestra arrivano in qualche modo nelle mani degli Spada: «Quando siamo tornati abbiamo trovato una miriade di bambini all’interno della palestra, e abbiamo dovuto attendere la fine della “festa” per chiuderla». E poi, «nel giorno della cerimonia di commemorazione per l’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, proprio accanto a noi – racconta Sabella – c’era una manifestazione organizzata dalla loro scuola di danza con musica, balli e bambini».
Adesso, il giudice Alfonso Sabella a Ostia non c’è più, ma per lui la situazione non cambia: «Non è solo corruzione, non c’è dubbio che si tratti di mafia». Dopo lo smembramento della Banda della Magliana, molte famiglie hanno risvegliato i propri interessi nel Lazio: i Triassi, di origine siciliana, gli abruzzesi Fasciani e gli Spada, detti “gli zingari”.

Le attività degli Spada
Le mosse degli “zingari” vengono raccontate anche dai due collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dai giudici: l’ex spacciatore di droga Michael Cardoni e sua moglie Tamara Ianni. Lo zio di Michael, Giovanni Galleoni, è stato ucciso nel 2011 e suo padre Massimo è stato gambizzato nel 2015. Si tratta di esponenti del gruppo dei “Baficchi”. Nel 2004 arrivano gli Spada, «erano solo manovalanza per conto di altre organizzazioni criminali, in particolare dei Fasciani — racconta il pentito —. Gli unici personaggi di spicco, dotati di vera capacità criminale, erano, all’epoca, Carmine Spada detto Romoletto e suo fratello Roberto, uno che comanda in seno alla famiglia e si occupa del traffico di stupefacenti». Gli Spada avrebbero rafforzato il proprio potere grazie al matrimonio tra la figlia di Franco l’iracheno e il figlio di Spada Enrico detto Pelè.

Una storia che Left aveva già raccontato nel dicembre del 2013 (nel numero 51-52 della rivista, con l’articolo “Stessa spiagga stessa mala”, firmato anch’esso da Fabrizia Caputo ndr).

Spaccio, usura e omicidi. Sono solo alcuni degli ingredienti della storia criminale di Ostia. Da tempo ormai il litorale è in balìa della criminalità organizzata che negli anni, silenziosamente ma non troppo, è riuscita a mettere sotto scacco un’intera provincia. Non si tratta di piccole associazioni criminali, ma di vere e proprie strutture gerarchico piramidali degne di Cosa nostra. Almeno secondo le indagini della procura capitolina, che a luglio 2013 ha tratto in arresto più di 50 persone nell’ambito dell’operazione denominata Nuova alba.

Il patto di non belligeranza
Per anni le famiglie impiantate nella periferia della Capitale si sono fronteggiate in una guerra di mafia per il controllo del territorio. Nel 2007 arriva l’attentato a Vito Triassi, esponente di spicco del clan affiliato ai siciliani Cuntrera, gambizzato nel quartiere di Casal Palocco. Sospettati dell’agguato, alcuni appartenenti al sodalizio Fasciani-Spada. Ma misteriosamente i Cuntrera non reagiscono. Sarà Sebastiano Cassia, pentito siciliano trapiantato a Roma, a far luce sulle attività criminali delle cosche capitoline. Il collaboratore di giustizia racconta di una «pax mafiosa, avvenuta recentemente, tra le due principali famiglie che si dividono il lungomare di Ostia». Piuttosto che innescare una guerra tra clan, le cosche avrebbero preferito stringere un patto di non belligeranza pur di spartirsi gli affari e le zone della città.

Gli attentati
Non si tratta quindi di un romanzo criminale, ma di una realtà criminale, che mette in scacco la libertà dei piccoli e medi commercianti di Ostia e non solo. Usura ed estorsione sono la vera piaga della città balneare. Chi non paga rischia grosso. E la lista di attentati “intimidatori” è lunghissima: nel 2007 un incendio distrugge lo stabilimento balneare “Med”, sulla spiaggia protetta di Capocotta; nel 2009 ben due roghi colpiscono il lido “Buco beach” e il chiosco “Punta Ovest” di Ostia; nel 2010 invece, le fiamme avvolgono la veranda del “Caffè Salerno”; un anno dopo tocca al chiosco “Blanco” e nel 2012 il fuoco arriva sul lungomare, devastando il chiosco “il Capanno”; nel 2013 invece, un incendio ha divorato il “Glam Beach”, un altro chiosco sul lungomare.

Le associazioni e il mutuo anti racket
Lo sa bene Lucia Salvati, preside in pensione di 72 anni, che nel 2013 si è incatenata davanti al Municipio di Ostia per denunciare le pressioni subite dal clan Spada. La cosca avrebbe fatto pressioni sulla donna in modo da farle ritirare un esposto per abuso edilizio presentato contro i vicini di casa. Ma Lucia Salvati non è l’unica vittima ad avere il coraggio di parlare. Mario (il nome è di fantasia) titolare di una piccola impresa edile ha fatto arrestare il suo strozzino: «Tutto è iniziato con un piccolo prestito di 10 milioni di vecchie lire, ma ben presto mi sono ritrovato dentro un incubo», ci spiega. «Nel giro di tre anni, a causa degli interessi, mi sono ritrovato indebitato per circa 220 milioni di lire. Mi sono deciso a denunciare, quando il mio strozzino mi picchiò nel retro del suo locale, lasciando la porta aperta, in modo che i miei figli potessero vedere quello spettacolo atroce». A sostenere i cittadini che vogliono denunciare gli abusi subiti, sul territorio sono presenti molte associazioni. «Purtroppo la situazione criminale è sempre più radicata e con caratteristiche sempre più pericolose», raccontava a Left nel 2013 l’avvocato Luigi Ciatti, presidente dell’Ambulatorio antiusura di Roma e responsabile della Fai, Federazione associazioni antiracket italiane. «Purtroppo, non tutte le vittime sanno che c’è un programma di accesso ai fondi per risanare i debiti da usura». Imprenditori, commercianti, artigiani, professionisti possono accedere a un mutuo previsto dall’articolo 14 della legge 108/96. «Molto spesso – prosegue Ciatti, le vittime sussurrano solo all’orecchio il reato subìto, ma poi non formalizzano la denuncia, rendendo tutto molto più difficile».

Il nuovo affascinante viaggio sonoro di Jan Garbarek

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La sua musica ti porta in territori sconosciuti. Immensi paesaggi sonori, ponti musicali tra occidente e oriente. Questo e quello che ha offerto Jan Garbarek con il suo quartetto, al Conservatorio di Milano. Garbarek era ospite della rassegna JazzMi, giunta alla sua seconda edizione con un programma di 150 eventi e più di 500 artisti sparsi in tutta Milano. Il musicista e compositore scandinavo ha alle sue spalle una lunga carriera cominciata sin dai primi anni Settanta. Alfiere dell’etichetta Ecm con cui ha inciso quasi tutti i suoi album. Storico il disco del 1994 Officium realizzato con il gruppo vocale di musica antica Hilliard Ensemble. Tra le sue tantissime collaborazioni vi è la partecipazione all’European Quartet di Keith Jarrett.
Il sassofonista norvegese è salito sul palco del Conservatorio affiancato da Rainer Brüninghaus al pianoforte, Trilok Gurtu, percussioni e batteria, e Yuri Daniel al basso. Il concerto è stato caratterizzato da brani di musica totale, attraversando la world music, passando per il free jazz, la musica con sonorità indiane e i suoni “ancestrali” provenienti dalla Madre Africa. Il suo sax alto, alternato al tenore, emette suoni che descrivono il senso del viaggio, affiancato da musicisti straordinari come il funambolico Trilok Gurtu, con le sue percussioni e la batteria, i suoi vocalizzi “ritmici” straordinariamente veloci. Band molto affiatata, ha suonato per circa due ore. Tanti applausi e il bis “Had to Cry Today” di Steve Winwood.

La tournée di Garbarek prosegue, il 15 dicembre Göbel Halle di Helmbrechts, il 17 dicembre a Mülheim

Gramsci nelle scuole e nelle università, quanto potrebbe insegnare

Antonio Gramsci (1891-1937), politician; before adhering to the Socialist Party, then one of the founders of the Italian Communist Party in 1921. Portrait in photograph, 1921. (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

«Gramsci scriveva ed era come se lo facesse rivolgendosi sempre ai giovani». Dice così Lelio La Porta, insegnante di liceo romano, curatore di diverse antologie per le scuole dei testi gramsciani e studioso dell’autore dei Quaderni del carcere. La Porta è protagonista il 15 novembre di un incontro alla Casa della memoria a Roma proprio dedicato a “Un Gramsci per le scuole”.
Sta per concludersi l’anno gramsciano, nell’ottantesimo anniversario della morte e negli ultimi mesi gli appuntamenti pubblici si sono intensificati. Come se ci fosse voluto del tempo per elaborare e offrire al pubblico studi e ricerche su un pensatore così complesso e al tempo stesso così attuale. E come se mese dopo mese, ci si rendesse conto sempre di più della rilevanza di Gramsci in questo momento storico, così frammentato e “molecolare” per usare u suo aggettivo. La cosa interessante è che adesso, si tratta di incontri con studiosi che in qualche modo si rivolgono alla scuola o che comunque vedono l’università al centro, i luoghi di formazione,  centri che dovrebbero essere propulsori di cultura e di emancipazione, almeno come li intendeva Gramsci e non luoghi dal sapere accademico ed escludente.

A marzo, ricordiamo,  si sono tenuti degli incontri con gli studenti a Ghilarza, il paese di Gramsci, con Noemi Ghetti, autrice di due libri – Gramsci nel cieco carcere degli eretici, L’Asino d’oro e La cartolina di Gramsci, Donzelli – dedicati all’autore de i Quaderni del carcere, di cui Left ha parlato a suo tempo; incontri poi che sono proseguiti in istituti superiori, sempre con Ghetti, a Latina e in Calabria. Qualcosa si è mosso anche all’università: il 20 ottobre, coordinato da Donatello Santarone, con studenti liceali e universitari, presso il dipartimento di Scienze della formazione di Roma III si è svolto il convegno su L’aspetto pedagogico in Gramsci.

Il 15 novembre è la volta di Roma, alla Casa della memoria (via S.Francesco di Sales). “Un Gramsci per le scuole” vede tra i relatori, Raul Mordenti, professore di critica letteraria all’Università Tor Vergata e autore de Gli occhi di Gramsci. Introduzione alla vita e all’opera del padre del comunismo italiano, Tina Costa staffetta partigiana e vice presidente vicaria Anpi di Roma e Lelio La Porta, docente a Roma e curatore dell’antologia Un Gramsci per le nostre scuole, pubblicato da Editori Riuniti, la storica casa editrice del partito comunista che ha ripreso il vecchio catalogo. La Porta era intervenuto anche al convegno il 20 ottobre a Roma III.

Qual è il rapporto tra Gramsci e la scuola italiana in questo momento?
«Gramsci, innanzitutto, essendo l’intellettuale italiano più studiato e tradotto al mondo, secondo solo a Dante Alighieri, dovrebbe quanto meno avere più spazio nei manuali», risponde La Porta. «Si è partiti da 10 righe per arrivare a una pagina e mezzo, ma lo spazio è sempre limitato per un protagonista della cultura italiana e mondiale. E poi bisognerebbe che gli insegnanti facessero gli insegnanti con Gramsci, cominciassero cioè a parlarne veramente», continua il docente. Il 5 maggio è uscita una circolare del ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli intitolata “Anniversario di Antonio Gramsci” in cui si invitavano insegnanti e studenti ad una riflessione su questo grande italiano, «una circolare che tutto ha fatto meno che circolare», dice La Porta un po’ amareggiato.

Eppure conoscere Gramsci per i giovani sarebbe fondamentale. «Da lui si apprendono tante cose non solo a livello culturale, ma anche soprattutto a livello etico. Pensiamo solo alla riflessione che fa sull’indifferenza e sulla necessità di partecipare alla vita. Potrebbe diventare un grande maestro, se fosse stato il mio insegnante l’avrei riempito di domande», continua La Porta. Per Gramsci lo studio aveva un valore assolto, come dimostra del resto la sua stessa vita e la passione per la conoscenza che ha contraddistinto i quasi dieci anni in carcere.
Gramsci potrebbe servire inoltre per ripensare la scuola. «Il modello che ci viene proposto oggi è un modello aziendalistico, segnato da quell’alternanza scuola lavoro che francamente mi sembra un modo per sottrarre alla didattica quello che dovrebbe essere l’apprendimento, la ricerca, l’approfondimento. Lo scopo non è per niente legato alle esigenze di una scuola moderna e democratica. Qui stiamo perdendo il senso della democrazia», sottolinea La Porta.

L’antologia scolastica che ha curato per Editori riuniti si è basata sugli scritti giovanili – «avendo già fatto con Giovanni Prestipino un’antologia dai Quaderni» – a partire dal tema della licenza elementare. «E poi ho scelto quei testi che presentavano temi cari alla sensibilità dei ragazzi. Tenendo presente quello che diceva Paolo Spriano qualche anno fa e cioè che in Gramsci non c’è un testo specifico rivolto ai giovani, ma tutto quello che scrive è per loro». La “simpatia con amore”, scriveva Spriano. Ed è proprio questo elemento che scorre nei suoi testi, sempre rivolti al coltettivo, mai autoreferenziali.

Di Gramsci si parla anche all’università di Bari dove è in programma un convegno che si sviluppa in tre giornate, dal 16 al 18 novembre. “Gramsci la guerra e la rivoluzione tra Oriente e Occidente”, promosso dalla Fondazione Gramsci di Puglia, il Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e la International Gramsci Society Italia. Un focus approfondito che abbraccia la storia, la politica e la società in un continuum tra gli anni “grandi e terribili” di Gramsci e l’oggi. Tra i relatori, nomi noti degli studi gramsciani, da Guido Liguori a Donald Sassoon, da Massimo Modonesi a Giuseppe Vacca, fino anche a Paolo Ercolani. Ci saranno studiosi stranieri che faranno il punto sulla ricerca gramsciana in Russia, Romania, Ungheria e Cina. L’ultimo giorno, sabato 18 novembre, è dedicato alle scuole. Con le lenti di Gramsci: la didattica come tasformazione e la “scuola creativa”, prevede gli interventi di studenti di cinque istituti superiori pugliesi che affronteranno temi complessi come la figura dell’intellettuale tra idee e nazioni, il concetto di egemonia in Gramsci e Laclau, il fordismo, dal gorilla ammaestrato all’automa della società 5.0, la comprensione dei subalterni. Come si vede argomenti che da Gramsci arrivano all’oggi, una prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dell’estrema attualità del suo pensiero. Sempre a Bari, al Museo civico, dal 15 novembre al 15 dicembre è allestita la mostra I quaderni e i libri del carcere, a cura della Fondazione Gramsci.

Ancora: il 16 novembre, a partire dalle ore 9.30 nella Sala Comparetti della Biblioteca umanistica dell’Università di Firenze in piazza Brunelleschi si tiene una conferenza del professor Luciano Canfora che ha scritto la prefazione del libro Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista curato da Gianluca Corradi con postfazione di Giorgio Frasca Polara edito dalla casa editrice Tessere. L’iniziativa in questo caso è dell’Udu, (Unione degli universitari) Sinistra Universitaria.

Ovadia: «L’Italia non ha mai rifiutato il fascismo fino in fondo. Ne vediamo le conseguenze»

Moni Ovadia

Più che dare risposte, Moni Ovadia, vuole sollevare domande, il più possibile, scomode. Nel libro Il coniglio Hitler e il cilindro del demagogo (La Nave di Teseo) lo fa con il piglio vivo dell’affabulatore e con l’autorevolezza che gli dà l’essere un ebreo cosmopolita, partigiano di una sinistra che ha il coraggio di prendere posizione, «perché di fronte alla storia non si può essere neutrali».
E se è inaccettabile l’ignavia che ha caratterizzato anche intellettuali di primo piano nel Novecento altrettanto lo sono luoghi comuni come «italiani bravi gente» che circolano ancora oggi e paralizzanti metafore come Hitler «Il Male assoluto», che non permettono di vedere cosa è stato davvero il nazismo, come sia nato e come si sia potuto diffondere diventando criminale ideologia di Stato. Questa retorica dell’indicibile, non è innocua, ma continua a produrre effetti nefasti sul presente, denuncia Ovadia (che il 15 novembre è al Csoa La strada di Roma per una serata a sostegno di Blue Desk).

Quando entrò in vigore in Italia la legge sul negazionismo, Il Giornale di Sallusti pubblicò il Mein Kampf nell’edizione fascista, senza note e apparato critico, salvo l’introduzione dello storico, allievo di Renzo De Felice, Francesco Perfetti. «L’operazione spregiudicata de Il Giornale fu un fatto commerciale», replica secco Ovadia. «Non mi scandalizza la pubblicazione del Mein Kampf. Purtroppo è un libro che circola, le copie non sono state distrutte. E io non sono mai stato per i roghi di libri. Sallusti cercò di fare un colpo giornalistico, anche se un testo del genere andrebbe corredato con note critiche».
A scandalizzare Ovadia è piuttosto l’ignoranza, il non voler fare i conti con la storia. Accade in Italia dove «le edicole sono ancora piene di pubblicazioni che incensano Mussolini». Mentre Porta a Porta ci offre gli aneddoti di Alessandra Mussolini «su quanto era affettuoso il suo nonnino». «Mi dispiace molto per lei – stigmatizza Ovadia – se ha avuto un nonno così: criminale, genocida e traditore perfino dei suoi».

Contro lo sport italiano di auto assolversi riguardo al passato, su Hitler ma anche su Mussolini, «è tempo di dare un giudizio tombale e di fare un lavoro serio per far conoscere la ferocia del colonialismo italiano», dice l’attore e scrittore. Colonialismo che prese avvio nel 1882 in Eritrea e poi fu esteso ad altre aree africane, dall’Etiopia, alla Libia alla Somalia e oltre “grazie” alle mire espansionistiche del Duce.
«È di Mussolini la responsabilità del genocidio della Cirenaica», ribadisce Ovadia. «Su suo ordine il generale Graziani mise in atto uno sterminio di massa in Etiopia, con i carri armati contro la popolazione civile». In un suo articolo lo scrittore Alessandro Pavolini, allora segretario del partito fascista, disse di non aver mai visto tanta gente assassinata in così breve tempo. «Non lo riferiva come critica, ma come constatazione di fatto, da giornalista, diceva quello che vedeva. Oggi – attacca Ovadia – quanto revisionismo si fa a Porta a Porta che rasenta l’apologia? Chi si alza a dire vergognatevi? Chi si scandalizza davvero perché il Mediterraneo è un cimitero di migranti? L’Europa ha lasciato che si consumassero stermini di massa senza muovere un dito anzi facendo sudici affari su quelle guerre», denuncia lo scrittore, attore, regista e drammaturgo.
Perché nasca una coscienza storica, una consapevolezza profonda da cui scaturisce un fermo rifiuto del nazi fascismo e dei suoi derivati non servono delle norme, secondo l’attore italo-bulgaro. «Le norme che criminalizzano i negazionisti, finiscono per farne dei martiri, offrendo loro le armi per geremiadi di auto vittimizzazione. Il negazionismo – propone Ovadia – si sconfigge facendo informazione vera ed educazione nelle scuole. Lo si potrebbe combattere davvero se si facesse lezione sulla Costituzione repubblicana e sulla Carta universale dei diritti dell’uomo. Il negazionismo non farebbe presa se si parlasse fin dalle scuole primarie dei valori della resistenza antifascista italiana ed europea. Allora non troverebbero ascolto libri come quelli di Giampaolo Pansa che vorrebbe far passare il messaggio che fascisti e comunisti pari sono». Certo, ammette Ovadia, «nelle guerre civili ci sono sempre fenomeni di degenerazione. Ma non possiamo dimenticare che la Resistenza è ciò che ci ha dato la libertà e la democrazia».
Nel libro Il coniglio Hitler e il cilindro del demagogo argomenta tutto questo con la freschezza di una scrittura di getto dettata dall’urgenza di fare davvero i conti con il passato, per vedere ciò che è stato realmente e poterne disinnescare la miccia. Questo libretto, dice, «nasce in opposizione alla triste consuetudine di fare appello a Hitler con il solo scopo di provocare terrore e ingaggiare nuove crociate contro i nemici dell’Occidente da Saddam Hussein a Gheddafi indicati come suoi sosia». Nasce per una «allergia al politically correct delle sinistre da salotto», nasce dalla constatazione che «se si critica Israele per le sue politiche espansioniste ai danni della Palestina, si viene subito tacciati di antisemitismo».
Nasce per dire, forse, la cosa più scomoda di tutte: che Hitler poteva essere fermato. E che la soluzione finale doveva e poteva essere impedita. È questo il cuore del libro e il contributo più interessante della sua ricognizione storica.
La Francia, l’Inghilterra, oltre alla Germania più liberale e aperta, esitarono di fronte all’ascesa del nazismo e poi di fronte al regime, non seppero reagire. «Hitler poteva essere fermato prima del suo esordio come minaccia reale, durante e perfino dopo la sua ascesa, ne sono profondamente convinto», rimarca Ovadia.
Un’occasione d’oro si presentò nel 1923 quando Hitler tentò il Putsch della Burgerbraukeller e fallì. Già allora ostentava i simboli del culto del sangue di cui parla Johann Chapoutot nel saggio La legge del sangue (Einaudi). Prima della medaglia all’Ordine del Sangue, il cimelio del futuro Führer era proprio la bandiera di sangue con la svastica del fallito Putsch di Monaco. La pena per chi tentava il colpo di Stato, allora, era la morte. Ma Hitler fu invece condannato a soli 5 anni di detenzione e alla fine ne scontò uno solo. «Quando uscì dalla prigione ad attenderlo c’erano l’“eroe” Ludendorff insieme ai giudici che lo avevano giudicato. E vollero farsi fotografare con lui. Gli esponenti della cultura reazionaria e revanscista guglielmina consideravano Hitler uno di loro».
Qualche anno dopo, ricostruisce ancora Ovadia, «i partiti della sinistra, se alleati, avrebbero potuto fermarlo, sconfiggendolo alle elezioni e con una mobilitazione congiunta. Ma erano divisi. Stalin aveva avuto la brillante pensata di criminalizzare i socialdemocratici stigmatizzandoli come socialfascisti, e aveva contribuito a scatenare una situazione di conflitto fra loro e i comunisti proprio in tempi in cui maggiormente ci sarebbe stato bisogno di unità». (Lo stesso Stalin, va ricordato, poi, nel 1939 decise di allearsi alla Germania nazista firmando il patto Molotov-Ribbentrop).
Quanto agli inglesi e ai francesi, per loro, altre occasioni si ripresentarono anche dopo l’instaurazione del regime. Avrebbero potuto approfittarne per sferrare un colpo mortale alla dittatura hitleriana ma forse sopravvalutarono le forze dell’avversario e se le “lasciarono sfuggire”. Incompetenza? Errore di lettura politica? O inconscia complicità? Perché non si volle fermare Hitler? La domanda torna a riproporsi con insistenza, in questo volume. La risposta potrebbe anche essere “banale”, accenna il nostro autore: non c’era la volontà politica di farlo da parte degli altri attori dello scacchiere nazionale tedesco e internazionale. Nonostante che ad un certo punto alti ufficiali della Wehrmacht fossero addirittura pronti a intervenire per destituire il tiranno criminale. Quando Hitler decise di rimilitarizzare la Renania «sarebbe stato sufficiente che inglesi e francesi muovessero qualche divisione dei loro eserciti per contrastarlo», fa notare Moni Ovadia. Il trattato di Versailles prevedeva che la Renania rimanesse territorio demilitarizzato, ma nel 1936, scommettendo sull’inerzia degli anglofrancesi, Hitler armò platealmente la regione. Inglesi e francesi protestarono diplomaticamente ma non fecero nulla. E qualcosa di ancor più grave accadde in Germania dove larga parte della intellighenzia si schierò con Hitler e, se fu una minoranza a pianificare lucidamente la Shoah, moltissimi furono i gregari.
«Ciò che a mio avviso bisogna comprendere – afferma Ovadia – è che Hitler non fu un’anomalia, né il frutto di un inevitabile destino germanico e solo tale: fu invece il virgulto coltivato con cura di uno spirito diffuso in tutto l’Occidente-Oriente cristiano». Alimentato e sostenuto da molti testi politici, filosofici, a cominciare da quelli di Martin Heidegger. Altri testi che prepararono lo sterminio, «venivano da lontano e già nella seconda meta dell’Ottocento avevano trovato una trattazione sistematica, per esempio, nell’opera di Joseph Arthur de Gobineau Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane e in quella di un suo epigono, Houston Stewart Chamberlain», osserva Ovadia. «Così a poco a poco l’ideologia nazista si diffuse “senza scandalo” in Germania». Come rivela il libro autobiografico Ho pagato Hitler dell’industriale Fritz Thyssen, padrone delle Acciaierie riunite, che controllavano il 75 per cento dell’acciaio tedesco.
Quanto alla tiepida opposizione inglese Ovadia raccomanda di leggere in particolare l’opera di due storici canadesi, Clement Leibovitz e Alvin Finkel: Il nemico comune che ricostruisce la storia della collusione fra Gran Bretagna e Germania nazista (libro spesso citato anche dal liberale Christopher Hitchens).
E che fosse possibile opporsi al criminale e genocida Hitler, Moni Ovadia lo deduce dalla coraggiosa presa di posizione di due Paesi, diversissimi fra loro, come la Danimarca e la Bulgaria.
«I sopravvissuti sanno bene cosa è stato l’inferno nazista, alimentato da un’indifferenza, che era in realtà tacita complicità. Fra coloro che hanno potuto testimoniarlo ci sono stati anche i miei genitori e mio fratello maggiore – dice Moni Ovadia (che è nato a Plovdiv nel 1946) -, ebrei bulgari, che sarebbero finiti certamente nei lager se la Bulgaria non si fosse opposta ai rastrellamenti».
Fu il vicepresidente del parlamento Pešev ad alimentare quel movimento che poi bloccò la deportazione di 48mila ebrei bulgari. In Danimarca, quando i nazisti la occuparono, annunciando le leggi razziali che imponevano agli ebrei di indossare un bracciale con la stella di Davide o di cucirla sul bavero delle giacche e dei cappotti, il re dichiarò che sarebbe stato il primo a indossarlo e il popolo lo fece davvero. E se chiediamo a Moni Ovadia perché bulgari e danesi si opposero alla deportazione degli ebrei., lui risponde senza esitare: «Semplice, li consideravano esseri umani e concittadini».

Sembra una guerra ma è un video game. Anzi no, è la guerra contro l’Isis

Le foto sono di quelle in bianco e nero, scattate dall’alto, con il mirino al centro dell’inquadratura. Sono queste le prove “inconfutabili” dell’appoggio dell’esercito Usa alle truppe dello Stato Islamico, lo dice il ministero della Difesa russo e pubblica tutto su Twitter, con un messaggio chiaro: “L’America supporta l’Isis, l’America usa l’Isis per favorire i suoi interessi in Medio Oriente”.

Gli Usa supportano lo Stato Islamico, dice la conduttrice della tv Russia 24 a tutti i cittadini russi, da Mosca a Vladivostock: «A confermarlo ci sono queste immagini dei droni russi, che risalgono al 9 novembre». Circa un’ora dopo, la Russia e il mondo intero si stanno chiedendo come le immagini del video game “C-130 Gunship Simulator: Special Ops Squadron” siano finite su un account governativo. È colpa di un impiegato della agenzia Tass, che ha erroneamente associato la foto sbagliata alla dichiarazione. O, almeno, questa è la versione ufficiale del Cremlino.

Ma se la foto-prova è falsa, la notizia non lo è, nel teatro di battaglia, dove gli interessi dei maggiori gruppi militari del Medio oriente sono in gioco. Nel falso c’è del vero, nelle fake news si nasconde questa volta una parte di verità. Il 9 novembre scorso, effettivamente le forze Usa non solo non hanno attaccato i miliziani dello Stato islamico che abbandonavano la città di Abu Kamal l’ultima loro roccaforte in Siria ma al contrario ne avrebbero facilitato la fuga e avrebbero reso difficili le manovre aeree dei soldati della Federazione russa. Per permettere agli uomini del Califfato di riorganizzarsi, redistribuirsi e scappare, o perché pensavano che in questo modo si sarebbero arresi? Fatto sta che una didascalia delle foto in bianco e nero diffuse dal ministero russo indica dei «convogli dello Stato islamico che si dirigono verso il confine iracheno-siriano».

In ogni caso, Abu Kamal, è stata riconquistata dall’esercito di Assad e da quello di Putin. Ma la guerra non è ancora finita. Nella cittadina ribelle di Atareb, nella provincia di Aleppo, un raid aereo sulla piazza del mercato ha ucciso 53 persone. Tra le vittime, numerosi i bambini.

Questa non è la prima volta che i russi accusano gli americani di supportare il Daesh. Quando è morto il tenente russo Valery Asapov a Deir Ezzor, il Cremlino ha dichiarato che è stato «il prezzo di sangue pagato per l’ipocrisia americana». E ancora, è stata la Bbc a scoprire l’accordo segreto che ha permesso a centinaia di terroristi dell’Isis di abbandonare Raqqa, sotto gli occhi delle truppe Usa, della coalizione britannica e dei curdi, circa un mese fa. Nel convoglio che ha lasciato la città assediata c’erano alcuni dei volti più noti dello Stato Islamico e molti foreign fighters. Alcuni si sono nascosti in Siria, altri si sono diretti verso la Turchia.

Infine non è nemmeno la prima volta che un video game mediorientale diventa un’arma di propaganda dell’infinita guerra siriana. È stata Mosca stessa, la prima ad accusare l’Ovest di screditarla con foto prese dai videogiochi: nel 2014 il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che le immagini usate dalla NATO per dimostrare la presenza delle truppe russe in Ucraina dell’est non provenivano da un satellite, ma “da un gioco per computer”. Che le immagini possano mentire, in streaming e a milioni di persone contemporaneamente, l’ha dimostrato anche l’ultimo lavoro di Oliver Stone. Mentre il presidente russo concede un’intervista al regista e parla delle ultime operazioni dei russi in Siria, mostra dei filmati che però appartengono al ministero della Difesa americana: quelli non sono i suoi militari nella terra di Assad nel 2017, ma sono elicotteri a stelle e strisce che attaccano i talebani in Afghanistan nel 2009.