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Scuola pubblica laica e gratuita: i comitati Lip ci riprovano con la legge di iniziativa popolare

Un momento della manifestazione in Piazza Montecitorio "Riformiamo la scuola, ma riformiamola insieme" per dire No al ddl scuola e per difendere priprincipi fonamentali dell'istruzione, Roma, 18 Maggio 2015. Alla protesta hanno preso parte i sindacati di Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda. ANSA/ FABIO CAMPANA

Quelli dei comitati Lip ci riprovano. Dopo essere stati lo “zoccolo duro” del vasto movimento di insegnanti, associazioni e comitati che nel 2015 aveva cercato di contrastare – senza essere minimamente ascoltati – il passaggio parlamentare della Buona scuola, adesso passano al piano b. I comitati che avevano presentato alcuni anni fa una legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione, hanno rielaborato un nuovo testo di legge e oggi, 8 settembre, alle ore 11 viene depositato in Cassazione. Fallita la raccolta di firme per i referendum abrogativi della legge 107, adesso si tenta la carta della legge di iniziativa popolare.

A partire dalla fine di settembre inizierà una campagna per illustrare il nuovo testo e raccogliere i fondi per l’autofinanziamento delle iniziative. Non ci sono partiti dietro, i promotori sono, come si legge nel sito, «genitori, insegnanti, studenti e cittadini che hanno elaborato la legge d’iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica, che hanno raccolto le firme per proporre la legge al parlamento o semplicemente che ne hanno condiviso l’idea di scuola, i suoi principi fondanti». La raccolta di firme dovrebbe partire all’inizio del 2018.

Ma cosa c’è scritto nel testo rielaborato? Intanto sono norme generali della pubblica istruzione per la scuola di base (dal nido alla scuola media di primo grado) e per la scuola secondaria di secondo grado. Nel testo vengono definiti i livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia, quantomai necessari, vista la situazione a macchia di leopardo con evidenti disuguaglianze da Nord a Sud della penisola (dove peraltro esiste una cronica assenza). Nel testo della Lip infine c’è anche la delega per il riordino degli organi collegiale centrale, periferici e d’istituto. Insomma, una ventata di collegialità dopo la sterzata verticistica della legge 107.

Basta vedere i principi della Lip per notare il legame con la Costituzione. Il sistema educativo della pubblica istruzione, si legge, si ispira a principi di pluralismo, laicità, democrazia e inclusione.
Il sistema scolastico «è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana» secondo i principi della Costituzione, della Dichiarazione universale dei diritti umani e della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. Se si scorre il testo, le finalità generali, notiamo subito l’acquisizione consapevole di saperi (conoscenze, linguaggi, abilità, atteggiamenti e pratiche di relazione), visti come aspetti del processo di crescita e di apprendimento permanente, con un’attenzione costante all’interazione ed all’educazione interculturale.

Si parla di libertà d’insegnamento e della progettualità collegiale, con la pratica scolastica che si avvale di lezioni frontali in alternanza con attività laboratoriali, momenti ludico-educativi, lavoro individuale e cooperativo, scambi culturali con altri istituti e con scuole di altri Paesi, oltre a interventi aperti al territorio.

Leggiamo poi le poche frasi del Diritto all’istruzione e notiamo l’abisso rispetto alla scuola di adesso. Si prevede la spesa per l’istruzione pubblica del 6% del Pil (adesso è il 4), nessun finanziamento statale per le scuole private, corsi per l’Educazione degli adulti, il grande tassello mancante, cioè l’istruzione permanente che Tullio De Mauro chiedeva sempre, gratuità dei libri di testo e del trasporto scolastico per le scuole dell’obbligo e accesso ai saperi gratuito.

L’articolo 8 è quello che riguarda la laicità del sistema educativo e vale la pena pubblicarlo integrale: «È garantito nell’intero percorso scolastico il rispetto della libertà religiosa e di pensiero.
L’insegnamento della religione cattolica, garantito a chi ne faccia richiesta ai sensi dell’articolo 9 del Concordato e dei successivi provvedimenti attuativi, è collocato in orario extracurricolare.
Cerimonie religiose e atti di culto non hanno luogo nei locali scolastici, né in orario scolastico».

Aggiornamento di venerdì 8 settembre alle ore 13:35

Il comitato Lip di fronte alla scalinata della Corte di Cassazione, dopo aver depositato il testo per la legge di iniziativa popolare, venerdì 8 settembre

 

Per approfondire, Left in edicola da sabato 9 settembre


SOMMARIO ACQUISTA

Le vittime che insegnano a giornali e politici la giustizia piuttosto che la vendetta

“Ma quali torture e pena di morte, noi vogliamo solo che li arrestino e che quelle belve paghino per quello che hanno fatto. Per poi tornare a Rimini da turisti qualunque”. A dirlo è la turista polacca vittima dell’orrendo stupro di Rimini. Forse in giro questa frase l’avete letta poco, troppo poco. Molti quotidiani erano troppo concentrati a raccontarvi i particolari sessuali per acchiappare qualche clic. Questa frase che invece è aria fresca in questo momento così buio ha trovato poco spazio: del resto una donna ferita dallo stupro che dimostra più equilibrio di qualche segretario capopopolo di partito e di qualche direttore di giornale è una lezione che svela la loro grettezza morale.

Come ha detto la ragazza, dal suo letto di ospedale: “Le solite strumentalizzazioni politiche, da questo punto di vista la Polonia non è diversa dall’Italia”. E ha aggiunto: “Ora noi vogliamo solo voltare pagina, tornare alla normalità, al nostro lavoro, alla nostra vita quotidiana. E magari, tra qualche tempo, tornare in questa città meravigliosa”. Ecco, appunto.

Così anche il nonno di Sofia (la piccola deceduta all’ospedale di Trento per la malaria) ieri ha detto: “non accusate le bimbe africane”. E poi, con una misura superiore a tanti editorialisti indegni di appartenere alla categoria dei giornalisti, ha aggiunto: “Noi non accusiamo nessuno. Tocca ai medici dirci come e perché Sofia è stata uccisa dalla malaria. Forse però negli ospedali qualcosa va aggiornato”.

Ecco: siamo in un punto talmente basso che i sopravvissuti, ancora immersi nelle loro ferite, sono i portatori della analisi più lucide. Perché, ricordiamocelo, a questi non interessano le vittime: hanno solo un disperato bisogno di creare nemici per dare un senso al proprio abbaiare. Poi, davanti a un pensiero compiuto, si sciolgono.

Buon venerdì.

(p.s: Dei carabinieri sono stati accusati di stupro a Firenze. Usarli contro Salvini e compagnia è una vendetta, mica giustizia. Non diventiamo come loro)

“Gli immigrati portano la malaria”, ipotesi di reato per i titoli xenofobi

Articolo 21, A mano disarmata, Progetto Diritti e Rete Nobavaglio, hanno dato mandato ai loro legali di valutare la presentazione di un esposto-denuncia alla magistratura contro i quotidiani “Libero” e “Il Tempo” per violazione dell’articolo 658 del codice penale (“procurato allarme”) e della legge 25 giugno 1993, n. 205.

Questa norma sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista, e aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.

L’inziativa ha ottenuto il sostengo anche di Amnesty international Italia.

Nel numero in edicola il 6 settembre 2017, il quotidiano “Libero” ha titolato “Dopo la miseria portano malattie” e il catenaccio “Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni…“. Lo stesso giorno “Il Tempo” titolava “Ecco la malaria degli immigrati“.

Titoli e sommari hanno preso spunto da ipotesi tutt’altro che dimostrate e invece date per certe.

«Riportare fatti mai avvenuti, con titoli sensazionalistici, al solo scopo di additare all’opinione pubblica presunte responsabilità di un intero gruppo di persone non rientra affatto nella libertà d’espressione. Rientra nel seminare odio e razzismo, che il giornalismo dovrebbe contrastare e non propagare», ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia.

Simona Bencini: «Vi racconto i Dirotta su Cuba e quell’appassionante voglia funky»

Chi non li ricorda o non conosce un loro pezzo. Negli anni Novanta, la musica funky in Italia, improvvisamente, esplose con i Dirotta su Cuba. Brani come “Gelosia”, “Liberi di liberi da”, cantati dalla splendida voce di Simona Bencini, ebbero un successo enorme, durato fino al nuovo millennio. Nel 2002 la band si scioglie. Bencini inizierà una carriera solista, intraprendendo anche una fortunata attività teatrale. È del 2012 la reunion del gruppo in formazione originale con Stefano De Donato al basso e Rossano Gentili alle tastiere, per riportare in auge un genere musicale molto poco mainstream come il funky. Un anno fa è uscito Studio Session Vol. 1, album omaggio al loro primo disco omonimo del 1995, e che, insieme al vasto e, ancora caro al pubblico, repertorio, la band porta in tournée senza sosta. Altra occasione per godere dal vivo di un loro spettacolo, quella del 9 settembre all’Open air Theatre di Experience a Milano, per A funky night: strepitosa serata a tutto funky, insieme ai “cugini” Incognito! Tra gli ospiti anche Mario Biondi e l’eccellente tromba di Fabrizio Bosso. Pura energia parlare con la cantante fiorentina, emozionatissima per questa occasione live: «Per la prima volta, suoneremo con gli Incognito, certamente in due set separati perché siamo numerosi sul palco. Non sarebbe possibile fare una cosa tutti insieme, abbiamo due repertori diversi, anche se le nostre storie si sono anche allineate: negli anni Novanta eravamo chiamati gli Incognito italiani. Mi auguro di riuscire a fare una jam tutti insieme, a fine serata!».
Un po’ di rimpianti, pensi sia troppo tardi?
Forse, ma comunque è importante che i nostri due nomi vengano accoppiati; appunto, siamo stati sempre vicini a loro per genere e periodo storico, abbiamo avuto successo nello stesso periodo, ci conosciamo. È comunque bello che in Italia ci sia ancora voglia di funky, non è un genere così frequentato, ma noi crediamo che lo sia più di quanto si pensi.
Dopo un simile successo perché decideste di sciogliervi?
Ci sono state motivazioni personali, artistiche, legate alla nostra sintonia artistica. Più un fatto nostro interno di alchimia nostra. Poi cambiò anche il discografico.
Poi, dopo dieci anni dallo scioglimento, di nuovo insieme.
Sì e abbiamo ripreso il filo del discorso interrotto dieci anni prima; gli stimoli, e le richieste per ricominciare, erano davvero tante. Da quel momento, siamo sempre in giro per l’Italia e abbiamo notato che c’è un seguito, un pubblico, che ama questa musica e che si lamenta che non abbia tanto spazio in Italia e nel mainstream.
All’estero, il funky è un genere molto frequentato, in Italia lo avete suonato voi.
Negli anni Novanta abbiamo avuto la possibilità di arrivare al successo, attraverso tutti i media, ma nel momento in cui noi abbiamo interrotto la nostra attività e nessuno ha preso il nostro posto, il funky non c’è più stato. Quando nel 2012 ci siamo ritrovati, è stata una spinta emotiva per riunirci che i fan che ci facessero notare che questa musica non la suonava più nessuno. A noi questa cosa dà forza ed entusiasmo. Siamo talmente appassionati e contenti, abbiamo ancora nuovi obiettivi. Questo 9 settembre per noi è il coronamento di un sogno, di fare una serata bella con questi ospiti, tutta dedicata alla nostra musica, su un palco prestigioso.
Perché in Italia è così poco fruibile questo genere?
Non è un genere culturalmente italiano. Potremmo definirlo disimpegnato, leggero, ma non nel senso negativo del termine. L’Italia è la terra dei cantautori impegnati, la gente è più concentrata sui testi. Anche io ascolto Fossati, ma la nostra è una musica diversa, che ha bisogno di testi diversi,  che permettano di staccare la spina, ma che allo stesso tempo abbiano sonorità ben strutturate. Intendo, non di disimpegno sociale, ma per non pensare ai problemi, che oggi è importantissimo fare, anzi fondamentale. Lo è per me: quando vado in giro con i Dirotta, è una vacanza, ma questo non vuol dire che io non sia una persona socialmente e politicamente impegnata.
Quale tipo di pubblico vi segue?
Il target per questo tipo di musica è più alto, non sono i ragazzini che ci ascoltano, ci vuole un’altra preparazione per capire un genere che è più da musicista; i nostri fan sono musicisti e capiscono che quello che facciamo, pur essendo fruibile da parte di chi lo ascolta, ha un background difficile da suonare.
Solo live o altri progetti?
A parte tutti i live, che per noi sono un motore di energia, alla fine di settembre ritorneremo in studio per mettere mano agli inediti nuovi, che non erano ancora maturi e che abbiamo lasciato da parte per Studio Session vol. 2.
Quando uscirà?
Non abbiamo più vincoli, non ne vogliamo, per cui usciremo quando saremo pronti, quando avremo un prodotto che ci soddisfa. Suoneremo anche questo inverno nei club. La nostra tournée non finisce mai.

Medici senza frontiere, cinque motivi per non bloccare migranti e rifugiati in Libia

«Presidente Gentiloni, permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?». Queste le parole finali della lettera che oggi 7 settembre Medici senza frontiere ha inviato non solo al primo ministro italiano, ma anche a tutti i leader europei. Una lettera che denuncia le atrocità subite quotidianamente dai migranti in Libia e mette nero su bianco le gravi responsabilità dell’Unione europea.

«Accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall’Europa, le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi», si legge nella denuncia.

«La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni».

Medici senza frontiere ha assistito le persone nei centri di detenzione di Tripoli per più di un anno, come racconta la video testimonianza diretta della presidente nazionale di Msf Joanne Liu. «Quello che ho visto in Libia, lo descriverei come l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo. Ho ascoltato storie che mi tormenteranno per giorni, se non per anni», racconta nel video Liu.

«Le persone sono trattate come merci da sfruttare – prosegue poi la lettera, entrando nei dettagli -. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Gli uomini ci hanno raccontato come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato avevano le lacrime agli occhi e continuavano ripetutamente a chiedere di uscire da lì. La loro disperazione è sconvolgente».

L’organizzazione umanitaria ha prodotto anche un altro video, 5 motivi per non bloccare migranti e rifugiati in Libia. Un mix di drammi, concentrati in un unico luogo: detenzioni arbitrarie e violenza, lavori forzati, rapimenti e le torture, violenza sessuale, fame e umiliazione. Il tutto è corredato da testimonianze dirette.

Il sito di news francese Infomigrants, nei giorni scorsi, aveva denunciato la medesima situazione, evidenziando la vera e propria riduzione in schiavitù di numerosi esseri umani bloccati in Libia.

Dalla Ue, risponde Cecilia Malmstroem, commissaria europea al Commercio, confermando di fatto le tesi della organizzazione non governativa. «È difficile – dice la commissaria – commentare un rapporto appena pubblicato ma ho visitato io stessa la Libia e ho visto le prigioni: la situazione era abominevole qualche anno fa e non ho informazioni che indichino che la situazione sia migliorata. L’Ue dà molti soldi alle organizzazioni internazionali, per lavorare con Unhcr e Iom per tentare di migliorare le condizioni in Libia, perché in effetti sono atroci»

Medici senza frontiere ha infine presentato 4 disegni (che abbiamo raccolto nella foto di apertura) che raccontano gli abusi. Disegni realizzati da migranti, tra cui un bambino di 10 anni.

Nella mente di Donald Trump la giustizia è in bianco e nero

epa06186544 US President Donald J. Trump delivers remarks during a meeting with Speaker of the House Paul Ryan, Senate Majority Leader Mitch McConnell (R), Chairman of the Senate Finance Committee Orrin Hatch, other members of congress and his administration regarding tax reform in the Roosevelt Room of the White House in Washington, DC, USA, 05 September 2017. EPA/SHAWN THEW

Il muro in Messico, Joe Arpaio, the dreamers. Per interrogarci sull’atomica di Kim, abbiamo dimenticato che sulla poltrona della più ricca e potente democrazia occidentale siede lui. Biondo, razzista e nucleare.

Lui che in realtà non vuole fare di nuovo grande “l’America”, vuole farla solo Bianca, come la Casa da cui proclama slogan, taglia budget pubblici e riposta frasi da account come “whitegenocide”alle prime luci dell’alba. Lui, Donald Trump, è quello del Russian Gate, quello del birther movement, perché Obama era nero, quindi non era davvero americano, nato sul suolo degli Stati Uniti. Era sicuramente un musulmano, quindi un terrorista, con un attestato di nascita falso. Lui: quello degli slogan. Quello che grab by the pussy, acchiappala per la figa. Quello che “ci mandano i loro criminali oltre confine: wall, wall, wall!”. Muro! Nella nazione fondata da migranti – dopo il più massacrante genocidio dell’umanità, quello degli indiani d’America-, costruita e coltivata dai muscoli degli schiavi neri d’Africa, è lui il presidente nel 2017.

Lui che voleva fare l’America grande, la sta facendo sempre più piccola. Dopo la marcia contro i nazisti e suprematisti americani a Charlotsville, lui disse più volte che la violenza veniva da entrambi i lati. Da uno di quei lati c’era il KKK.

Lui offre perdono, concede grazia. Prima di lui il presidente Harry Truman non rivelò mai a chi la riservò. Il presidente Gerald Ford la diede al suo predecessore, Richard Nixon, una domenica mattina, senza alcun preavviso. Il presidente George H. W. Bush la usò per una figura chiave dell’Iran-Contra affair, dopo aver perso la rielezione. Regan gli stessi membri dell’operazione non volle perdonarli perché “li avrebbe lasciati sotto un’ombra di colpevolezza per il resto della vita”. Il presidente Bill Clinton riservò la grazia al finanziere fuggitivo Mark Rich, due deputati democratici del Congresso, un colpevole dello scandalo Whitewater e per suo fratello. E tutto questo lo fece nel suo ultimo giorno in ufficio alla Casa Bianca. Lui il suo perdono lo ha annunciato da uno dei suoi palchi preferiti, a Phoenix, Arizona. Ha concesso la grazia allo sceriffo di 85 anni che ha kept Arizona safe, che ha mantenuto sicura l’Arizona. Altro slogan che ricorda il suo.

Joe Arpaio era uno che faceva racial profiling, registrava le persone in basa alla razza, abusava dei detenuti, specialmente se donne e ispaniche. È sospettato della morte di 160 prigionieri, di suicidi, pestaggi, crudeltà varie, come mancata assistenza sanitaria durante i parti, fabbricazione di accuse false per chiudere i latinos nelle sue tendopoli della morte, dove li costringeva a mangiare cibo scaduto, indossare in pubblico biancheria intima rosa. La chiamava la sua Tent City, il suo campo di concentramento personale. Arpaio, per lui, presidente di quella che ama definirsi la democrazia più grande del mondo, “ha fatto solo il suo lavoro”. Arpaio, condannato per oltraggio alla Corte: non ha eseguito l’ordine di un giudice che lo obbligava a liberare persone che aveva messo in cella solo perché sospette di immigration offenses, cioè prive dei documenti. Arpaio: lo sceriffo anti-migranti dal pugno di ferro, leggenda della destra bianca. Arpaio: lui che senza migrazione, non sarebbe nemmeno nato, figlio degli Arpaio, migranti verso il Mondo Nuovo nel secolo che è appena passato dalla provincia di Avellino, regione Campania, Italia.

E ora l’ultima. Svegliatevi, sognatori, dreamers. Quello che sperate ad occhi aperti e chiusi è diventato illegale con una firma del presidente attuale che cancella la decisione del precedente. Tornano in clandestinità 800mila persone, figli di migranti irregolari, cresciuti tutta la vita sotto la bandiera a stelle e strisce. Addio Daca: Deferred action for childhood arrivals. Una specie di ius soli in ritardo. Era lo status legale che proteggeva dalla deportazione giovani adulti che da bambini sono arrivati negli Stati Uniti con i genitori senza documenti. Con Obama gli 800mila avevano ottenuto il permesso di residenza e quello di lavoro, da rinnovare ogni due anni, ma ora torneranno come gli altri nella categoria di illegal aliens.

Da oggi possono essere deportati dopo aver studiato nelle stesse scuole, lavorato nelle stesse fabbriche, bevuto negli stessi bar, sparato nello stesso esercito, pagato le stesse tasse di tutti gli altri cittadini. Perché lo ha deciso lui. C’è qualcuno che marcia in queste ore in America per i suoi diritti. Chi non è lì può osservare da lontano, forse consolarsi. La Daca riguardava quelli che avevano meno di 31 anni all’epoca, cioè nel 2012. Il muro ancora non c’è. Il futuro è di chi lo abiterà. I dreamers sono ancora giovani, Donald Trump invece no.

Altiero Spinelli, nel libro di Mario Leone la forza del pensiero di chi sognò l’Europa unita

Il richiamo agli ideali di libertà, all’antifascismo ed a qualsiasi azione coercitiva che voglia agire sul pensiero, si percepisce sempre forte sbarcando a Ventotene, specialmente se l’occasione è data dalla figura storica indissolubilmente legata all’isola, Altiero Spinelli, incarcerato e lì confinato dal regime fascista. Una storia raccontata in una nuova e preziosa offerta editoriale.
Quest’anno la trentaseiesima edizione del Seminario di formazione federalista di Ventotene, (che si svolge fino all’8 settembre grazie all’Istituto di Studi Federalisti “Altiero Spinelli”, alla Regione Lazio e al Comune di Ventotene), ha permesso a 150 giovani provenienti da tutto il mondo di approfondire i loro studi su nuove iniziative per rilanciare l’Europa contro nazionalismi e populismi.
Ed è proprio nell’ambito dei sei giorni di seminari che si è tenuta la presentazione del libro scritto da Mario Leone La mia solitaria fierezza edito dalla piccola casa editrice Atlantide di Dario Petti. L’incontro si è svolto in piazza Castello presso la libreria L’ultima Spiaggia di Fabio Masi (noto libraio ed editore dell’omonima casa editrice, che trascorre sei mesi sull isola e sei a Camogli dedicandosi alla ricerca storica e culturale). Erano presenti, Giorgio Anselmi e Federico Brunelli, presidente e direttore dell’Istituto di Studi federalisti “Altiero Spinelli”, l’editore Dario Petti e Marilena Giovannelli, direttore dell’Archivio di Stato di Latina dove il libro verrà presentato il 23 settembre (ore 10.30).

Altiero Spinelli , bollato dal regime in quanto “sovversivo, irriducibile e pericolosissimo”, non in grado da riuscire a fermare la sua ricerca immensa sulla “libertà intellettuale” che mai come ora sembra essere attualissima, viene raccontato da Mario Leone senza alcuna pretesa accademica, ma con la forza della passione dello studioso e cultore, grazie anche alla prima pubblicazione di documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Latina sulla vita del confino, e grazie anche alla ferma determinazione di Dario Petti. Un giovane editore che ha voluto portare avanti questa pubblicazione che racconta di quei quattro lunghi anni, dal luglio 1939 al 17 agosto 1943, trascorsi da Spinelli – dall’età di 32 anni a quella di 36 anni – al confino a Ventotene dove avrebbe concluso la sua condanna. «È un libro basato su documenti originali ma al tempo stesso è rivolto ad un pubblico ampio, formato non solo da specialisti. Il nostro obiettivo infatti era quello di far conoscere a tutti l’esemplare figura politica di Altiero Spinelli», sottolinea Dario Petti.
Marilena Giovannelli, direttore dell’Archivio di Stato di Latina, tra i relatori della presentazione, nel suo intervento in premessa al libro scrive che «il nucleo centrale del fondo Questura, che l’Archivio di Stato di Latina ha in consegna, è composto di circa 5000 fascicoli personali inseriti in un database, che a breve saranno digitalizzati grazie ad un progetto nazionale finanziato dalla Direzione generale archivi del Mibact. La riproduzione dei fascicoli consentirà in primo luogo di preservare la documentazione e di sfruttare tecnologie digitali nei processi di elaborazione delle informazioni e di progettare percorsi didattici che coinvolgano un pubblico più ampio, dando la possibilità di mediare tra vecchi e nuovi sistemi di diffusione culturale».

Riuscire a sintetizzare in poche ma ricchissime pagine (fitte di bibliografia utilissima a chi volesse approfondire ) la figura di Spinelli è riuscito perfettamente a Mario Leone che realizza un quadro utile ad un’ampia diffusione. «Alto di spalle larghe, quasi atletico. Quando cammina su e giù (è il modo di passeggiare dei confinati, dei detenuti e delle bestie in gabbia) i suoi affiancatori faticano a stargli dietro; a ogni suo dietrofront fan la figura di mezze cicche nelle esercitazioni reggimentali. È il cervello più completo che abbia incontrato al confino; conosce sette lingue, e seriamente, la matematica e la fisica, serissimamente la filosofia e l’economia. Aperto a tutte le manifestazioni artistiche. Soprattutto ha la facoltà della sintesi. (…) E Spinelli ha la stoffa di un fondatore di movimenti (…). Era comunista, è federalista. È disordinato, incurante, indisciplinato e nel contempo capace di qualsiasi adattamento. La vita più è rude e più sembra far presa su di lui. Forse più temperamento d’artista che di filosofo e i suoi scritti portano sempre l’impronta della sua personalità».
Alberto Jacometti , confinato a Ventotene insieme a vari personaggi come Ernesto Rossi , Riccardo Bauer, Sandro Pertini, Eugenio Colorni e e Eugenio Curiel, descrive così Altiero Spinelli.

Saranno Rossi e Colorni i suoi “ due più grandi amici” vicini nella nascita dell’impegno politico nuovo. «Due anime – si legge nel libro – non solo inquiete per quel che accadeva, ma anche insoddisfatte per le risposte inadeguate che gli antifascisti davano a questa gigantesca sfida che non era più la vittoria del fascismo in questo o quel paese, ma il crollo dell’Europa. Eugenio Colorni e Ernesto Rossi non erano fra coloro che avevano trovato come il resto dei confinati politici, ma fra coloro che cercavano».
Nel lavoro di Mario Leone si racconta degli aspetti dell’“uomo” Spinelli, che per desiderio di lavorare sull’isola, si occupa anche di fare l’orologiaio, spinto in realtà da «il desiderio di avere un luogo appartato, una solitudine più protetta che nei cameroni. Dove, però la precisione di movimenti che esige il lavoro da orologiaio mi piaceva perché mi obbligava a diventar padrone dei muscoli delle mani assai più di quanto lo si è normalmente».

Sull’isola di Ventotene i confinati alloggiano in grandi cameroni. I controlli sono accuratissimi ed ogni confinato è provvisto del “libretto rosso” dove sono menzionate le prescrizioni a cui bisogna attenersi. Lo spazio di passeggiata è circoscritto e gli agenti svolgono anche operazioni di pedinamento serrato nei confronti dei più “irriducibili” confinati . Gli appelli venivano svolti nella piazza principale, oggi piazza Castello, con orari obbligatori di uscita e rientro nei cameroni, divieto di parlare di politica, possibilità di scrivere una lettera a settimana con lunghezza massima di 24 righe, sottoposta a censura. Una vita molto dura che nonostante tutto non è riuscita a fermare la forza del pensiero. L’organizzazione delle mense in cui si ritrovavano i confinati era molto capillare ed articolata. Divise per movimento politico di appartenenza. Sette sono quelle dei comunisti, due di anarchici, due dei manciuriani («termine coniato al confino di Ponza, dove nel locale dormitorio vi erano due stanzoni molti freddi, l’uno chiamato Siberia l’altro Manciuria: in quest’ultimo vennero isolati dalla componente politica alcuni confinati, perché ritenuti delatori al soldo della direzione politica»).
Spinelli diventerà a Ventotene il capo della nuova mensa “E”, così battezzata da Pertini e Jacometti, in cui si raccoglieva tutto il gruppo federalista.
Proprio e casualmente la mensa denominata “E” come Europa. Le pagine di Leone raccontano dettagliatamente come si svolgeva la vita sull’isola, dove nonostante il regime fascista, si riuscì a realizzare il Manifesto di Ventotene. Un lavoro che lascia trapelare al lettore quell’intima e unica determinazione umana, ben riassunta nel titolo del libro La mia solitaria fierezza.

Portano miseria e malattie. E vogliono marciare su Roma. Ancora

Saluto romano da parte dei manifestanti di Forza Nuova durante la manifestazione contro lo ius soli 15 giugno 2017 a Roma ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Quel partito anticostituzionale che è Forza Nuova (che infatti è etimologicamente sbagliato denominare partito, essendo un’accolita di nostalgici illegali, come i cacciatori di elefanti, solo che sono qui in mezzo a noi) si è messo in testa di marciare su Roma il prossimo 28 ottobre.

«Bandiere, striscioni, auto, pullman, benzina – si legge nell’annuncio su Facebook – Compatriota, la macchina organizzativa è in moto e ha bisogno del tuo sostegno concreto. Il 28 ottobre Roma ospiterà la grande marcia forzanovista contro un governo illegittimo, per dire definitivamente no allo ius soli e per fermare violenze e stupri da parte degli immigrati che hanno preso d’assalto la nostra Patria»: manca solo la sigla dell’Istituto Luce per essere una feccia completa.

Il 28 ottobre non è un caso, ovvio: il 28 ottobre sono 95 anni dopo rispetto a quella delle camicie nere che portò al potere Mussolini. Non è folklore, no. C’è del marcio in marcia, da un bel pezzo: nei titoli falsi di quotidiani che valgono come carta straccia, nelle informazioni false rivendute come vere, nel manipolo di persone che cercano affannosamente solo le conferme dei propri pregiudizi e in chi minimizza il ritorno del fascismo come pittoresco, com’era pittoresco il sangue su cui è nata questa nostra Repubblica.

Per questo è necessario che l’argine sia eterogeneo: politici (brava Virginia Raggi), giornalisti, genitori, insegnanti, imprenditori, artigiani, agricoltori, liberi professionisti, disoccupati e anche i depressi, gli spaventati e i senza speranza. L’opposto del fascismo non è il comunismo (come dicono i fascisti) ma è la libera democrazia.

E chissà che magari a Minniti non scappi una parola anche su questo rischio della “tenuta democratica” del Paese. Chissà.

Buon giovedì.

 

Dalla marcia su Roma alla marcetta via Facebook, Forza Nuova le tenta tutte pur di violare la Costituzione

La formazione neofascista Forza nuova chiama a raccolta i simpatizzanti, per organizzare quella che definisce «marcia dei patrioti», un evento che si terrà il 28 ottobre a Roma, data e luogo della tristemente nota marcia del 1922 organizzata dal Partito nazionale fascista di Mussolini.

L’annuncio arriva con un post su Facebook che conta, a poco meno di tre giorni dalla sua pubblicazione (nel momento in cui scriviamo), 639 condivisioni e 1.200 reactions.Tanti, troppi. Perché anche un unico singolo apprezzamento costituisce uno sfregio alla democrazia e alla Costituzione. Ma si tratta comunque di una audience 2.0 che non supera quella di altri post dell’organizzazione di estrema destra, post altrettanto deplorevoli e incitanti all’odio. E anche la celebrazione dell’anniversario della “marcia su Roma” non è esattamente una novità. Ogni anno a Predappio (dove peraltro è in progetto un museo del fascismo) una nutrita pattuglia di nostalgici celebra il 28 ottobre, con classica tappa alla tomba del Duce, e siparietto di rito a favore delle telecamere dei giornalisti appostati in paese.

Ad ogni modo questo non è certo un valido motivo per abbassare la guardia e non denunciare la manifestazione, che pare in evidente contrasto con le leggi Scelba e Mancino, e viene annunciata a pochi giorni dal caso del volantino sui migranti ispirato quelli della Repubblica di Salò e dal nuovo appello ad ultrà, tassisti e pugili per organizzare ronde contro la criminalità degli extracomunitari. Ma anche dopo il flop della visita al parroco Don Biancalani di Pistoia, reo di aver accompagnato alcuni richiedenti asilo per una giornata in piscina.

Nel frattempo, dura la reazione dell’Anpi. Il presidente Carlo Smuraglia, sulle colonne de La Repubblica, afferma «Voglio sperare che questa vergognosa provocazione venga impedita». E Andrea Liparota, ufficio stampa nazionale, ribadisce a Left: «Stiamo ragionando sul da farsi. In ogni caso, se la “marcia su Roma” venisse autorizzata non mancherà una nostra iniziativa pubblica di risposta».

 

Tutti devono accogliere i profughi, schiaffo della Ue ai “quattro di Visegrad”

Migranti e profughi bloccati nella 'terra di nessuno' al confine serbo-ungherese di Horgos davanti alla barriera di filo spinato eretta dagli ungheresi, 15 settembre 2015. ANSA/DRAGAN PETROVIC

Tra i muri costruiti in Europa e quelli “lontani dagli occhi” che stanno nascendo in Africa – grazie agli aiuti italiani ed europei -, oggi una sentenza della Corte di giustizia Ue rimette a posto gli Stati “anti immigrati”. Sono stati infatti respinti i ricorsi di Slovacchia e Ungheria – due dei Paesi del gruppo di Visegrad – contro le “relocation” dei richiedenti asilo da Italia e Grecia. Nella sentenza i giudici spiegano che «il meccanismo contribuisce effettivamente e in modo proporzionato a far sì che la Grecia e l’Italia possano far fronte alle conseguenze della crisi migratoria del 2015».

In altre parole, cari Stati vi dovete prendere le quote dei migranti che vi spettano per legge, non si può lasciare tutto sulle spalle dei Paesi che accolgono in prima istanza i profughi in arrivo dal mare. Il ricorso era stato presentato dall’Ungheria guidata dal popolare premier nazionalconservatore, euroscettico e amico di Putin, Viktor Orbán, e dal capo del governo socialista-populista slovacco Robert Fico.

Slovacchia e Ungheria, che nel 2015, in Consiglio avevano votato contro la misura temporanea (come Repubblica Ceca e Romania) avevano chiesto alla Corte di giustizia di annullarla, sia per motivi intesi a dimostrare che la sua adozione era viziata da errori di ordine procedurale o legati alla scelta di una base giuridica inappropriata, sia perché non idonea a rispondere alla crisi migratoria, né necessaria a tal fine. Nel procedimento davanti alla Corte, la Polonia è intervenuta a sostegno della Slovacchia e dell’Ungheria, mentre Belgio, Germania, Grecia, Francia, Italia, Lussemburgo, Svezia e la Commissione europea sono intervenuti a favore del Consiglio Ue. Con la sua odierna sentenza, la Corte ha respinto integralmente i ricorsi proposti da Slovacchia e Ungheria. E ha stabilito che il problema dei profughi è un problema di tutta l’Unione.

Soddisfazione da parte di quanti conducono una dura battaglia per i diritti umani. «La sentenza della Corte di giustizia Ue mostra che nessun Paese si può sottrarre alle proprie responsabilità sui profughi. Slovacchia e Ungheria hanno cercato di evitare il sistema di solidarietà Ue, ma ogni Paese ha il proprio ruolo nella protezione delle persone in fuga da guerre e persecuzioni», afferma Iverna McGowan, direttore di Amnesty International per l’Ufficio delle istituzioni europee.

E Ska Keller, presidente del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo commenta: «Ora che la Corte europea ha respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contro la redistribuzione dei profughi, non ci sono più scuse. Gli Stati membri che fino ad ora hanno boicottato, devono attuare. La solidarietà in Ue non è una strada a senso unico». E visto che anche i quattro di Visegrad ogni anno ricevono dall’Europa ingenti fondi per le politiche di coesione, Keller sottolinea che «i leader di governo come Viktor Orban non possono chiedere più soldi per la protezione delle frontiere, mentre bloccano l’accoglienza dei profughi da Italia e Grecia».